Comunità ebraica di Finale Emilia

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Finale Emilia è stata sede, per secoli, di una comunità ebraica, forse presente nel territorio già dal XV secolo e attestata con certezza dal secolo successivo.

È plausibile che un piccolo gruppo di ebrei risiedesse a Finale Emilia già nel XV secolo, giunti sporadicamente e in numero assai ridotto, dopo che una nuova via d’acqua era stata immessa nel centro cittadino[1]. Le fonti documentate risalgono al secolo successivo, infatti nel 1451 Borso d’Este aveva ottenuto da papa Niccolò V il permesso di accogliere e ospitare nel suo dominio gli ebrei che ne avessero fatto richiesta per mercanteggiare in denaro nel suo dominio[2]. Questa fu la spinta per l’arrivo e l’insediamento di nuclei ebraici provenienti sia dall’Europa centrale che dal meridione della penisola italiana. In numero apprezzabile essi scelsero le città estensi e approfittarono della magnanimità del loro marchese, poi insignito del titolo di duca l’anno successivo per decisione dell’imperatore asburgico Federico III. Anche i centri estensi di minori dimensioni videro l’arrivo di una o due famiglie ebraiche al seguito del feneratore, il prestatore di denaro che riceveva la condotta. Questa era un documento siglato tra l’ebreo e il municipio, dietro permesso marchionale, in cui erano elencati diritti e doveri del concessionario giuridicamente responsabile per tutti gli altri ebrei a lui sottoposti, familiari, servi, istitutori per i bambini, aiutanti, collaboratori negli affari.

Nel 1541 si attesta una presenza ebraica al Finale quando il banchiere ferrarese Isacco da Norsa, assieme ai soci Davide da Modena e Giuseppe Lanternari, ottenne dal duca Ercole II la condotta del banco feneratizio; il primo continuò l’attività al suo banco della Ripa a Ferrara e gli altri erano i suoi mandatari in loco. Isacco da Norsa era ben introdotto alla corte ducale e godeva dell’amicizia del principe estense. L’accordo fu rinnovato nel 1550 con Davide da Modena[3]. La vita cittadina iniziava un nuovo periodo di quiete dopo le discordie di carattere religioso, dal momento che dal 1547 l’eresia luterana s’era annidata tra i confratelli della Compagnia della Morte, agitando i rapporti tra i  seguaci protestanti e i cattolici tra i quali facilmente scoppiavano zuffe; la sanguinosa faida fra le famiglie rivali Vecchi e Miari s’era anch’essa placata[4]. Questa era la situazione sociale quando vennero emanati nel 1554 gli statuti ad opera del consiglio della comunità, i cui membri avvertivano la necessità di regolare la convivenza civile nel piccolo centro di Finale[5]. Gli ebrei erano esentati dall’obbligo di esibire un segno di riconoscimento sul mantello per garantirsi l’incolumità visto che essi erano spesso obiettivo di aggressioni e rapine; l’esigenza di difendersi indusse molti ricchi ebrei a chiedere il permesso di dotarsi di armi da detenere in casa e da portare durante gli spostamenti. Non era infrequente l’eventualità che i ladri prendessero di mira gli averi dei prestatori: nel 1567 il banco di Abramo da Norsa fu assaltato da sconosciuti che ferirono un anziano ebreo di guardia e asportarono un ingente bottino[6]. Un altro fondamentale attestato d’archivio è del 1581 che cita i nomi di Isacco da Norsa e Benedetto Lanternari[7].

I primi ebrei residenti a Finale svolgevano l’attività feneratizia mentre quelli giunti al loro seguito si dedicarono alla strazzaria e ad altri mestieri, tra i quali quelli agricoli, assai rari tra gli ebrei d’Italia, per agevolare il commercio accessorio di biade e granaglie dei banchieri di cui erano dipendenti. Essi avevano stretti legami con i correligionari veneti, mantovani e ferraresi. Grazie alla capacità di mobilitare parenti e conoscenti nei territori limitrofi, questi ebrei ottennero dalle autorità il compito di procurare le biade con urgenza, qualora si fosse verificata una carestia. Altre tipologie di merci trattate dagli ebrei di Finale erano i drappi di seta, viveri, vino e cereali. C’erano due o tre mercanti di farine e castagne, definiti “bastaruoli”. Questo piccolo gruppo è stato quantificato in 20 o 30 individui divisi in circa sei famiglie[8]. Le loro attività economiche prosperavano perché erano venuti a trovarsi in un crocevia importante dal punto di vista commerciale, al centro di un grossolano quadrilatero i cui vertici sono Modena, Mantova, Ferrara e Bologna e la vicinanza dei fiumi favoriva le attività di filatura grazie alla forza motrice dell’acqua.

Per contrastare le attività finanziarie ebraiche nel piccolo centro, venne istituito nel 1555 un Monte di Pietà che prestava a interesse quasi nullo per piccole somme ai bisognosi. In realtà il feneratore ebreo offriva un servizio più efficiente e rapido, valutava qualsiasi oggetto o bene in modo più favorevole per l’impegnante e accettava ogni tipo di garanzia, il suo prestito poteva durare più anni, concedeva facilmente la fiducia sia ai nobili che alla gente del popolo, aveva orari di lavoro prolungati che andavano oltre quelli del mercato, garantiva la segretezza delle operazioni. Perciò l’istituzione cristiana era spesso a casse vuote e non raggiunse il suo obiettivo di soppiantare il fenomeno dei prestiti di denaro che gli ebrei garantivano, specie in periodi di carestia, invasioni e conflitti di frontiera[9]. Uno di essi, il rabbino e banchiere veneziano Abram Belgrado stabilitosi al Finale, nell’intento di dimostrare maggior affidabilità, propose al duca di «far aggiungere alli Capitoli degli hebrei banchieri un obbligo che tutti quelli che impegnassero alli loro Banchi fossero obbligati a pigliare un Boletino bolato da un officiale di V.A. per obviare alle fraudi che si potessero fare» e ridurre il tasso d’usura dal 20% al 18% per compensare il pagamento di detto bollettino vistato[10]. In cambio il prestatore poteva ricorrere direttamente all’autorità ducale qualora le autorità municipali gli fossero contrarie. I tentativi di imporre numerose regole al mestiere del banchiere-prestatore non si esaurivano. Uno di questi era l’introduzione dell’obbligo di annotare ogni movimento di denaro su appositi registri da redigere solo in lingua italiana comprensibile a tutti e non utilizzando termini ebraici che potevano confondere le idee ai non esperti: Aronne Formigine, banchiere del Finale, fu processato per vari capi d’imputazione tra cui l’accusa d’aver «viziato li Libri del Banco e del negozio con parole hebraiche»[11].

La ricchezza di chi aveva il privilegio-obbligo di maneggiare il denaro contrastava con la penosa miseria di gran parte della popolazione urbana e delle campagne. Talvolta l’ostilità causava disordini nonostante lo sforzo di mantenere l’ordine e la concordia. Alcuni grotteschi episodi erano causati dall’insofferenza della gente comune verso i tratti tipicamente ebraici, reputati stravaganti e quindi oggetto di dileggio. Spesso i prìncipi erano costretti a ricorrere alla forza o a pubblicare grida affinché non si offendessero gli ebrei, come quella del 18 gennaio 1579 riferita all’insediamento israelitico finalese: «Essendo la ferma intenzione di Sua Altezza serenissima che ciascuna persona nel suo Stato possa vivere pacificamente e sicuramente, come si conviene, et havendo inteso molte varie querelle portategli per li Hebrei banchieri di questa sua terra del Finale, di vari insulti, minacce et altre molestie, che le vien fatto da huomini et donne, putti, et persone malcreate e triste, alli quali dispiace il ben vivere… che ardisca né presuma, detti ebrei et massimamente detti banchieri, né alcuno di quelli alli quali è concesso li capitoli del banco, né altri hebrei di sorte alcuna, per alcun modo, via o ragione in casa né fuori, così con parole come con fatti, molestare, oltraggiare, ingiuriare, et inquietare detti hebrei… il suo Magnifico Podestà del Finale abbia cognitione, et che provveda, et punisca li delinquenti et chi contra farà alla presente sua pubblica grida»[12]. Come visto, Alfonso II si preoccupava principalmente dei banchieri ebrei e, in loro difesa, emise un’altra grida per raddoppiare le pene previste in caso di maltrattamenti: 25 scudi d’oro e quattro tratti di corda. Se l’offesa fosse compiuta nottetempo, la pena era raddoppiata semplicemente prestando fede al giuramento dell’ebreo offeso cui si doveva pienamente credere. Per porre un freno alle molestie subite in occasione della settimana santa, una grida ducale del 1599 ricordò agli israeliti che non potevano uscir di casa durante la festività della Pasqua cristiana e ai cristiani che non avrebbero dovuto molestarli in alcun modo. È di quel periodo una lamentela presentata al duca nella quale si esponeva la difficoltà degli ebrei nel «comparire per la Città e in particolare nel passare dal Castello che vengano molestati o’ di parole o’ con Botte e molte volte con la spada sfodrata alla mano»[13]. Tra chi li importunava c’erano persino i «soldati della compagnia nobile senza minima causa».

Nel 1625 le regole sul prestito ad usura vennero riformate per ordine del duca, dopo lamentele presentate al podestà di Finale dai più poveri della zona. Le nuove prescrizioni imponevano il rimborso dell’usura da parte dell’impegnante al banchiere per i giorni effettivi in cui l’oggetto era rimasto in deposito e non arrotondato a metà mese se la giacenza fosse stata minore di 15 giorni o di un mese intero se la giacenza fosse minore di 30 giorni. Infine si stabiliva di applicare la stessa percentuale d’usura sia ai forestieri che ai terrieri senza distinzione di provenienza[14]. Sembra di comprendere da questi dettagli che pure al Finale i rapporti dei cristiani con la classe finanziaria ebraica erano agitati e conflittuali come negli altri insediamenti padani, generando una contrapposizione fra da un lato lo stato e il potere del principe che li raffrenava e dall’altro la Chiesa che aizzava i fedeli a combattere attivamente l’usura e la presenza ebraica in generale. Per il resto delle norme civili, gli ebrei erano spesso assimilati ai cristiani, come dimostra il processo condotto su nove di essi nel 1623 per aver contravvenuto all’obbligo, ricadente su qualsiasi residente, di chiedere una licenza per poter sposare correligionari di altre località, al pari dei cristiani. Vista l’estrema miseria di alcuni dei convocati, fu chiesto che «non fossero molestati, né per pene, né per spese verune» e la stessa grazia fu concessa a due cristiani, sposatisi con donne forestiere senza autorizzazione[15].

È molto probabile che Moisè da Formigine, originario di Ferrara dove gestiva il banco del correligionario Samuele Levi, non fosse il solo ebreo che scelse Finale come nuova residenza quando la capitale estense fu inglobata nello stato della Chiesa all’inizio del 1598[16]. L’arrivo di altri membri della comunità israelitica non cambiò tuttavia la maniera di condivisione dello spazio urbano. Spesso vittime di intolleranza, gli ebrei erano costretti a ridurre la propria visibilità nel contesto urbano, erigendo sinagoghe e cimiteri in posizione defilata e discreta. Perciò il luogo di culto giudaico a Finale era un oratorio privato, ai primi del Seicento adibito in una stanza all’interno della casa del banchiere Emanuele Lanternaro nella Contrada dei Romei dove ci si riuniva anche per prendere decisioni sull’andamento della comunità. Forse a volte queste discussioni non erano pacifiche perché sono documentate risse furibonde scoppiate in tempio: il 10 aprile 1600 il podestà, «per frenarne l’insolenza fomentata da alcuni mali christiani», fece mettere in prigione il proprietario del tempio Emanuele Lanternaro che «aveva turbato tutta la Sinagoga, aveva dato pugni al rabbino, rotto le bussole delle elemosine, perché volea lui esser capo dell’ofitio», cioè condurre la cerimonia sinagogale dello shabbat di due giorni prima[17]. Alla morte del Lanternaro nuovi dissidi scoppiarono tra gli eredi. L’anno seguente Salomone Sacerdoti, con suo figlio Isacco e il genero Abramo Cumiani da una parte, e Pellegrino Oliveto con suo figlio Moisè dall’altra, si picchiarono a vicenda con spargimento di sangue. Tra gli ebrei locali evidentemente non correvano buoni rapporti e il governatore fu costretto a intervenire nel 1614 per sedare una lite tra Salomone Sacerdoti, di nuovo lui, e Benedetto Lanternari che si contendevano lo scranno dove sedersi nella sinagoga.

Diversamente da altri minuscoli insediamenti ebraici padani che per seppellire i defunti ricorrevano ai cimiteri di comunità vicine più grandi, gli ebrei del Finale aprirono un proprio luogo di sepoltura al quale ricorrevano anche gli ebrei della vicina San Felice sul Panaro[18].

Nel 1600 fu recapitata al mercante d’acquavite Donato Donati, un ashkenazita giunto a Finale proveniente «d’Alemagna coi suoi servitori ed agenti e con vari cavalli»[19], forse da Bolzano, una concessione del duca Cesare d’Este, il documento più antico riguardante un cimitero in città, affinché il mercante potesse acquistare legalmente uno spazio da destinare alle sepolture dei correligionari locali[20]. Il cimitero presenta tutt’oggi lapidi risalenti al XVII secolo e una del 1585 (di Simcha Formigine)[21]. Quindi è probabile che le lapidi anteriori a quella data provenissero da altri sepolcreti di cui non si conosce l’ubicazione e le vicende[22]; tuttavia è plausibile che questo sia stato l’unico cimitero finalese[23]. Sono documentati anche un’osteria dove le pietanze erano ovviamente kasher, conformi alle regole alimentari giudaiche e una beccaria che vendeva carne correttamente sagattata[24]. La comunità si era dotata dal 1627 anche di una confraternita di carità e misericordia, la Gemilut Ḥasadim, come a Modena e Carpi[25]. Finale era rimasta estense perché appartenente al circondario di Modena, divenuta la capitale del ducato dopo che il 31 gennaio 1598 Cesare d’Este aveva abbandonato Ferrara riportata sotto la completa potestà del pontefice romano. Il centro tornava a fungere da luogo di confine, stavolta con lo stato della Chiesa al quale era collegato dal ponte sul Panaro tutt’oggi esistente. Inoltre cambiò anche la struttura dei collegamenti interurbani, essendo stato dato impulso all’asse viario e fluviale Finale-Modena a discapito del preesistente asse Finale-Ferrara.

Per ovviare allo stretto spazio in sinagoga che causava contrasti fra i fedeli, nel 1628 Isaac Vita e Simone Donati chiesero di poter edificare un luogo di culto più ampio. Con il benestare di Francesco I ed eludendo i regolamenti cristiani, fu creato un tempio che entrò in funzione al piano superiore di un granaio, senza soppiantare quello precedente che non fu smantellato, contrariamente agli accordi, nel quale gli ebrei «vi si congregavano a loro officii». Nel 1630 Alfonso Soldati, che viveva nel retro della sinagoga, protestò perché da un finestrone di questa gli oranti potevano sbirciare in casa sua e «scoprire tutti i fatti nostri». Gli inquisitori ordinarono di murare la finestra per evitare promiscuità in quanto a loro volta i vicini cristiani potevano osservare «nella sinagoga et in essa veder le loro superstitioni»[26]. Il duca Francesco I si trovò a dover arbitrare la lite fra gli ebrei convinti che il primo luogo di culto era diventato oratorio privato quindi il secondo sarebbe stato l’unico ad essere sinagoga, mentre il vescovo chiedeva che ci fosse un solo spazio di preghiera[27]. La convivenza tra cristiani ed ebrei tornò utile ai primi quando la peste, originata dalle truppe tedesche di stanza nel mantovano, colpì Finale nel 1630: in una via cittadina abitata da entrambi i gruppi religiosi il morbo fu poco aggressivo in quanto le regole igieniche giudaiche aiutavano a frenare le epidemie aiutando anche i cristiani. Questi poi eressero nella via un altare di ringraziamento a san Rocco, da cui la via prese il nome (oggi via Rubino Ventura)[28].

Nel 1633 il duca considerò l’opportunità di chiudere la nuova sinagoga ma i banchieri minacciarono di andarsene privando la cittadina di una importante fonte economica. Francesco I diede ugualmente l’ordine di demolizione che non fu eseguito per via delle violente proteste degli ebrei. Il principe si rivolse al pontefice chiedendo di poter far demolire almeno quella vecchia, più piccola; il compromesso fu che la nuova sinagoga venisse ridotta a oratorio privato sotto pena di una multa di mille scudi se fosse riutilizzata ai fini del culto. Nel 1639 gli ebrei inviarono una supplica al cardinale Barberini, mentre il duca ordinò al governatore di Finale di «revocare precetti fatti a Simone, Jacob, e Matteo Donati et alla Speranza Cividali Vita... di non esercitare in cotesta loro Casa nella Contrada de Romei la sinagoga al modo hebraico... e che stando la licenza da essi avuta da Roma possano far di nuovo la detta loro Sinagoga». Successivamente, nel 1657, questa sinagoga fu smantellata e venduta. Tra il 1661 e il 1689 i componenti della comunità ebraica erano tra i 100 e i 150, secondo un computo ricavato da un elenco redatto dall’inquisizione durante un’inchiesta e da un censimento municipale[29]. L’accrescimento numerico della comunità rese necessario un edificio apposito per una nuova e più ampia sinagoga, nonostante l’opposizione dell’inquisizione e nel 1678 gli ebrei lo aprirono in Contrada de Bellezanti, strada contigua alla prima, che in seguito fu denominata Strada della Scola. In quello stesso anno gli ebrei furono costretti a pagare l’edificazione di una muraglia per difendere la loro contrada dalle periodiche inondazioni del Panaro che ammaloravano le abitazioni e le botteghe.

Il Seicento è il secolo caratterizzato dall’intensificazione dell’attività di controllo della società da parte di un organo religioso preposto a tale compito: il Sant’Uffizio che aveva nei tribunali locali dell’inquisizione i suoi organi effettivi. La casistica dei reati perseguiti era ampia e quello più frequentemente riscontrato nei fascicoli d’archivio è la bestemmia. Venivano poi il disprezzo, più o meno palese, verso i sacramenti, l’operato dei preti e gli attributi della divinità, le invocazioni del demonio, il comportamento dei fedeli in chiesa e nelle processioni, il possesso di manuali di stregoneria e il loro impiego pratico, la superstizione e i riti magici per ottenere fortuna, l’amore della persona desiderata, la guarigione da un’infermità. Di solito l’incartamento della denuncia e dei verbali delle indagini era spedito a Modena assieme al reo in persona, debitamente torturato con tratti di corda. Altrettanto solitamente, il procedimento si chiudeva con la confessione e la richiesta di perdono, che veniva concesso intimando il pagamento di una multa e la sottoposizione alla pena della pubblica vergogna, ossia stare in piedi o in ginocchio dinanzi una chiesa durante la celebrazione della messa e con appeso al collo un cartello che spiegava il tipo di trasgressione commessa, in modo che i fedeli cristiani potessero verificare la vittoria dell’etica cristiana e umiliare chi l’avesse infranta.

Uno dei pochi obblighi a carico degli ebrei finalesi era il segno distintivo, reiterato nel 1602 da Cesare d’Este, consistente in un nastro di colore giallo sul cappello ma molti ebrei che non lo portavano secondo le regole prescritte furono inquisiti a seguito di una verifica nel 1610. Condannati a una pena pecuniaria, quelli che non erano in grado di pagarla vennero puniti con un leggero «tratto di fune» in pubblico[30]. Il XVII secolo invece sarebbe stato caratterizzato, nel ducato di Modena come nel mondo cattolico europeo, da un fervore religioso così diffuso da favorire una forte pressione sugli ebrei e da indurre molti tra i più deboli e poveri a convertirsi. L’inizio di questo nuovo corso fu l’editto emanato nel 1603 da fra’Arcangelo Calbetti, inquisitore di Modena, Carpi, Nonantola e della Garfagnana, nel cui preambolo era riportato che «Permette la Santa Chiesa Catholica Romana che gli ebrei in misera dispersione sparsi, vivano nel Christianesimo, afinche rapiti dal buon esempio de christiani si ravedano, e lascino l’ostinata loro perfidia; perciò dovrebbano i fideli di Christo vivere in guisa tale, che l’opere loro fussero un’attrattiva a quei miseri di riconoscere il suo errore. Nondimeno intendiamo, e con estrema amaritudine dell’animo nostro habbiam visto in esperienza, che molti e molte di essi, scordevoli della maestà, e convenevole ritiratezza loro, tanto familiarmente e dimesticamente trattano con gli ebrei, che più tosto implicitamente favoriscono le loro vane giudaiche osservanze»[31]. Questo era il preambolo a una serie di divieti per eliminare, o almeno rendere ardua, la convivenza ebrei-cristiani nel ducato estense. Agli ebrei veniva ordinato di non vendere o concedere in pegno oggetti religiosi come calici, patene, croci, figure, immagini, reliquiari. Non dovevano assistere alle processioni dei cristiani, assumerli come fattori o servitori, curarli in qualità di medici o cerusici. Inoltre dovevano evitare ogni “commercio carnale” con loro. Infine era vietato esortare i cristiani a convertirsi all’ebraismo. Dal canto loro, i cristiani non potevano partecipare a conviti, feste, nozze, balli e rappresentazioni teatrali degli ebrei, assistere alle circoncisioni e alle altre cerimonie ebraiche, ai loro “ragionamenti”. Persino l’aiuto dei beccamorti cristiani per seppellire i defunti ebrei poteva essere sanzionato. Spesso e volentieri i funzionari e gli sbirri del tribunale religioso fungevano da forza di polizia e di controllo della vita urbana, sostituendosi alle milizie ducali e municipali. Forse la pubblica sicurezza non era sempre efficiente perché succedeva che i cittadini si rivolgessero all’autorità religiosa per denunciare situazioni sgradevoli.

Un elemento intervenuto nel 1629 turbò profondamente i rapporti tra la componente cristiana e quella ebraica della popolazione del Finale: l’istituzione per volere del duca Alfonso III, notoriamente antigiudaico e acceso sostenitore delle conversioni degli israeliti, di una Casa del Catecumeno a Modena che mirava ad accogliere, segregare e istruire gli ebrei che intendessero, più o meno volontariamente, abbracciare il cristianesimo[32]. I “Capitoli e le Regole della Casa dei Catecumeni”, risalenti al 1632, mettevano in evidenza che l’amministrazione e il governo dell’istituzione erano posti sotto l’autorità ducale infatti, a dispetto dei diffusi timori, invece di angariare gli ebrei, si desiderava proteggerli. Nella pratica, soltanto gli ebrei indigenti erano lasciati liberi di convertirsi per approfittare delle opere di misericordia cristiana. In questi casi il battesimo veniva impartito dal vescovo in cattedrale, la cerimonia si svolgeva con grande sfarzo e il neofita conquistava un ruolo sociale più elevato di quando era ebreo, concedendo alla Chiesa un ruolo dominante e vittorioso. Chi entrava nella Casa come neofita subiva un procedimento di catechesi, spesso superficiale infatti alcuni neoconvertiti finirono ugualmente nelle carceri dell’inquisizione con l’accusa di inosservanza dei precetti canonici. Gli ebrei che, dopo questo indottrinamento, sceglievano di rimanere fedeli al giudaismo erano vittime di insulti e violenze, nonostante venissero reiterate le gride che minacciavano multe a chi se ne fosse reso colpevole.

I membri della comunità ebraica del Finale sono coinvolti in una parte dei 303 processi i cui fascicoli sono tutt’oggi reperibili nel fondo Inquisizione dell’Archivio di Stato di Modena ma è probabile che altri siano andati dispersi; in ogni caso gli ebrei rappresentarono un consistente settore d’intervento[33]. I rapporti degli israeliti finalesi con la popolazione cristiana peggiorarono a causa dell’atteggiamento sospettoso del clero e dell’inquisizione per via delle conseguenze sociali della Controriforma, della quale gli ebrei italiani furono una delle principali vittime. A Finale, come a Modena, si susseguirono misure restrittive, prediche coatte, la censura dei testi religiosi di giudaismo, svariati processi davanti al tribunale inquisitorio motivati da infrazioni reali o immaginarie della legislazione ecclesiastica. Nel corso del Seicento furono tenuti procedimenti a carico di diversi capifamiglia ebraici finalesi: alcuni di loro furono condannati a pene pecuniarie e all’incarceramento. Gli ebrei potevano venir accusati e processati per essersi fatti servire da cristiani durante i giorni festivi ebraici, per irriverenza verso la fede cristiana, per aver enunciato espressioni considerate eretiche e per aver posseduto libri di etica giudaica banditi. Avere familiarità e frequentare le rispettive abitazioni, conversare insieme per strada, giocare a carte e divertirsi bevendo nelle osterie erano situazioni proibite e passibili di denuncia all’inquisizione.

Uno dei primi processi tenuti al Finale coinvolse nel 1605 Abramo da Rubiera che viveva a Finale e gestiva il banco di prestito per conto di Isacco da Norsa, il quale confessò che qualche anno prima, in occasione della devoluzione di Ferrara alla Chiesa, aveva riflettuto sulla possibilità di trasferirsi al Finale: «Quando il Serenissimo Signor Duca si partì [da Ferrara] per Modena mi venne il pensiero venir ad habitare al Finale»[34]. Abramo era stato segnalato da un neofita, Giovanni Battista Romeo, perché visto maneggiare due casse piene di libri consegnatigli dallo stesso Isacco da Norsa affinché venissero trasferite al di là del nuovo confine e custodite nella casa finalese di Abramo che si trovava ancora in territorio estense mentre Isacco era a Ferrara, da poco restituita al potere diretto pontificio pertanto si temeva che la Chiesa avrebbe sequestrato i testi giudaici a essa sgraditi. Inaspettatamente questi libri furono requisiti e portati nell’abitazione del vicario nonostante che il detentore avesse già speso parecchio per far censurare e vidimare altre pubblicazioni. Abramo fu in seguito condotto in carcere per ordine dell’inquisitore fra’ Arcangelo Calbetti. Dopo aver affermato di non esser a conoscenza del contenuto dei libri e di aver solo accettato la consegna effettuata dal proprietario del banco che gestiva, Abramo fu condannato a stare in piedi per un’ora dinanzi la chiesa di san Domenico con il libro dell’Abensirà appeso al collo e a pagare una cauzione di 50 scudi. Il libro incriminato fu consegnato a un frate con l’incarico di espurgarlo cancellando ogni proposizione ritenuta offensiva verso il cristianesimo e i suoi valori morali ma l’inquisitore ferrarese, che aveva sovrinteso al processo a Isacco da Norsa, si lamentò per la scarsa precisione dell’attività di espurgazione perché egli riusciva ancora a leggere il testo incriminato[35]. Un altro procedimento dinanzi i frati riguardò di nuovo lo stesso libro, stavolta in possesso di Isacco Vita, denunciato nel 1631 dal proprio nipote Simone per ripicca. Quest’ultimo desiderava vendicarsi della segnalazione fatta a suo carico dallo zio per via della sottrazione di un suo figlioletto affidato a una nutrice cristiana assoldata per allattarlo. Il convenuto assicurò di non aver letto il testo incriminato perché non conosceva bene i caratteri ashkenaziti in cui esso era redatto, evidentemente il libro era stato vergato a mano da un ebreo tedesco e poi venduto al padre di Isacco Vita: il rabbino Abramo Belgrado confermò quanto asserito durante l’indagine. Il processo si concluse rapidamente con il pagamento di una multa di 200 scudi e l’assicurazione che il libro, assieme ad altri due, sarebbe stato sottoposto a un’onerosa espurgazione da parte di ecclesiastici che conoscevano bene l’ebraico[36].

Nel 1631 l’inquisitore fra’ Tinti ordinò al notaio dell’inquisizione don Francesco Migliari di torturare pubblicamente il prestatore Alessandro Formigine per indurlo a confessare i reati di cui era accusato nonostante che solo lo stato laico avesse il potere di infliggere questi crudeli trattamenti[37]. Il governatore Tiburzio Masdoni, un conte reggiano posto alla carica di supervisore del Finale per conto del duca, assisté al supplizio senza che fosse stato coinvolto o avvertito e «il veder tormentar un huomo pendente alla fune nel luogo solito… mi fece restar attonito et insieme irresoluto ciò che far mi dovessi». Il governatore si informò sull’identità del malcapitato e seppe che «fu fatto appendere alla corda Alessandro da Formigine Hebreo, Banchiere in questo luogo, il migliore fra cattivi», uno dei notabili più validi e utili alla collettività esposto alla pubblica vergogna per aver mostrato irriverenza verso il santissimo sacramento, le specie eucaristiche oggetto di culto perché ritenute corpo e sangue di Cristo. Il conte reagì criticando duramente l’arrogante operato del notaio, «che raccogliendo il merito della causa veggio non esser stato altro, alle maniere, ai gesti, alle parole del Migliari, il soggetto e l’origine, che procella di superbia, e d’ambitioni, suscitata dal vento della temerità, uscito dalle tumide viscere di vanagloriosa famiglia, per usurparsi con temerario ardire l’arroganza del comandare; d’onde potria nascere che facilmente si farano un giorno author di risse, e fomento di disordini, dando moto a seditioni, e a solevationi, perché il colocar l’authorità in huomini d’insolita ambitione, è riponerla in vasi d’insolita incapacità»[38]. Sadicamente punito per l’ipotesi di dispregio dei santi sacramenti, Formigine fu solo uno degli ebrei denunciati all’inquisizione a Finale per questo genere di reato, in molti casi basato su presunti atteggiamenti e indizi, più che su reali prese di posizione. A Moisè Israele Melli, che vendeva tabacchi e abiti vecchi, fu rimproverato di non essersi levato il cappello al passaggio di una processione dell’eucarestia mentre egli passava cavalcando su un asino sulla riva del Panaro in viaggio verso Modena, ma egli si difese facendo notare che in sinagoga i fedeli devono tenere coperto il capo in ossequio al Signore; la condanna fu la sottoposizione ai tratti di corda[39].

Tra le vittime vi fu anche il rabbino della comunità, Abramo Belgrado[40]: veneziano d’origine e giunto a Finale nel 1625, fu protagonista di due processi, il primo per detenzione di libri proibiti e l’altro a causa di due pergamene appartenute alla nuora Dolce e che la donna utilizzava come amuleto contro armi, streghe e maligni. Ella fu destinata al carcere per aver fatto uso di magie e sortilegi, di aver stretto un «patto con il demonio» perché nelle carte era leggibile l’invocazione al Signore affinché intercedesse presso uno dei suoi angeli preposto alla protezione dai cattivi incontri, dagli incendi, dagli «spiriti cattivi et danegiatori». Nel 1633 il rabbino Abramo fu imputato di aver utilizzato scorrettamente le sacre scritture per fare un sortilegio: un suo fedele, Lazzaro Levi, era stato costretto a riferire a fra’ Giacomo Ricci, vicario cittadino notoriamente sprezzante degli ebrei, che essendo ammalato aveva richiesto di venir curato con tre «mandorle» di possesso del rabbino. Gliele recapitò il rabbino Isacco Sacerdoti informandolo della loro alta efficacia e che un altro ebreo era deceduto per non averle volute impiegare: «Moisè Leon essendo ancora lui infermo non le volse pigliare dicendo ch’era pecato et ch’era cosa che non si poteva fare et che erano prohibite, et così morse». Il rabbino Belgrado confermò d’aver concesso le tre mandorle con incisa su ciascuna una lettera corrispondente a un salmo ma sostenendo che ciò era un auspicio e non una forma di preghiera. Il tribunale lo condannò a un mese di carcere ammonendolo a non usare più i testi cristiani per fini proibiti[41].

Questi procedimenti a volte assumevano connotazione di interesse strettamente economico, in quanto gli inquisiti spesso erano costretti a finanziare le spese dell’apparato religioso in difficoltà. Tale prassi giustificava il diffuso sospetto sulle reali motivazioni di alcune iniziative clericali, tanto che a Finale il rabbino Isacco Sacerdoti, commentando un editto del sant’Uffizio affisso fuori la sua sinagoga, esclamò ad alta voce: «Costoro vogliono delli quattrini». L’uomo venne imprigionato e processato nel 1635 per tale mancanza di riguardo verso l’istituzione religiosa[42]. Egli non era nuovo a queste improntitudini: quindici anni prima fu redarguito assieme a Giuseppe Melli per aver schernito ad alta voce un’immagine dipinta della Passione di Gesù affissa sotto il portico del Palazzo della Ragione[43].

Quattro anni più tardi il rabbino Isacco Sacerdoti fu protagonista di un altro episodio di intolleranza religiosa: nel marzo 1639 egli segnalò a fra’ Giacomo Ricci, vicario dell’inquisizione locale, che non era stato impedito lo svolgimento di una mascherata satirica antigiudaica durante il carnevale appena celebrato. Non ottenendo ascolto, i massari Simone Donati e Salomone Castelfranco denunciarono l’anti-giudaico Ricci all’inquisitore generale affermando che quest’ultimo era consenziente verso lo spettacolo offensivo nei confronti degli israeliti tenuto nelle «pubbliche piazze della Terra del Finale». I religiosi convocati affermarono concordi che nel corso della sfilata non vi era stato nulla d’insolente, né cantate canzoni di derisione. Il rabbino invece descrisse l’avvenuta rappresentazione di un ebreo defunto e processato da diavoli che gli imputavano peccati relativi alle regole alimentari ebraiche, oltre all’usura: «Erano circa trenta persone [vestiti da diavoli, altri da ebrei tra cui il neofita Pietro Antonio Arlotti, ossia un nipote di Salomone Sacerdoti], parte de’ quali portavano una cassa coperta di nero, dentro la quale tenevano un bambozzo di paglia che dicevano essere il corpo di Bonaiuto hebreo morto. Molti havevano candele accese, et altri leggevano vestiti da Diavoli un processo, che dicevano essere le sceleragioni commesse dall’hebreo morto»[44]. In sostanza, l’ebreo raffigurato sotto sembianze di un fantoccio adagiato nella bara era accusato dai cristiani di aver saltato i digiuni rituali, di aver fatto visita a una meretrice, di aver scambiato un bicchiere con la moglie durante un suo periodo di flusso mestruale, di aver imbrogliato i clienti nella gestione del suo banco di prestito[45]. «Per il che mostrarono di condannare il detto corpo al fuoco, com’in effetti lo bruggiarono, e fecero altri dispreggi». La messa in scena del rogo del finto morto nel luogo dove di solito venivano puniti i delinquenti continuava con il seppellimento dei resti del condannato, «sopra il quale leggevano e lessero più volte nei luoghi publichi un processo, che dicevano esser degli errori e delle enormità commessi dal morto hebreo nel quale narravano aver fatto egli molte furbarie latrocinij e truffe», alla presenza di molta plebe che assisteva allo spettacolo. Il podestà Mario Pacchioni informò il duca Francesco I che Bartolomeo Bresciani, vero autore e organizzatore della mascherata, era stato messo in carcere suscitando la violenta reazione del vicario, il quale si era introdotto in una bottega ebraica per minacciare i presenti: «Evidendosi chiarissimamente in questo frate un animo perversissimo verso questi hebrei per haver anch’egli un nipote in detta mascherata». Il popolo si riunì tumultuando fino a notte fonda davanti alle case degli ebrei ma le ammonizioni non avevano avuto alcun effetto. Fra’ Ricci, sostenuto dal clero locale, a sua volta accusò gli ebrei Salomone Camaioli, Simone Formigine e Simone Donati di farsi servire da donne cristiane, le quali erano bisognose di denaro e non si facevano scrupoli nel violare le normative religiose. L’aspra contesa continuò, accuse e controaccuse si incrociavano condite da improperi fra le due fazioni, ormai una consuetudine nella vita cittadina finalese che probabilmente risentiva dell’istituzione del ghetto a Modena attuata qualche mese prima, nel maggio 1638[46]. In questo torbido clima, nel 1642 avvenne l’assassinio del rabbino Isacco Sacerdoti per mano di Jacob, uno dei figli di Donato Donati, per una poco chiara questione di onore; il rabbino era stato accusato di aver sedotto Speranza Cividali, moglie di Simone Vita, suggerendole di accusare il marito di aver cercato d’ucciderla per poter dare al Sacerdoti il controllo degli affari di Vita. La moglie dell’assassino, Stella, chiese più volte la sospensione della pena per il consorte in prigione a Modena dal momento che lei e i sei figli erano in misere condizioni economiche dopo la vendita dei beni della coppia che non bastava a pagare i debiti. Il duca concesse la grazia liberando Jacob ed esiliandolo da tutto il territorio modenese. L’anno successivo Jacob informò della sua intenzione di pagare i debiti e rientrare a casa. Intanto Simone Vita s’allontanò dal Finale; dopo un anno il fuggiasco si costituì e affrontò il processo per tentato uxoricidio dal quale venne assolto mentre l’infida Speranza preferì trasferirsi a Modena[47].

Il Sant’Uffizio pretendeva di intervenire anche nelle liti tra ebrei. Nel 1686 il rabbino Leon Padova pronunciò un’omelia eccessivamente severa contro l’ubriachezza; uno degli ascoltatori andò da lui per protestare e chiedere se fosse «peggio peccare con donne maritate o bere vino fatto da altri che dagli ebrei. Per questo il rabbino [sentitosi chiamato in causa] cominciò ad ingiuriarmi e ad offendermi»[48]. A dar manforte al rabbino arrivarono Abram Isaia Belgrado e suo fratello Emanuele che allontanarono l’impertinente per evitare che fosse picchiato. Questi fu poi costretto a comparire davanti all’inquisitore generale, ottenne “perpetuo silenzio” sulla vicenda e fu liberato dall’obbligo di versare una cauzione.

L’eccessiva confidenza tra ebrei e cristiani sia in città che nei poderi agricoli suscitava irritazione. Salomone Castelfranco si maritò nel 1623 e in occasione dei festeggiamenti aprì le porte della sua dimora per rendere tutti partecipi; successivamente alcuni cristiani vennero interrogati sul motivo della loro presenza ai festeggiamenti e ammisero di aver assistito perché sembrava loro normale mescolarsi agli israeliti e che “non c’era niente da pagare”[49]. Compare di nuovo Salomone Castelfranco qualche anno dopo, nel 1639, sotto la veste di accusato per non aver riverito, togliendosi il cappello, una croce all’angolo del Ponte Nuovo mentre lo attraversava e per questa mancanza venne denunciato dai preti presenti in quel momento. Seguirono altri episodi di ebrei che non avevano adeguatamente ossequiato la croce e per questo condannati «con una certa durezza per la mormoratione che [questa mancanza di riguardo] solleva nel paese, per la sua stessa pubblicità»[50].

Nel 1654 i massari della comunità denunciarono il deterioramento della situazione dei rapporti interreligiosi, peggiorata a tal punto che agli ebrei risultava arduo abitare a Finale e, come notificarono al duca, minacciavano di trasferirsi in piazze commerciali più tranquille. Francesco I scrisse al governatore locale una lettera colma di indignazione per la troppa libertà con cui i cristiani infastidivano gli ebrei, ordinando che si procedesse con rigore contro i disobbedienti e i trasgressori. I momenti peggiori furono nel 1661 e nel 1670 quando due ebrei furono assassinati ma i responsabili latitanti rimasero impuniti[51].

Nel 1661 alcuni ebrei di Vignola e Finale furono denunciati per possesso del Talmud, per iniziativa del rabbino ferrarese Leon del Bene che si rivolse ai religiosi di Ferrara, i quali rimandarono la pratica ai colleghi di Modena[52]. I personaggi coinvolti erano il rabbino Abram Belgrado, il banchiere Alessandro Formigine, Samuele Formigine, Sansone Castelfranco e i suoi fratelli. In particolare, Belgrado possedeva tredici titoli che sembravano inclusi nell’elenco dei testi interdetti. Il rabbino ferrarese aveva segnalato i correligionari per amore della verità e non perché nutrisse odio verso di loro: «amo la verità più che l’amici»[53]. Il finalese Salomone Camaioli fu denunciato nel 1662 dal proprio figlio, il neofita Agostino, anche stavolta per possesso del Talmud e di un trattato sulla qabbalah[54].

Nel novembre 1667 morì il rabbino Abram Belgrado e la sua bara fu portata di notte attraverso il centro del paese, accompagnata da molti membri della comunità, dai 25 ai 30 individui, in una vera processione con una serie di candele di cera che illuminavano il percorso lungo la strada della Pescaria, il ponte di Piazza, e le Beccarie fino alla strada dei Cappuccini[55]. Il vicario interrogò numerosi testimoni e molti ebrei sul perché la cerimonia funebre fosse stata tenuta in pieno centro e non in maniera defilata, seguendo la prescrizione di celebrare di nascosto le esequie ebraiche. Il prestatore Simone Formigine, irritato dalle domande del giudice, rispose che in realtà non era stato utilizzato l’incenso in quanto proibito e che, essendo una notte d’inverno, il percorso scelto era l’unico possibile e che le candele servivano a illuminarlo[56]. Egli era già stato interrogato anni prima, nel 1657, per aver invitato e alloggiato in casa propria una procace cantante cristiana per tre giorni e quattro notti e per aver forse anche giaciuto con lei[57].

Nel corso degli anni i tentativi di impedire che gli ebrei possedessero indisturbati abitazioni e terreni non portarono molti risultati. Ci si provò nel 1637: l’inquisizione di Modena, nella persona di fra’ Giacomo Tinti, compì un’indagine a seguito di una lettera del Sant’Uffizio romano in cui era espressa la preoccupazione per l’alto numero di ebrei che al Finale godevano della proprietà di campi agricoli in cui tenevano a servizio contadini cristiani e con i quali manifestavano troppa familiarità. L’obiettivo era quello di sopprimere questi rapporti di dipendenza economica senza allontanare i prestatori di denaro dal Finale e «togliere simili contratti e ovviare a scandali, et abusi, che dal maneggio di questi nascono»[58]. L’inquisitore si mostrò rassegnato dinanzi alla grande difficoltà di eliminare questo fenomeno, «il voler levare questi hebrei dall’antico possesso di haver beni stabili in questo Stato sarebbe impresa molto ardua» e la conclusione fu quasi ovvia, ossia che ogni manovra si sarebbe scontrata con la volontà contraria del principe estense. Solo nel 1670, durante la reggenza della duchessa Laura Martinozzi, furono aboliti alcuni diritti di cui gli israeliti godevano da tempo e solo allora essi furono costretti a vendere ogni immobile di proprietà.

La maggioranza degli ebrei non temeva le reazioni degli ecclesiastici, infatti nel 1660 il vicario del Sant’Uffizio fra’ Nicola Bolognesi denunciò che tra gli ebrei di Finale «il segno giallo era diventato invisibile», poiché essi lo adottavano di rado e di controvoglia[72]. L’arrivo di altri israeliti portò all’espansione del gruppo ebraico finalese: nel 1661 si contavano 29 ebrei maschi adulti e il totale della popolazione ebraica era un centinaio di individui[73]. I sentimenti dei cristiani erano inaspriti, inducendo un anonimo a scrivere al cardinale Ippolito d’Este che «li finalesi sono naturalmente contrarii, et male affetti agli Hebrei, che non vorrebbero vederli nel loro territorio»[74].

Alla fine del 1688, nel giorno di Natale, il nuovo podestà del Finale Carlo Barbieri scriveva al duca Francesco II che «ho trovato questa bella, e cospicua Terra infettata d’Ebrei sparsi per tutto, e che occupano alcuni dei luochi più nobili resi indecenti per la loro naturale laidezza, che perciò sembrara bene, utile, ed bonore di nostra S. Fede, il restringerli a loro spesa in luoco appartato, e chiuso come a Modona e Reggio, se tanto fosse in piacere di V.A.S.»[75]. Si trattava dell’auspicio che pure a Finale venisse intrapresa la strada della segregazione degli ebrei locali per separarli più efficacemente dal resto della popolazione, soluzione adottata nella capitale nel 1638 dal duca Francesco I e a Reggio nel 1669 per iniziativa della duchessa reggente Laura Martinozzi. Il duca ignorò l’istanza del suo luogotenente e Finale continuò a essere un insediamento formalmente libero al pari di Scandiano e Correggio, seppur caratterizzato da una separazione immaginaria che costringeva spesso gli ebrei a prender casa solo in una zona abitata dai loro correligionari.

Le conversioni

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A Finale alcune prime conversioni di ebrei al cristianesimo avvennero nel 1588 e nel 1589[59], poi bisogna attendere il XVII secolo per osservarne altre che via via aumentarono. La pressione esercitata sugli ebrei affinché cambiassero fede ebbe un moderato successo e nella Finale seicentesca persone singole e interi nuclei familiari abbracciarono la fede in Gesù. Protagonista fu ancora il frate agostiniano Giacomo Ricci, investito del ruolo di inquisitore ma a dare il via fu nel 1603 padre Girolamo Paolucci da Forlì che creò un’atmosfera di straordinario fervore religioso, supportato dal podestà Virginio Arlotti. L’anno dopo un bimbo di undici anni, Jacob figlio di Mosè da Rieti, accettò spontaneamente il battesimo e  prima di compiere simile passo nel 1617 il banchiere Cervo Saravalli partì diretto a Venezia per non esser ingiuriato dagli altri ebrei, abbandonando gli affari del banco[60]. Illustri israeliti di Finale si convertirono, tra cui i tre fratelli Laudadio, Mattasia e Lazzaro Levi appartenenti a un folto clan di prestatori, le cui vicissitudini negli affari dimostravano che l’adesione alla nuova fede era opportunistica, ossia per sfuggire a debiti e gravi problematiche che li affliggevano. Il battesimo della famiglia Montesanto, i genitori e i loro tre figli, fu celebrato nel 1605 dal vescovo di Modena e accompagnato da sontuosi festeggiamenti in onore della fede cattolica[61].

Maggiore scalpore destò l’episodio in cui due fanciulle sorelle erano contese dai preti, nonostante il divieto ducale della sottrazione dei figli minori ai genitori ebrei per essere condotti alla Casa del Catecumeno. Ricchina e la sorella minore Perla, figlie del commerciante Donato Donati, l’ebreo più potente del Finale d’allora, furono letteralmente rapite nel maggio 1616 per venir condotte al battesimo. Ricchina resisté urlando e disperandosi mentre la minore sembrava più rassegnata. Secondo la versione del governatore Arlotti al duca, le due ragazze erano fuggite spontaneamente[62]. La lettera inoltrata dimostra la familiarità fra il suddito ebreo e il principe estense: «Donato Donati humilissimo e devotissimo servo di V.A.S. abitante nel Finale genuflesso gli narra come collà da Marc’Aurelio Passarino [un ragazzo cristiano che si era innamorato di lei] gli è stata da propria casa senz’alcuna legitima causa rubbata Perla sua piccola figliuola et con violenza levata di sopra la sua Porta e rittirata in casa di certi vicini Cristiani sotto il pretesto che ella si voglia far Cristiana, cosa che non è, et inoltre doppo questo armata mano se ne venne in casa del povero servo conducendovi insieme il Signor Governatore del Finale, il qual Marc’Aurelio con modo presuntissimo esortava la Ricchina maggior figliola del servo ad uscirsi di casa al Cristianesimo ma ella con fermezza e sicurezza d’animo li rispose di essere risoluta di vivere e morire da ebrea, il che inteso dal detto Signor Governatore se ne partì non parendogli di dover violentare la giovane… a casa del misero ebreo con una vehemenza tale e tumulto di popolo a forza di birri ne trassero di casa anco la detta Ricchina a viva forza, quale era menata piangendo e gridando di voler restare ebrea con i suoi genitori. Condussero insieme via alcuni arnesi e vestiti di detta figliola et inventariarono quanto restò in casa a detto Donati e sequestrò lui e i suoi figlioli in casa mettendo l’oratore in una camera e Simone suo figliolo in un’altra ligato, et usando loro malissimi trattamenti, tutto ciò essendo occorso coram populo è cosa notoria né sarà negata da chi vi si trovò. Per lo che forte gridando l’ebreo chiedendo giustitia e ricorso a V.A. non giovò restando tuttavia privo delle due figliole e loro arnesi… Ricorre però il servo da questi travagli al sicuro porto della integra giustitia di V.A. supplicandola restar servita di comandare che la detta Perla sua prima rapita sia condotta a Modena, havendo suspetto quel Popolo et sia posta in mano di chi piacerà a S.A. et qui s’intendi senza molestia la di lei volontà sii di essere ebrea o Cristiana, et sia poi quello che vuole; et che la detta Ricchina maggiore, essendo pubblicamente rapita a forza come s’è narrato, sia restituita con sue robbe a casa del padre, contro il quale non si possi procedere se non servatis servandis, con far l’A.V. quella dimostratione che le piacerà esemplare contro il malfattore acciò per l’avvenire possano poveri ebrei vivere nel grembo della benignità sicuri delle loro creature e di tali naufragi. Il che riceverà l’oratore per singolarissima gratia, e pregarà Dio per l’A.V.S.»[63].

Il padre non si arrendeva facilmente e inviò una seconda missiva al duca, convinto che il principe fosse l’unica salvezza dalle grinfie dell’inquisizione e riuscì a riportare Ricchina a casa grazie all’intervento diretto del duca estense che apprezzava le capacità imprenditoriali dell’ebreo. Cesare d’Este anzi rivolse un aspro rimprovero ad Arlotti, dolendosi di «aver sentito molto male che si sia usata violenza alla Ricca levandola di casa a forza de’ birri e con tumulto grande di genti quasi che si voglia far venir all’acqua del Santo battesimo li hebrei per forza». Invece l’altra figlia, Perla, fu battezzata nel luglio successivo con il nuovo nome di Catterina Berni e sposò l’audace Marc’Aurelio Passerini che in seguito, indebitato e incapace di salvarsi dal carcere dove si trovava, si rivolse sfacciatamente proprio a Donato Donati per reclamare la dote che pensava gli spettasse. L’ingrata Perla infine denunciò il padre e il fratello accusandoli di numerosi delitti probabilmente inesistenti. Nel 1626, rimasta vedova, carica di quattro figliuoli e trovandosi in misera condizione senza l’aiuto della famiglia d’origine che evidentemente l’aveva abbandonata e dimenticata, chiese il soccorso del governatore che le pagò il pedaggio della barca che la condusse a Modena, allontanandola per sempre dal Finale.

Donato Donati, ancora lui, si adoperò perché Belina, figlia maggiore di Leone Montesanto, rinunciasse all’intenzione di farsi cristiana e offrì al padre della ragazza (che, come visto, s’era già convertito) una dote di mille scudi purché restasse ebrea e sposasse il fidanzato ebreo, Abramo Cumiani. Anche Stella, altra figlia di Donati e moglie del banchiere Emanuele Lanternari, intervenne invano per convincere la giovane. Il promesso sposo della ragazza, angustiato dagli avvenimenti, abbandonò il territorio del Finale ma poi se ne pentì e chiese il permesso di tornare senza essere interrogato sul motivo della fuga. Per spiegare quanto era accaduto egli redasse una lettera nella quale non lesinò i particolari: «Sette o otto mesi prima facendo l’amore con una Madonna Belina, figliola di Leone Montesanto... conforme alla usanza degli hebrei con consenso di detta Belina alla presenza di testimoni sposo detta giovane, et havendo il padre presentito ciò cominciò a calcitrare con motivo di non esserne contento e di questo si querelò all’Uffitio del Finale... et dopo che detto Leone e Belina si fecero Christiani fu poi fatto intendere all’oratore che se volea per moglie detta Belina si dovesse ancor lui fare Christiano il che non havendo voluto fare per tema di non essere posto in prigione s’absentò dal Finale». Abramo Cumiani, dopo esser tornato al Finale e aver rinunciato a farsi cristiano e quindi ripudiato Belina, si sposò con una figlia di Salomone Sacerdoti, Altadonna. Nel 1615, la donna prese l’inconsulta decisione di sparire e rifugiarsi nella casa del governatore Arlotti lasciando a casa il figlioletto Marco, suscitando riprovazione e scandalo. Cumiani negò di sapere dove si trovasse il bambino ma invece lo fece trasferire di nascosto a Rovigo per evitare che l’inquisizione lo prelevasse per battezzarlo. Gli ebrei del ghetto veneziano intervennero nella vicenda. Alla fine Altadonna, la madre e il bambino ricevettero il battesimo, mentre il desolato Cumiani rientrò a Finale da solo. Giovanna, come si chiamava ormai Altadonna da cristiana, sposò il procuratore Antonio Ricci, artefice della conversione di Fiore, altra figlia di Salomone Sacerdoti e sorella della moglie, che scelse la vita da monaca nell’ordine delle Clarisse. Poco tempo dopo Ludovica, la madre di Ricci, gelosa e protettiva nei confronti del figlio, denunciò nel 1620 la nuora Giovanna perché, dopo essere stata bastonata dal marito, questa avrebbe esclamato: «Sia maledetto quando mi feci cristiana». Sostenne inoltre che Giovanna/Altadonna non aveva mai interrotto i rapporti con la famiglia originaria e il padre Salomone e inoltre utilizzava l’ebraico con un fratello per non farsi capire dagli indiscreti vicini. Ella poi aveva partecipato con il marito Antonio a una festa in casa di vecchi conoscenti della comunità ebraica, comportamento vietato ai cristiani e ancor di più ai neofiti. Altre persone l’avrebbero sentita esclamare che «son pur stata una bella matta a lasciar la mia Lege e venir a questa», delusa dal trattamento riservatole dal prepotente marito[64]. Dalle verifiche si comprese che anche altri cristiani partecipavano agli eventi festivi degli ebrei e avevano con loro relazioni di amicizia, divertendosi insieme in modo neanche tanto clandestino. Inoltre la denunciante si sentiva trascurata dal figlio ed era perciò astiosa nei confronti degli ebrei, temendo che Antonio avesse stabilito con loro un’inopportuna confidenza. L’inquisitore condannò nove abitanti del Finale rei di questo comportamento a una settimana di carcere. Nonostante le numerose conversioni e accuse che avevano arrecato disonore alla famiglia Sacerdoti, essa fu trattata dal duca sempre con benevolenza. Nel 1625 fu concesso a Salomone di girare armato per «tutti i luoghi dello Stato portando armi da offesa e da difesa, di giorno e di notte... anco di tener in casa gli archibugi da ruota longhi e corti di misura e portarli in viaggio, et in campagna e questo per difesa delle loro 11 persone»[65]. Egli era abbiente e possedeva molti beni di valore che facevano gola ai malviventi. Anni dopo, nel 1635, si convertirono anche due nipoti di Donato Donati; uno di questi era il diciottenne Salomone Franciosi, figlio di Aron e Bona Sacerdoti che nel 1634 si battezzò a Modena, assumendo il nome di Pietro Antonio Arlotti. Quest’ultimo fu vittima di maltrattamenti da parte degli ex correligionari che, spinti da uno spiccato senso di unione e identità, detestavano quelli di loro che avessero scelto la conversione: il ragazzo denunciò di esser stato maltrattato da Simone Donati e dal figlio Giuseppe, che gli avevano sbarrato la strada che stava percorrendo e per disprezzo lo avevano fatto cadere sgambettandolo[66].

Nel 1637 fu la volta di Daniele figlio minore di Simone e Rachele Donati che, dopo aver assunto l’identità cristiana di Giovanni Raimondo, tramite il governatore ottenne un vitalizio dall’abbiente casato d’origine; il genitore oltre a possedere metà del banco di famiglia era commerciante di biade, gestiva l’appalto dell’acquavite, possedeva terreni e una dimora sontuosamente arredata. Il Raimondo sicuramente continuava a frequentare gli ex correligionari, che non lo avevano emarginato, perché poco tempo dopo la conversione era stato condotto nelle carceri dell’inquisizione con l’accusa di non esser stato sincero nella sua nuova fede, preferendo ricercare la “nociva compagnia” dei parenti e non quella “sana” dei cristiani[67]. Nel 1657, ben vent’anni dopo, Isacco fratello di Daniele Donati/Giovanni Raimondo, alias Francesco Molza frate agostiniano, venne incarcerato per un motivo ignoto. Per uscirne, pensò bene di denunciare il suo stesso genitore per aver questi provato a ricondurlo sulla via dell’ebraismo spedendolo nella Palestina ottomana presso una comunità ebraica, come si usava a quel tempo per distogliere i catecumeni dal perseguire il loro intento. Egli era convinto di voler vivere da cristiano e fece finta di emigrare nell’impero turco come deciso dal padre e di esser deceduto da vero ebreo ma invece ricomparve sano e salvo al Finale sotto abiti monacali.

Un episodio particolarmente triste accaduto nel 1654 alla piccola Fiorina di appena otto anni dimostra che la Chiesa volentieri raggirava la direttiva ducale che proibiva il battesimo dei bambini ebrei minori di tredici anni. Un giorno ella, figlia di Zaccaria Modena e non ancora «in età abile di lume di fede», s’involò di casa rifugiandosi da una famiglia nobile vicina. La comunità ebraica, scoperto dove si era nascosta la piccola, ne reclamò subito la restituzione, ottenendola. Tuttavia i preti organizzarono un’animata protesta nella pubblica piazza del Finale per intimidire i genitori di Fiorina e convincerli ad affidarla all’influente correligionario Alessandro Formigine in attesa di decidere il destino finale. Il governatore infine incontrò l’intimorita bambina e si convinse che ella realmente preferiva stare tra i cristiani, forse per via di problemi familiari che la affliggevano. Al compimento dei tredici anni le fu impartito il battesimo dopo un periodo di catechesi, nel maggio 1659, e ricevette il nuovo nome di Laura Foreste dal vescovo di Modena Ettore Molza appositamente giunto nella parrocchiale di Finale[68].

Anche il rabbino Giuseppe Melli ebbe il dispiacere di perdere tre figli e fu persino costretto a pagare loro gli alimenti, al punto che nell’ottobre 1660 chiuse la sua bottega a Finale e si trasferì a Modena[69]. L’infelice rabbino dovette aver cambiato presto idea perché nel novembre 1661 si ritrovava di nuovo al Finale, dove trovò un’atroce fine: il giovane cristiano Camillo, rampollo della nobile famiglia Vecchi, accecato dall’odio anti-ebraico inseguì a spada sfoderata l’ebreo Giuseppe Ventura e, essendosi questi riparato nella sinagoga, l’insana furia si accanì contro lo sfortunato Melli, trovantesi nei pressi, che venne colpito a morte. L’omicida venne condannato alla decapitazione ma, essendo latitante, fu bandito in perpetuo[70].

Il caso della famiglia Finzi fu penoso: Graziadio e i sette figli manifestarono al cardinale ferrarese Astalli la volontà di cambiare fede mentre le pressioni su Allegra, che inizialmente era dubbiosa, furono così forti che la donna cedette e accompagnò il marito e i figli al fonte battesimale in una chiesa di Modena. La coppia era stata obbligata a separarsi pur continuando a vivere nella stessa casa, essendovi un drappello di guardie con loro ad evitare che i coniugi comunicassero tra di loro. Fu anche istituito un cordone di sicurezza intorno la casa e gli altri ebrei erano impediti dal transitare per la via. Nel 1699 il cardinale Astalli manifestò al duca un’ostile soddisfazione nell’apprendere la notizia di «avere il Finzi colla sua famiglia abbracciato con il sacro battesimo la nostra Cattolica Religione»[71].

Ai primi del Settecento un’apposita grida ducale stabilì che pure gli israeliti dovevano esser censiti in via ufficiale senza dover affidarsi ai registri comunitari. Così è possibile sapere con esattezza quanti di loro dimoravano al Finale dal 1712 in poi, essendo divenuto obbligatorio comunicare la nascita e il decesso degli ebrei residenti al cancelliere municipale «per provvedere a molti inconvenienti, e litigi, che nascono talvolta a pregiudizio tanto de’ cristiani che degli ebrei»[76]. Nel 1736 la loro condizione privilegiata di persone libere di muoversi in città ebbe termine quando il duca Rinaldo I, un anno prima della morte, acconsentì alle petizioni degli ecclesiastici e comandò che venisse istituito un ghetto anche a Finale. L’iniziativa di segregare gli ebrei nello spazio urbano fu promossa dal Padre Maestro Reggente Gioseffo Sivieri, un minore conventuale[77]. Il 19 giugno di quell’anno il governatore Niccolò Lucchesini consegnò un disegno inoltratogli dal podestà corredato da indicazioni su come approntare un “recinto per gli ebrei” spiegando che «faccio per ora tenere questo affare sotto sigillo di segretezza, fino a tanto che venga la Suprema approvazione dell’A.V, e quella venuta, si darà tosto di mano all’opera, senza dar luogo alle opposizioni degli stessi ebrei, che forse tenteranno riccorsi, che spero non saranno dall’A.V. ascoltati, trattandosi d’un regolamento tanto giusto che riguarda il servizio di Dio nel togliersi quelli scandali, che pur troppo fin ad ora sono stati sofferti»[78]. Nel commento allegato si faceva notare la possibilità di chiudere facilmente il ghetto a sud mediante il confine naturale del Panaro[79], mentre gli altri tre lati sarebbero stati recintati con semplici muri di separazione dalle dimore dei cristiani contigui alle case e alle contrade nelle quali viveva la maggioranza degli ebrei finalesi. «Tre porte vi sarebbero necessarie: due picciole per lo passaggio delle Persone, cioè una al Ponte di Piazza, e l’altra alla Torre distinte colle lettere C.C., ed una più grande segnata B. per uso de Carri». Nel disegno non figuravano le otto case di quegli ebrei che abitavano più distanti e che avrebbero dovuto trasferirsi nelle abitazioni cristiane ricadenti all’interno della zona destinata a divenire ghetto, scegliendo fra le 17 resesi disponibili, segnalate dalle lettere FF. «Benché sieno maggiori al doppio in numero pure molte di loro essendo assai più picciole pare, che altro non si faccia, che permutare i siti... Che se in parte riuscisse maggiore il sito acquistato dagli Ebrei potrebbe loro servire ad altri usi per Botteghe, e Magazeni... Comeché poi al presente gli Ebrei godono le Botteghe più comode, e belle nella Piazza, ed altri siti vantaggiosi, e sono in numero di dodeci, queste verebbero in quelle poste nel Recinto, ed ora occupate da Cristiani segnate colle lettere GG, e che sono quasi altretante?»[80]. Forse la spinta all’istituzione del ghetto a Finale si spiega con l’intenzione di concedere in godimento ai cristiani le botteghe situate nei punti più favorevoli al commercio, però il numero delle case possedute dagli ebrei nel recinto sarebbe stato maggiore rispetto agli anni precedenti. I più benestanti degli ebrei (Belgradi, Donati, Levi, Ventura, Vita, Castelfranco, Formigine) erano proprietari di queste dodici botteghe e commerciavano insieme agli altri cittadini quindi furono i più penalizzati dal cambiamento urbanistico. Peraltro alcuni di loro avevano acquistato case precedentemente di proprietà ecclesiastica cristiana «immuni da qualsivoglia imposta» mentre le dimore ebraiche al di fuori dell’area furono acquistate da privati cristiani, quindi soggette alle tasse «sicché per la Comunità il restringersi gli Ebrei nel Ghetto fu assai per molto più loro utile, che danno»[81]. Allarmati all’idea che a breve sarebbero stati rinchiusi nel ghetto, i massari della comunità ebraica finalese chiesero l’intervento della comunità maggiore di Modena con una lettera del 12 luglio 1736, raccontando che «in gran parte erano provvisti i materiali per la recinzione del ghetto e che le autorità pulsarci e non volerci cessavano tosto colle mani all’opera»[82]. Senza ascoltare le voci contrariate degli ebrei, il progetto fu avviato e il 3 agosto 1736 il priore della comunità del Finale Tommaso Bellezanti fu informato che l’iscrizione «da farsi sopra li Portoni del Ghetto, approvo la mandatami minuta nella sua prima parte, ma nella seconda che risguarda me non l’approvo, desiderando solamente che venga espresso esser stata fatta l’opera per comando preciso di S.A.S. essendo Governatore il medesimo»[83]. L’altare di san Rocco presente nell’omonima via sin dal 1630 e ricadente nel perimetro del ghetto fu trasferito.

In seguito venne fatta qualche concessione ai mercanti ebrei, come dimostra la cessione in affitto per tre anni, a partire dal 1738 in favore di Zaccaria Castelfranchi, di una bottega fuori del ghetto di proprietà del municipio del Finale, situata tra la chiesa nella piazza pubblica e il palazzo comunale[84]. I mercanti di biade ebrei erano ancora la grande maggioranza e nel 1755 supplicarono il duca affinché fosse concesso uno sgravio fiscale. Il commercio delle biade, prerogativa degli ebrei finalesi, fu continuato da Alessandro e Simone Formigine anche nel Settecento e Aronne Formigine, l’unico banchiere allora presente a Finale, chiese alle autorità di annullare un’improvvida grida che proibiva l’ammasso delle biade. Nella “Nota delle biade forestiere introdotte nella nobile terra del Finale” essi erano 9 su 15 mercanti elencati: Aaron Donati, Gioacchino e Mosè Ventura, Samuel Vita Castelfranchi, i fratelli Sanguineti, Mosè Formiggini, Samuel Belgradi e Zaccaria Massarani.

Più tardi, nel 1786, il duca Ercole III introdusse nello stato estense la numerazione civica e il nuovo sistema suddivise Finale e il suo comprensorio in zone delimitate; ogni zona fu contrassegnata da una lettera dell’alfabeto seguita da numeri progressivi iniziando dal palazzo comunale che si vedeva attribuita la sigla A1. Il ghetto, ultima zona ad essere numerata, fu contraddistinto dalla lettera R nonostante vantasse una ubicazione centrale[85].

Alla fine dei lavori di erezione, il ghetto comprendeva la strada della Scola (oggi via Morandi) e alcune vie laterali[86]. Si trattava di una zona abbastanza vasta, recintata da numerosi muri lungo via del Rosario (oggi via Andrea Costa), Torre Portello e i portici Bertazzoli[87]. Il fiume Panaro costituiva uno sbarramento naturale a sud per cui i punti d’accesso al ghetto erano tre, un portone e due porticelle[88]. Non c’è documentazione che attesti cosa fu effettivamente costruito rispetto al progetto, forse una recinzione fu posta all’entrata perché in un’antica fotografia appare una strada con un arco che sormontava il portone A del ghetto, oggi completamente trasformato e irriconoscibile rispetto a quanto descritto nei documenti.

Un documento del 1758, conservato nell’archivio della comunità ebraica di Modena, testimonia l’intenzione di ampliare la “scuola di Finale”[89] per ospitare tutti i membri maschi della comunità, nel frattempo divenuta la terza per estensione nell’intero territorio del ducato, dopo Modena e Reggio; nel 1767 gli ebrei finalesi erano 191 contro i 1.261 della capitale[90].

Un importante cambiamento nello status giuridico degli ebrei estensi fu rappresentato dal nuovo codice estense del 1771 che livellava tutti gli ebrei di qualsiasi provenienza, fossero ashkenaziti, sefarditi o italiani. Più importante è che nel codice si dichiarava che gli ebrei erano da considerare uguali agli altri cittadini estensi ma la concessione di «esercitare ogni sorta di traffico o arte» rimase una dichiarazione di principio non subito tradotta in realtà difatti i ghetti e il segno distintivo rimasero in vigore e ciò limitava la possibilità di lavorare in settori economici diversi da quelli cui gli ebrei erano abituati da secoli[91]. Un documento coevo prova che lo stato estense ormai vietava ufficialmente il battesimo imposto a un ebreo non ancora giunto alla maggiore età; chiunque «ardisca per effetto di malizia, o di soverchio zelo di religione, battezzare li Fanciulli ebrei non per anche giunti all’età legittima contro la volontà de’ loro Genitori»[92] era soggetto a una sanzione di 500 scudi d’oro e alla frusta, fune, berlina o galera «secondo che parerà al retto giudicio di chi avrà a giudicare». Ogni conversione al cristianesimo doveva essere spontanea e accettata consapevolmente, per evitare che vi si annidasse l’eresia. In contraddizione a questa norma, gli adepti potevano condurre con sé al fonte battesimale i propri figli anche se la loro madre rimanesse ebrea. Questa linea di condotta era avvalorata dal diritto ecclesiastico che si rifà in molti versi a quello romano, secondo il quale il figlio impubere seguiva la religione scelta dal pater familias, l’unico a poter decidere se imporgli la propria fede o un’altra. Così la Chiesa si relegava volontariamente in posizione secondaria, dinanzi al sacrosanto diritto di patria potestà affidato al genitore.

Come detto, la realtà era diversa e i casi concreti si assomigliavano: serve, balie o parenti cristiani, convinti di fare opera buona, battezzavano i bambini delle famiglie ebree e poi esponevano la situazione alle autorità ecclesiastiche. A Finale Il piccolo Aronne Formiggini venne rapito e battezzato nel 1748; fu concesso al padre di riprenderselo ma, in reazione, i loro vicini di casa cristiani protestarono con rabbia[93] perché, pur contraria alle cristianizzazioni forzate, la Chiesa teoricamente considerava il battesimo un sacramento apportatore di cambiamenti definitivi nell’anima della persona. Dell’antagonismo fra ecclesiastici e laici fece le spese un altro bambino ebreo di diciassette mesi, Leon Osimo, anche lui nativo del Finale[94]. La sera del 26 gennaio 1778 egli, pur essendo di tenera età, venne rinchiuso nel carcere locale. L’unico atto di pietà da parte del bargello fu il permesso dato alla madre Ester di entrare nella cella e allattare il suo bambino. Evidentemente le autorità non sapevano in quale altro luogo sistemare il piccolo in attesa di un chiarimento. La mattina seguente, il giovane padre Jacob Osimo inoltrò una supplica al duca Francesco III affinché venisse disposta la liberazione del bambino e la sua restituzione ai genitori. La vicenda non fu un abuso di potere ma rispecchiava la posizione della Chiesa nei riguardi di chi avesse ricevuto il battesimo contro la volontà dei genitori: l’atto era ritenuto illegale, come detto, ma una volta effettuato era irrevocabile. Leon era un bambino oblato, cioè offerto alla “fede salvatrice”. In seguito si chiarì il motivo della sottrazione del bambino alla sua famiglia: il nonno paterno Angelo Samuele, che da un anno si trovava nella Casa del catecumeno di Ferrara come neofita, aveva fatto battezzare il nipotino all’insaputa dei genitori. Egli sosteneva di essere il capofamiglia degli Osimo e di esercitare la patria potestà sul bambino perciò, su sua richiesta, la curia finalese ordinò di prelevare Leon. La soluzione fu rapida: grazie al celere intervento dei massari modenesi, si verificò la posizione anagrafica della famiglia Osimo, attraverso il “Boccatico del sale” che stabiliva le quote di spettanza del sale in relazione alla consistenza numerica del nucleo familiare. Il padre del bambino risultò essere lui il capofamiglia; inoltre alcuni testimoni cristiani deposero davanti al notaio giurando che il vecchio Angelo Samuele era sempre vissuto separato dal figlio Jacob e che quest’ultimo si manteneva con i proventi del proprio negozio. Inoltre la comunità ebraica di Modena, insorta in difesa delle ragioni del giovane padre di Finale, aveva fatto pressione sul duca, sapendo che egli non era insensibile alle voci di protesta dei suoi sudditi, per motivi di liberalità e di umanità. Già il 28 gennaio, meno di due giorni dopo, arrivò da Modena l’ordine di liberazione del bambino e di definitivo riaffido ai genitori. Il 9 marzo successivo, con una risolutiva sentenza «il Padron Serenissimo, ordina che si lascia in libertà il figlio del supplicante»[95]. Il ministro Delzio, estensore della relazione conclusiva presentata al duca a corredo dell’istanza di scarcerazione, ricordò che alcuni giureconsulti laici e canonisti della Chiesa avevano sancito che la patria potestà vantata dall’avo decadeva dinanzi alla posizione emancipata del figlio, sia di diritto che di fatto.

Nella comunità ebraica del Finale ebbe i natali nel 1794 Rubino Ventura, personaggio dalla vita singolare e avventurosa il cui nome era l’italianizzazione dell’ebraico Reuben; i genitori erano Gabriel e Vittoria Massarani. Il cognome della famiglia era l’abbreviazione dell’originario Bonaventura, tipico degli ebrei sefarditi, oppure la modifica di Ben Torah, “Figlio della Legge”[96]. All’età di 17 anni si arruolò nella milizia del regno d’Italia e con l’abdicazione di Napoleone ritornò a casa ma nel 1817, a causa di un litigio con un poliziotto ducale per via delle sue simpatie per le idee rivoluzionarie, fu costretto a lasciare il ducato estense. Visse a Istanbul con il nome di Jean-Baptiste per nascondere la sua origine ebraica e fu mediatore marittimo; poi si recò in Persia per svolgere l’incarico di ufficiale addestratore delle truppe dello scià secondo i metodi di guerra europei per far fronte alla superiorità militare russa. Alla morte del sovrano persiano, Ventura offrì i suoi servizi al successore ma egli era visto come francofilo quindi fu licenziato. Indi si stabilì a Lahore dove servì il maharajà del Punjab, sconfiggendo le forze nemiche dell’impero pashtun Durrani (Afghanistan) e allargando i confini del suo protettore. Neanche una moglie armena e una figlia fecero dimenticare al Ventura la sua terra natale e nel 1837 si fece mandare in missione diplomatica a Parigi e Londra per fermarsi nel ducato estense ma un perentorio ordine di rientro glielo impedì. Mentre era nel Punjab, Ventura effettuò numerosi scavi, scoprendo una serie di antiche monete greche prova della marcia di Alessandro Magno attraverso quelle remote aree. Sentendo avvicinarsi la vecchiaia, ritornò in Europa e si stabilì a Parigi, da dove occasionalmente visitava il suo paese natale. Probabilmente Ventura ricevette il battesimo verso la fine della sua vita perché, alla morte avvenuta vicino Tolosa nel 1858, fu sepolto in un cimitero cristiano[97].

Dal XIX secolo

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Nel 1799 la popolazione israelitica del Finale raggiunse le 201 unità[98] e nel 1840 erano 350[99] ma fu allora che il numero iniziò a diminuire e raggiungere i 162 nel 1854. Emigrazione, conversioni, matrimoni misti e perdita della fede religiosa in favore del laicismo erano le cause di questo sfaldamento. Uno di questi era il volontario nella centuria mobile finalese Rubino Donati (1829-1878) che combatté nelle guerre risorgimentali, figlio di Allegra, sorella di Rubino Ventura[100]. La storia di una torta dimostra che ancora nell’Ottocento c’erano alcuni ebrei pronti ad abbracciare il cristianesimo per risparmiarsi pregiudizi ed emarginazione sociale, pur se il nuovo stato italiano garantiva la libertà religiosa. Mandolino Rimini si battezzò nel 1861 con i nomi di Giuseppe, Maria e Alfonso, assumendo il cognome Alinovi. Gli israeliti di Finale non gli risparmiarono il loro disprezzo e Mandolino, per ricambiare il dispregio, alterò la ricetta della sfogliata di formaggio e farina tipica degli ebrei[101], aggiungendovi però lo strutto, non kasher come tutto ciò che proviene dal maiale. Il successo della torta fu enorme e ancora oggi è venduta, con il nome di “tibùia”, per le strade di Finale Emilia soprattutto d’inverno e nel giorno dei morti.

I delegati della comunità parteciparono al congresso di Ferrara del 1863 volto all’unificazione delle legislazioni comunitarie ebraico-italiane[102] ma nel 1864 fu diramato un accorato appello per sopperire alle lacune finanziarie che impedivano la stabile assunzione di un rabbino che sostituisse il defunto Isach Tedesco[103]. Un altro oratorio esisté dal 1871, composto da due vasti ambienti in cui i servizi religiosi venivano officiati secondo il rito italiano ma ormai gli ebrei finalesi più giovani, dopo l’avvenuta unità d’Italia, sceglievano altre città, Modena, Milano o Bologna. Pertanto nel 1878 fu tentato di istituire un’associazione privata al posto della comunità religiosa, per tenere uniti anche i laici; negli anni ‘20 la comunità fu annessa alla consorella di Modena e perse la sua autonomia[104]. Nel 1886 vennero realizzati lavori di deviazione del corso del fiume e di tombatura dei canali per ovviare al problema degli ambienti umidi e malsani delle abitazioni più prossime al corso fluviale[105]. Ciò ha contribuito a rendere diversa l’attuale conformazione urbanistica del centro storico e l’area del ghetto oggi è profondamente mutata rispetto al momento della sua creazione. Fino ad allora, il fiume irrompeva nelle campagne e nelle vie del Finale, i suoi straripamenti causavano carestie e disagi alla popolazione. La sinagoga fu in uso in maniera discontinua fino al 1932, quando venne definitivamente chiusa e inglobata in un’abitazione privata. Nel 1941, durante il secondo conflitto mondiale, a Finale Emilia c’erano dieci ebrei in tutto[106].

Oggi non c’è più traccia tangibile della presenza ebraica al Finale, se non per l’antico Horto degli Ebrei, nell’attuale vicolo Gozzi e via Ada Osima (dal nome di una farmacista ebrea finalese deportata nel 1944 ad Auschwitz e di cui si ignora quale destino l’avesse attesa). In esso si trova una genizah, luogo di sepoltura di libri sacri non più adatti all’uso, con rotoli della Torah interrati nel 1880 affinché si dissolvessero sottoterra assieme alle ossa dei fedeli[107]. All’area cimiteriale, provvista di casa del custode e camera mortuaria, si accede da un cancello sormontato da una stella a cinque punte in cui è circoscritta la parola shalom[108]. Al suo centro s’erge la tomba del benefattore Donato Donati che nel 1600 aveva ottenuto dal duca Cesare il permesso di comprare questo appezzamento e che vi venne seppellito nel 1632 dopo che il suo corpo era stato traslato da Modena dove era morto[109]. Le lapidi sono 57, le più antiche delle quali (complessivamente 22) recano un’iscrizione in ebraico e un’altra in aramaico e sono tutte rivolte verso sud-est, la direzione di Gerusalemme[110]. L’ultima sepoltura ebraica risale al 1963 e riguarda Anita Osima, sorella di Ada vittima della Shoah, mentre già l’anno precedente la comunità ebraica del Finale si poteva considerare estinta. Tre anni dopo vi fu sepolta, in un rettangolo di terreno cinto da un muretto, la modenese cristiana Cabiria Ferrari, sposata all’ebreo Prospero Rimini che desiderava esaudire il suo desiderio di rimanervi per l’eternità; nel 1985 si aggiunse suo nipote Michele Elia deceduto a pochi giorni d’età[111]. Dal 1987 l’associazione culturale R6J6, in accordo con la comunità ebraica di Modena a cui è demandata la custodia giuridica dei beni di quella estinta di Finale, ha avviato un progetto di riordino e pulizia dell’area sepolcrale con la collaborazione di Maria Pia Balboni e il contributo economico di Rita Levi Montalcini.

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[1] Frassoni 1778, p. 14. Cesare Frassoni (1700-1749) era un abate e archivista appassionato della storia del Finale ma nelle sue memorie storiche trattò pochissimo dei suoi concittadini israeliti.

[2] Milano 1963, p. 202.

[3] Balboni 2005, p. 9.

[4] Frassoni 1778, p. 87.

[5] Calimani 2014, p. 120.

[6] Balboni 2005, p. 20.

[7] Sacerdoti, Marach 2003, pp. 93-95.

[8] Balboni 2005, p. 12.

[9] Calimani 2014, p. 121.

[10] Balletti 1930, p. 70.

[11] ASMo ApM, Banchieri e Banchi Feneratizi, b. 2/B, fasc. senza numerazione.

[12] ASMo Ebrei, b. 14/A, fasc. 2, cc. 90-93; Masina 1993, p. 320.

[13] ASMo Ebrei, b. 13, fasc. “Memoriale delle Corporazioni ebraiche di Modena, Reggio, Finale, Scandiano”, c. 2.

[14] Masina 1988, p. 42.

[15] Masina 1988, p. 43.

[16] Balboni 2005, p. 24.

[17] Calimani 2014, p. 254.

[18] Balboni 2006, p. 278. A San Felice sul Panaro esisteva un piccolo insediamento ebraico documentato già prima del 1473 (Balboni 2005, p. 9).

[19] Balboni 1996, p. 69. Proprio questi cavalli furono al centro di un’interrogazione rivolta dal podestà del Finale al consigliere ducale, preoccupato dalla possibilità che essi fossero stati oggetto di contrabbando (Balboni, Perani, Creatura, Corazzol 2011, p. 48).

[20] Sacerdoti, Marach 2003, pp. 93-95. Il finalese Donato Donati si trasferì a Modena nel 1606 e nel 1621 chiese l’autorizzazione a commerciare nel ducato estense il “frumento saracino”, una varietà di grano diversa dal mais con cui si cucina la “polenta bigia” (Calimani 2014, p. 397).

[21] Balboni 1996, p. 39.

[22] Bonilauri, Maugeri 2002, p. 41.

[23] Balboni 1996, p. 18.

[24] Masina 1993, p. 324. Il verbo “sagattare”, corruzione italiana del verbo ebraico shaḥat, indica l’atto della macellazione specificamente ebraica.

[25] Masina 1988, p. 43.

[26] Masina 1988, p. 48.

[27] Masina 1988, pp. 48-51; Masina 1993, p. 324.

[28] Masina 1988, p. 26.

[29] Balboni 2005, pp. 37-38

[30] Calimani 2014, p. 253.

[31] Calimani 2014, p. 252.

[32] Calimani 2014, p. 251. Sempre nel 1629, lo zelante Alfonso III si sarebbe dimesso per farsi frate cappuccino col nome di fra’Giovanni Battista da Modena, lasciando le redini del ducato al figlio Francesco I. Fu predicatore e missionario e in occasione della peste del 1630-31 svolse con coraggio l’opera di conforto ai moribondi. Nell’ottobre 1632 ritornò a Modena ma le sue prediche contro i costumi della corte e contro gli ebrei, che tentava di convertire obbligandoli ad ascoltare i sermoni, irritarono i cittadini e la sua presenza venne ritenuta ingombrante e superflua; egli fu pertanto spedito in un convento a Castelnuovo di Garfagnana.

[33] Masina 1988, p. 92.

[34] Masina 1988, p. 31.

=== [35] Perani 1994, p. 295. [36] Perani 1994, pp. 301-302.

[37] Balboni, Perani, Creatura, Corazzol 2011, p. 6.

[38] Masina 1988, pp. 86-87.

[39] Calimani 2014, p. 256.

[40] Balboni 2005, p. 46.

[41] Calimani 2014, p. 256.

[42] Masina 1988, p. 127.

[43] Masina 1988, p. 110.

[44] ASMo Inquisizione, b. 111, fasc. 12; Balboni 2005, pp. 68-71. Due anni dopo, «a’ raffrenare gl’insulti», fu emanata una grida per chiedere a cristiani ed ebrei locali di rispettarsi e non offendersi reciprocamente (ASMo Ebrei, b. 14/A, fasc. 2, cc. 130-132).

[45] Masina 1993, p. 326.

[46] Calimani 2014, pp. 256-258.

[47] Masina 1988, pp. 60-61.

[48] Calimani 2014, p. 255.

[49] Masina 1988, p. 102.

[50] Masina 1988, p. 111.

[51] Calimani 2014, p. 256.

[52] ASMo Inquisizione, b. 249, fasc. 6 e 8.

[53] Perani 1994, pp. 313-314.

[54] Perani 1994, p. 314.

[55] Balboni 1996, p. 34.

[56] Masina 1988, pp. 120-121; Balboni 2005, pp. 66-68.

[57] Masina 1988, p. 123.

[58] Masina 1988, pp. 50-51.

[59] Balboni 2005, p. 23.

[60] Balboni 2005, p. 78, pp. 96-97, pp. 100-101. Il malumore degli altri ebrei e del governatore era motivato dal fatto che, divenuto cristiano, il banchiere non avrebbe potuto riscuotere l’usura del 16% dagli altri cristiani e nemmeno consegnare i pegni riscattati, essendo ciò formalmente vietato fra cristiani, determinando quindi un dissesto nell’economia locale dipendente dal finanziamento ebraico. Probabilmente il Saravalli divenne quel Giovan Battista Fontanella accusato 24 anni dopo di apostasia, ossia di esser tornato all’ebraismo una volta approdato a Spalato dove s’era aggregato alla locale comunità ebraica.

[61] Masina 1988, p. 54.

[62] Balboni 2005, p. 84.

[63] Calimani 2014, p. 260.

[64] Masina 1988, p. 101.

[65] Calimani 2014, pp. 259-260.

[66] Masina 1988, p. 113.

[67] Masina 1988, p. 108.

[68] Masina 1993, pp. 327-328; Balboni 2005, p. 99.

[69] Calimani 2014, p. 261.

[70] Balboni 2005, p. 44.

[71] Calimani 2014, p. 261.

[72] Balboni 2005, p. 205.

[73] Balboni 2005, p. 9.

[74] Balboni 1988, p. 64.

[75] ASMo Rettori dello Stato, Finale, b. 5778, lettera del 25 dicembre 1688.

[76] Masina 1993, p. 323.

[77] Frassoni 1778, p. 168.

[78] ASMo Ebrei, b. 15, lettera del 19 giugno 1736.

[79] Masina 1993, p. 319.

[80] ASMo Ebrei, ”Notizie concernenti il Progetto di chiudere gli Ebrei del Finale e servono di spiegazione al Disegno del Recinto ideato”.

[81] Bonilauri, Maugeri 2004, pp. 35-37.

[82] Bonilauri, Maugeri 2004, pp. 35-37.

[83] ASMo Ebrei, b. 15, lettera del 3 agosto 1736; Bonilauri, Maugeri 2004, pp. 35-37.

[84] ASCFE, b. 12, fasc. Affitti, anno 1740.

[85] Bonilauri, Maugeri 2004, pp. 35-37.

[86] Presso l’Archivio di Stato di Modena c’è un documento sul progetto per la realizzazione del ghetto, inviato al duca dal reggente Niccolò Lucchesini, in cui sono indicate le zone di recinzione e le abitazioni occupate da ebrei e da cristiani.

[87] Sacerdoti, Tedeschi Falco 1992, p. 84.

[88] Bondoni, Busi 1987, p. 30.

[89] Sacerdoti, Marach 2003, pp. 93-95.

[90] Masina 1988, p. 34.

[91] Milano 1963, p. 302. Il codice era un’imponente compilazione di norme statutarie e di gride, ordini, provvisioni e decreti del ducato di Modena promulgata il 26 aprile 1771 dal duca Francesco III con intenti di riforma e di semplificazione del materiale normativo esistente.

[92] ASMo Ebrei, b. 14/A, fasc. 2, c. 115.

[93] ACEMo b. 2.3 (flz. A, n. 26).

[94] Pederiali 1999, pp. 52-60.

[95] Perugia Crema 1980, pp. 247-267.

[96]

[97] Singer, Cassuto 1907, p. 417; Balboni 2019, pp. 13-188.

[98] Milano, Francesconi 2007, p. 21.

[99] Sacerdoti, Tedeschi Falco 1992, p. 85.

[100] Balboni 1996, p. 52.

[101] Pederiali 1999, pp. 61-63. Già nel Seicento gli ebrei avevano sviluppato un diverso modo di cucinare i cibi, «alla usanza Hebraica». La torta salata simile al burek turco forse era stata introdotta nel Finale dalla famiglia Belgradi oriunda dei Balcani (Balboni 1996, p. 38). La gastronomia ebraica emiliana, pur sempre regolata dalla kashrut, si è amalgamata con quella locale e vanta come specialità il salame d’oca, gli zuccherini di Pasqua, prosciutto e ciccioli cui s’aggiunge il grasso d’oca (le “chizze”, simili alla “tibùia”). Col tacchino si preparava un polpettone arricchito da uova e carne di vitello. Per il Pesaḥ e il Kippur si facevano tagliatelle con farina d’azzime e uova cucinate nel brodo. A Purim si mangiavano i cedrini, dolci fatti con una crema cotta di mandorle, zucchero e vaniglia spalmata su savoiardi bagnati di “alkermes”. Esistevano il riso giallo con piselli o fagioli, la crescentina simile al pane azzimo (la “chersintèina da ebré”), i cefali in umido, amaretti e dolci di noci, agresta cioè intingolo con acetosa, acida o uva acerba.

[102] Calimani 2015, p. 160.

[103] Balboni 1996, p. 8.

[104] Milano, Francesconi 2007, p. 21.

[105] Sacerdoti, Tedeschi Falco 1992, p. 84.

[106] Calimani 2015, p. 784.

[107] Balboni, Perani, Creatura, Corazzol 2011, pp. 136-137.

[108] Balboni 1996, p. 6.

[109] Balboni 2006, p. 281. La traduzione dell’epigrafe sul sepolcro di Donato Donati recita: «Egli ha fissato questo cimitero / come sepolcro / ottenuto col denaro che non ha / potuto portarsi nell’aldilà», riferentesi al fatto che egli aveva acquistato il luogo per sé e per i correligionari.

[110] Sacerdoti, Marach 2003, pp. 93-95.

[111] Balboni 1996, p. 39, p. 61. La donna morì a quasi 50 anni d’età per un tumore intestinale e Prospero Rimini, risposatosi nuovamente, venne seppellito a Modena nel 1994.