Strage di Lamosano

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Strage di Lamosano
TipoEsecuzione sommaria
Datamarzo 1945
LuogoLamosano, frazione di Chies d'Alpago (BL)
StatoBandiera dell'Italia Italia
Responsabilipartigiani della Brigata Garibaldi "Mazzini"
MotivazioneEliminazione di prigionieri di guerra
Conseguenze
Morticirca 65 prigionieri di guerra[1]

La strage di Lamosano[1] fu un'esecuzione sommaria effettuata nel Veneto da componenti della Resistenza italiana nel marzo del 1945.

Storia[modifica | modifica wikitesto]

In località Val Salega (comune di Fregona, TV), il 19 marzo 1945 militari della RSI tentarono di risalire l'area verso la località Crosetta, con lo scopo di rimuovere dalla zona la presenza dei partigiani, ma al contrario la forte reazione dei partigiani che presidiavano la zona, ben dotati di armi leggere e pesanti ne scompaginò i piani sbaragliandoli. Degli attaccanti, soltanto 12 fascisti riuscirono a fuggire, 17 morirono nell'azione e ben 65 giovani militi delle SS italiane, del “Barbarigo” e della X MAS (dei quali 7 feriti) vennero fatti prigionieri[2] dopo cruenti scontri dai partigiani di un reparto della divisione Garibaldi Nannetti guidato da Giuseppe Giust detto "Vidas".[3] Secondo un volantino distribuito dalla Divisione garibaldina “Nino Nannetti” il reparto fascista sarebbe stato composto da 85 uomini[2], dei quali 17 furono uccisi nel corso dello scontro armato.[3] Successivamente i prigionieri vennero ceduti a un altro reparto della stessa divisione[3]. I fascisti rifiutarono la proposta di scambio di questi prigionieri con la liberazione di partigiani da loro catturati[2] e, in Comune di Chies d'Alpago, questi vennero uccisi e i loro corpi bruciati nella fornace[1][4] in località Venal de Funes[5].

La decisione di uccidere i prigionieri, secondo Casagrande, fu indotta da una combinazione di motivazioni: il rifiuto dello scambio di prigionieri, l'elevato numero di prigionieri e la conseguente difficoltà di reperire cibo anche per essi, in quanto scarseggiante anche per i partigiani e soprattutto il fatto che i repubblichini si erano impratichiti dell'area e avrebbero potuto, se liberati fungere da guide per nuovi rastrellamenti, oltre a una certa disorganizzazione di intenti nelle file partigiane[2].

A questo riguardo, il comandante Giuseppe Giust ricorda nel libro che raccoglie le sue memorie:

«Per quanto mi riguarda, io continuo a sostenere che la sorte di quegli uomini non era la loro eliminazione. Al contrario, io ero fermamente convinto che essi servissero vivi, per degli scambi di prigionieri [...]. Questa fu la consegna che io avevo avuto dal comando Divisione e a cui mi attenni strettamente, cercando di prendere il maggior numero di prigionieri, in vista appunto di possibili scambi con partigiani»

La strage non ebbe negli anni successivi alla fine delle ostilità grande eco, e il fatto non venne denunciato dalla chiesa locale.[6] Ma fu il vescovo, mons. Bordignon, a far recuperare i resti nel 1947, facendoli poi seppellire, a sue spese, in una tomba a ignoti.[7]

Seguiti giudiziari[modifica | modifica wikitesto]

Nel 2005 la Procura militare della Repubblica di Padova aprì un’inchiesta giudiziaria sull'eccidio. Il 9 agosto 2007 il fascicolo fu archiviato dal giudice delle indagini preliminari del Tribunale militare di Padova per insufficienza di prove; pur riconoscendo l'immoralità di queste azioni, il giudice ritenne che a distanza di più di 50 anni dai fatti i possibili responsabili fossero ormai irreperibili, deceduti o infermi di mente.[8]

Nell'aprile 2019 l'Associazione caduti e dispersi della Rsi ha protestato per l'intestazione di una sala del comune di Belluno a Bianchi (nome di battaglia dell'ex partigiano Eliseo Dal Pont[9], e segretario della CGIL), considerato tra i responsabili dell'eccidio.[10]

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ a b c Fabio Poloni, Indagine sui partigiani dopo 60 anni, in la Tribuna di Treviso, 13 settembre 2005, p. 18. URL consultato il 28 gennaio 2010 (archiviato il 27 aprile 2019).
  2. ^ a b c d p.222, G. Casagrande (2014)
  3. ^ a b c Bruno Vespa, Vincitori e vinti, Edizioni Mondadori, 2010, ISBN 9788804554516. URL consultato il 19 giugno 2020 (archiviato il 21 giugno 2020).
  4. ^ Le stragi dei vincitori: 5 maggio 1945, l’eccidio di Valdobbiadene, su italianiinguerra.com. URL consultato il 27 maggio 2020 (archiviato dall'url originale il 7 maggio 2020).
  5. ^ p.64, Vittorino Pianca (2007)
  6. ^ Giuseppe Sorge, Relazioni dei parroci delle diocesi di Belluno e di Feltre sulla occupazione nazista dal 1943 al 1945, Istituto bellunese di ricerche sociali e culturali, 2004, p. 27. URL consultato il 19 giugno 2020 (archiviato il 19 giugno 2020).
  7. ^ La Brigata Mazzini probabile responsabile, su www1.adnkronos.com, 16 ottobre 2005. URL consultato il 19 giugno 2020 (archiviato il 21 giugno 2020).
  8. ^ Luca Nardi, Storie di guerra: Valdobbiadene e dintorni dal gennaio 1944 all'eccidio del maggio 1945 (PDF) (Tesi di laurea), p. 174.
  9. ^ Adria storia, vol. 9, Centro studi e ricerche storiche "Silentes loquimur", 2001, p. 38. URL consultato il 19 giugno 2020 (archiviato il 21 giugno 2020).
  10. ^ Sala Bianchi: "Istigazione all'odio, denunciamo", su ilgazzettino.it, 27 aprile 2019. URL consultato il 18 giugno 2020 (archiviato dall'url originale il 21 giugno 2020).

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

  • Antonio Serena, Lamosano: seviziati, uccisi, bruciati, in I fantasmi del Cansiglio - Eccidi partigiani nel Trevigiano 1944-1945, Milano, Mursia, 2011, ISBN 8842550205.
  • Giuliano Casagrande, La propaganda partigiana nella provincia di Treviso. Progetti, idee e parole di una lotta popolare (PDF) [collegamento interrotto], in Venetica, n. 1, Cierre Edizioni, 2014. URL consultato il 25 giugno 2020.
  • Vittorino Pianca, Giuseppe Giust. La mia Resistenza (PDF), in Patria indipendente, ANPI, 2007.
  • Pier Paolo Brescacin, Giuseppe Giust la mia resistenza, Vittorio Veneto, ISREV, 2006.

Voci correlate[modifica | modifica wikitesto]