Utente:Franz van Lanzee/Sandbox

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Antefatti[modifica | modifica wikitesto]

Lo smembramento della Cecoslovacchia[modifica | modifica wikitesto]

La stipula dell'accordo di Monaco il 30 settembre 1938 tra Germania, Italia, Francia e Regno Unito aprì alla dissoluzione della Prima Repubblica cecoslovacca. Il governo di Praga dovette piegarsi alla cessione a favore della Germania della vasta regione del Sudetenland, perdendo buona parte delle sue moderne fortificazioni di frontiera a occidente e ritrovandosi così militarmente esposto a nuove offensive tedesche. La crisi politica seguita alla passiva accettazione degli accordi portò a forti rivolgimenti interni a quanto restava dello Stato cecoslovacco, rendendolo vulnerabile alle spinte autonomiste, da tempo in atto, da parte dei sui gruppi etnici costitutivi: la creazione di una "Seconda Repubblica cecoslovacca" nell'ottobre 1938 dovette quindi passare per la concessione di regimi di ampia autonomia per le regioni orientali della Slovacchia e della Rutenia subcarpatica, dotandole di propri governi competenti per buona parte delle questioni interne alle due regioni. Fondamentalmente abbandonato dai suoi tradizionali alleati anglo-francesi, il governo di Praga dovette aggrapparsi a quanto previsto dal protocollo aggiuntivo all'accordo di Monaco, secondo il quale le potenze firmatarie del patto avrebbero garantito l'integrità territoriale di quanto rimaneva della Cecoslovacchia a patto che quest'ultima raggiungesse accordi risolutivi per la definizione delle contese di frontiera con i suoi vicini orientali, la Repubblica di Polonia e il Regno d'Ungheria[1][2].

La definizione dei contenziosi territoriali tra Cecoslovacchia e Polonia fu rapidamente risolta: il 1º ottobre 1938 i cecoslovacchi acconsentirono a cedere ai polacchi la regione della Zaolzie, contesa con le armi tra i due Stati nel 1919 e abitata da una consistente minoranza etnica polacca. Più difficile si rivelò la definizione dei contenziosi tra Cecoslovacchia e Ungheria: se per molti secoli le Terre ceche avevano fatto parte dei domini della Monarchia asburgica, storicamente Slovacchia e Rutenia erano state invece ricomprese nelle "Terre della Corona di Santo Stefano", venendo perse dall'Ungheria a favore della neonata Cecoslovacchia per effetto del trattato del Trianon alla fine della prima guerra mondiale; il governo di Budapest ambiva di conseguenza a riguadagnare quanto più possibile di queste due regioni, popolate da consistenti minoranze ungheresi. Subito dopo l'occupazione tedesca del Sudetenland, e davanti ai rivolgimenti interni della Cecoslovacchia, gli ungheresi decisero di testare la capacità di resistenza dei cechi a un nuovo tentativo di modifica dei loro confini: il 5 ottobre circa 500 uomini della Rongyos Gárda, un gruppo paramilitare non ufficiale di irredentisti ungheresi, attraversarono il confine tra Ungheria e Rutenia e attaccarono la stazione ferroviaria di Borzsava uccidendo un civile; la reazione delle truppe cecoslovacche fu tuttavia rapida, ed entro l'11 ottobre seguente gli ungheresi furono attaccati e sconfitti nei pressi di Berehove lasciando sul terreno 80 morti e 400 prigionieri. Il governo cecoslovacco iniziò a trasferire un considerevole numero di truppe in Slovacchia, cui l'Ungheria aveva poco da opporre: l'esercito ungherese era ancora una forza relativamente piccola e scarsamente equipaggiata, visto che solo da pochi anni il governo di Budapest aveva ripudiato le limitazioni in ambito militare imposte dal trattato del Trianon e avviato un programma di riarmo. Il regime del reggente ungherese Miklós Horthy decise quindi di evitare una guerra aperta e di risolvere la disputa con i cecoslovacchi tramite negoziati diplomatici[1][3].

Le trattative tra ungheresi e cecoslovacchi iniziarono il 9 ottobre 1938 a Komárno: i delegati di Praga si dissero pronti a fare alcune concessioni territoriali a favore degli ungheresi, ma i rappresentati di Budapest, potendo contare sulla solida alleanza in essere con l'Italia fascista, avanzarono pretese molto più estese, comprendenti non solo la cessione immediata di un'ampia fascia di territori ma anche l'indizione di plebisciti per la riannessione all'Ungheria della Slovacchia e della Rutenia; i negoziati proseguirono a fasi alterne fino al 29 ottobre, quando le due nazioni decisero di rimettere la risoluzione della questione a un arbitrato a opera delle potenze firmatarie dell'accordo di Monaco: francesi e britannici si dimostrarono non interessati alla questione, lasciando la definizione dell'accordo finale ai soli tedeschi e italiani. Il 2 novembre, nel corso del cosiddetto "primo arbitrato di Vienna", il ministro degli esteri tedesco Joachim von Ribbentrop e il suo equivalente italiano Galeazzo Ciano stabilirono il nuovo confine tra Ungheria e Cecoslovacchia: gli ungheresi ottennero la cessione di un'area di circa 12103 chilometri quadrati sottratta alla Slovacchia meridionale e alla Rutenia sud-occidentale, abitata da circa 1060000 abitanti e comprendente diverse importanti città come Košice (seconda più popolosa città della Slovacchia) e Užhorod (capoluogo della Rutenia). Le truppe ungheresi occuparono pacificamente la regione tra il 5 e il 10 novembre seguenti, per quanto nei mesi succesivi si verificassero varie scaramucce armate lungo il nuovo confine[1][3].

I mesi successivi videro una prosecuzione del processo disgregativo della Cecoslovacchia, attivamente promosso dalla Germania. Berlino stava avviando i preparativi per la sua prossima mossa espansionistica, l'attacco alla Polonia, e la neutralizzazione definitiva della Cecoslovacchia avrebbe messo in sicurezza il fianco meridionale della Germania; il comando della Wehrmacht chiese inoltre di estendere il fronte di attacco alla Polonia includendo un nuovo asse di avanzata a partire dalle terre slovacche, rendendo molto più interessante per il governo tedesco avere una Slovacchia come Stato fantoccio della Germania piuttosto che una Slovacchia completamente annessa all'Ungheria. Per compensare gli ungheresi, Berlino promise a Budapest che non si sarebbe opposta a una sua occupazione della Rutenia subcarpatica. Il 18 gennaio 1939 il Partito Popolare Slovacco di Hlinka, coalizione dei partiti autonomisti di ispirazione fascista, stravinse le elezioni per l'assemblea legislativa slovacca con il 98% dei voti; furono avviati negoziati con il governo centrale di Praga per la concessione di ulteriore autonomia e per una "slovacchizzazione" dei reparti dell'esercito stanziati nella regione, ma, forte dei suoi contatti con la Germania nazista, il primo ministro slovacco Jozef Tiso arrivò a proporre la costituzione di una Slovacchia indipendente nel corso di un discorso all'assemblea regionale il 22 febbraio. La situazione andò deteriorandosi rapidamente: dopo notizie circa la mobilitazione della milizia autonomista slovacca, la Guardia di Hlinka, il 9 marzo il presidente cecoslovacco Emil Hácha proclamò la legge marziale, inviò ulteriori truppe in Slovacchia ed esautorò Tiso dal suo incarico. Il 13 marzo Tiso si recò a Berlino per conferire con Adolf Hitler: allo slovacco fu detto esplicitamente che, se la Slovacchia non avesse immediatamente proclamato la secessione dal resto della Cecoslovacchia per porsi poi sotto la protezione dei tedeschi, la Germania si sarebbe disinteressata della questione e non si sarebbe opposta a un'invasione ungherese della regione[4][5].

La genesi del conflitto[modifica | modifica wikitesto]

Il 14 marzo 1939 Tiso rientrò a Bratislava e riferì all'assemblea legislativa e al governo slovacco della proposta di Hitler; quello stesso 14 marzo i parlamentari slovacchi proclamarono quindi l'istituzione di una Repubblica Slovacca indipendente, nominando Tiso come suo nuovo primo ministro. La secessione della Slovacchia portò di fatto all'estinzione della Cecoslovacchia e, conseguentemente, alla cessazione delle garanzie territoriali previste dagli accordi di Monaco: la mattina del 15 marzo il presidente cecoslovacco Hácha fu convocato al cospetto di Hitler e messo di fronte a un diktat, dovendo accettare l'imposizione di un regime di "protezione" della Germania sulle Terre ceche pur di evitare un'immediata invasione del paese da parte dei tedeschi. Truppe della Wehrmacht occuparono Praga quello stesso 15 marzo, e il giorno seguente Hitler proclamò l'istituzione di un Protettorato di Boemia e Moravia assoggettato alla Germania; la sottomissione dell'ormai ex Cecoslovacchia fu completata il 18 marzo, quando il neonato governo slovacco avviò trattative per la stipula di un tratto di protezione con la Germania[5].

Gli ungheresi erano bene informati delle azioni dei tedeschi, e il 14 marzo emisero un ultimatum al morente governo di Praga pretendendo l'immediato ritiro di tutte le truppe cecoslovacche dalla Rutenia subcarpatica: la proclamazione dell'indipendenza della Slovacchia aveva portato a un collasso dell'ordine pubblico nella regione e ad attacchi alla minoranza ungherese da parte della milizia autonomista rutena. Il governo di Praga non rispose all'ultimatum, portando quello stesso 14 marzo a scontri di frontiera tra truppe cecoslovacche e ungheresi nei pressi di Munkács; questo diede a Budapest l'atteso pretesto per invadere il 15 marzo la Rutenia, che quello stesso giorno aveva formalmente proclamato la sua indipendenza dalla Cecoslovacchia. Le truppe regolari cecoslovacche opposero una resistenza poco determinata e si ritirarono dopo un paio di giorni di brevi scontri, mentre le milizie rutene erano troppo disorganizzate per potersi opporre ai reparti ungheresi; entro il 18 marzo l'intera regione era stata occupata e formalmente annessa all'Ungheria[4][6].

L'Ungheria riconobbe formalmente il nuovo Stato slovacco già il 15 marzo, ma questo non significava che il governo di Budapest fosse soddisfatto della sistemazione dei confini tra le due nazioni; quello stesso 15 marzo, anzi, truppe slovacche dovettero respingere con le armi un tentativo degli ungheresi di occupare un'altura strategica nei pressi di Užhorod, e per tutta risposta i villaggi slovacchi di Nižné Nemecké e Vyšné Nemecké, lungo la frontiera tra Slovacchia e Rutenia, furono bombardati dall'artiglieria magiara causando la morte di 13 civili locali. Il 17 marzo il ministero degli esteri di Budapest comunicò ai suoi omologhi di Berlino l'intenzione di negoziare al più presto un aggiustamento della frontiera con la Slovacchia indipendente: la pretesa degli ungheresi si basava sul fatto che il confine tra Slovacchia e Rutenia non fosse in origine una frontiera internazionalmente riconosciuta ma solo una divisione amministrativa interna della Cecoslovacchia, e che in generale le popolazioni rutene insediate nella Slovacchia orientale dovessero essere poste sotto la protezione dell'Ungheria. Più concretamente, gli ungheresi puntavano a spostare quanto più possibile verso ovest il confine tra Slovacchia e Rutenia, al fine di mettere in sicurezza la linea ferroviaria che da Užhorod dirigeva al confine polacco correndo lungo la sponda del fiume Uh, nuova frontiera tra i due Stati; inoltre, gli ungheresi puntavano ad ampliare l'estensione del loro confine a nord con la Polonia, un alleato di Budapest nei recenti eventi dello smembramento della Cecoslovacchia, e a disperdere i resti delle milizie rutene riparati in territorio slovacco dopo l'occupazione della regione[7].

I tedeschi acconsentirono a questo nuovo cambio dei confini, e il governo slovacco dovette piegarsi con riluttanza a questa imposizione: il 18 marzo, in occasione della firma slovacca del trattato di protezione con la Germania, fu riunita a Vienna una commissione incaricata di tracciare il nuovo confine tra Slovacchia e Ungheria in Rutenia, portando a una conseguente interruzione delle scaramucce militari in corso tra le due nazioni; la commissione concluse i suoi lavori il 22 marzo, e la prospettiva di una soluzione pacifica della contesa portò gli slovacchi a ridurre il loro stato di allerta militare al confine. Gli ungheresi non erano invece dello stesso avviso: il trattato di protezione tra Germania e Slovacchia sarebbe entrato in vigore solo dopo la firma dei rappresentati tedeschi, prevista per la mattina del 23 marzo, il che conferiva agli ungheresi una finestra di tempo per estorcere agli slovacchi ulteriori concessioni territoriali; secondo Budapest, del resto, i tedeschi non si sarebbero certo opposti a modifiche territoriali verificatesi prima dell'effettiva entrata in vigore del trattato. All'alba del 23 marzo, circa sei ore prima della firma del trattato di protezione da parte del ministro degli esteri tedesco von Ribbentrop, le unità ungheresi ricevettero l'ordine di muovere all'attacco nella Slovacchia orientale; circa 30 minuti prima dell'inizio dell'azione gli ungheresi avevano emesso una nota a Berlino in cui ne avevano dato notizia ai tedeschi[4][7].

Forze in campo[modifica | modifica wikitesto]

Slovacchia[modifica | modifica wikitesto]

Il conflitto colse gli eserciti delle due nazioni nel bel mezzo di una fase di riorganizzazione; l'Esercito slovacco (Pozemné sily Slovenskej republiky), in particolare, si trovava praticamente in una fase di costruzione da zero, e doveva affrontare notevoli problemi organizzativi. La base di partenza era nondimeno molto solida, visto che gli slovacchi potevano attingere a quanto lasciato loro in dote dalla disciolta Cecoslovacchia: l'Esercito cecoslovacco (Československá armáda) aveva avuto a disposizione una forza considerevole, con un livello di addestramento ed equipaggiamenti assolutamente in linea con i più alti standard delle nazioni europee dell'epoca; la Slovacchia stessa ospitava inoltre diversi depositi di armamenti, collocati qui per tenerli al sicuro da eventuali attacchi tedeschi alle Terre ceche. Il contributo della Slovacchia all'esercito comune era tuttavia tradizionalmente modesto: nel 1935 solo un 14% circa degli effettivi delle forze armate era composto da slovacchi, una percentuale nettamente inferiore a quella dei cechi (52%) e finanche a quella dei tedeschi dei Sudeti (22%). Provenienti da una regione prevalentemente agricola e relativamente arretrata, le reclute slovacche scontavano bassi livelli di istruzione che precludevano loro l'accesso alle accademie militari e quindi agli alti gradi delle forze armate: nel 1937 gli slovacchi rappresentavano solo un 3,9% del corpo ufficiali dell'Esercito e, per quanto alcuni slovacchi avessero incarichi di rilievo nello stato maggiore delle forze armate o negli organi del ministero della difesa, un solo ufficiale slovacco aveva raggiunto il grado di generale (Rudolf Viest). In linea di massima, gli slovacchi avevano la reputazione di componente meno entusiastica e meno efficiente dell'esercito comune[8].

Nel marzo 1939 la Slovacchia era difesa da tre corpi d'armata dell'Esercito cecoslovacco (il V, VI e VII Corpo), con un totale di sei divisioni di fanteria e una "divisione mobile" (unità mista di cavalleria, fanteria motorizzata e veicoli blindati). Questo schieramento era però imponente solo sulla carta, visto che molte unità erano sotto organico a causa della smobilitazione dei reparti disposta dopo la stipula degli accordi di Monaco; subito dopo la proclamazione della Repubblica slovacca, inoltre, la maggior parte degli effettivi di origine ceca lasciò i ranghi e fece ritorno alle terre d'origine[8]. Il 15 marzo il neo promosso tenente generale Augustín Malár assunse il comando del VI Corpo d'armata, responsabile della difesa della Slovacchia orientale; il corpo si trovava in una situazione pietosa: dopo l'arbitrato di Vienna l'unità aveva dovuto sgombrare non solo le sue solide fortificazioni difensive al confine con l'Ungheria ma anche il suo quartier generale, trasferito da Košice a Prešov; lo stato maggiore fu decimato alla proclamazione dell'indipendenza, quando 120 ufficiali cechi rassegnarono in blocco le dimissioni lasciando in servizio solo otto ufficiali slovacchi. La 12ª Divisione di fanteria, stazionata in Rutenia, aveva dovuto affrontare l'invasione ungherese della regione e, dopo essersi ritirata in Slovacchia, si era completamente dissolta quando i soldati cechi che la componevano avevano fatto ritorno a casa; le altre due divisioni del corpo (l'11ª e la 17ª Divisione di fanteria) erano state parimenti decimate dall'uscita dai ranghi dei soldati cechi, con reggimenti scesi a 70-150 effettivi rispetto agli originari 2500-3000. Per compensare le carenze di organico il 15 marzo il governo slovacco ordinò la mobilitazione di cinque classi di riservisti, ma occorreva diverso tempo per poter equipaggiare e inquadrare queste truppe; similmente, il rimpatrio dei soldati slovacchi dislocati nelle Terre ceche procedeva a rilento a causa dell'intasamento delle reti ferroviarie, impegnate contemporaneamente a trasferire verso ovest i ben più numerosi smobilitati cechi[7][9].

La Slovacchia ereditò un considerevole parco di artiglieria con quasi 600 bocche da fuoco di ogni calibro, il quale tuttavia era quasi inutilizzabile visto che gran parte degli effettivi dei reggimenti di artiglieria era ceco e si dimise dal servizio alla proclamazione dell'indipendenza[10]. Simile la situazione per quanto riguardava i veicoli blindati: la 3ª Divisione mobile nella Slovacchia occidentale aveva un nutrito parco di carri armati e autoblindo moderne, ma dopo la partenza dei cechi il suo reggimento corazzato rimase con 10 ufficiali sui 60 originari e 222 sottufficiali e soldati sugli 821 originari, al punto da rendergli impossibile muovere verso il teatro operativo a est. L'unico reparto blindato disponibile nella Slovacchia orientale era un gruppo corazzato improvvisato con otto autoblindo OA vz. 30 e nove carri armati leggeri LT vz. 35: l'unità era stata appena evacuata dalla Rutenia dopo aver affrontato gli ungheresi, e prima di lasciare i ranghi gli equipaggi cechi avevano sabotato tutti i veicoli disponibili. Per rimpiazzare gli equipaggi erano stati inviati nuovi effettivi slovacchi tratti da un battaglione di telegrafisti, privi di qualsiasi esperienza in fatto di veicoli blindati; fortunatamente, poco prima dell'attacco ungherese era arrivato un tenente slovacco dotato di un minimo di preparazione, il quale riuscì a mettere in campo il 24 marzo una prima compagnia blindata con cinque autoblindo OA vz. 30[7][9].

La neonata Aeronautica militare slovacca (Slovenské vzdušné zbrane) ereditò dalle disciolte forze aeree cecoslovacche circa 300 velivoli di vario tipo, per quanto con un'alta percentuale di apparecchi obsoleti o destinati primariamente all'addestramento; la situazione del personale rifletteva quella delle forze di terra, con un'alta percentuale di piloti e personale tecnico di terra che si dimise dal servizio in quanto di origine ceca. Al momento dell'attacco ungherese erano dislocati, nella base di Spišská Nová Ves nella Slovacchia orientale, due squadroni da caccia con circa venti Avia B-534 e due squadroni da osservazione con circa venti ricognitori/bombardieri leggeri Letov Š-328; ciascuno di questi squadroni aveva in servizio non più di sei piloti addestrati, anche se nel corso del conflitto arrivarono rinforzi dai reparti dislocati a Žilina e Piešťany nella Slovacchia occidentale[11].

Ungheria[modifica | modifica wikitesto]

Oltre a imporre ampie cessioni territoriali, il trattato del Trianon del 4 giugno 1920 previde per l'Ungheria anche gravose condizioni in campo militare: al Regio esercito ungherese (Magyar királyi honvédség) fu consentito di mantenere non più di 35000 uomini in servizio volontario, distribuiti da sette brigate di fanteria e due di cavalleria senza unità organiche di livello superiore ed equipaggiati solo con 245 pezzi d'artiglieria leggera e non più di una dozzina di autoblindo; la coscrizione militare fu proibita come pure la costruzione e il possesso di artiglieria pesante, anticarro o antiaerea, di carri armati e aerei da combattimento, facendo dell'esercito una forza buona più che altro per il mantenimento dell'ordine interno. Una vera riorganizzazione dell'esercito non ebbe inizio se non dopo il 1927, quando venne meno il sistema di controllo imposto dai vincitori della prima guerra mondiale: fu introdotto un sistema di addestramento pre-militare per la popolazione maschile abile al servizio, e dal 1935 si iniziarono ad acquistare dall'alleata Italia categorie di armamenti prima proibite come artiglieria pesante, carri armati e aerei. Un vero e proprio programma di espansione e modernizzazione delle forze armate, da attuarsi in un arco di cinque anni, fu infine approvato nel marzo 1938: il piccolo esercito esistente funse da quadro addestrato per una massiccia espansione dei ranghi tramite il ripristino della coscrizione obbligatoria, con le originarie sette brigate di fanteria trasformate in altrettanti comandi di corpo d'armata ciascuno con in organico tre brigate di fanteria; furono inoltre aggiunte all'organico due nuove brigate motorizzate, equipaggiate con i mezzi blindati in servizio[12][13].

Al momento dell'occupazione della Rutenia e dell'attacco alla Slovacchia nel marzo 1939 l'Esercito ungherese era ancora in piena fase di transizione, con una gran massa di personale poco formato inquadrato però da un piccolo nucleo di unità professionali e altamente addestrate. Una considerevole percentuale delle unità migliori fu impiegata nelle operazioni, riunita in un "Gruppo dei Carpazi" sotto il comando del maggior generale András Littay e comprendente il grosso del VII Corpo d'armata e delle unità motorizzate dell'esercito[6]. In vista delle operazioni contro la Slovacchia, le unità ungheresi in Rutenia erano state riorganizzate in tre colonne: la prima, dislocata nella zona di Velykyi Bereznyi e Malyi Bereznyi a nord, comprendeva la 9ª Brigata di fanteria e la 1ª Brigata di cavalleria; la seconda, collocata al centro tra Severne e Užhorod, comprendeva la 7ª e la 24ª Brigata di fanteria e la 2ª Brigata motorizzata; la terza, collocata a sud tra Užhorod e Južne, schierava l'8ª Brigata di fanteria e la 2ª Brigata di cavalleria. Il parco veicoli corazzati era molto più numeroso di quello a disposizione degli slovacchi, anche se con veicoli più obsoleti e molto meno armati: le due brigate di cavalleria avevano in organico ciascuna 24 tankette italiane CV35, mentre la 2ª Brigata motorizzata schierava altri 22 CV35 oltre a cinque obsoleti carri leggeri Fiat 3000 italiani e tre autoblindo Crossley 29M di origine britannica[7].










Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ a b c Niehorster, pp. 16-17.
  2. ^ Kliment & Nakladal, p. 9.
  3. ^ a b Thomas & Szabo, p. 11.
  4. ^ a b c Niehorster, pp. 17-18.
  5. ^ a b Kliment & Nakladal, pp. 10-11.
  6. ^ a b Thomas & Szabo, p. 12.
  7. ^ a b c d e (SK) Peter Kacúr, Malá vojna I. - Pozemné boje 23. - 25. 3. 1939, su druhasvetova.sk (archiviato dall'url originale il 27 luglio 2011).
  8. ^ a b Kliment & Nakladal, pp. 13-14.
  9. ^ a b Kliment & Nakladal, pp. 60-61.
  10. ^ Kliment & Nakladal, p. 26.
  11. ^ Kliment & Nakladal, p. 48.
  12. ^ Niehorster, pp. 21-24.
  13. ^ Thomas & Szabo, pp. 4-5.

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]









Operazione Urgent Fury

Antefatti[modifica | modifica wikitesto]

La Grenada di Bishop[modifica | modifica wikitesto]

Scoperta da Cristoforo Colombo nel 1498, la piccola isola di Grenada fu colonia francese finché nel XVIII secolo non passò sotto il dominio del Regno Unito; a partire dal 1958 fece parte della Federazione delle Indie Occidentali, un effimero tentativo di unire le ex colonie britanniche dei Caraibi in un unico organismo, e dopo la dissoluzione della Federazione nel 1962 l'isola si avviò sulla strada dell'indipendenza, ottenuta il 7 febbraio 1974 nell'ambito del Commonwealth delle nazioni. Eric Gairy fu il primo capo di governo di Grenada indipendente, ma per la sua pessima gestione della situazione economica dell'isola si attirò ben presto pesanti critiche da parte dei partiti di opposizione, ed in particolare dal New JEWEL Movement (NJM, per esteso New Joint Endeavor for Welfare, Education, and Liberation Movement, "Movimento Nuovo Sforzo Comune per il Benessere, l'Istruzione, e la Liberazione"): fondato nel marzo del 1973 dalla fusione di due partiti più piccoli, il movimento era guidato da Maurice Bishop ed orientato verso posizioni di tipo marxiste-leniniste[1]. Alle elezioni nazionali del dicembre del 1976 Gairy e il suo partito (Grenada United Labour Party) ottennero nuovamente una netta maggioranza, ma gli osservatori internazionali denunciarono brogli a favore del vincitore e intimidazioni nei confronti dei partiti di opposizione, che rifiutarono l'esito del voto[2].

Il 13 marzo 1979, approfittando di un viaggio di Gairy negli Stati Uniti, il New JEWEL Movement condusse un colpo di stato incruento a Saint George's, capitale di Grenada, con l'appoggio di una piccolissima forza militare ("National Liberation Army", soprannominata "i 12 apostoli" per via della sua consistenza numerica) addestrata in segreto nella Guyana[3]: lo NJM istituì un governo provvisorio ("People's Revolutionary Government") con Bishop come Primo Ministro, sospendendo la costituzione, abolendo gli altri partiti e governando per decreto[1]; il Governatore Generale Paul Scoon (rappresentate nell'isola della regina Elisabetta II del Regno Unito, formale capo di stato di Grenada) fu privato di ogni potere e di fatto posto agli arresti nella sua residenza[4]. Bishop cercò di trovare una soluzione ai problemi economici dell'isola tramite l'assistenza dei paesi del blocco comunista, e nei successivi quattro anni Grenada stabilì solide relazioni commerciali con Cuba e l'Unione Sovietica[5]: agli aiuti economici si sommarono quelli militari, e le forze armate grenadine ("People's Revolutionary Armed Force" o PRAF), addestrate da consiglieri militari cubani e rifornite di armi dai paesi del Patto di Varsavia, crebbero notevolmente in numero fino a superare quelle degli Stati caraibici confinanti[6], venendo ripetutamente impiegate nella repressione di ogni dissenso nei confronti del governo dello NJM[7].

L'aeroporto di Point Salines[modifica | modifica wikitesto]

Vista aerea dell'Aeroporto Internazionale di Point Salines

Il governo di stampo marxista-leninista di Bishop e i suoi stretti legami con Cuba e l'URSS erano fonte di preoccupazione per gli Stati Uniti, che consideravano la zona dei Caraibi come parte della loro tradizionale sfera di influenza[8]. I contrasti tra le due nazioni crebbero quando il governo di Bishop decise di avviare la costruzione di un nuovo aeroporto internazionale nei pressi di Point Salines, lungo la punta meridionale dell'isola[5]: riprendendo un vecchio progetto già predisposto negli anni '50 durante il periodo del dominio britannico, il nuovo aeroporto avrebbe avuto una pista lunga 2.700 metri, sufficiente abbastanza da permettere l'atterragio dei jet di linea e incrementando così l'afflusso di turisti nell'isola[9]; Point Salines avrebbe rimpiazzato il più piccolo e vecchio aeroporto di Pearls, situato in una zona disagevole del nord-est dell'isola, la cui pista non poteva essere ampliata a causa della presenza da un lato del mare e dall'altro delle montagne[10]. I lavori, iniziati nel 1979, avrebbero dovuto avere termine per l'inizio del 1984[6].

Progettato da un'azienda canadese e in parte finanziato dalla Banca Mondiale, la costruzione dell'aeroporto di Point Salines fu affidata ad un nutrito contingente di ingegneri ed operai edili cubani, provocando i sospetti di Washington[8]. Il governo statunitense iniziò a sostenere che la lunghezza della pista e i depositi di carburante presenti nelle sue vicinanze la rendevano perfettamente idonea a svolgere un ruolo militare: Point Salines poteva diventare un punto d'appoggio per i caccia MiG-23 dell'Aeronautica militare cubana, come pure favorire i viaggi degli aerei che trasportavano truppe cubane in Africa[11][9] oppure di quelli che portavano armi di fabbricazione sovietica ai movimenti guerriglieri di sinistra del centroamerica, come i sandinisti in Nicaragua o lo FMLN in El Salvador[8][6]. Nel marzo del 1983 l'amministrazione statunitense del presidente Ronald Reagan sostenne che la costruzione dell'aeroporto era un chiaro sintomo dell'estendersi dell'influenza sovietica nei Caraibi e della militarizzazione di Grenada[12].

Colpo di stato[modifica | modifica wikitesto]

A metà del 1983 la leadership del New JEWEL Movement si ritrovò spaccata sulla linea da seguire: infastidita dall'aumentata influenza cubana nelle questioni grenadine, una fazione facente capo allo stesso Bishop iniziò a spingere per allentare le relazioni con il blocco comunista e riportare Grenada nel campo dei paesi non allineati[6], e lo stesso Bishop avviò contatti con emissari statunitensi nel giugno del 1983 onde migliorare i rapporti con l'Occidente[13]; di per contro, l'ala dura del partito, capitanata dal ministro delle finaze e vice Primo Ministro Bernard Coard, propose di rafforzare i legami con il blocco orientale e accelerare la trasformazione di Grenada in uno stato marxista vero e proprio, oltre a pretendere una maggiore condivisione del potere da parte di Bishop[6]. Con l'appoggio del Comitato Centrale del partito e il pieno sostegno dei militari, il 12 ottobre 1983 Coard depose Bishop e lo fece mettere agli arresti domiciliari[13]; la deposizione del Primo Ministro, molto popolare tra la popolazione grazie alla sua recente riforma agraria, provocò tuttavia proteste e disordini, tanto che Coard rinunciò alla carica di capo del governo e si nascose[14].

Il 18 ottobre una folla di dimostranti pro-Bishop assalì la residenza dell'ex Primo Ministro a Mount Wheldale e lo liberò. Bishop condusse i suoi sostenitori a Saint George's per cercare di prendere possesso del quartier generale della PRAF, Fort Ruppert: i dimostranti sopraffecero le guardie all'entrata della struttura, ma prima che potessero consolidare la loro conquista un contingente di militari sopraggiunse con il sostegno di alcuni mezzi blindati, aprendo il fuoco sulla folla e lasciando sul terreno parecchi morti (le stime variano di molto, andando da un minimo di dieci ad un massimo di cento dimostranti uccisi)[14]. Bishop fu immediatamente ricatturato dai militari insieme a quattro dei suoi ministri e a tre uomini d'affari locali suoi sostenitori: il ministro dell'educazione Jacqueline Creft fu picchiata a morte, mentre tutti gli altri furono giustiziati da un plotone d'esecuzione a Fort Ruppert quella stessa notte[13]. Il 19 ottobre seguente il comandante della PRAF, generale Hudson Austin, proclamò l'istituzione di un governo militare provvisorio ("Revolutionary Military Council") composto da 16 membri[15] con sé stesso come presidente: Austin sciolse il governo civile (Coard fu ridotto a suo consigliere[6]), chiuse l'aeroporto e proclamò un coprifuoco di quattro giorni, durante i quali fece arrestare tutti i sostenitori di Bishop più in vista[13].

La sanguinosa deposizione di Bishop fu accolta con sgomento dalle nazioni caraibiche confinanti con Grenada: i sei membri dell'Organizzazione degli Stati dei Caraibi Orientali o OSCO (Antigua e Barbuda, Dominica, Saint Kitts e Nevis, Saint Vincent e Grenadine, Santa Lucia e il territorio britannico di Montserrat) denunciarono immediatamente le uccisioni e disconobbero il governo di Austin, invocando un intervento militare per ristabilire l'ordine a Grenada[6]. Poiché nessuna di queste nazioni disponeva di adeguate forze armate[16] per condurre una simile operazione, l'appello fu girato ad altri Stati della regione, venendo accolto dalla Giamaica, da Barbados e soprattutto dagli Stati Uniti.

Verso l'intervento[modifica | modifica wikitesto]

La situazione a Grenada veniva monitorata dagli Stati Uniti fin dalla deposizione di Bishop del 12 ottobre; in particolare, vi era apprensione per la sorte di circa 1.000 cittadini statunitensi presenti sull'isola, di cui 600 tra studenti, insegnati e loro familiari residenti presso i campus della facoltà di medicina della St. George's University: si temeva che essi potessero rimanere coinvolti in un'eventuale guerra civile grenadina o, peggio, che potessero essere presi in ostaggio come era accaduto al personale dell'ambasciata statunitense di Teheran nel novembre del 1979[6]. Tra il 14 ed il 17 ottobre l'ambasciatore statunitense a Barbados Milan Bish, responsabile anche per i rapporti con Grenada, cercò di raccogliere informazioni sulla situazione dell'isola e sulle condizioni degli studenti di Saint George's, con cui si manteneva solo uno sporadico collegamento telefonico e tramite radioamatori[4]: il rapporto di Bish fu presentato il 17 ottobre ad una rinunione del "Regional Interagency Group" del Consiglio per la Sicurezza Nazionale ("National Security Council", NSC) statunitense, durante la quale si decise di avviare i primi preparativi per un'operazione di evacuazione tramite l'impiego di forze militari[17].

Un primo piano d'operazione venne presentato il 20 ottobre dall'ammiraglio Wesley L. McDonald, responsabile dello United States Atlantic Command, al generale John William Vessey, Capo dello stato maggiore congiunto: esso prendeva unicamente in considerazione l'evacuazione dei cittadini statunitensi, con diversi scenari in caso si dovesse affrontare o meno la resistenza delle forze grenadine e cubane, ma inizialmente non prevedeva alcun tentativo di sovvertire il nuovo governo insediatosi nell'isola[14]; il piano di McDonald prevedeva l'impiego di un contingente navale e di elementi di una forza di spedizione anfibia dei Marines con, se necessario, un battaglione aviotrasportato come riserva, ma Vessey suggerì che esso fosse espanso in modo da prevedere l'impiego del recentemente formato 75th Ranger Regiment dell'esercito per catturare l'aeroporto di Point Salines, oltre a elementi delle forze speciali statunitensi come specialisti per la liberazione di ostaggi[18]. Quello stesso pomeriggio lo "Special Situation Group", l'alto organo di gestione delle crisi dello NSC, si riunì sotto la direzione del vicepresidente George H. W. Bush per discutere della situazione di Grenada: benché si convennise che le forze cubane o sovietiche non avessero le capacità per intervenire nella crisi, si dava per probabile un'opposizione da parte dei militari grenadini all'azione statunitense, e quindi si decise che il piano di intervento sarebbe stato espanso in modo da includere il disarmo della PRAF e la stabilizzazione della situazione politica di Grenada[19]; come misura preliminare, il gruppo da battaglia facente capo alla portaerei USS Independence, in rotta per il Medio oriente, ricevette l'ordine di dirigere verso le acque grenadine, unitamente al Marine Amphibious Ready Group 1-84 (MARG 1-84, unità di navi d'assalto anfibie con a bordo una forza di spedizione dei Marines, in questo caso la 22nd Marine Expeditionary Unit o 22 MEU).

L'annuncio dell'arrivo della Independence nelle acque caraibiche fu accolto favorevolmente dagli Stati della OSCO[18]: nella notte tra il 21 e il 22 ottobre il Primo Ministro di Dominica Eugenia Charles, presidente di turno della OSCO, presentò al presidente Reagan una formale richiesta di intervento a Greanada per ristabilire l'ordine; Reagan espresse la sua forte preferenza per l'azione e diede il suo assenso definitivo all'operazione[20]. La mattina del 22 ottobre il Governatore Generale Scoon, ancora prigioniero della sua residenza, riuscì a far pervenire al vertice della OSCO una lettera con cui chiedeva un intervento per ristabilire l'ordine a Grenada, lettera subito girata ai rappresentati diplomatici statunitensi[21]: non considerando il Revolutionary Military Council come un interlocutore credibile, gli Stati Uniti decisero di considerare Scoon come la più alta autorità legittima di Grenada e il suo messaggio come una richiesta ufficiale di intervento[4].

Un ultimo tentativo di risolvere la crisi per via diplomatica naufragò quello stesso 22 ottobre: l'aeroporto di Pearls fu brevemente riaperto per permettere l'atterraggio di una delegazione diplomatica anglo-statunitense, guidata dal console statunitense a Barbados Donald Cruz; la delegazione visitò gli studenti a St. George's, trovandoli tutti al sicuro[18] sebbene preoccupati per la situazione[21], ma un incontro tra Cruz e il portavoce del consiglio rivoluzionario, maggiore Leon Cornwall, per negoziare una pacifica evacuazione degli studenti non approdò a niente a causa dei ssopetti dei grenadini per qualsiasi interventento esterno nell'isola[18]. Quel pomeriggio il presidente Reagan firmò l'ordine esecutivo che dava il via all'invasione, denominata "Operazione Urgent Fury"; il giorno di avvio dell'azione (D-Day) venne fissato per la mattina del 25 ottobre 1983.

Piani e schieramenti[modifica | modifica wikitesto]

Forze grenadine e cubane[modifica | modifica wikitesto]

I servizi di intelligence statunitensi disponevano di poche informazioni su Grenada in generale e sulle forze armate grenadine in particolare: le stime davano alle forze grenadine un totale di 1.000/1.200 soldati regolari e tra 2.000 e 5.000 miliziani civili armati[22], numeri di gran lunga superiori a quelli effettivi. La People's Revolutionary Armed Force grenadina mise in campo un totale di circa 1.500 effettivi, suddivisi tra esercito regolare, milizia e una piccola guardia costiera. Il grosso degli effettivi era rappresentato dalla milizia ("People’s Revolutionary Militia"): concepita sul modello della Milicias Nacionales Revolucionarias cubana, si trattava di una forza di civili che avevano ricevuto un addestramento militare di base ed erano stati dotati di armi leggere, per un organico totale di circa 1.500/2.500 uomini[23]; proprio per la sua natura "popolare", tuttavia, la milizia era ritenuta dai militari golpisti come decisamente pro-Bishop e venne pertanto in gran parte esclusa dai preparativi anti-invasione[24], con solo un migliaio circa di uomini ebbe un qualche ruolo durante i combattimenti[8].

Gli effettivi dell'esercito regolare ("People’s Revolutionary Army" o PRA) contavano poco più di 300 uomini dei reparti combattenti[8], cifra che saliva a circa 450 contando anche il personale di guardia e dei servizi[23], frazionati in una serie di accampamenti e postazioni tutto intorno all'isola. Le truppe grenadine erano bene equipaggiate con armi leggere e di supporto provenienti dall'URSS o dai paesi del Patto di Varsavia (fucili d'assalto AKM, mitragliatrici PK, Vz. 52 e DShK, lanciarazzi RPG-2 e RPG-7, mortai 82-BM-37[25]); le forze regolari potevano poi contare su una piccola componente blindata dotata di otto veicoli trasporto truppe BTR-60 e due autoblindo BRDM-2 dotati di mitragliatrici da 14,5 mm[25][8], oltre a quattro cannoni 76 mm M1942 ex cubani che tuttavia non furono impiegati durante l'invasione. La difesa contraerea disponeva di dodici mitragliere 23 mm ZU-23[25], quasi inutili contro gli aviogetti ma ancora efficaci contro gli elicotteri. La guardia costiera allineava solo poche decine di uomini e quattro piccole imbarcazioni (pescherecci armati[8]) per il pattugliamento delle acque costiere; vi erano anche un centinaio di agenti del Police Service, dotati però di limitate capacità militari.

Il consiglio militare faceva largamente affidamento, in caso di intervento armato statunitense, sul supporto da parte dei propri alleati cubani. Cuba tuttavia si trovava in grave imbarazzo dopo il colpo di stato dell'ottobre 1983: Bishop era una figura molto popolare tra i cubani, ma il governo de L'Avana era riluttante a sconfessare in pieno i suoi uccisori nel timore di perdere tutta l'influenza che esercitava su Grenada[26][14]. In una dichiarazione pubblica Fidel Castro condannò l'uccisione di Bishop e chiese "una punizione esemplare" per i responsabili[26], ma per tramite del suo ambasciatore a Grenada fece riferire verbalmente ad Austin che in caso di invasione il personale cubano già nell'isola avrebbe collaborato alla difesa, a patto che combattesse sotto il comando diretto de L'Avana[4]. Il 24 ottobre un aereo di linea cubano portò a Grenada il generale Pedro Tórtolo, capo di stato maggiore dell'esercito cubano e in passato già comandante della missione militare cubana nell'isola; Tórtolo prese il comando del personale cubano, ammontante a 784 persone (tra cui 44 donne)[27]: oltre ai 18 membri della missione diplomatica e altro personale ausiliario, vi erano 53 consiglieri militari e civili e 636 operai edili (in maggioranza riservisti dell'esercito)[24]. Tórtolo fece evacuare i dipendenti donne e altro personale non essenziale (circa 50 persone) tramite il mercantile cubano Viet Nam Heroico, che salpò da St. George's quello stesso giorno, e riorganizzò il resto del persoale in un'unità militare improvvisata: i cubani furono schierati a difesa dell'aeroporto di Point Salines e delle spiagge vicine insieme al personale del PRA, che invece avrebbe mantenuto il controllo delle postazioni antiaeree[24]. I servizi di intelligence statunitensi indicavano anche la presenza di circa 50 cittadini sovietici nell'isola, ma non risulta che abbiano mai avuto un ruolo nei combattimenti[28].

Forze statunitensi[modifica | modifica wikitesto]

Con il cambiamento di "Urgent Fury" da missione di evacuazione a invasione con successiva fase di stabilizzazione, si rese necessario rivedere e ampliare il piano originario. Il 23 ottobre il vice ammiraglio Joseph Metcalf III si trasferì sulla nave d'assalto anfibia USS Guam per assumere il comando della forza d'invasione, rinominata Joint Task Force 120 (JTF 120)[29]; come suo vice e responsabile delle operazioni a terra fu scelto il maggior generale Norman Schwarzkopf[24].



L'invasione[modifica | modifica wikitesto]

Ricognizioni preliminari[modifica | modifica wikitesto]

25 ottobre: D-Day[modifica | modifica wikitesto]

L'aeroporto di Pearls[modifica | modifica wikitesto]

L'attacco a Point Salines[modifica | modifica wikitesto]

Operazioni speciali[modifica | modifica wikitesto]

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ a b Cole, p. 9.
  2. ^ Dieter Nohlen, Elections in the Americas: A data handbook, 2005, Volume I, pp. 301-302. ISBN 978-0-19-928357-6.
  3. ^ Hudson Austin, su thegrenadarevolutiononline. URL consultato il 15 dicembre 2012.
  4. ^ a b c d Jurado & Thomas, p. 31.
  5. ^ a b Jurado & Thomas, p. 28.
  6. ^ a b c d e f g h Jurado & Thomas, p. 29.
  7. ^ Mark Adkin, Urgent Fury, Free Press, 1989, p. 9. ISBN 0-669-20717-9.
  8. ^ a b c d e f g Stewart, p. 7.
  9. ^ a b Cole, p. 10.
  10. ^ What About the Airport?, su thegrenadarevolutiononline. URL consultato il 15 dicembre 2012.
  11. ^ Nel corso degli anni '70 e '80 truppe da combattimento cubane furono inviate in Angola per appoggiare il governo di sinistra del MPLA durante la guerra civile angolana; consiglieri militari cubani furono inoltre inviati presso i governi socialisti della Repubblica del Congo e dell'Etiopia. Vedi Angelo Trento, Castro e Cuba, Giunti, 1998, pp. 87-90. ISBN 88-09-21276-2.
  12. ^ Briefing, su nytimes.com. URL consultato il 24 novembre 2012.
  13. ^ a b c d Cole, p. 11.
  14. ^ a b c d Stewart, p. 8.
  15. ^ Le esatte identità dei 16 membri del consiglio non sono mai state chiarite con esattezza e, al di fuori dei membri più in vista, variano da resconto a resoconto. Vedi What Was the Revolutionary Military Council?, su thegrenadarevolutiononline. URL consultato il 15 dicembre 2012.
  16. ^ Solo Antigua disponeva di una ridotta forza militare, la Royal Antigua and Barbuda Defence Force.
  17. ^ Cole, p. 13.
  18. ^ a b c d Stewart, p. 9.
  19. ^ Cole, pp. 17-18.
  20. ^ Stewart, p. 10.
  21. ^ a b Cole, p. 22.
  22. ^ Cole, p. 21.
  23. ^ a b What Was the PRA, PRAF and PRM?, su thegrenadarevolutiononline. URL consultato il 15 dicembre 2012.
  24. ^ a b c d Jurado & Thomas, p. 32.
  25. ^ a b c Stephen W. Sylvia, Michael J. O'Donnell, Guns of Grenada, Moss Publications, 1984, pp. 23-30. ISBN 0-943522-08-X
  26. ^ a b Jurado & Thomas, p. 30.
  27. ^ What About the Cubans?, su thegrenadarevolutiononline. URL consultato il 15 dicembre 2012.
  28. ^ What About the Soviets?, su thegrenadarevolutiononline. URL consultato il 15 dicembre 2012.
  29. ^ Cole, p. 30.

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

  • Mir Bahmanyar, I Navy SEALs, Osprey Publishing, 2011, ISNN 2280-7012.
  • (EN) Ronald H. Cole, Operation Urgent Fury (PDF), Washington, Joint History Office of the Chairman of the Joint Chiefs of Staff, 1997, ISBN non esistente.
  • Carlos Caballero Jurado, Nigel Thomas, Le guerre in Centro America 1959-1989, Osprey Publishing, 2011, ISNN 2039-1161.
  • (EN) Richard W. Stewart, Operation Urgent Fury: The Invasion of Grenada, October 1983 (PDF), United States Army Center of Military History, CMH Pub 70–114–1.