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Dialogo di Plotino e di Porfirio[modifica | modifica wikitesto]

Per approfondire, leggi il testo Dialogo di Plotino e di Porfirio.
Plotino

«Nessuna cosa è più ragionevole della noia.»

Composto, probabilmente a Firenze, nel 1827[1], è il dialogo della giustificazione del suicidio[2] secondo ragione, ma anche il suo rifiuto per ragioni di carattere umanitario: il dolore per la perdita di parenti e amici è quel sentimento col quale la Natura ci riconcilia con la vita. Leopardi immagina il possibile dialogo avvenuto tra i due filosofi seguendo un passo della biografia di Plotino, il più anziano, secondo cui il suicidio è contro natura, scritta da Porfirio, il più giovane, intenzionato ad uccidersi e sostenitore della vanità di tutti i sentimenti: mere illusioni che non danno sostanza alla vita.

Plotino, filosofo di Licopoli, fondatore del Neoplatonismo, un giorno si accorge delle intenzioni verso un gesto estremo del suo discepolo, Porfirio, giovane originario di Tiro[3]; interrogatolo sui motivi di sentimenti tanto estremi, avvia una profonda riflessione sul tema del suicidio e le sue conseguenze nei rapporti umani.

Secondo Porfirio il suicidio non deriva da sciagura avuta in vita o che potrebbe arrivare, ma da una più generale sopraggiunta noia della vita, un sentimento che somiglia al dolore e che nasce dalla vanità di ogni cosa. La noia è anche il sentimento più ragionevole, perché, a differenza di quelli che nascono da qualche inganno o immaginazione falsa, si fonda esclusivamente sul vero. Plotino non tenta di confutare le argomentazioni di Porfirio, ma sostiene che il suicidio deve essere evitato per non rendere più gravi le sofferenze delle persone care, e tenta di opporre come argomento la sentenza di Platone che nega all'uomo la possibilità di togliersi la vita. Il discepolo risponde con un profonda analisi sul pensiero del sommo filosofo.

La morte[modifica | modifica wikitesto]

La Natura ha destinato all'uomo, come medicina di tutti i mali, la morte; temuta da chi poco usa l'intelletto, desiderata da tutti gli altri. La filosofia di Platone insinua tra uomini il timore per la morte[4]: per Porfirio una calamità peggiore di quelle cagionate già dal Fato e la Natura insieme. L'intenzione del filosofo era quella di impedire comportamenti ingiusti e violenti, ma i dubbi e le incertezze assalgono i buoni e i più deboli sul punto di morte e, in generale, chi per natura non è incline alle male opere; ma i gagliardi, gli arditi, gli uomini con poca immaginazione, non sono spaventati e frenati dalla coscienza e non smettono di compiere cattive azioni. Ancora peggio operano le leggi e la cultura dei costumi sociali che, almeno negli uomini un poco inciviliti, impediscono di nuocere al prossimo; ma le immagini minacciose dei suplizi, decretati dagli Stati per chi infrange le leggi, non riescono ad ammansire gli animi, anzi esse accrescono la crudeltà, la violenza e la viltà nel cuore degli uomini malvagi.

Nella cosmogonia platonica la ricompensa promessa è così arcana e inimmaginabile che non riesce a persuadere gli uomini, e se la paura di terribili punizioni può fermare qualche cattivo dal commettere male azioni, certamente nessun buono si mette a ben operare nella sua vita in virtù del bene promesso. La morte per gli uomini dovrebbe essere un approdo sicuro, la fine delle sofferenze, invece

«Il genere umano, esempio mirabile di infelicità, [...] si aspetta, non che la morte sia fine alle sue miserie, ma di [...] essere, dopo quella, assai più infelice.»

A causa delle dottrine di Platone gli uomini temono più il porto che la tempesta; il timore ha superato la speranza ed è diventato padrone dell'umanità. Barbaro appare quindi a Porfirio il divieto di uccidersi.

Gli animali[modifica | modifica wikitesto]

«La Natura non ci destinò altra vita che infelicissima, però [...] ci diede il potere di finirla ogni volta che ci piacesse.»

Gli animali sentono meno l'infelicità e non hanno il coraggio sufficiente per privarsi della vita; e se anche madre natura avesse dato loro una simile facoltà, rispetto agli uomini, essi avrebbero meno dubbi ed esitazioni ad uccidersi per liberarsi dai loro mali e dalle loro sofferenze. Se così fosse anche gli animali ci sarebbero superiori, perché anche solo il pensiero di poterla far finita liberamente aiuterebbe a sopportare i dolori che si patiscono, mentre il ricordo e il timore di punizioni da scontare nella vita futura scoraggiano gli uomini dal gesto estremo.

Plotino prova ad opporre all'amico che uccidersi non sia lecito secondo ragione, perché il gesto stesso è contro natura, in quanto tutti gli esseri viventi attendono alla conservazione propria, e che l'uomo naturalmente sente di temere e di odiare la morte perché la vita non serve per la non vita: l'essere non serve al non essere. La Natura stessa, quindi, vieta l'uccidersi.

Ma dal momento che la natura non riesce a farmi felice o a liberarmi dal male e dalla sofferenza neanche mi obbliga a vivere. Con l'amore per la conservazione ha di pari passo instillato nell'uomo anche l'odio per l'infelicità, e destinato ogni atto verso il nostro unico BENE: non si ama la vita per sé stessa ma rispetto a quanto male o bene ci tocca in sorte[5]. La Natura non può negare all'uomo il suo meglio: la morte; e costringerlo al suo male: la vita, dannosa e cattiva per l'umanità intera

Plotino insiste sul comportamento spontaneo degli animali che mirano alla conservazione della loro specie e fa un paragone con quegli uomini ancora non inciviliti, abitanti di alcune regioni della terra (India, Etiopia ecc.) che, vivendo in modo naturale, non provano quel sentimento del suicidio.

La seconda Natura[modifica | modifica wikitesto]

«[...] se oggi viviamo contro natura, perché non possiamo anche morire contro natura?»

Secondo Porfirio l'assuefazione e la Ragione hanno creato nell'uomo una nuova condizione naturale, una Seconda Natura; essa si plasma e si forma attraverso il costante studio del vero. Uno dei modi attraverso il quale modifichiamo la nostra natura originaria è la medicina: non c'è arte più innaturale; un arte che cura le malattie generate dalla stessa società corrotta che gli uomini ormai considerano necessaria. Per i mali che ci siamo procurati con l'incivilimento occorrono rimedi NON NATURALI. Sarebbe paradossale che la ragione da sempre nemica della Natura si alleasse con lei per costringerci a «perseverare nella miseria», obbligandoci ad abbandonare sia la cura dei mali contingenti (medicina), sia la cura del male in assoluto (suicidio). Se nella prima Natura tendiamo a conseguire il nostro meglio, ignorando la morte, oggi al contrario, con questa seconda natura tendiamo come la prima a conseguire la condizione migliore ed elegge la Ragione a supremo giudice della condizione umana decretando come maggior bene per l'uomo la Morte. Non ha senso giudicare questo nuovo sentimento, figlio della nuova natura, con il vecchio sistema primitivo di valori.

Utilità del suicidio[modifica | modifica wikitesto]

Uccidere sé stesso è lecito, ma è anche utile? Essendo azione giusta e retta secondo ragione è anche utile, conclude Plotino, ma il maestro, a quel punto, stretto dalla ferrea logica dell'amico, sposta la questione su un altro nodo centrale: patire o non patire.

«[...] il piacere è tanto impossibile quanto il patimento è inevitabile»

Aristippo, iniziatore della scuola cirenaica

Non è pensabile una vita senza patimento alcuno perché esso è continuo e duraturo quanto lo stesso desiderio di felicità, tanto che secondo ragione la morte sarebbe augurabile, perché la vita non offre alcuna compensazione con un bene o un diletto vero. Quelli che amano la vita infatti commettono un errore di calcolo nel soppesare gli utili e i danni, e sono errori che si manifestano sempre quando scegliamo la vita e ci confortiamo di quello che offre. Secondo Porfirio per l'uomo la noia è il ritrovarsi senza speranza o fortuna migliore, senza cause sufficienti a generare il desiderio di vita;[6] e colpisce tutti, anche quelli che comunemente si credono sulla cima della felicità umana: principi e re che non potendosi prometter migliore il domani che il giorno d’oggi, perdono la speranza nel futuro e si uccidono, schiacciati dalla miseria del presente.

La chiusura del dialogo è affidata a Plotino che tenta di riconciliarsi con l'amico appellandosi alla imperitura dignità e solidarietà umana. La primitiva natura ha lasciato agli uomini quel sentimento di equilibrio e di armonia spirituale, l'amore, che, anche nei momenti in cui secondo la fredda ragione è giusto uccidersi, ci riconcilia con la vita,[7] alimentando nuove speranze.

«Aver per nulla il dolore della disgiunzione e della perdita dei parenti, degl’intrinsechi, dei compagni; o non essere atto a sentire di sì fatta cosa dolore alcuno; non è di sapiente, ma di barbaro»

Gli uomini, infatti, devono comprendere che lasciare la vita non è da sapiente; il suicida è un egoista, che cerca solo la propria utilità: è il trionfo dell'egoismo, dove il prossimo e tutto il genere umano sono indifferentemente calpestati. La conclusione è un invito a sopportare ciò che il destino impone all'umanità, confortandosi l'un l'altro per i mali che la vita ci riserva.

«[...] per compiere nel miglior modo questa fatica della vita»

La vita, in ogni caso, sarà breve e al suo termine ci consolerà il pensiero che gli amici conserveranno con affetto il nostro ricordo e ci ameranno ancora.

  1. ^ Errore nelle note: Errore nell'uso del marcatore <ref>: non è stato indicato alcun testo per il marcatore Firenze1845
  2. ^ Il tema del suicidio aveva già ispirato le canzoni Ultimo canto di Saffo e Bruto minore, dove il gesto estremo è la scelta legittima di un'anima nobile che rifiuta la bassezza della vita e della società. All'apologia del Cesaricida era premesso un testo, per forma e contenuti riconducibile al disegno letterario delle Operette morali, apparso solo nelle Canzoni bolognesi del 1824 e mai più ripubblicato dall'autore, che metteva a confronto i discorsi di Bruto e di Teofrasto, filosofo greco, sulla fine della vita. Vedi Appendice alle Operette morali, sezione Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto vicini a morte.
  3. ^ Porfirio è stato il curatore dell'opera più importante del maestro, le Enneadi.
  4. ^ Nella terza parte del Timeo Platone descrive il destino dell'anima dopo la morte che può reincarnarsi in un corpo inferiore, per esempio di animale, in base alla gravità delle colpe o dei crimini commessi nella vita precedente, ecc.
  5. ^ Vedi anche Zibaldone 4075, 4076; Canti, XIX, Al Conte Carlo Pepoli
  6. ^ Porfirio cita la scuola di Egesia, filosofo cirenaico del III sec. a.C., che sosteneva che il piacere era nell'assenza di ogni dolore, e quindi nella morte. Argomento presente anche nel cap. 6 dell'Ottonieri dove si riporta un dogma della setta degli Egesiaci: «Il sapiente, che che egli si faccia, farà ogni cosa a suo beneficio proprio».
  7. ^ «E la vita è cosa di tanto piccolo rilievo, che l’uomo, in quanto a sé, non dovrebbe esser molto sollecito né di ritenerla né di lasciarla», Plotino, ibidem.