Discussione:Battaglia di Punta Stilo/Testo attribuito a "Francesco Mattesini"

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LA BATTAGLIA DI PUNTA STILO - Francesco Mattesini


I compiti assegnati alla flotta italiana dallo Stato Maggiore della Regia Marina prevedevano, in caso di guerra con le potenze di Gran Bretagna e Francia coalizzate, di attenersi nel Mare Mediterraneo al seguente concetto operativo:

“Guerra di logoramento con atteggiamento difensivo ad occidente e ad oriente, ed atteggiamento offensivo e controffensivo al centro”.

Inutilmente il Capo del Governo italiano, Benito Mussolini, tentò di ribaltare questa mentalità d'impiego, che riduceva drasticamente le possibilità d'intervento della flotta italiana alla sola difesa delle coste metropolitane. Informando il 31 marzo 1940 i capi delle Forze Armate della sua decisione di entrare in guerra al fianco della Germania, il Duce, infatti, con il Promemoria Segretissimo n.328, stabilì per la Regia Marina il seguente concetto operativo: “Mare: offensiva su tutta la linea in Mediterraneo e fuori”.

Nel commentare le direttive di Mussolini ai capi di Stato Maggiore dell’Esercito, della Marina e dell’Aeronautica, il Maresciallo d'Italia Pietro Badoglio, Capo dello Stato Maggiore Generale (Comando Supremo), nella seduta del 9 aprile affermò quanto segue: “Circa l'azione a fondo della Marina io dico che bisogna interpretarla nel senso di non gettarsi a testa bassa contro la flotta inglese e francese ma di assumere una dislocazione, soprattutto con i sommergibili, atta ad intralciare il traffico degli avversari”.

Il Capo di Stato Maggiore della Marina, ammiraglio di armata Domenico Cavagnari, condivise in pieno le idee strategiche di Badoglio. Con il suo famoso, ma particolarmente cauto, promemoria del 14 aprile egli fece notare al Duce che la possibilità di fronteggiare la coalizione delle flotte anglo-francesi era resa difficile dall'inferiorità dei mezzi delle forze navali italiane, e aggravata da una sfavorevole situazione geografica. L’ammiraglio Cavagnari espose a Mussolini un quadro demoralizzante, affermando l'impossibilità di «realizzare una condotta di guerra decisamente offensiva» con la flotta di superficie. Aggiunse che le operazioni dei sommergibili sarebbero state infruttuose per la mancanza di traffico nemico nel Mediterraneo, e la guerra delle mine resa inefficace per inadeguatezza dei fondali.

Sostenendo che tali condizioni avrebbero costretto la Marina a combattere “sulla difensiva”, Cavagnari concluse il suo sconsolante promemoria sostenendo: “Qualunque sia il carattere, che la guerra potrà assumere in Mediterraneo, ingente sarà, alla fine, il bilancio delle nostre perdite navali. Alle trattative di pace l'Italia potrebbe giungere non soltanto senza pegni territoriali, ma anche senza flotta e forse senza Aeronautica”.

Questa prudente presa di posizione del Capo della Marina portò alla conservazione del concetto strategico della difensiva nei bacini occidentale e orientale del Mediterraneo, per «avere in mano il Canale di Sicilia», come ricordò Cavagnari nella riunione dei capi di Stato Maggiore del 30 maggio 1940, presieduta dal maresciallo Badoglio. Il 10 giugno, dal balcone romano di Palazzo Venezia, il Duce mise al corrente la Nazione della dichiarazione di guerra consegnata agli Ambasciatori del Regno Unito e della Francia. Quindi, a partire dalla mezzanotte dell’11, ebbero inizio le ostilità. Per tutto il mese di giugno, mentre le flotte anglo-francesi effettuavano alcune scorrerie sulla coste della Cirenaica, e bombardavano Genova con gli incrociatori pesanti di base a Tolone (, la Marina italiana limitò la sua attività a realizzare, con divisioni di incrociatori e flottiglie di cacciatorpediniere, alcune crociere di carattere difensivo nei settori meridionali, tra la Sardegna e lo Ionio. Tuttavia, anche da parte della Royal Navy l'attività fu alquanto limitata, non essendo stata prevista alcuna azione offensiva contro le comunicazioni marittime italiane colla Libia e gli obiettivi navali nel bacino centrale, mancando la Flotta del Mediterraneo (Mediterranean Fleet), comandata dell’ammiraglio Andrew Browne Cunningham e concentrata nel porto di Alessandria, di sufficienti forze leggere di superficie. La Regia Marina era allora considerata dagli esperti britannici come la più preparata ed efficiente tra le Forze Armate italiane, e costituiva un'incognita per l’Ammiragliato, a Londra, anche perché era appoggiata da oltre centoquindici sommergibili e da una potente aviazione di oltre 3.000 aerei di prima linea, in cui impressionava l’elevato numero di bombardieri in quota: S. 79, Br. 20, Cant. Z. 1007 bis.

Apparve però ben presto evidente che la minaccia costituita dagli aerei e dai sommergibili italiani era stata sopravvalutata. I primi, mancando l’Aeronautica di bombardieri in picchiata, non apparivano pericolosi nei loro attacchi ad alta quota, e i secondi erano poco efficaci, essendo stati addestrati gli equipaggi secondo i concetti operativi della prima guerra mondiale. Ciò rese più ardito l'ammiraglio Cunningham, che all'inizio della seconda settimana di luglio salpò da Alessandria con il grosso della Mediterranean Fleet, comprendente tre navi da battaglia, una nave portaerei, cinque incrociatori e diciassette cacciatorpediniere, spingendosi in pieno Mediterraneo centrale per prelevare e scortare in Egitto sette piroscafi, ripartiti in due convogli, che trasportavano civili britannici evacuati da Malta. Il caso volle che il movimento navale britannico, denominato operazione “MA.5”, coincidesse con un'importante operazione italiana, organizzata per scortare un grosso convoglio di cinque motonavi, trasportanti settantadue carri armati medi M. 11 e altri materiali bellici, da trasferire in Libia per rinforzarvi le grandi unità dell’Esercito dislocate in quella regione del Nord Africa al comando del maresciallo dell’aria Italo Balbo.

In una riunione del 2 luglio, in cui da parte italiana furono esaminati dettagliatamente i problemi militari connessi alla resa della Francia e alla favorevole situazione venuta a crearsi nel Mediterraneo occidentale e centrale, il maresciallo Badoglio sostenne che i carri armati da inviare oltremare servivano per «passare dalla difesa all'offesa», avanzando in Egitto, con l’obiettivo primario di conquistare il Canale di Suez. Pertanto il Capo del Comando Supremo ordinò a Cavagnari: “La Marina mi scorti il convoglio con tutte le unità della flotta. Se gli inglesi vorranno contrastare il viaggio, saremo ben lieti di poterli affrontare, giacché ho perfetta fiducia che in caso di scontro gliele molliamo. Lo Stato Maggiore della Marina studi la cosa con la massima cura: si deve andare là da padroni”. Badoglio concluse il suo ottimistico intervento, in cui sottovalutava le possibilità di reazione della flotta britannica, chiedendo al capo di Stato Maggiore dell'aeronautica, generale di squadra aerea Francesco Pricolo, di dare con l'aviazione tutto l'aiuto possibile all’operazione navale. Il convoglio, costituito dalle moderne e veloci motonavi “Esperia”, “Calitea”, “Vector Pisani”; “Marco Foscarini”, e “Francesco Barbaro”, stava per mettersi in moto da Napoli, quando la 5a Sezione crittografica del Servizio Informazioni Estere della Regia Marina (Maristat) decifrò parzialmente un messaggio della Mediterranean Fleet, nel quale era riportato l'organico delle forze navali che dovevano mettersi in movimento da Alessandria per svolgere un’imprecisata operazione denominata in codice “MA.5”. Il contenuto della decrittazione, trasmesso alle ore 19,20 del 6 luglio al Comando Supremo e a Superaereo con dispaccio n. 373, era il seguente:“Forze di Alessandria risulterebbero pronte per eseguire l'azione ((MA.5" suddivise come segue: Forza A = incrociatore CALEDON (?) - Forza B = nave . battaglia WARSPITE, cacciatorpediniere NUBIAN, MOHAWK, HERO, HEREWARD - Forza C = navi battaglia ROYAL SOVEREIGN, MALAY A, nave portaerei EAGLE, cacciatorpediniere HYPERION (un gruppo indecifrabile), squadriglia cacciatorpediniere DAINTY, JUNO - Forza D = cacciatorpediniere STUART, VAMPIRE, VOYAGER, DECOY”. In realtà la ripartizione organica della Mediterranean Fleet, che si mise in movimento da Alessandria alla mezzanotte del giorno 7, era alquanto differente, a cominciare dalla ripartizione dei gruppi che, nella navigazione verso Malta, erano praticamente tre, denominati Forza A, B e C. Di essi il primo includeva gli incrociatori della 7' Divisione Orion, Neptune, Sydney, Gloucester e Liverpool e il cacciatorpediniere australiano Stuart; il secondo disponeva della corazzata Warspite (nave di bandiera dell’ammiraglia Cunningham) con i cacciatorpediniere Nubian, Mohawk, Hero, Hereward e Decoy; il terzo gruppo, infine, quello che appariva il più potente, includeva le corazzate Royal Sovereign e Malaya, la portaerei Eagle e i cacciatorpediniere Hyperion, Hostile, Hasty, Ilex, Imperial, Dainty, Defender, Juno, Vampire e Voyager. Come si vede le lacune di decrittazione italiane furono molteplici, perché, rispetto all'organico reale della Flotta del Mediterraneo (Mediterranean Fleet), la Forza A non disponeva dell'incrociatore Caledon, ma ne aveva altri cinque e un cacciatorpediniere; la Forza B mancava del cacciatorpediniere Decoy, assegnato alla Forza C, nella quale non erano stati rilevati i cacciatorpediniere Hostyle, Hasty, Ilex, Imperial e Defender, oltre allo Stuart assegnato alla Forza A. Pertanto, l'ordine operativo desunto dalla 5a Sezione Crittografica Informazioni Estere di Supermarina alterava considerevolmente la consistenza dei gruppi navali britannici, risultati precisi soltanto nella ripartizione delle tre corazzate e dell'unica portaerei. Come se ciò non bastasse un altro messaggio, fatto pervenire a Superaereo dalla “Fonte Intercettazione Marina” alle ore 23.00 del 7 luglio, riportava che il Comandante della Mediterranean Fleet aveva trasmesso che la partenza delle navi per l'operazione “MA.5” era rinviata “alle 15 ...”, mentre in realtà essa si svolse alla mezzanotte.

Nel pomeriggio del giorno 8 furono decrittate parti di altri messaggi tattici britannici, di minore importanza operativa e di più facile interpretazione, dai quali a Roma fu appresa la presenza in mare, in zone del resto non sufficientemente identificate dello Ionio, dei sommergibili Rorqual e Phoenix, e l'attività di alcuni aerei da ricognizione [Sunderland] dislocati a Malta, impegnati in crociere sistematiche che interessavano anche la costa sud-orientale della Sicilia. Sulla base di queste incomplete decrittazioni, e dai dati forniti durante la giornata dell'8 luglio dai velivoli italiani dell’Aeronautica dell'Egeo e della Libia (5a Squadra Aerea), che svolsero numerose missioni di ricognizioni ed attacchi con bombardieri “S. 81” e “S. 79”, Supermarina giunse alla supposizione che la formazione britannica comprendesse quattro navi da battaglia, invece delle tre effettive, e che tra i suoi probabili obiettivi potessero rientrare azioni aeronavali contro le coste della Puglia e della Sicilia. Dalla relazione dell’ammiraglio Cunningham sappiamo infatti che “la flotta avrebbe dovuto portarsi in una posizione di copertura ad est di Capo Passero nel pomeriggio del 9 luglio”, e che da parte delle navi britanniche vi era anche l'intenzione “di svolgere operazioni contro le coste siciliane”. Tale supposizione si rafforzò nel pomeriggio dell'8 luglio, quando il Servizio Crittografico della Marina germanica (B-Dienst), che si manteneva in stretto contatto con quello di Maristat, fornendogli in ogni occasione preziose notizie ricavate dai suoi abilissimi analisti in crittografia, fece pervenire a Roma, alle ore 15,40, il seguente messaggio:

“Le unità che in Mediterraneo Orientale formano i gruppi da battaglia da A fino a D hanno ricevuto incarico dal Comandante in Capo del Mediterraneo per la operazione MA.5, si portino sino a 75 miglia a ovest della Sicilia [poi corretto in est, N.d.A.]. Per l'impresa saranno indicati i giorni dal 1° al 4°. I Gruppi da battaglia B e C (il C ha lasciato Alessandria il 7/7) devono trovarsi il giorno 9 alle 06,00 in 35.40 N 20.30 E. Alle ore 14,00 dello stesso giorno i gruppi A e B devono trovarsi in 36.30 N 17.40 E et alle ore 18,00 trovarsi come segue:

-Gruppo A in 37.20 N 16.45 E - Gruppo B in 37.00 N 17.00 E - Gruppo C in 36.20 N 17.00 E

Il giorno 10 è probabilmente il 7/7 (partenza del gruppo da battaglia da Alessandria) Idrovolanti partiranno da Malta ad intervalli di 50 minuti”.

Nel frattempo l’ammiraglio Inigo Campioni, Comandante della 1a Squadra Navale e Comandante Superiore in mare della flotta italiana, aveva accompagnato il convoglio delle cinque motonavi Esperia, Calitea, Pisani, Foscarini e Barbaro, diretto a Bengasi, con un complesso navale che comprendeva le due corazzate della 5a Divisione Navale Giulio Cesare e Conte di Cavour, sei incrociatori pesanti della 1a e 3a Divisione Navale (Pola, Zara, Gorizia, Fiume – Trento e Bolzano), dieci incrociatori leggeri della 2a, 4a, 7a e 8a Divisione Navale (Bande Nere, Colleoni – Da Barbiano, Cadorna, Di Giussano, Diaz – Eugenio di Savoia, Montecuccoli, Aosta, Attendolo – Garibaldi, Abruzzi), trentasei cacciatorpediniere e sei torpediniere.

Nel pomeriggio dell'8 luglio, quando il convoglio era ormai prossimo a Bengasi, il grosso della flotta, meno le unità di scorta diretta (incrociatori Bande Nere e Colleoni, quattro cacciatorpediniere e le sei torpediniere) aveva assunto la rotta del rientro alle basi, l’ammiraglio Campioni fu informato che la ricognizione aerea italiana aveva avvistato a sud-est di Creta un complesso di tre corazzate e otto cacciatorpediniere diretto a occidente. Il Comandante Superiore in mare, ritenendo che la Mediterranean Fleet potesse “giungere in tempo per colpire il convoglio in porto a Bengasi all’alba del giorno successivo” decise pertanto di andarle incontro, per affrontarla in combattimento a nord delle coste della Cirenaica, informandone Roma. Tale lodevole iniziativa, che avrebbe dovuto portare al combattimento prima del tramonto del sole, fu però impedita da Supermarina, il quale supponendo, sulle informazioni ricevute da Berlino, che i britannici intendesse attaccare la Sicilia, con tele cifrato delle17.25 dell’8 ordinò a Campioni, categoricamente: “Non impegnatevi con gruppo corazzato nemico. Seguono istruzioni per la notte e per domani.”. E ciò, come riferì al Comando Supremo e a Superaereo l'ammiraglio Cavagnari, anche “in considerazione della rilevante distanza in cui si sarebbe verificato il combattimento navale e per le sfavorevoli condizioni di luce per la nostra flotta”. Supermarina, infatti, considerò che uno scontro con la Mediterranean Fleet sarebbe stato reso possibile soltanto a condizione di trovarsi in una posizione favorevole, che consentisse alle proprie forze navali la possibilità di impegnare separatamente i nuclei avversari, lasciando nel contempo alla flotta italiana un margine di manovra per eventualmente permetterle, in condizioni risultanti sfavorevoli, di ritirarsi sia verso la base di Taranto che verso quella di Messina. Pertanto, tenendo in considerazione l'errata ipotesi che la Mediterranean Fleet avrebbe dovuto trovarsi alle 14,00 del 9 luglio a un centinaio di miglia a levante di Malta, con rotta nord-ovest, per realizzare un attacco di aerosiluranti contro le basi di Augusta e Messina, Supermarina decise di concentrare la flotta a levante del Golfo di Squillace. La posizione scelta, al largo delle coste della Calabria, era però tanto precauzionalmente distante da quella stimata della flotta inglese, da non poterne assolutamente disturbare un'eventuale incursione diretta contro gli obiettivi della Sicilia. Supermarina, infatti, alle 20,00 informò Superaereo sulle presunte posizioni in cui si sarebbero dovute trovare l'indomani le forze navali britanniche, facendo nel contempo sapere che la squadra navale italiana avrebbe incrociato all'incirca nel punto di lat. 37°40'N, long. 17°20'E, che corrispondeva a 65 miglia a sud-est di Punta Stilo e a una distanza di ben 85 miglia a nord della posizione in cui si riteneva si sarebbero trovate le navi della flotta britannica. Fu inoltre comunicato che cinque sommergibili (Brin, Pisani, Sciesa, Settimo, Settembrini), salpati la sera dell'8 luglio dal porto di Augusta, si sarebbero trovati in agguato lungo le probabili direttrici di marcia della flotta inglese, mentre alcune torpediniere avrebbero vigilato all'entrata del Golfo di Taranto. Dopo aver esposto quanto sopra, Supermarina prospettò a Superaereo di concentrare “tutte le forze da bombardamento disponibili in Sicilia e nelle Puglie ... contro i reparti navali nemici”; (Nota **) richiese la vigilanza degli aerei da caccia per contrastare l'eventualità che il nemico attaccasse con aerosiluranti “le basi navali di Augusta, Messina e Taranto”; e riferì che a partire dall'alba del 9 i reparti della Ricognizione Marittima avrebbero cercato di “localizzare il nemico e di seguirne i movimenti”. In definitiva, Supermarina si limitò a richiedere alla Regia Aeronautica l'intervento in massa dei reparti da bombardamento contro la Mediterranean Fleet, senza fare alcun riferimento alla sua effettiva volontà di affrontare il combattimento navale con il nemico, la cui superiorità potenziale era stata d'altronde chiaramente sopravvalutata. Infatti, esistendo la possibilità che fossero presenti ben quattro corazzate britanniche, era categoricamente da escludere, per Supermarina, la possibilità di impegnare le due navi da battaglia dell’ammiraglio Campioni, che erano inferiori anche nel calibro delle artiglierie, dal momento che i loro cannoni da 320 mm dovevano fronteggiare i 381 mm delle corrispettive unità nemiche. Gli italiani possedevano invece una netta superiorità nel numero degli incrociatori, potendo schierarne quattordici, sei dei quali pesanti, contro i cinque leggeri in possesso degli inglesi.

L'ammiraglio Iachino, che nel dicembre del 1940 sostituì l’ammiraglio Campioni nel comando della flotta, ha sostenuto nel suo libro “Tramonto di una grande Marina” che Supermarina avrebbe potuto impiegare le nuovissime corazzate Littorio e Vittorio Veneto al momento in stato di addestramento a Taranto, dando con ciò alla flotta italiana un indiscutibile vantaggio. Egli affermò che l'intervento di quelle navi della 9a Divisione Navale era stato sollecitato dal loro stesso comandante, ammiraglio Carlo Bergamini, ritenendole pienamente efficienti ad affrontare un combattimento. Quanto affermato da Iachino in «Tramonto di una Grande Marina» è inesatto, dal momento che il 7 luglio, il giorno avanti la decisione di concentrare la Squadra Navale dell' ammiraglio Campioni presso le coste meridionali della Calabria, si era verificato un incidente a bordo della Littorio. Sulla corazzata, già soggetta per un nubifragio, avvenuto il 5 luglio a Taranto, ad infiltrazioni d’acqua all’interno di una torre di grosso calibro, messa temporaneamente fuori servizio, il successivo giorno 7 era scoppiato un incendio nelle condutture elettriche della torre n. 1 dei cannoni da 381 mm, che causò la morte di un operaio civile e danni ai locali da richiedere per la Littorio un mese di lavori. Era inoltre da considerare che anche la Vittorio Veneto aveva limitata efficienza a causa di ritardi nella messa a punto delle artiglierie di grosso calibro, soprattutto riguardo ai calcatoi, a cui si aggiungevano (per entrambe le corazzate) lacune di addestramento; ragion per cui, anche se la sola Vittorio Venero fosse stata inviata a raggiungere la flotta dell’ammiraglio Campioni, da parte di Supermarina non vi sarebbe stata ugualmente la certezza di disporre di accertata superiorità per riuscire ad affrontare in condizioni vantaggiose la flotta britannica. Le cause dei ritardi nella messa a punto delle artiglierie principali sulle due grandi navi da battaglia, e le infiltrazioni d’acqua verificatisi all’interno della torre della Littorio per il nubifragio, era stati portata alla conoscenza di Supermarina dallo stesso ammiraglio Bergamini con lettera n. 573/S del 5 luglio 1940. E’ quindi da ritenere errato quanto scritto dall’ammiraglio Iachino, perché l’ammiraglio Bergamini, a soli tre giorni di distanza dalla diramazione della sua lettera a Supermarina, non poteva sollecitare l’uscita da Taranto di quelle due navi per sostenere l’urto delle più vecchie, ma al momento ben più efficienti corazzate della Mediterranean Fleet.; tanto più che la Littorio, lo ricordiamo, aveva in quel momento ben due delle tre torri di tiro da 381 mm inutilizzate, una per le infiltrazioni d’acqua e l’altra per l’incendio. A rendere ancor più precaria la eventuale uscita della Littorio e della Vittorio Veneto si aggiungeva la indisponibilità di unità di scorta, dal momento che tutti i cacciatorpediniere di Taranto e dei porti della Puglia si trovavano in mare con le due Squadre navali, e la distanza che le due corazzate avrebbero dovuto percorrere per raggiungere le coste meridionali della Calabria, dove si trovavano le navi dell’ammiraglio Campioni, era di circa 100 miglia. In definitiva, l’affermazione, ritenuta valida da molti storici disinformati, che l’ammiraglio Bergamini avesse telefonato da Taranto a Supermarina, per chiedere di autorizzarlo a salpare per impegnare le sue navi in combattimento, è stato sostenuto pubblicamente soltanto dall’ammiraglio Iachino, e non trova alcun riscontro nei documenti degli archivi storici militari italiani. Per saperne di più vedi i libri di Francesco Mattesini, editi dall’Ufficio Storico della Marina Militare, “Le direttive di Supermarina”, 1939 – 1940, Primo Tomo, Doc. 139, p. 143, e “La battaglia di Capo Teulada”, Doc. 1, p. 231-232. Che i capi della Regia Marina non desiderassero un combattimento navale, ma soltanto limitarsi a sorvegliare il nemico secondo la teoria della «Fleet in being» (Flotta in potenza), ed eventualmente sfruttare i vantaggi derivati dagli attacchi in massa dell’Aeronautica, appare evidente analizzando le istruzioni diramate il mattino del 9 all'ammiraglio Campioni. Il Comandante Superiore in mare, dopo aver ricevuto nella notte l'informazione che una delle quattro presunte corazzate britanniche faceva parte di un gruppo navale d'avanguardia, distanziato alquanto dal nucleo principale della Mediterranean Fleet, ricevette con il telecifrato di Supermarina n. 20613 i seguenti tassativi ordini:

«Vostra azione odierna sia ispirata seguenti concetti (alt) Primo non ripeto non allontanarsi dalle nostre basi aero-navali scopo permettere preventive aut contemporanee azioni aeree contro nemico (alt) Secondo impegnarsi possibilmente contro gruppi corazzati quando sono ancora separati secondo nota previsione (alt) Terzo ritardare contatto balistico scopo consentire menomazione forze nemiche per bombardamento aereo (alt) Quarto al tramonto dirigere con navi maggiori verso basi senza vincoli normali dislocazioni (alt) Quinto se condizioni favorevoli impiegare notte tempo naviglio silurante (alt) 123009».

Dal momento che la flotta italiana aveva ricevuto l'ordine di incrociare a sud-est di Punta Stilo, con rotta di pendolamento tra la costa calabra e la zona di agguato dei sommergibili dislocati a sud del Golfo di Squillace, e il nemico per attaccare la Sicilia si sarebbe trovato molto più a sud-ovest, era palese che, sulla base di tali direttive di carattere restrittivo e condizionanti per lo spirito d'iniziativa dell’ammiraglio Campioni, le navi italiane sarebbero arrivate a contatto con quelle britanniche soltanto se queste ultime avessero cambiato rotta, dirigendo a nord. Quello che Supermarina non sapeva era che l'ammiraglio Cunningham stava proprio effettuando quella inaspettata manovra. Durante la giornata dell'8 luglio la Mediterranean Fleet, in rotta per Malta, fu attaccata a più riprese da settanta due bombardieri italiani di base in Libia e in Egeo, che conseguirono, con gli “S. 79” del 10° Stormo della 5a Squadra Aerea, il solo risultato di colpire con una bomba l'incrociatore Gloucester, danneggiandogli il timone e distruggendogli la stazione principale della direzione del tiro. Questo fatto costrinse il Gloucester a manovrare con il timone a mano e ad effettuare il controllo del tiro con l’impianto di riserva. Alle 07,32 dell’indomani 9 luglio, trovandosi a 60 miglia dalle coste greche di Navarrino, a occidente della Morea, il comandante in Capo britannico fu informato da un ricognitore «Sunderland» della presenza delle navi italiane a 50 miglia a levante di Capo Spartivento. Sebbene tale posizione fosse distante 145 miglia ad ovest rispetto a quella in cui si trovava la sua squadra, Cunningham, attenendosi al concetto vigente nella Royal Navy di sfruttare qualsiasi occasione potesse presentarsi per imporre la battaglia navale, abbandonò la rotta per Malta e alla velocità di venti nodi diresse per portarsi a nord delle forze italiane, nel tentativo di tagliare loro la rotta per Taranto. Mentre i ricognitori decollati dalla portaerei Eagle riuscivano a localizzare la flotta nemica a 50 miglia a levante di Capo Spartivento, agevolando considerevolmente la manovra di Cunningham, le predisposte esplorazioni della Ricognizione Marittima italiana non dettero segnalazioni sulla flotta inglese per l'intera mattinata. Per quel giorno 9, allo scopo di preservare i consistenti reparti da bombardamento concentrati in Sicilia e nelle Puglie per l’attacco alle corazzate nemiche, a cui era previsto dovessero partecipare circa 150 velivoli, Supermarina si era riservata l'incarico di effettuare le ricognizioni, con i suoi idrovolanti “Cant. Z. 501” e “Cant. Z 506”. Ritenendo che la Mediterranean Fleet avrebbe continuato a dirigere con rotta ovest, i settori di ricerca dei velivoli delle squadriglie dell’83° Gruppo Ricognizione Marittima di base ad Augusta riguardarono le acque a levante della Sicilia e in direzione della Cirenaica, mentre quelli dell’Aviazione del Basso Adriatico, di base a Taranto, furono diretti verso le coste della Grecia per sorvegliare le provenienze verso la Puglia. Avvenne pertanto che le navi di Cunningham si trovarono a passare in un corridoio centrale, non coperto dalla ricognizione italiana, che fu letteralmente messa in crisi dall'inaspettata manovra verso le coste della Calabria attuata dalla flotta britannica. In tali condizioni, durante tutta la mattinata del 9 si verificò a Roma uno stato di forte disagio, che andò aumentando con il trascorrere delle ore. Apparendo inconcepibile che decine di aerei non riuscissero ad avvistare la Mediterranean Fleet a levante della Sicilia, sorse il dubbio che gli obiettivi del nemico fossero ben diversi da quelli ipotizzati sugli indizi crittografici. Pertanto fu presa in considerazione l'ipotesi che la minaccia di un'azione aeronavale potesse presentarsi anche contro obiettivi della Calabria e delle Puglie. In questo stato della più completa incertezza sulle intenzioni della flotta britannica, che si stava avvicinando a quella italiana da posizione radicalmente opposta a quella in cui era attesa, alle 13,30 si verificò contro gli incrociatori pesanti della 2a Squadra (ammiraglio Riccardo Paladini) l’attacco di nove aerosiluranti «Swordfish» degli Squadron 813° e 824° decollati dalla portaerei Eagle, che fu fronteggiato con successo dal fuoco delle artiglierie contraeree e dalla tempestiva manovra delle unità navali. Campioni comprese allora che il nemico era nelle vicinanze. Che fosse poi orientato con direttrice di marcia nord-est, invece che sud-est, fu subito dopo rilevato da un idrovolante «Canz Z.506» della 142a Squadriglia Ricognizione Marittima che, avente per pilota il tenente Zezza, stava svolgendo un normale pattugliamento antisom a sud del Golfo di Taranto, lungo la congiungente con Bengasi. L’avvistamento si verificò a levante di Capo Spartivento, con la flotta britannica che procedeva con rotta nord-nordest. Tuttavia l’ufficiale osservatore, sottotenente di vascello Mario Loffredo, commise l’errore di segnalare due corazzate e otto cacciatorpediniere a 80 miglia a sud della flotta italiana, 30 miglia oltre la posizione esatta in cui si trovavano le navi britanniche, come poi rettificarono i Ro. 43 decollati dagli incrociatori della 1a Squadra, fino a quel momento trattenuti a bordo per servire come direzione del tiro nell’eventuale combattimento navale. Supponendo che intenzione del nemico fosse quella di impegnare la flotta italiana «in condizioni di netta superiorità», tagliando la rotta verso Taranto ed eventualmente, in caso di combattimento favorevole, attaccare l'indomani quell’importante base, l’ammiraglio Campioni decise di andare senza indugio contro il nemico. Pertanto ordinò un'inversione di rotta ad un tempo verso nord, quando ancora la flotta non si era completamente riunita per assumere il dispositivo di combattimento previsto. Secondo le sue istruzioni le navi avrebbero dovuto costituire quattro colonne parallele, con i sei incrociatori pesanti della 2a Squadra Pola, Zara, Fiume, Gorizia, Trento e Bolzano) dislocati 5 miglia a sud-ovest delle corazzate della 1° Squadra Cesare e Cavour, mentre quattro incrociatori leggeri (Abruzzi, Garibaldi, Da Barbiano e Di Giussano), dovevano trovarsi 5 miglia a levante delle navi da battaglia, e altri quattro (Eugenio, Aosta, Attendolo e Montecuccoli) alla stessa distanza sul lato opposto. Ciò avrebbe permesso alla squadra di avere in testa una divisione d'incrocia- tori qualunque fosse la direttrice di marcia che il nemico avesse seguito provenendo da sud-est, e nello stesso tempo consentito ai sei incrociatori pesanti di entrare in linea di fuoco con le due corazzate, per concentrare il tiro sulle navi da battaglia britanniche. Invece l’inversione di rotta portò la flotta italiana ad assumere uno schieramento molto allungato e alquanto disordinato. Le corazzate, che avrebbero dovuto trovarsi arretrate nella formazione, si trovarono invece in testa, seguite dalle divisioni d'incrociatori che faticavano per risalire, e che avevano in formazione le navi ammiraglie in ultima posizione, mentre nell’impartire gli ordini avrebbero dovuto mantenerne la testa. Ne conseguì, quando stava per iniziare il contatto balistico, che gli incrociatori pesanti si trovarono ancora distanziati di 3 miglia verso ponente rispetto alle corazzate, che inoltre vennero ad essere private, in posizione opportuna, dell'ideale gruppo esplorante. Il gruppo «Eugenio» era rimasto molto arretrato e non prese parte alla battaglia, mentre il gruppo «Abruzzi» entrò in contatto con gli incrociatori della 7a Divisione della Mediterranean Fleet quando ancora si trovava a 5 miglia sulla dritta delle proprie corazzate. L’avvistamento delle unità britanniche si verificò alle 15.05 alla distanza di 30.000 metri. In quel momento gli incrociatori Orion, Neptune, Sydney e Liverpool precedevano il grosso della Mediterranean Fleet suddiviso in tre gruppi, con la nave ammiraglia Warspite avanzata di 8 miglia rispetto alle due corazzate meno veloci Malaya e Royal Sovereign. In retroguardia, vi era la portaerei Eagle, alla quale era stato aggregato il menomato incrociatore Gloucester. Dapprima, a partire dalle 15,15, si fronteggiarono ad armi pari, alla distanza di 20.000 metri, gli incrociatori leggeri delle due flotte, in cui da parte italiana furono impegnate le quattro unità del gruppo “Abruzzi” (Abruzzi, Garibaldi, Da Barbiano, Di Giussano). Poi, con le corazzate italiane che stringevano le distanze per portarsi al tiro, la Warspite aprì il fuoco sulle unità del gruppo «Abruzzi» per poi spostarlo sulla Cesare e sulla Cavour. Mentre i quattro incrociatori leggeri italiani della 8a e 4a Divisione si sottraevano alle salve dei 381 passando ad ovest delle proprie corazzate, per poi rimanere estraniati dalla battaglia, la Cesare e la Cavour risposero al fuoco della Warspite alla distanza di 26.400 metri. Seguì un' azione piuttosto rapida, perché alle 15,58 la Cesare fu colpita alla base del fumaiolo poppiero da un proietto da 381 che, inutilizzando quattro delle otto caldaie, fece scendere la velocità della nave da 26 a 19 nodi.

Consapevole di dover sostenere uno scontro con un nucleo di corazzate superiore, senza essere appoggiato da nessun incrociatore, dal momento che quelli pesanti della 2a Squadra entrarono nel dispositivo di combattimento con molto ritardo, alle 16,01 l'ammiraglio Campioni prese la decisione di interrompere uno scontro che non rientrava nelle direttive operative, né nella opportunità tattica del momento. La diminuzione di efficienza della Cesare poneva sulla sola Cavour l'onere di sostenere la constatata precisione del tiro delle corazzate nemiche, anche se la lenta Royal Sovereign si trovava ancora alquanto distante, e le salve della Malaya risultavano corte. Pertanto Campioni ordinò alla flotta di invertire la rotta. La rottura del contatto fu accompagnata da attacchi col siluro, effettuati da grande distanza dalle, squadriglie dei caccia torpediniere, e dalle cortine di nebbia stese dai sei incrociatori della 2a Squadra, che erano stati decisamente impegnati da quelli britannici, impedendo loro di concentrare il tiro sulle corazzate di Cunningham. In questa fase il Bolzano fu colpito da tre proietti da 152 sparati dal Neptune, e riportò danni al timone e l'imbarco di 300 tonnellate d’acqua, che però non gli impedirono di allontanarsi alla massima velocità permessa dalle sue potenti macchine, che raggiunse i trentacinque nodi. Fu anche colpito all’estrema prua il cacciatorpediniere Alfieri, ma senza riportare gravi conseguenze. Cunningham non fece nessun tentativo per ristabilire il contatto, temendo che dietro la cortina di fumo stesa dalle navi italiane fosse stata predisposta una concentrazione di sommergibili. Nel frattempo, per il fallimento delle ricognizioni, la Regia Aeronautica non aveva potuto dare lo sperato appoggio alla flotta prima del combattimento navale, e quando nel pomeriggio avanzato cominciò ad intervenire trovò nella zona dello scontro una situazione assai confusa. Le navi italiane, che erano state segnalate alla partenza delle prime formazioni offensive con rotta verso nord, avevano invertito la direttrice di marcia e si ritiravano in direzione dello Stretto di Messina. Le navi inglesi, che inizialmente si trovavano a settentrione di quelle italiane, le fronteggiavano da levante. Inoltre la visibilità, resa cattiva dalle cortine di fumo, determinò errori di riconoscimento degli obiettivi, ragion per cui su 131 bombardieri in quota inviati ad attaccare le navi inglesi, una cinquantina sganciarono le bombe su quelle italiane, fortunata- mente senza colpirle. Purtroppo, a conferma della scarsa efficacia degli attacchi in quota, anche le bombe (da 100, 250 e 500 chili) sganciate contro le navi britanniche fallirono tutte il bersaglio. Ritiratasi la flotta italiana, e rimasta la Mediterranean Fleet padrona della zona di battaglia, l’ammiraglio Cunningham riprese la rotta per raggiungere le acque di Malta per prelevarvi i sette piroscafi dei due convoglio salpati dalla Valletta e diretti ad Alessandria. Le navi mercantili dei convogli trasportavano il personale considerato superfluo per la difesa di Malta e parecchi civili, in particolare mogli e figli di militari,evacuati da Malta, la cui situazione difensiva, resa allarmante dagli attacchi degli aerei italiani della Sicilia, sollevava preoccupazioni nel Comandi britannici. I programmi di Cunningham non prevedevano alcuna azione di bombardamento contro i porti italiani, ma soltanto un attacco con aerosiluranti contro la base di Augusta. Attacco che la portaerei "Eagle" realizzo nella notte sul 10 luglio con una modestissima formazione di tre aerosiluranti Swordfish, che affondarono in porto il cacciatorpediniere "Pancaldo". Dopo di che la Mediterranean Fleet al completo, essendo rientrati ai loro posti di scorta i cacciatorpediniere che erano stati mandati a rifornirsi alla Valletta, riprese la rotta del ritorno, navigazione che fu alquanto tormentata per una serie di attacchi a cui la sottoposero i bombardieri italiani dell’Aeronautica della Libia e dell’Egeo, senza però riportare avarie alle navi, se non per qualche colpo vicino.

Di fronte ai cinque colpi in pieno messi a segno dalle navi britanniche sulle navi italiane (uno sulla Cesare, tre sul Bolzano e uno dall’Alfieri) , ì danni riportati dalle navi britanniche nel corso dell’operazione M.A. 5 furono insignificanti. Questo fatto è ancora oggi fonte di polemica strumentale da parte di coloro che, scrivendo su pubblicazioni specializzate di carattere militare (“Rivista Marittima” e “Storia Militare”) non accettano la realtà dei fatti. Dalla vastissima documentazione dell’Ammiragliato (Londra), fatta pervenire nel dopoguerra all’Ufficio Storico della Marina Militare, risulta che l’8 luglio la corazzata Warspite fu danneggiata da una bomba di aereo caduta vicino allo scafo, e lo stesso accadde per la Malaya, mentre danni più considerevole, per colpo in pieno, riportò l’incrociatore Gloucester. Un’altra bomba cadde nuovamente vicina alla Warspite il 12 luglio, aumentandone le leggere avarie. Quindi, dal momento che il 9 luglio nessun danno fu inferto alle navi britanniche dalle navi e dagli aerei italiani, occorre sfatare la favola di colpi vicini che nel combattimento balistico di Punta Stilo avrebbero danneggiato, oltre alla Warspite, anche l’incrociatore Neptune, sul quale era scoppiato un incendio. Questo fu però determinato, secondo la suddetta documentazione britannica, dalla benzina dell’aereo da ricognizione Walrus dell’incrociatore che si trovava sulla catapulta, e che aveva preso fuoco durante la partenza delle salve d’artiglieria del Neptume. Incendiò che fu subito domato e non procurò all’incrociatore danni strutturali. La battaglia di Punta Stilo, denunciando in modo allarmante una inaspettata carenza operativa nella collaborazione aeronavale italiana, rappresentò per la Regia Marina il primo duro impatto con la Royal Navy. L'episodio fece comprendere che le navi non erano ancora pronte ad affrontare quelle nemiche in una battaglia di grosse dimensioni e dagli esiti, se non decisivi, strategicamente condizionanti. Ciò rese ancora più cauti Supermarina e il Comando Supremo nella pianificazione delle operazioni offensive, anche quelle che apparivano di natura favorevole, e nello stesso tempo, per diminuire il divario tecnico-tattico nei confronti del nemico, fu data attuazione ad un intenso programma di esercitazioni di manovra e di tiro. Tuttavia la passività imposta alla flotta italiana dopo Punta Stilo finì per rendere più aggressiva la Royal Navy. Il disastro di Taranto (11 novembre 1940), il rinunciatario combattimento di Capo Teulada (27 novembre 1940) con le navi italiane impegnate da quelle britanniche mentre si ritiravano verso il Tirreno, a cui si aggiunsero (il 9 febbraio 1941) il mancato incontro con la Forza H di Gibilterra che aveva bombardato Genova, e (il 28 marzo 1941) la dura sconfitta di Capo Matapan, confermando le gravi carenze di addestramento e organizzative della Regia Marina, portarono a fissare norme d'impiego bellico ancora più restrittive. Norme che, imponendo alla flotta di evitare il combattimento in presenza di navi portaerei e navi da battaglia del nemico, non le permisero, in particolare per la prudente condotta tattico-strategica di Supermarina, di ricercare o realizzare un'altra azione balistica contro formazioni navali britanniche che comprendessero corazzate. Pertanto Punta Stilo rappresenta nella storia l'unico scontro combattuto tra navi da battaglia italiane e inglesi, del quale, purtroppo, la Marina italiana non può oggi vantare il successo che all’epoca gli era stato accreditato dalla propaganda orchestrata nei Bollettini di Guerra del Comado Supremo e mediante gli ampi servizi diramati dalla stampa e dalla radio nazionale, e neppure sostenere, come taluni sono propensi ancora a credere, di aver sostenuto il 9 luglio 1940 un combattimento finito ai punti. Sugli esiti strategici della battaglia, valutati nel dopoguerra da parte britannica, mi riferisco a quanto ha scritto il capitano di vascello Stephen Roskill, nel volume primo del suo famoso “The War at Sea”, tradotto ad uso interno dall’Ufficio Storico della Marina Militare:

“Benché il non aver potuto impegnare il nemico a battaglia fosse una delusione, il breve incontro fu interessante perché palesò la ripugnanza della flotta italiana a cimentarsi colla flotta inglese e a combatterla e chiarì la tattica probabile a cui il comando italiano si sarebbe attenuto, avvenuto il contatto fra le forze di superficie. Ma se questa azione recò al nemico poco danno, essa concorse probabilmente a stabilire quell’ascendente sulle forze italiane di superficie, che doveva essere una caratteristica così saliente nella campagna navale nel Mediterraneo e doveva ridurre la flotta italiana teoricamente possente alla virtuale impotenza.”

Sebbene queste parole siano molto dure, non possiamo ignorare che lo svolgimento della politica di guerra navale dei maggiori Capi Militari italiani, a cominciare da quelli del Comando Supremo che condividevano la cautela di Supermarina, fu proprio quella di aver realizzato una condotta di estrema prudenza nell’impiego della flotta, con il risultato di non aver saputo sfruttare le favorevoli situazioni che si presentarono nel corso della guerra, anche quando la relatività delle forze in campo era nettamente a vantaggio della Regia Marina.


Francesco Mattesini


30 Settembre 2011


NOTA (**) Ordine operativo di Superaereo, diramato alle Grandi Unità Aeree alle ore 21.45 dell'8 luglio 1940: "B-15611 SUPERAEREO PUNTO. ORDINE OPERAZIONE... PUNTO DOMANI NOVE LUGLIO DALL'ALBA TUTTE UNITA' BOMBARDAMENTO DIPENDENTI SIANO TENUTE PRONTE PER IMMEDIATO INTERVENTO CONTRO IMPORTANTI FORZE NAVALI PUNTO IMPIEGO BOMBE DA 250 ET POSSIBILMENTE DA 500 PUNTO QUOTE DI LANCIO FRA 2500 E 3000 METRI PUNTO PREFERIRE ATTACCO NAVI BATTAGLIA ET PORTAEREI PUNTO PREDISPONGASI SUCCESSIONE CONTINUA REPARTI SU BERSAGLI CONVENIENTEMENTE RIPARTITI PUNTO INTERVENTO AVVENGA SU RICHIESTA DIRETTA COMANDI MARINA AUT SU ORDINE QUESTO SUPERAEREO PUNTO CACCIA IN CROCIERA VIGILANZA SU PRINCIPALI CITTA' ET BASI AEREE PUNTO COMBATTIMENTO NAVALE PREVISTO EST MASSIMA IMPORTANZA (:) AERONAUTICA DEVE ASSOLUTAMENTE DIMOSTRARE SUA POTENZA SUE POSSIBILITA SUO SPIRITO SACRIFICIO PUNTO GENERALE PRICOLO.

Il testo è di Francesco Mattesini (non attribuito). Vi prego di apportare la modifica. Cordialmente F.M.