Utente:Vale93b/Sandbox1

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Congiura contro papa Pio IV
Tipoattentato
Data7 novembre 1564
LuogoRoma, Palazzi Vaticani, Stanza della Segnatura
StatoBandiera dello Stato Pontificio Stato Pontificio
ObiettivoPapa Pio IV
ResponsabiliAntonio Canossa, Taddeo Manfredi, Giangiacomo Pelliccione, Benedetto Accolti, Pietro Accolti, Giulio Accolti, Prospero Pittori, Giovanni da Norcia e un servitore sconosciuto.
Motivazione
Conseguenze
Mortinessuno
Feritinessuno

La congiura contro papa Pio IV fu un complotto volto a perpetrare l'omicidio di papa Pio IV, ordito e sventato a Roma sul finire del 1564.

I fatti[modifica | modifica wikitesto]

congiurati[modifica | modifica wikitesto]

La congiura fu ordita da personaggi di diversa estrazione:

  • il conte Antonio Canossa, giovane discendente di un ramo cadetto dell'antica e prestigiosa famiglia Canossa, ormai in piena decadenza. Erede al feudo di Montalto, a Roma intratteneva rapporti con la Camera Apostolica, che gli aveva dato in concessione alcuni mulini e miniere di allume nei territori dello Stato pontificio.
  • il conte Taddeo Manfredi, discendente di una famiglia che aveva governato ampi territori nell'odierna Emilia-Romagna (presso Imola e Faenza) fino alla fine del XV secolo, quando Cesare Borgia li aveva conquistati. Dopo la sconfitta di quest'ultimo, tali territori erano passati sotto il diretto controllo della Santa Sede.
  • il cavalier Giangiacomo Pelliccione, pavese d'origine, trasferito a Roma dopo essere stato bandito dalla Repubblica di Venezia per aver coniato denaro falso: nella capitale pontificia dichiarava di essere discendente della famiglia Lusignano e si era stabilito nella zona di ponte Sisto, frequentando abitualmente astrologi ed esorcisti.
  • Benedetto Accolti, figlio illegittimo del cardinale Pietro Accolti, uomo tanto fisicamente brutto e sgraziato quanto dalla cultura vastissima. abilissimo oratore, erudito delle Sacre Scritture e della cultura classica, risiedeva a Roma da circa un decennio e aveva acquisito una fama consolidata di profeta; frequentava assiduamente i palazzi di potenti porporati e curiali.
  • il nipote di quest'ultimo, Pietro Accolti (figlio di Adriano, fratellastro di Benedetto) e Giulio, altro figlio illegittimo del cardinale d'Ancona.
  • tre servitori del conte Manfredi (Prospero Pittori, Giovanni da Norcia e uno sconosciuto).

Il fallito attentato[modifica | modifica wikitesto]

La sera del 6 novembre 1564 tutti costoro (escluso Giulio Accolti) si ritrovarono in un palazzo di Borgo Vecchio, presso la chiesa di San Lorenzo in Piscibus, di proprietà del cardinale Federico Cesi (conoscente di alcuni congiurati, ma del tutto estraneo alla vicenda): qui si prepararono per l'omicidio del regnante papa Pio IV Medici, pianificato per l'indomani, da perpetrarsi nel corso dell'udienza generale cui erano stati regolarmente ammessi.

La mattina del 7 novembre sei di loro (esclusi Giovanni da Norcia e il servitore sconosciuto) si recarono presso la stanza della Segnatura, in Vaticano, per incontrare il pontefice. Vestiti elegantemente, avevano portato con sé coltelli, spade e stiletti: il piano prevedeva che Benedetto Accolti avviasse l'azione atterrando il papa ed accoltellandolo, con il cavalier Pelliccione e il conte Canossa pronti ad intervenire con le spade; Prospero e Pietro rimasero un po' più indietro, pronti a coprire le spalle ai compagni in caso di necessità. Tuttavia, per motivi poco chiari, nessuno di loro aggredì il pontefice: l'udienza si svolse regolarmente e i congiurati se ne andarono senza aver concluso nulla.

L'arresto dei congiurati[modifica | modifica wikitesto]

Subito dopo tale fallimento, il conte Canossa e Benedetto Accolti si attivarono per ottenere una nuova udienza, forti delle loro conoscenze altolocate all'interno della corte romana che derivavano dalla loro posizione: Antonio Canossa si vantava di essere discendente diretto della contessa Matilde di Canossa, mentre Benedetto era figlio illegittimo del cardinale d'Ancona Pietro Accolti, e cugino di un altro porporato, Benedetto Accolti il Giovane. Entrambi avevano molti debiti ed erano implicati in vari procedimenti giudiziari inerenti eredità, giurisdizioni e beni feudali: finsero pertanto di voler presentare una supplica al papa.

Si misero quindi in contatto con lo scalco pontificio Giulio Cattaneo, che riuscì a concordare per loro un'udienza privata; poche ore prima dell'incontro, tuttavia, Pio IV si recò a Castel Sant'Angelo, mandando a monte anche tale secondo tentativo.

Giovanni da Norcia si mise allora in contatto con monsignor Pietro Paolo Angelini di Cantalupo, maestro di casa di Marcantonio Colonna, che promise di contattare allo scopo il cardinal nipote Carlo Borromeo. Dopo che anche tale canale si fu rivelato infruttuoso, Benedetto e Giovanni riuscirono a incontrare il coppiere papale Giulio Giannotti, cui il 13 dicembre consegnarono una supplica da inoltrare al papa, ottenendo in cambio la promessa di essere introdotti presso di lui. La sera tutti i congiurati si ritrovarono al palazzo del conte Manfredi, nel rione Colonna, coricandosi tutti insieme in vista del nuovo tentativo da perpetrare l'indomani.

Nella notte tuttavia il cavalier Pelliccione si recò in Vaticano e, dopo molte insistenze, riuscì a farsi introdurre presso il pontefice, cui denunciò la congiura. Il mattino dopo i birri papali irruppero a palazzo Manfredi, arrestando i due Accolti (sebbene Benedetto avesse cercato disperatamente di occultare le prove gettando il suo stiletto e delle carte da una finestra), il conte Taddeo con sua moglie, Giovanni da Norcia, Prospero Pittori e un altro servo di casa. Il Canossa, accortosi in tempo dell'arrivo delle guardie, riuscì a fuggire dal tetto, ma venne tratto in arresto quattro giorni dopo in casa di una prostituta presso Piazza del Popolo.

Il processo[modifica | modifica wikitesto]

I primi interrogatori[modifica | modifica wikitesto]

Gli arrestati furono tradotti al carcere di Tor di Nona e immediatamente posti sotto processo. I primi interrogatori furono condotti dal procuratore fiscale Giovambattista Bizzoni, cui poi subentrò il governatore Alessandro Pallantieri. Per primo fu ascoltato il cavalier Pelliccione, che diede conto dei vagheggiamenti del conte Manfredi in merito alle sue mire sulla valle del Lamone, antico feudo della sua famiglia, ove affermava di voler provocare una sommossa e, una volta postosi a capo dell'esercito dei rivoltosi, prendere il mare e attaccare Venezia. Disse altresì che Benedetto Accolti, da lui definito figlio bastardo del cardinale d'Ancona, lo aveva attirato con discorsi evocanti la necessità di una liberatione de Italia e revolutione della Chiesa passante attraverso l'uccisione di Pio IV, che a detta di Benedetto non era il vero papa e avrebbe pertanto dovuto essere eliminato per far spazio a un papa vero e santo.

Taddeo Manfredi confermò quanto detto dal Pelliccione: Benedetto Accolti li aveva convinti che il papa regnante fosse illegittimo e che ve ne fosse un altro, descritto come un vecchio dalla lunga barba, ormai in procinto di giungere con gran pompa a Roma per occupare legittimamente il soglio petrino, e che pertanto fosse necessario "fargli spazio" uccidendo Pio IV.

Antonio Canossa impostò la sua strategia difensiva sulla falsariga dei compagni, asserendo che il movente della congiura era completamente spirituale. Appellandosi al suo stato di aristocratico ed esponente di una famiglia (i Canossa) cui la Sede Apostolica è obbligata più che a nessuna famiglia de Italia, egli rifiutò ripetutamente di rispondere alle domande del governatore, chiedendo poi di essere risparmiato dalla tortura e di poter prendere visione dei capi d'accusa per approntare la sua difesa. Tali garanzie gli furono negate e tra il 20 e il 28 dicembre il Canossa venne orrendamente torturato, giungendo quasi in punto di morte.

Tra tali deposizioni emerse con evidenza la figura di Benedetto Accolti, sedicente depositario di una verità superiore e incaricato di realizzarla, quale ideatore e anima del progetto criminale. Ai giudici che lo interrogavano disse, con un eloquio eccezionale, di non avere intenzione di uccidere Pio IV tout court, ma di volerlo convincere ad abdicare nel nome dell'ormai prossima venuta del già citato "papa santo", che a suo dire avrebbe vinto i turchi e gli eretici instaurando una Chiesa pura e santa: disse tuttavia che se il pontefice non gli avesse dato ascolto, l'avrebbe ucciso in quanto furbo ribaldo tiranno inimico di Cristo, el quale stava su questa sedia indegnamente. Nell'affermare ciò, Benedetto si richiamava alla distinzione tra il papa in quanto uomo (dotato di un corpo mortale) e la sua funzione di vicario di Cristo: un papa illegittimo non sarebbe stato investito della carica di vicario di Cristo, e ucciderlo non avrebbe comportato un sacrilegio.

Ricerca di connivenze[modifica | modifica wikitesto]

Il movente spirituale non convinse i giudici, i quali ribatterono alle deposizioni affermando che, qualora fosse stata la mano di Dio a guidarli contro il papa, i congiurati non avrebbero avuto bisogno di usare alcuna arma. Si sospettava invece la presenza di mandanti illustri e potenti dietro al complotto, anche considerando le esorbitanti ricompense (sottoforma di somme di denaro, feudi e regalie varie) che i congiurati avevano promesso o sostenevano di voler elargire a diverse persone per renderle loro complici e non rischiare il linciaggio una volta ucciso il pontefice, e le dichiarazioni dell'esistenza di grandi truppe pronte a prendere il controllo della situazione dopo l'attentato. Siffatte promesse infatti stridevano con il loro stato di indigenza.

Le indagini pertanto si appuntarono sui canali attraverso i quali i congiurati si erano procurati le armi: emerse che il Pelliccione aveva preso in prestito un pugnale lungo un palmo e mezzo dall'amico Simone della Barba, fratello dell'archiatra pontificio Pompeo (che con l'oscuro cavaliere condivideva l'abitudine a frequentare gli ambienti della magia e dell'astrologia). Da tale allarmante legame con una persona tanto vicina al pontefice non emerse tuttavia alcunché di rilevante ai fini dell'indagine. Si passò quindi ad esaminare lo stiletto di Benedetto Accolti, frattanto ritrovato sull'architrave di una finestra del palazzo Manfredi e che si sospettava fosse stato intinto nel veleno per rendere ancor più letali le ferite inferte; Benedetto minimizzò affermando che si trattava di un coltello di poco conto che usava portare sempre con sé per trinciare il cibo.

Un'altra pista che fu battuta alla ricerca di connivenze fu quella dei vestiti: tutti i congiurati, date le loro difficili condizioni economiche, si erano ridotti a prendere in prestito abiti adatti a presentarsi al cospetto di Pio IV da dei famigliari di Curzio Gonzaga e Ascanio Della Cornia; quest'ultimo nome probabilmente risultò particolarmente sospetto, in quanto il Della Cornia era un potente condottiero, che già in passato aveva rivolto i suoi soldati contro il papa (sotto il pontificato di Paolo IV). Di lì a poco egli fu imprigionato a Castel Sant'Angelo per degli abusi perpetrati nel suo feudo di Chiusi, ma non emersero prove di un suo effettivo coinvolgimento nella congiura contro Pio IV.

Nel giro di circa una settimana la concordanza delle versioni fornite dai prigionieri si ruppe ed essi cominciarono a scambiarsi accuse: nell'interrogatorio del 22 dicembre Benedetto Accolti, pur continuando a professarsi "capo" della banda, disse di essere stato incitato all'azione dai suoi complici, che si erano occupati di organizzare materialmente l'omicidio. Taddeo Manfredi disse che il Canossa aveva preparato delle polizze da recapitare alle magistrature romane per spiegare i motivi del gesto violento; il diretto interessato (unico a restare fedele alla teoria del movente spirituale) smentì di averle mai compilate, mentre Benedetto si dichiarò estraneo alla loro preparazione. Venne frattanto interrogato

Note[modifica | modifica wikitesto]


Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

[[Categoria:Papa Pio IV]] [[Categoria:Colpi di Stato falliti]] [[Categoria:Omicidio]] [[Categoria:Storia dello Stato Pontificio]]