Utente:Mifelisa

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Le prime notizie storiche, risalgono al 174 a.C., anno in cui Asclepiade prescriveva degli esercizi per le malattie circolatorie. All’inizio del 1900, l’imperativo categorico per i cardiopatici era il riposo assoluto a letto; ma già nel 1914 Osler affermava, nel suo libro Principi e pratica della medicina, che “l’elemento più importante ai fini riabilitativi è l’esercizio fisico graduato, non in piano, ma in salita con diversi gradi di pendenza. La distanza percorsa ogni giorno è registrata e gradualmente incrementata. In tal modo il cuore è esercitato e rinforzato in maniera sistematica”. Nel 1940 Master e Dock avevano introdotto il concetto di riabilitazione dopo occlusione coronarica acuta. Nel 1944 Harrison richiamava l’attenzione sull’abuso del riposo assoluto a letto. Nel 1951 Levine e Lown raccomandavano una precoce mobilizzazione dopo infarto miocardio. Fino ad arrivare al 1957, anno di pubblicazione di un volume di White e colleghi intitolato Riabilitazione del cardiopatico, e l’anno 1961 dove Cain e colleghi descrivono i primi programmi d’attività fisica controllata, dopo infarto miocardio acuto. Lo sviluppo storico di una riabilitazione omnicomprensiva si deve alle iniziative del Council della Federazione Internazionale di Cardiologia e dell’Ufficio Europeo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che negli anni Settanta organizzò numerosi meetings nel corso dei quali si delinearono le raccomandazioni per la valutazione e la riabilitazione dei pazienti colpiti da infarto miocardio acuto. Risalgono a quel periodo la nascita dei primi centri in Italia e la costituzione del Gruppo Italiano di Valutazione Funzionale e Riabilitazione del cardiopatico. Sulla riabilitazione dei cardiopatici abbiamo rivolto alcune domande a Marialucia Simonetti, terapista della riabilitazione. Signora Simonetti, da quali considerazioni nascono le moderne terapie riabilitative dei cardiopatici? “Ogni anno nel nostro Paese circa 130.000 persone vengono colpite da infarto cardiaco: come dire una ogni sei minuti. Dall’infarto sono colpite non solo le persone anziane, ma anche i soggetti nel pieno della vita, attorno ai 50 anni e, non raramente, individui ancora giovani, tra i 30 e i 40 anni d’età. Le malattie delle coronarie (di cui l’infarto cardiaco è la forma più importante) sono le più frequenti cause di morte nella nostra popolazione, così come in molti altri Paesi del mondo, specialmente in quelli più agiati: si muore di più per queste malattie che per tutte le forme di tumore messe insieme, e otto volte di più che per gli incidenti stradali. In tal senso l’infarto può essere definito una malattia sociale, cioè un’affezione morbosa spiccatamente influenzata dall’ambiente in cui vive l’uomo e che causa permanentemente gravi danni alle condizioni sanitarie di una popolazione. Non tutti i Paesi sono colpiti in egual misura dalle malattie coronariche: tra gli industrializzati il primato, non certo invidiabile, è spettato per lungo tempo alla Finlandia (4000 decessi per milione di abitanti), seguita da Stati Uniti, Danimarca, Inghilterra e Australia. All’ultimo posto è presente il Giappone, con solo 360 morti all’anno per milione di abitanti. L’Italia si colloca nel mezzo della classifica con circa 80.000 morti totali. Nei Paesi in via di sviluppo si sta osservando un fenomeno nuovo: parallelamente a un miglioramento delle condizioni sociali ed economiche, a un mutamento di abitudini di vita, all’urbanizzazione e all’introduzione di modelli di vita “occidentali”, si assiste a un aumento delle malattie coronariche, prima quasi inesistenti. Questi fenomeni fanno pensare a una relazione tra modo di vivere e abitudini di una popolazione e la frequenza con cui si manifesta l’infarto. Nelle popolazioni che svolgono abitualmente un’intensa attività fisica la malattia coronarica è rara; viceversa è più frequente nei Paesi industrializzati in cui la sedentarietà predomina. In una stessa popolazione sono colpiti da infarto con maggior frequenza coloro che non svolgono attività fisica durante il lavoro o nel tempo libero. È provato oltre ogni dubbio che l’inattività fisica è correlata con il decadimento dell’organismo, le malattie e la morte; al contrario esistono scarse evidenze che essere in buona forma fisica o praticare attività sportiva apporti benefici particolari in termini di longevità: tuttavia l’esercizio risulta vantaggioso per lo stato di salute in generale e, se non garantisce una vita più longeva al singolo, ne migliora, però, la qualità e procrastina il deterioramento fisico dovuto all’invecchiamento. Il movimento può, quindi, essere inteso sia come mezzo di prevenzione sia in funzione di recupero del paziente colpito da malattia coronarica. È stato chiarito, infatti, che il riposo prolungato dopo un intervento, un infarto o altro, e la ripresa troppo a lungo differita dell’attività, ritenute per lungo tempo le sole misure capaci di ritardare le recidive e l’evoluzione verso condizioni irreversibili, sono invece fattori ulteriormente negativi. Numerosi dubbi erano legati al fatto che, nell’immaginario collettivo, ricorrono casi di morte improvvisa legata ad attività fisica; tuttavia numerosi studi ne dimostrano l’inesattezza”. Perché, dunque, è importante una terapia riabilitativa dei cardiopatici e in cosa consiste? “Proprio nell’ottica dei benefici apportati dall’esercizio fisico sull’attività cardiaca, sono stati improntati dei programmi di training fisico controllato, come nella riabilitazione post-infartuale, dove l’attività fisica è sempre controllata e confinata nell’ambito di una natura non agonistica. Per poter gestire un programma di riabilitazione di un paziente con patologia cardiaca, bisogna innanzitutto tener conto delle modificazioni che l’esercizio fisico apporta in un soggetto sano, cioè della fisiologia dell’esercizio, e di come le varie funzioni vengono integrate, ad esempio in allenamento, quando si eseguono esercizi aerobici e anaerobici. Durante il lavoro aerobico l’energia viene prodotta in presenza di ossigeno e la produzione di acido lattico è pressoché nulla. Nel lavoro anaerobico, al contrario, il “carburante” viene prodotto in assenza di ossigeno e la produzione di acido lattico come “prodotto di scarto” è notevole. Un programma di allenamento che include esercizi continui, o intervallati, al 50% (principianti) fino ad arrivare all’80% della massima potenza aerobica, per un periodo che varia dai 20 fino ai 40 minuti, per tre volte alla settimana, può effettivamente incrementare la massima gittata cardiaca (il volume di sangue espulso al minuto da un ventricolo, ossia il flusso ematico attraverso l’intera circolazione) del 15%, seppur con grandi variazioni nei diversi individui. Una persona non allenata, con una capacità di assumere ossigeno pari a 2,5 litri/minuto è in grado di allenarsi al 90% delle sue forze per un periodo massimo di 20 minuti; se dopo un periodo di allenamento ha alzato la sua potenza aerobica a 3,0 litri/minuto, sarà in grado di allenarsi per circa 90 minuti; naturalmente si tratta di tempi piuttosto teorici perché bisogna tener conto anche di un fattore limitante dato dalle riserve energetiche dell’individuo (specialmente di glicogeno). Se si dovesse calcolare la capacità ossidativa (cioè la possibilità di utilizzare l’ossigeno per produrre energia) di un muscolo scheletrico in un individuo sedentario in “unità”, la resistenza di un atleta sarebbe pari a 3 unità, mentre in una gamba ingessata l’attività potrebbe arrivare a un minimo di 0,7 unità”. Cosa indicano quindi questi dati che Lei ha ricordato? “Da questi dati possiamo concludere che con l’allenamento si crea una variazione nell’apparato muscolare di grande importanza per il metabolismo ossidativo: infatti l’aumento della vascolarizzazione capillare riduce la “distanza” tra il sangue e il nucleo della cellula; viene aumentata, quindi, la velocità di scambio tra le sostanze nutritive e quelle di rifiuto della stessa; inoltre con più capillari in un dato volume di tessuto, più sangue giungerà in quella zona in una data unità di tempo. Il primo vantaggio è quindi, uno scambio più completo di materiali nutritivi; inoltre il punto d’azione elettivo di alcuni enzimi LPL (lipasi-lipoproteici, cioè che intervengono nella scissione dei trigliceridi e delle proteine legate, ad esempio, al colesterolo o ai fosfolipidi) è la superficie interna dell’epitelio capillare; con un incremento dello stesso, più siti di legame per le LPL sono disponibili. Tutto ciò incrementa l’utilizzo degli acidi grassi liberi e quindi il consumo di particelle ricche di trigliceridi, favorendo l’aumento del colesterolo di ‘protezione’ HDL. Questo meccanismo spiega la presenza nel plasma, di individui allenati alla resistenza, di elevate concentrazioni di colesterolo HDL; l’attività fisica abituale dunque, diminuisce il rischio di malattie coronariche. Non tenendo in considerazione l’influenza della pressione sanguigna, dell’abitudine al fumo, del peso ideale, della storia familiare di morti premature, un uomo attivo avrà una vita più lunga di 1,25 anni rispetto a un qualsiasi uomo sedentario. Questi dati sono stati ottenuti da uno studio longitudinale su circa 17.000 uomini. Individui che bruciano 2.000 Kcal settimanalmente, camminando, salendo le scale e praticando uno sport, sono del 39% al di sotto del rischio medio di sviluppare malattie coronariche rispetto ad altri uomini meno attivi della stessa età”. Quali sono gli altri aspetti positivi dello sport? “L’attività fisica conferisce altri benefici alla salute: riduce l’incidenza o può essere di beneficio all’ipertensione, all’iperlipidemia, all’obesità, al diabete non insulino-dipendente, all’intolleranza ai carboidrati, all’infarto. Gli effetti di alcuni fattori possono essere limitati e poco significativi: la somma degli stessi ha invece un impatto positivo importante che influenza la salute, la malattia, la vita e la morte. Da quanto sopra esposto si può facilmente desumere quanto sia importante per la società sia il recupero del paziente portatore di patologie cardiache, regresse o in atto, sia forse in misura maggiore, la prevenzione svolta sui fattori di rischio: una persona che non abbia ancora sviluppato la malattia è un individuo che potrebbe rimanere sano a patto di creare per lo stesso un protocollo riabilitativo che possa divenire, col tempo, stile di vita”. Come si svolge in concreto la terapia riabilitativa? “Entrando nello specifico, bisogna innanzitutto ricordare che il paziente (cardioperato, by-passato, ecc.), terminato il periodo di allettamento, fruisce di un primo approccio con la riabilitazione all’interno della stessa struttura ospedaliera; dopodiché, di solito, viene indirizzato verso una struttura esterna (ne esistono in convenzione Asl e private). L’iter che viene seguito, e che dovrebbe essere identico ovunque, consta di varie fasi: • il paziente subisce un test da sforzo d’ingresso per poterne valutare le capacità; • a cominciare dal primo giorno di riabilitazione al paziente viene misurata la pressione due volte a seduta: prima dell’allenamento e al termine dello stesso; • il lavoro svolto è pari al 75-80% della soglia massima raggiunta durante il test da sforzo iniziale. La sessione di allenamento consta di due fasi: una si svolge sul tappeto e sulla bicicletta, l’altra a corpo libero con, eventualmente, l’ausilio di piccoli manubri; • il numero di sedute, di norma, non è inferiore a 20, con cadenza bi-trisettimanale; • test da sforzo di fine ciclo con valutazione dei miglioramenti; • dimissioni o eventuale rinnovo del ciclo; • in caso di dimissioni viene programmato un controllo a distanza di tempo. La riabilitazione cardiologia è ormai una realtà, e le strutture dove è possibile effettuarla sono oramai diverse (in Lombardia, per esempio, possiamo elencare la Fondazione don Gnocchi, il Pio Albergo Trivulzio e il Club Francesco Conti a Milano, un centro a Montescano e un altro ancora a Inveruno): tale presenza è segno che i risultati ottenuti sono incoraggianti e che il vero reinserimento nel tessuto sociale e lavorativo di questa fascia di pazienti non è più un’utopia”. Effetti dell’attività fisica abituale • Aumento dell’apporto massimo di ossigeno e della gittata cardiaca • Battito cardiaco ridotto ad un dato apporto di ossigeno • Pressione sanguigna ridotta • Efficienza del muscolo miocardio • Aumento della vascolarizzazione miocardica • Tendenza favorevole sull’incidenza della morbilità e mortalità cardiaca • Aumento della densità capillare nel muscolo scheletrico • Ridotta produzione di acido lattico • Aumento dell’abilità ad utilizzare acidi grassi liberi come substrati durante l’esercizio • Aumento della resistenza durante l’esercizio • Aumento del metabolismo dal punto di vista nutrizionale • Aumento della concentrazione dell’HDL nel sangue • Miglioramento della struttura e della funzione dei legamenti, tendini ed articolazioni • Miglioramento della forza muscolare • Aumento della produzione di endorfine • Prevenzione dell’osteoporosi • Possibile normalizzazione della tolleranza al glucosio Che cos’è la riabilitazione cardiaca La riabilitazione cardiaca è definita come la “somma d’interventi richiesti per garantire le migliori condizioni fisiche, psicologiche e sociali in modo che i pazienti con cardiopatia cronica o post-acuta possano, con i propri mezzi, conservare o riprendere il proprio posto nella società”. Essa integra una serie d’interventi mirati alla stratificazione del rischio, alla modificazione dei fattori di rischio e al mantenimento di un adeguato stile di vita per limitare la progressione della malattia. Si sviluppa secondo cinque aree fondamentali d’intervento: 1. Assistenza clinica, valutazione del rischio e corretta impostazione terapeutica. 2. Training fisico controllato e prescrizione di programmi d’attività fisica di mantenimento. 3. Educazione sanitaria specifica rivolta alla correzione dei fattori di rischio. 4. Valutazione psicosociale ed occupazionale con interventi specifici. 5. Follow-up clinico-strumentale individuale e supporto per il mantenimento di un adeguato stile di vita. I candidati alla riabilitazione cardiaca sono: • pazienti affetti da cardiopatia ischemica (pazienti con precedente infarto miocardio acuto; pazienti con by-pass aortocoronarico; pazienti portatori di angioplastica coronarica; pazienti con cardiopatia ischemica stabile); • pazienti sottoposti a trapianto di cuore e polmone; • pazienti sottoposti a interventi di chirurgia valvolare; • pazienti con scompenso cardiaco; • pazienti con cardiopatie valvolari e congenite; • pazienti con arteriopatia cronica obliterante periferica. Il personale impegnato nella riabilitazione cardiaca è composto da cardiologi, terapisti della riabilitazione, infermieri professionali, dietisti, psicologi, medici del lavoro, assistenti sociali.