Sarkusah e il carteggio del falso codice arabico

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Voce principale: Storia di Siracusa.

Sarkusah fu il nome arabo dato alla città di Siracusa nel carteggio del falso codice arabico, conosciuto come codice martiniano, tradotto originariamente da Giuseppe Vella, reso in lingua italiana e pubblicato da Alfonso Airoldi[1] nell'anno 1789, e poi rivelatosi un grande falso storico.

Tale codice e tale vicenda ebbero un vasto eco tra gli studiosi del tempo, poiché il carteggio martiniano avrebbe rappresentato l'unica testimonianza di primissima mano, veramente completa e ricca di informazioni, del periodo arabo-siculo.

Il codice martiniano[modifica | modifica wikitesto]

L'immagine proviene da una copia bibliografica stampata nel 1789 del Codice diplomatico di Sicilia sotto il governo degli Arabi di Vella-Airoldi. Tale scritta arabica sarebbe la frase riportata sull'elsa di un'antica spada che venne custodita a Siracusa e che appartenne al conquistatore della città, Busa ben Kagebis, come riporta il codice:
«Questa è la spada Indiana di peso 250. dramme, che è del Generale Busa ben Kagebis, con la quale nelle sue mani conquistò la Città di Sarkusah nell'anno 257. di Maometto nostro Profeta. Oh quanti furono feriti, ed uccisi con questa Spada con l'assistenza di Maometto nostro Profeta, ed Apostolo di Dio[2]

Il nome di Siracusa veniva ripetuto più e più volte in tale codice; in fitti e continui carteggi tra emiri e condottieri arabi. Tutto veniva di essa descritto: gli assedi che gli arabi fecero dietro le mura, la presa della città, il trattamento dei prigionieri e il loro riscatto, le vicende di vita sociale.

Se tale codice fosse risultato reale, avrebbe colmato un vuoto storico accertato che adombra uno dei periodi più travagliati e misteriosi per la città di Siracusa. Scrisse dell'inganno Bartolomeo Lagumina nel suo libro dedicato a tale codice:

«...un tale Giuseppe Velia, abate maltese, dòsso a bere, non a gonzi ed illiterati, ma a persone rispettabili per dottrina e per censo, di avere finalmente rinvenuta nel codice in parola, tutta quanta la storia siciliana al tempo della dominazione degli Arabi, e come ne facesse stampare la traduzione a spese di un Mecenate delle lettere siciliane, e in conseguenza attirasse a se applausi di mezza Europa, e gradi, e onori, e quel che più gl'importava, abazie e danari. Egli è molto difficile che nella storia dell'impostura umana ci sia mai stata magagna come questa; la quale, ordita con tanta impudenza, abbia trovato credito sì grande, sì eccellente fortuna, e scoverta, sì benigna impunità[3]

Il codice arrivò a essere stampato in Germania, ed era già in fase di lavorazione una traduzione per la Svezia. Ma prima che l'enorme mole di notizie false su tale periodo storico potesse diffondersi nel mondo degli studi, intervenne il sovrano delle Due Sicilie, il quale per evitare uno scandalo europeo, portò a processo l'abate maltese, su sollecitazione dei molti sospetti sorti presso gli eruditi siciliani che si domandavano come fosse possibile che un simile tesoro di fonte primaria fosse rimasto celato agli occhi di tutti tranne quelli del Vella. Con l'aiuto di esperti linguisti arabi come Joseph Hager e Germano Adami, si scoprì l'inganno: il codice martiniano era stato corrotto, ovvero modificato, quasi totalmente per mano di Giuseppe Vella, il quale aveva inventato un linguaggio incomprensibile che egli spacciava per arabo in una Sicilia che aveva perso ogni conoscenza di quell'antica lingua. In realtà, dietro le correzioni si nascondeva tutt'altro argomento che non riguardava la storia di Sicilia; si trattava infatti di una vita di Maometto che egli aveva fatto passare per codice arabo-siculo[4]. Tuttavia, come sottolinea il Lagumina, vi fu chi vi credette e continuò ad accreditare tale codice in rispettabili ambienti letterari, ponendo in bibliografia erudita le traduzioni del Vella[5].

Il carteggio tra Busa ben Kagibis e Ahmed ben Jaakob[modifica | modifica wikitesto]

L'assedio della città[modifica | modifica wikitesto]

Di seguito vengono riportati alcuni dei carteggi più interessanti che avrebbero riguardato Siracusa nel periodo della sua conquista araba:

Busa ben Kagibis, l'emissario della lettera, sarebbe stato il condottiero, generale che avrebbe conquistato Siracusa. Il suo interlocutore era Ahmed ben Jaakob, l'Emir Chbir di Sicilia, ovvero l'emiro supremo della Sicilia che risiedeva a Palermo: Balirmu chiamata nel codice martiniano. In tutte le lettere i due interlocutori si riferiranno sempre con grande rispetto ad una non meglio specificata Grandezza, alta personalità araba che non risiedeva in Sicilia ma in Africa, corrispondente alla figura storica dell'amīr aghlabida, e alla quale essi dovevano riferire tutto ciò che accadeva in terra siciliana:

«Nel giorno 29. del mese di Edilkadan 265. abbiamo ricevuto una lettera da Sarkusah, che ci mandò l'Emir dell'esercito Busa ben Kagibis, la quale diceva così:
Ahmed ben Jaakob, per la Dio grazia, Emir Chbir di Sicilia, l'Emir Busa ben Kagibis con la faccia per terra bacia le mani della sua Grandezza, e le notifica che nella giornata de' 25. del mese di Giamadilaud 264. ho fatto così:
Primo. Ho diviso la mia gente, ed ho insegnato nella stessa Città di Nehetu come si dovesse dare l'attacco alla Città di Sarkusah, dopo averla bene ammaestrata l'ho fatta riposare per un giorno.

[...] Quinto. Nel dì 20. del mese di Schiahaban sono usciti sei uomini dalla Città di Sarkusah, e presentati a me ho loro dimandato: Sentite, o gente maledetta, perché siete usciti dalla Città, forse per fare le spie? Essi mi hanno risposto che no, ma che sono usciti da quella Città, perché stavano morendo di fame. Ho dato ordine che si desse loro da mangiare, e che loro si mettessero i ferri ai piedi, e alle mani [...] ed in fino alli 10. di Mars 265. in quel sotterraeo [dove vennero rinchiusi i siracusani che ad essi si consegnarono] abbiamo chiuso di gente Greca mille e trecento e quattordici uomini, li quali sono usciti da Sarkusah per la fame, e di gente Siciliana ne sono usciti ottocento, e quaranta, che si sono uniti con la gente del nostro esercito.[6]»

Il carteggio prosegue poi descrivendo la presa della città:

«Al fare del giorno 21. dello stesso mese di Edilkadan entrammo in Città: il Castello non era ancora sottomesso, onde si diede l'assalto al medesimo, che in poche ore abbiamo quasi diroccato: entrammo dentro, e tutta la gente fu passata a fil di spada [...] Dopo che feci mettere tutta quella gente nemica in prigione, ci accampammo per prendere un poco di riposo tanto desiderato da me, e da tutta la gente dell'esercito, che per franchezza non cercò mangiare. A di 22. dello stesso mese ho fatto raccogliere tutta la gente, che ci è morta, ch'era ottomila seicento e ventidue uomini [...] Ho fatto ancora raccogliere li morti della gente nemica ch'erano undicimila e settantaquattro [...] Di oro argento, e danato ne ho una camera piena, e non so quanto bene vi sia in quella camera [...] aspettando prima gli ordini della sua Grandezza, se voglia, che io mandassi tutto il bene, che si è trovato, ed adegualmente gli schiavi in Balirmu. Intanto aspetto con premura i comandi della sua Grandezza [...][7]»

Il condottiero emiro dell'esercito riceve la lettera che attendeva dal supremo emiro di Sicilia:

«Ahmed ben Jaakob, per la Dio grazia, Grande Emir di Sicilia ti bacia tre volte la faccia, e ti dice, o Emir Busa ben Kagibis, che la mia Grandezza ha ricevuto la tua lettera scritta il dì 25. del mese di Edilkadan, la quale ha dato un'allegrezza al mio cuore, che non si può esprimere, quando la mia Grandezza ha letto la tua carta, ed ha letto in essa, che con tanto valore già ti sei reso padrone di Sarkusah [...][8]»

Infine un carteggio dove l'emiro siracusano riassume la situazione della popolazione siracusana in questi termini:

«Con la nostra gente ho mandati cinquemila uomini schiavi, tutti con i ferri ai piedi [...] Tutte le donne le ho mandate insieme coi loro figli sopra le scelandie, e tra le une, e gli altri sono tremila quattrocento e trentotto [...] Li Siciliani, che abitavano in Sarkusah non erano, che settemila, che sono tutti chiusi in prigione, perché hanno combattuto contro di noi; ma dico alla sua Grandezza, che a quelli Siciliani bisogna dare la libertà, perché se non davano aiuto alla gente nemica [i greci], i nemici l'avrebbero ammazzato; onde è che piuttosto l'aiutarono per forza, perciò bisogna mandarli alle loro case: le donne, e figliuoli Siciliani non li ho fatti mettere nelle prigioni, ma li ho lasciati alle loro case [...] La Città è bella assai, ma bisogna ingrandirvi la popolazione, perché in oggi è assai spopolata [...][9]»

Il carteggio del codice martiniano è molto più vasto; si descrivono nel dettaglio tutti i beni preziosi trovati nella città, la visita che il Mulei, ovvero la Grandezza alle quali sono rivolte tutte le lettere, fece a Siracusa, e si prosegue ancor oltre.

Il carteggio tra il Papa di Roma e l'Emir Chbir di Sicilia[modifica | modifica wikitesto]

Il riscatto dei prigionieri siracusani[modifica | modifica wikitesto]

Il carteggio tra l'emiro di Sicilia e papa Marino I sulla liberazione degli schiavi siracusani; stampato all'interno del codice martiniano settecentesco.
Papa Marino I; secondo il codice arabico martiniano, sarebbe stato egli a richiedere presso le personalità arabe di Sicilia e d'Africa, il riscatto dei prigionieri siracusani, tenuti a Palermo. E sarebbe stato solo il primo dei tre papi a incominciare il carteggio diplomatico, poiché dopo di lui continuarono a trattare papa Adriano III e papa Stefano V[10].

Il codice martiniano, dopo aver descritto l'assedio e la conquista, conclude questo periodo narrando della corrispondenza che venne intrapresa dal papa della chiesa di Roma, Marino I, e il supremo emiro di Sicilia, Alhasan ben el Aabbas. L'argomento del carteggio erano gli accordi, in termini economici, per il riscatto dei prigionieri siracusani tenuti schiavi presso Palermo.

Da notare la lingua scritta nella quale l'Airoldi traduce le parole del papa impresse nel codice che il Vella avrebbe tradotto dall'arabico. Il traduttore italiano, in buona fede, afferma che tale linguaggio papale - un misto di latino e volgo del popolo siciliano - fosse dovuto al fatto che i diplomatici latini, volendo che il loro messaggio giungesse in maniera chiara e leggibile, usò la lingua della terra siciliana per essere più efficace[11].

Significativo è inoltre la sottolineatura che lo stesso Airoldi imprime, quando informa che nell'Archivio Vaticano non esiste alcuna testimonianza di tale carteggio arabo-siculo:

«È bene da compiangersi in questa occasione, che nell'Archivio Vaticano non s'incontrino i registri delle Epistole scritte a quei tempi da' Sommi Pontefici. Checchè ne sia però di queste congietture, e probabilità, certo è intanto, che nel nostro Codice s'incontrano le lettere, che si esibiscono impresse, ed incise sull'originale.»

In questi termini il papa Marino I scriveva per richiedere la liberazione dei religiosi aretusei e degli schiavi:

«Il giorno 20. del mese di Sciaual 271. giunse una barca Napolitana, la quale ci portò una lettera del Papa di Roma, che diceva così:
Lu Papa de Roma Marinu servus di omni servi di lu Maniu Deus te saluta, e ki lu Manius Deu te det la sua benedikzione, te prekor, o Grandi Amira, de venderki al Arkhiepiskopu, le Episkopu di Malta, i Papasi ki veneru sklavi a Sarkusah, e illa gens granda ki hai sklava in Balirmu omni. La tua dominakzione me invii la responsio quantus vorrai denari per omni kaput de illa gens [...] quia lu meus kor mi fa male multu di abere li frate sklavi kun la katena di ferru alli piedi [...][12]»

Ottenne risposta dall'emiro supremo di Sicilia e dal Mulei d'Africa; poiché tale missiva era stata mandata a entrambi:

«A dì 22. del mese di Sciaual 271. abbiamo mandato una lettera al Papa di Rima con la sua stessa barca, che ci portò la lettera del papa, e diceva così la lettera, che abbiamo mandato.
Alhasan ben Aabbas, per la Dio grazia, Emir Chbir di Sicilia ti dice, o Marino Papa di Roma, che ha ricevuto la tua lettera [...] ho letto che la tua Signoria vuole comprare l'Arcivescovo di Sarkusah insieme coi suoi Preti; vuol pure comprare il Vescovo di Malta, e quella gente Grande [per gente Grande si intendono le alte personalità politiche e militari della città], ch'è schiava nella prigione [...] Dico alla tua Signoria, che dal tuo scrivere mi pare, che sei un buon uomo, e perciò riferiremo amici [...][13]»

Dopo altri carteggi infine vengono spediti al papa, dietro concessione monetaria, i religiosi e i primi schiavi siracusani, con un monito dell'emiro di Sicilia:

«Alhasan ben el Aabbas, lode a Dio, Emir Chbir di Sicilia ti saluta assai, e ti dice, o Papa Martino, che ha ricevuto la tua lettera segnata il giorno 7 del mese di Edilkadan nella quale ha letto, che non hai mandato li Albuliti insieme col danaro in Balirmu per riscattare gli schiavi, perché non sai la quantità di danaro che vi è di bisogno [...] per farti conoscere la verità, insieme con questo foglio ti ho mandato ventisette Preti, e così dovrai mandarmi duecento Krus per ognuno [...][14]»

«[...] Ma senti, o Papa Martino, tu stai facendo del bene alla gente Greca, ed essa ti ricompenserà con farti del male, perché quella gente a chi le fa del bene sa pagare con fargli delli tradimenti, e perciò bisogna che tu tenessi gli occhi aperti. Io ti dico, che se tu vorrai qualche cosa dalla Sicilia, dovrai scrivermi, che subito te la manderò [...][15]»

Conclude l'emiro facendo rapporto sulla situazione al suo governatore:

«Dico alla mia Grandezza, che ho mandato in regalo al Papa di Roma cento schiavi fra uomini, donne, e figliuoli per mostrargli, che noi siamo caritatevoli più che non sono essi [...][16]»

Confronto con le altre cronache del tempo[modifica | modifica wikitesto]

Lo stesso argomento in dettaglio: Assedio di Siracusa (878).

Quello che in maniera immediata risalta, leggendo il carteggio del falso codice e confrontandolo con le narrazioni storicamente accreditate, è senz'altro un'eccessiva precisione nei numeri: il codice martiniano non ha alcun indugio nel dare cifre molto dettagliate sia sulle perdite arabe, sia su quelle greche.

Inoltre si citano avvenimenti non riscontrati in altre, se pur brevi, cronache del tempo; come ad esempio la fuoriuscita e l'autoconsegna per fame di moltissimi uomini dalla Siracusa sotto assedio[17].

Conclusione diversa per la popolazione siracusana: le altre cronache del tempo sostengono che non rimase nessuno a Siracusa in libertà; poiché l'intera popolazione venne venduta per essere schiavizzata tra la Tunisia e Palermo. Invece il codice martiniano non solamente fa una distinzione tra i greci siracusani e i siciliani, ma dice che mentre i primi vennero condotti schiavi a Palermo (solo a Palermo, tacendo l'Africa), i secondi vennero lasciati liberi nella città.

Il Vella sembra anche in questo caso aver tratto spunto dalla storia, poiché realmente accadde, secondo le cronache, la liberazione dei prigionieri siracusani. Ma non fu per intercersione del papa o dei papi. Fu piuttosto grazie a uno sconosciuto bizantino, identificato come un inviato della corte imperiale di Basilio I il Macedone[18][19], il quale venne di proposito in Sicilia, ed era già stato in Tunisia, nell'anno 885 o 886, per chiedere il riscatto della popolazione siracusana. Ciò avvenne, come lo riporta Michele Amari nella sua Storia dei musulmani di Sicilia:

«Chronicon Cantabrigiense, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 43, dice venuto a posta un che ricomprò i prigioni di Siracusa l'anno 6393. Il Rampoldi, Annali Musulmani, an. 886, al solito senza citare, scrive che fossero riscattati 4253 prigioni che si trovavano "nel solo ergastolo di Siracusa," e quasi altrettanti al Kairewan. Ma Siracusa era distrutta; i prigioni condotti in Palermo, come dice Teodosio, che dovea saperlo; e il numero non potea essere stato sì grande, che il quinto appartenente al governo sommasse ad ottomila e più, quanti si dice che ve ne fossero tra Kairewan e lo ergastolo di Sicilia. Perciò la compilazione orientale, da cui il Rampoldi par abbia cavato quelle cifre, o è favolosa o erronea[20]

Il codice martiano cita molti altri avvenimenti sulla Siracusa araba. Ma si è voluto descrivere in tal guisa solamente l'avvenuta conquista e il destino della sua popolazione, ritenendo questi eventi più significativi di altri.

Conseguenze sugli studi arabici di Sicilia[modifica | modifica wikitesto]

Nonostante la maggioranza della critica abbia classificato il codice martiniano come «totalmente falso» vi sono stati alcuni studiosi che ad esso hanno dato comunque credito e hanno riportato fedelmente i passi di tale codice nei loro testi[21][5].

Molti studiosi[22][23] del resto finirono nell'inganno a causa del tempo che passò dalla pubblicazione del codice - primissimi anni '90 del 1700 - al rumore sempre più crescente sulla falsità di quegli scritti che alla fine condussero Giuseppe Vella a essere condannato a quindici anni di carcere nel castello di Palermo (poi mutati, a causa di motivi salutari, in un confino presso una sua abitazione privata)[24].

Bartolomeo Lagumina, alle soglie del 1900, sottolinea come dopo quasi cento anni vi siano ancora dei dubbi sull'autenticità o meno di tale codice:

«E se avrò fatto in modo di chiudere una buona volta per sempre una questione, la quale, agitata con tanto calore nel secolo scorso, presso alcuni non cessa ancora, quasi dopo cento anni, di essere ritenuta per tale, e di trovare chi la risolva a favore dell'impostura, sarò a sufficienza ricompensato della mia qualsivoglia fatica[25]

La questione sollevata dal codice martiniano ebbe comunque dei risvolti positivi sulla storia siciliana; poiché grazie ad esso, proprio per evitare il ripetersi di una simile situazione, molti siciliani intrapresero seriamente gli studi arabistici per venire a conoscenza del loro passato[26]; figlio di questi tempi fu poi l'illustre palermitano arabista Michele Amari.

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ Airoldi fu il mecenate, e si sostene che egli non potesse sapere dell'invenzione del suo protetto. Per cui il suo nome fu associato all'inganno del codice inconsapevolmente. Si veda fonte: Renato Composto, AIROLDI, Alfonso, Dizionario biografico degli italiani, Vol. I, 1960 Istituto dell'Enciclopedia italiana Treccani
  2. ^ Vella, Airoldi, 1790, pag. 400-401.
  3. ^ Lagumina, 1882, pag. 6.
  4. ^ Lagumina, 1882, pag. 30-32.
  5. ^ a b Lagumina, 1882, pag. 20-21.
  6. ^ Vella, Airoldi, 1790, pag. 182 e pag. 186.
  7. ^ Vella, Airoldi, 1790, pag. 197-201.
  8. ^ Vella, Airoldi, 1790, pag. 202.
  9. ^ Vella, Airoldi, 1790, pag. 203-204.
  10. ^ Vella, Airoldi, 1790, pag. 241 nota n° 1.
  11. ^ Vella, Airoldi, 1790, pag. 241-245 nota n° 1.
  12. ^ Vella, Airoldi, 1790, pag. 241-243.
  13. ^ Vella, Airoldi, 1790, pag. 244-245.
  14. ^ Vella, Airoldi, 1790, pag. 250-251.
  15. ^ Vella, Airoldi, 1790, pag. 253.
  16. ^ Vella, Airoldi, 1790, pag. 254.
  17. ^ Si veda la descrizione dell'assedio nelle fonti primarie del tempo: fonti primarie per l'assedio arabo di Siracusa
  18. ^ Carmelo Martorana, Notizie storiche dei Saraceni siciliani, 1832, pag. 52
  19. ^ Matteo Camera, Annali delle Due Sicilie dall'origine e fondazione della monarchia fino a tutto il regno dell'augusto sovrano Carlo III. Borbone, 1841, VII
  20. ^ Amari, 1854, pag. 409 nota n° 5.
  21. ^ Si veda ad esempio il testo di Gaetano Moroni che nel 1854 riporta nel Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica il carteggio tra i papi Marino I, Adriano III, Stefano V e gli emiri di Sicilia per il riscatto dei prigionieri (pag. 164-5); egli definisce le lettere in questi termini: «Questo carteggio è ben curioso a leggersi» e continua poi informando il lettore su ciò che vi si trova al suo interno.
  22. ^ Si veda ad esempio il testo bibliografico Efemeridi letterarie di Roma ..., Volume 19, quasi contemporaneo all'uscita del codice arabo-siculo; il libro riporta il carteggio sopra citato (pag. 14, 15, 16)
  23. ^ Per una panoramica più completa dell'impressione positiva che fece tale codice sui dotti del tempo si veda Giuseppe Pitrè, La vita in Palermo cento e più anni fa, Volume 27, 1944, cap. XXI L'Ab. Vella e la sua famosa impostura
  24. ^ Per una descrizione della vicenda di Giuseppe Vella si vedano: Domenico Scinà, Prospetto della storia letteraria di Sicilia nel secolo decimottavo, 1827, da pag. 297 e il già citato Giuseppe Pitrè in La vita in Palermo cento e più anni fa, Volume 27, 1944, cap. XXI L'Ab. Vella e la sua famosa impostura e ancora Gaetano Melzi, Dizionario di opere anonime e pseudonime di scrittori italiani o come che sia aventi relazione all'Italia, 1848, pag. 199
  25. ^ Lagumina, 1882, pag. 6.
  26. ^ Giuseppe Vella - Enciclopedia Treccani, su treccani.it. URL consultato il 15 ottobre 2014.

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

  • Giuseppe Vella e Alfonso Airoldi, Codice diplomatico di Sicilia sotto il governo degli Arabi, vol. 4, Dalla Reale Stamperia, Palermo, 1790, ISBN non esistente.
  • Bartolomeo Lagumina, Il falso codice arabo-siculo della Biblioteca nazionale di Palermo, Stabilimento tipografico Lao, 1882, ISBN non esistente.
  • Michele Amari, Storia dei musulmani di Sicilia, F. Le Monnier, 1854, ISBN non esistente.
  • Giuseppe Cozzo-Luzi, La Cronaca siculo-saracena di Cambridge: con doppio testo greco, scoperto in codici contemporanei delle biblioteche Vaticana e Parigina, D. Lao & S. De Luca, 1890, ISBN non esistente.
  • Gianni Di Stefano, Studi arabo-islamici in memoria di Umberto Rizzitano, Istituto di studi arabo-islamici "Michele Amari", 1991, ISBN non esistente.