Politica agraria del fascismo italiano

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Voce principale: Storia dell'Italia fascista.

La politica agraria del fascismo italiano indica la politica e la legislazione ed il complesso dei provvedimenti progettati e/o messi in atto in Italia nel campo agrario durante il fascismo.

Benito Mussolini in una foto propagandistica per sostenere la Battaglia del grano.

Avvento e consolidamento del fascismo

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Situazione alla fine della prima guerra mondiale

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Un podere dell'ONC nei pressi di Latina.
Nazzareno Strampelli con Benito Mussolini e Vittorio Emanuele III alle coltivazioni sperimentali di Rieti.

Durante l'età giolittiana gli agricoltori erano riuniti in due associazioni: la SAI (Società degli Agricoltori Italiani), fondata a Roma nel 1895 ed impegnata in attività di lobby e come gruppo di pressione degli agricoltori; e la CNA (Confederazione Nazionale Agraria), fondata nel 1910 a Bologna, che si occupava del sindacalismo nel settore agricolo.[1]

Durante la Prima Guerra Mondiale, il conflitto favorì definitivamente il settore industriale a scapito di quello agricolo nelle scelte di politica economica. L'inflazione cancellò molti debiti e ipoteche, permettendo a ex mezzadri e piccoli affittuari di acquistare terre e diventare proprietari. Dal 1919, molti contadini divennero così coltivatori autonomi.[2] Tuttavia, i proprietari terrieri che non erano agricoltori e i lavoratori giornalieri non ebbero la stessa fortuna.[3] Nello stesso tempo, l'Italia aveva aumentato il proprio fabbisogno di importazioni di prodotti agricoli.[4]

Dopo la guerra, i lavoratori giornalieri mostrarono grande spirito combattivo, specialmente nelle regioni della pianura padana. Dietro una generale spinta verso una cosiddetta "socializzazione della terra", tra il 1919 e il 1920, il principale sindacato agricolo, la Federterra, riuscì a coordinare le azioni dei lavoratori giornalieri e dei piccoli affittuari. La Federterra ottenne crescenti concessioni dai grandi proprietari terrieri e dai grandi affittuari, con l'obiettivo di rendere i contratti agricoli così onerosi da indurli a cedere la gestione delle loro terre alle organizzazioni dei lavoratori.[3] In Emilia, Lombardia e Veneto, i nuovi piccoli proprietari si allearono con i grandi terrieri per sfuggire al controllo sindacale e migliorare le proprie condizioni lavorative. Nel frattempo, i sindacati perseguivano una politica di "bracciantizzazione" che mirava a integrare i piccoli affittuari e mezzadri come lavoratori salariati, ma questa politica si scontrò con il desiderio dei contadini di possedere piccole proprietà individuali. In alcune aree, i braccianti, che volevano socializzare le terre, si trovarono isolati dal resto della popolazione contadina.[2] Nelle regioni meridionali, la fame ancestrale di terra dei contadini, stimolata dalle promesse della propaganda degli ultimi mesi di guerra, portò a occupazioni disordinate delle proprietà. Il governo tentò di regolare queste occupazioni attraverso i decreti Visocchi del settembre 1919, senza però attuare una riforma agraria organica:[3] le assegnazioni vere e proprie furono di poco conto.[5]

In questa fase di forti tensioni e trasformazioni sociali, che passa sotto il nome di biennio rosso, crebbero il confronto e gli scontri tra le leghe sindacali bianche e rosse e i grandi proprietari terrieri. Nel 1920 a Roma le due principali associazioni di proprietari terrieri si riunirono in Confagricoltura (Confederazione Generale dell'Agricoltura).[1] A differenza degli industriali, i proprietari terrieri rimasero più disuniti e non riuscirono a formare un "Partito Agrario" coeso. Settori più consapevoli politicamente dell'imprenditoria agricola cercarono soluzioni alternative.[3]

Fascismo e relazioni agrarie

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La relazione tra il movimento fascista e coloro che avevano in mano l’economia agraria, la cosiddetta classe agraria, giocò un ruolo importante nell’ascesa del Fascismo. Durante le tensioni del Bienno Rosso, entro la fine del 1920, i proprietari terrieri del nord e del centro Italia volevano eliminare il potere delle leghe contadine, delle cooperative rurali e del controllo socialista sui governi locali. Nel 1921 e 1922 temevano che la sinistra socialista e il nascente Partito Comunista potessero riprendersi se la pressione fosse allentata.[6]

I fascisti ricevettero sostegno finanziario e logistico dai proprietari terrieri e dalle autorità militari per condurre spedizioni punitive contro i socialisti, mentre promettevano alle élite agrarie e industriali di non alterare lo status quo, ma solo la distribuzione del potere politico.[6] Il movimento fascista, aveva due obiettivi principali nelle campagne italiane: attrarre mezzadri e coloni desiderosi di ottenere terre individualmente, e distruggere il potere delle organizzazioni sindacali come le camere del lavoro e la Federterra. Entro la fine del 1921, i fascisti avevano condotto numerose azioni violente, tra cui invasioni, saccheggi, incendi e scioglimenti forzati di cooperative e enti di consumo. Molti dirigenti socialisti furono aggrediti o uccisi dalle squadre fasciste.[2]

Il fascismo rurale era molto organizzato e intransigente, ma riuscì a prevalere grazie alla complicità di alcuni organi di governo locali e delle forze dell'ordine. Inoltre, i socialisti massimalisti, nonostante le dichiarazioni rivoluzionarie, non erano in grado di opporsi efficacemente ai fascisti né considerarono l'opportunità di cercare il supporto dei mezzadri, fittavoli e piccoli coltivatori del centro-nord Italia, che invece spesso sostenevano il movimento fascista o si allontanavano dai sodalizi cattolici.[2]

Con l’avvento del fascismo al potere, le politiche agricole fasciste beneficiarono principalmente i grandi proprietari terrieri e le aziende agroalimentari del Nord Italia, eliminando la minaccia delle leghe contadine socialiste. Dopo il consolidamento del regime, la relazione col mondo agrario rimase cruciale. Le organizzazioni sindacali fasciste contadine furono deboli rispetto alle associazioni agrarie. Le leggi che nel 1919 avevano introdotto le prime misure di sicurezza sociale ai lavoratori agricoli furono abrogate nel 1923. Il fascismo rurale trovò sostegno anche tra piccoli proprietari terrieri e affittuari che risentivano dell'influenza socialista, mentre nelle province con forti organizzazioni socialiste (specialmente al nord) la repressione fascista fu particolarmente vigorosa.[6]

Orientamenti generali

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Lo stesso argomento in dettaglio: Politica economica fascista.

La politica agraria del regime fascista si basava sui principi originali del movimento, focalizzandosi su due aspetti principali: garantire i redditi dei proprietari terrieri e ridurre i costi di gestione, oltre i benefici della meccanizzazione che cominciava a diffondersi. Il regime puntava a intensificare il lavoro dei coloni e dei braccianti. Inoltre, incoraggiava il ritorno ai contratti di piccolo affitto e di mezzadria. Questo orientamento generale trovava la sua radice ideologica in principi di compartecipazione e solidarietà tra capitale e lavoro.[2]

Dopo la svolta monetaria deflattiva del 1925-1926, i prezzi agricoli crollarono (ad esempio, il prezzo del grano scese da 200 a 140 lire al quintale tra il 1926 e il 1927), portando a una riduzione degli investimenti privati nelle campagne. Di conseguenza, il regime favorì le forme di conduzione agricola più stabili e tradizionali, come la colonia e la mezzadria. Questo approccio portò a una maggiore frammentazione delle terre, favorendo la creazione di piccole proprietà contadine e la crescita dell'area complessiva destinata alla produzione di autoconsumo. Secondo i censimenti, le categorie degli affittuari e dei mezzadri aumentarono: gli affittuari passarono dal 7% al 18% tra il 1921 e il 1936, mentre i mezzadri salirono dal 15% al 19%.[2]

Durante la fase liberista del governo Mussolini, si cercò di razionalizzare il mercato e la distribuzione per contenere i prezzi. Tuttavia, alla fine prevalsero misure per promuovere l’autosufficienza alimentare e la produzione nazionale di cereali, compromettendo il riavvio delle esportazioni, rimodellando le coltivazioni e riorganizzando la distribuzione tramite un crescente ruolo statale. Dopo la crisi del 1929-30, il potere d’acquisto delle fasce sociali più basse si deteriorò, riducendo i consumi. Per evitare i costi dell’intermediazione commerciale, il fascismo regolamentò la distribuzione, riducendo la presenza privata e potenziando le istituzioni cooperative come la Federconsorzi. Con l'avvio dell'autarchia nel 1936 e la "disciplina totalitaria dei prezzi", il governo bloccò i prezzi. La partecipazione dell'Italia alla guerra accentuò questa tendenza statalista del settore agricolo, ma non riuscì a impedire la diffusione del mercato nero e l’aumento dei prezzi.[7]

Provvedimenti

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Bonifica Parmigiana Moglia - Collettori per le idrovore dell'impianto di sollevamento

Con la conquista del potere da parte del fascismo vennero annullati i precedenti provvedimenti (11 gennaio 1923) e venne intrapresa una nuova politica agricola, basata sui concetti di indipendenza e sovranità nazionale (come del resto la politica fascista perseguiva in ogni settore) nei confronti dei mercati stranieri, dai quali venivano importati al tempo ingenti quantità di cereali, pari ad un terzo dell'intero fabbisogno nazionale. Nel 1925 venivano importati in Italia 25 milioni di tonnellate di cereali a fronte di 75 milioni di tonnellate di fabbisogno annuo[8]. Anche all'interno della politica agricola fascista venne ricercata l'autarchia nazionale, che coinvolse tutte le attività produttive nazionali.

Le principali metodologie e campagne d'intervento furono:

Anche le aree montane furono oggetto di provvedimenti e trasformazioni che segnarono profondamente il territorio italiano. Con il Regio Decreto Legge n. 3267 (Riordinamento e riforma della legislazione in materia di boschi e di terreni montani) il governo fascista decise di incentivare il rimboschimento delle zone montane, praticamente a spese dello Stato. Questa normativa prevedeva sanzioni molto severe per i proprietari dei fondi "vincolati" che non si fossero adeguati alle nuove disposizioni: l'occupazione temporanea dei loro terreni e addirittura l'espropriazione (art. 76).[9]. In questi anni, un po' in tutta Italia, nacquero pinete che permangono fino ai nostri giorni, come a Pietragavina, Le Cesine, Gualdo Tadino e Morgongiori.

Sbracciantizzazione

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Lo stesso argomento in dettaglio: Sbracciantizzazione.

La sbracciantizzazione apportò la tendenza di eliminare il lavoro "a giornata", soppiantandolo con contratti di lavoro e con l'incentivo alla piccola proprietà sia dei braccianti che dei mezzadri, a sfavore dei grandi latifondi.[10]

Bonifica integrale

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Lo stesso argomento in dettaglio: Bonifiche agrarie in Italia e Consorzi di bonifica.
Foto di campagna di Eraclea, da cui si nota l'impronta della bonifica.

Nel 1928, Mussolini avviò un grande piano chiamato "bonifica integrale" per recuperare terre incolte e migliorare l'occupazione nelle campagne. Questo piano prevedeva opere pubbliche e migliorie agrarie per rendere le terre più produttive. Parte di questo piano, approvato definitivamente nel dicembre dello stesso anno, includeva progetti del ministro Serpieri per utilizzare meglio alcune terre improduttive.[2]

Il governo voleva trasformare le aree paludose in terreni coltivabili e redistribuire la popolazione rurale in modo più efficiente. Per farlo, espropriava le terre e le dava a società finanziarie private. Tuttavia, i fondi stanziati non erano sufficienti per coprire tutte le spese necessarie per un programma così grande, che intendeva coprire oltre il 10% delle terre agricole e forestali. Il mercato finanziario riuscì a fornire solo parte dei fondi necessari, perché anche l'industria aveva bisogno di risorse per la ricapitalizzazione e la riorganizzazione dovute alla politica deflazionistica.[2]

La legge fondamentale fu la Legge Serpieri, n. 3256 del 30 dicembre 1923. Furono fondati i consorzi di bonifica gestiti e finanziati dallo Stato, attivi sia nella bonifica di aree paludose e malariche che per la gestione del patrimonio silvo-pastorale.

Nel 1924 cominciarono i primi lavori di bonifica nell'Agro Pontino, con l'istituzione del Consorzio di Bonifica di Piscinara che avviò la canalizzazione delle acque del bacino del fiume Astura. Nel 1926 fu varato un regio decreto che istituì due consorzi: il preesistente Consorzio di Piscinara, che venne esteso su tutti i terreni a destra della linea Ninfa-Sisto, su un'area di 48.762 ettari e a sinistra della linea; ed il Consorzio di Bonificazione dell'Agro Pontino (26.567 ettari), un'area relativamente inferiore, ma costituita dai territori siti sotto il livello del mare e quindi dove la bonifica fu maggiormente complessa.

Negli stessi anni vengono creati consorzi di bonifica e dato il via ai lavori anche in Emilia, Romagna, Veneto e Friuli.

Alla fine degli anni venti il controllo dei Consorzi da parte dei latifondisti venne superato grazie alla legge Mussolini del 1928 (n. 3134 legge sulla bonifica integrale) con la quale tutti i terreni improduttivi o abbandonati furono espropriati di circa due terzi, permettendo il passaggio di gran parte delle aree bonificate sotto il controllo diretto dello Stato, che lo delegò all'Opera Nazionale Combattenti (ONC) insieme alla gestione di tutti i progetti e lavori di bonifica. Lo Stato, per il progetto mussoliniano di ruralizzazione del Paese, prendeva l'impegno di finanziare massicciamente non solo gli interventi idraulici ma anche opere di trasformazione agraria.[11] Nel 1929, le banche avevano già prestato oltre 1170 milioni di lire per questi progetti, aggravando una situazione finanziaria già difficile a causa della stretta creditizia e dell'aumento dei tassi di interesse.[2]

Viene nominato responsabile unico dell'ONC il conte Valentino Orsolini Cencelli, a cui viene data carta libera e pieni poteri d'intervento con l'obbiettivo di espropriare i terreni improduttivi e consegnarli, in lotti, a piccoli proprietari. Egli si trova quindi a dover combattere i grandi possidenti, con buoni agganci al Ministero dell'agricoltura e delle foreste. La legge n. 215 del 1933 ancora ad opera di Serpieri insieme al ministro Giacomo Acerbo definì ogni tipo di intervento statale nella bonifica.

Mussolini sostituì Cencelli nel 1935 con Araldo di Crollalanza. Dal 1926 al 1937 la bonifica dell'Agro Pontino furono impiegate ben 18.548.000 giornate-operaio, ai quali vanno aggiunti il prosciugamento delle paludi, la costruzione dei canali e l'azione di disboscamento delle foreste.[12][13]

Tra il 1938 ed il 1942 ebbe luogo la seconda fase della bonifica integrale: luoghi interessati in questo periodo furono la Sicilia, la Puglia e la Campania, regioni nelle quali le opere di bonifica andranno avanti anche durante l'arco della guerra.

Nel complesso le opere di bonifica integrale realizzate dal fascismo riguarderanno in totale circa sei milioni di ettari di terreno.[14] Solo il 58% dei lavori di bonifica iniziati vennero completati, e solo il 32% dei progetti di irrigazione fu portato a termine. Questo parziale insuccesso è attribuibile sia alla crisi economica del 1929 sia alla costosa campagna coloniale in Abissinia del 1935-36. Inoltre, i grandi proprietari terrieri spesso evitarono di pagare le quote dovute ai consorzi di bonifica o trasferirono i costi di miglioramento sui loro affittuari. Le bonifiche interessarono soprattutto le regioni dell'Italia centro-settentrionale. Nel Mezzogiorno, la resistenza dei proprietari terrieri e i loro deboli investimenti rallentarono lo sviluppo dei lavori, impedendo la formazione di una piccola proprietà contadina intraprendente, come previsto dalle politiche governative. Nella maggior parte del mezzogiorno il valore complessivo della produzione agricola diminuì tra il 1929 e il 1939.[2]

L'espropriazione dei latifondi

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Parallelamente alle operazioni di bonifica, il fascismo portò avanti quelle di espropriazione dei terreni di latifondisti e grandi proprietari, possessori di migliaia di ettari di terra perlopiù lasciata incolta ed improduttiva, coltivata a grano o lasciata a pascolo dando luogo a sole rendite parassitarie. Le operazioni di esproprio portarono buoni risultati nel centro Italia ed in Puglia, minor successo nei confronti della Sicilia, in cui le operazioni di esproprio dell'enorme estensione dei latifondi (500.000 ettari), avvennero troppo in prossimità della guerra per essere portate positivamente a compimento.[12]

Colonizzazione

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Lo stesso argomento in dettaglio: Nuovi borghi rurali nel periodo fascista.
Borgo Bonsignore, in Sicilia, oggi

La politica agraria fascista non si fermò qui ma, una volta terminati i lavori di bonifica e "ristrutturazione" del territorio, dette il via alla colonizzazione delle terre vergini e incolte, con la creazione dei borghi rurali. Di rilievo il caso siciliano: nel 1925 ci fu la nascita dell'"Istituto Vittorio Emanuele III per il bonificamento della Sicilia"[15], per la realizzazione del programma di bonifica per tutta l'Isola.

Intorno al 1939 la politica di sostegno alla mezzadria e di attenzione alla questione rurale ed al riassetto complessivo dell'agricoltura siciliana ebbe un'accelerazione che la propaganda di regime denominò "assalto al latifondo" e che portò alla legge 2 gennaio 1940, che rafforzava precedenti disposizioni di riforma agraria, alla nascita dell'Ente di Colonizzazione del Latifondo Siciliano, al fine di realizzare nella campagna siciliana "una serie di opere infrastrutturali di bonifica, ma soprattutto tendente a coinvolgere la vecchia rendita in un processo di trasformazione della struttura dell'agricoltura siciliana in senso imprenditoriale e produttivistico, a frantumare la realtà economica e sociale del latifondo, con l'appoderamento dello stesso"[16].

I borghi rurali della colonizzazione che nacquero in quel periodo, non solo in Sicilia, non ospitavano contadini ma quanto era indispensabile e funzionale per loro: dagli artigiani, ai negozi di derrate, al medico, alla chiesa, alla stazione dei carabinieri, agli uffici dell'ente colonico. Carlo Emilio Gadda ne La Nuova Antologia lo descrive efficacemente: "piccola capitale funzionalistica senza stento e senza gravezza di plebe"[17].

Battaglia del grano

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Nazzareno Strampelli e sua moglie - nonché sua assistente - Carlotta Parisani lavorano ad un'ibridazione.
Lo stesso argomento in dettaglio: Nazzareno Strampelli e Battaglia del grano.

Nel 1925, l'Italia affrontava un crescente deficit nella bilancia commerciale a causa delle importazioni di grano, che costituivano il 15% del totale delle importazioni. Il governo Mussolini stava preparando un ri-orientamento della politica economica, volto al rientro della lira nel sistema dei pagamenti internazionali e ad un rafforzamento delle industrie avanzate.[18]

In questo contesto Mussolini lanciò la "battaglia del grano", una campagna propagandistica di massa volta a raggiungere l'autosufficienza nella produzione cerealicola. Questa iniziativa aveva due scopi strettamente collegati: da un lato, migliorare l'economia agricola riducendo le importazioni di grano e, dall'altro, rafforzare la posizione della lira sul mercato internazionale. La battaglia del grano è stata una delle prime grandi campagne propagandistiche del regime fascista, mostrando l'importanza dell'autosufficienza agricola per la stabilità economica nazionale e l'indipendenza politica[2]

La campagna fu proclamata il 20 giugno 1925 e inserita all'interno dell'autarchia nazionale. Essa portò alla costituzione del Comitato permanente del grano e, d'accordo con Mussolini, decise che l'intervento sulla produzione agricola doveva rivolgersi principalmente all'aumento del rendimento medio di grano per ettaro, in quanto un aumento medio anche modesto può dare risultati globali notevoli.

Di conseguenza il Comitato permanente del grano dovette affrontare tre problemi principali: la selezione dei semi; il problema dei concimi e dei perfezionamenti tecnici ed il problema dei prezzi. Con una serie di provvedimenti di legge volti a modernizzare le tecniche agricole (fertilizzanti naturali e chimici, meccanizzazione dell'agricoltura, ecc), proteggere il lavoro nazionale dalla concorrenza esterna e sviluppare le strutture dello Stato (ad esempio le cattedre ambulanti di agricoltura ed i Consorzi agrari) rivestirono un ruolo fondamentale per la diffusione dei mezzi e della cultura agricola) a supporto del settore primario, vennero ottenuti risultati eccellenti.[19][20]

Si ebbe infatti l'aumento della superficie coltivata (grazie alle bonifiche precedentemente ricordate, alla distribuzione delle terre incolte ed all'espropriazione dei latifondi scarsamente utilizzati a favore della creazione di piccole proprietà più efficienti) e della produttività per ettaro. Quest'ultima soprattutto grazie al ruolo svolto dall'Istituto di Granicoltura di Rieti, diretto da Nazzareno Strampelli ed allo sviluppo del concetto delle sementi elette.

Consorzi agrari

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Il Consorzio agrario provinciale di Grosseto.

Dal 1926 i vari Consorzi agrari e la Federconsorzi divennero un importante strumento[21] del fascismo per abbattere l'usura bancaria e la speculazione realizzata dai grandi distributori privati: a differenza di questi ultimi, i Consorzi agrari offrivano infatti un credito agrario senza interessi per gli acquisti di sementi, concimi, macchine agricole, antiparassitari, bestiame e tutto ciò che era necessario all'attività produttiva agricola.

I Consorzi agrari organizzarono anche la gestione ammassi. Si trattava in questo caso di raccogliere tutti i prodotti primari per l'alimentazione nelle strutture d'immagazzinamento dei Consorzi agrari per favorire una maggiore razionalizzazione ed efficienza nel settore e mantenere la nazione pronta in caso di necessità, trasformando più facilmente l'economia civile in economia di guerra. Inoltre, in quanto strumento di concentrazione delle produzioni, i Consorzi agrari garantivano agli agricoltori, in specie ai piccoli proprietari, una maggiore forza contrattuale nei rapporti con i trasformatori e i distributori: la struttura dei Consorzi, rappresentante infatti allo stesso tempo lo Stato, la comunità degli agricoltori nel suo complesso e l'intera riserva di prodotti primari, garantiva una posizione di preminenza dei soggetti produttivi (gli agricoltori) svolgendo un ruolo di deterrente nei confronti di intermediari e speculatori.
Nel 1935 si verificò il primo ammasso volontario del grano: in questa occasione i Consorzi agrari raccolsero 12 milioni di quintali di grano, mentre nel 1938 ne vennero ammassati 40 milioni di quintali per le esigenze autarchiche.[5]

Il 30 maggio 1932, con legge n.752, venne costituito l'Ente Finanziario dei Consorzi Agrari, per agevolare l'assetto finanziario dei Consorzi stessi; mentre con il regio decreto legge del 5 settembre 1938 e la legge del 2 febbraio 1939 vennero costituiti di Consorzi Agrari Provinciali, che univano i compiti e le funzioni di Consorzi agrari e della Federazione, subendo una razionalizzazione che li riduceva da 196 a 94 (uno a provincia).[22]

Corporativismo

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Lo stesso argomento in dettaglio: Carta del Lavoro e Corporativismo.

Anche in agricoltura venne introdotta la legislazione fascista sul lavoro:

  • Legge sindacale n. 563 del 3 aprile 1926, sulla disciplina giuridica dei rapporti di lavoro;
  • la Carta del Lavoro;
  • la legge sindacale n. 100 del 30 aprile 1927, relativa allo Stato corporativo;
  • la legge n. 163 del 5 febbraio 1934, riguardante costituzione e funzioni delle Corporazioni.[23]

Nel 1922 a fianco di Confagricoltura venne creata la fascista FISA (Federazione Italiana dei Sindacati Agricoli), mentre nel 1926, a seguito della nuova legislazione sindacale e del lavoro, venne creato l'Ente Nazionale Fascista per la Cooperazione, con il quale le cooperative vennero inquadrate dell'ordinamento corporativo: le due associazioni vennero riunite nella Confederazione Nazionale Fascista degli Agricoltori (CNFA) (alla quale aderiva anche la Federazione Italiana dei Consorzi Agrari)[1], organizzando quindi il comparto agricolo secondo questo schema:

  • Confederazione nazionale dei Sindacati fascisti dell'agricoltura, composta da: Federazione nazionale dei sindacati fascisti dei tecnici agricoli (laureati, periti, diplomati ecc.); Federazione nazionale dei sindacati fascisti dei piccoli coltivatori diretti, a sua volta suddivisa in: Federazione nazionale dei sindacati fascisti dei coloni e mezzadri; Federazione nazionale dei sindacati fascisti degli impiegati delle aziende agricole e forestali; Federazione nazionale dei sindacati fascisti dei salariati e braccianti; Federazione nazionale dei sindacati fascisti dei pastori; Federazione nazionale sindacati fascisti delle maestranze boschive e forestali.
  • Confederazione nazionale fascista degli agricoltori, formato da: Sindacato fascista dei conduttori; Sindacato fascista dei coltivatori diretti; Sindacato fascista dei proprietari di terre affittate.[5]

Nel 1934, con la costituzione dello Stato corporativo, la CNFA venne sostituita dalla CFA (Confederazione Fascista degli Agricoltori), appunto inserita nello schema corporativo delle attività produttive italiane.[1]

Gestione del mercato agricolo nazionale

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Dopo la formazione del primo governo Mussolini nel 1922, le condizioni del mercato agricolo italiano non cambiarono drasticamente, ma vi fu un significativo aumento delle esportazioni, grazie al miglioramento delle comunicazioni e alla normalizzazione dei traffici post-bellici. Tuttavia, la politica deflazionistica di "Quota Novanta" dal 1926 e l'autosufficienza produttiva portarono a una contrazione delle importazioni alimentari e a una diminuzione delle esportazioni, che scesero del 30% tra il 1927 e il 1928. Le esportazioni di frutta e legumi ottennero buoni risultati, mentre altri prodotti come i cereali ebbero un andamento più stabile. Il fascismo cercò di potenziare le infrastrutture portuali e ferroviarie per sostenere il commercio, ma la rivalutazione della massa debitoria e la "battaglia del grano" influirono negativamente sulle coltivazioni specializzate.[24]

Il mercato interno visse una fase altalenante. Dal gennaio 1923, il governo smantellò il sistema annonario di guerra, mantenendo solo alcune norme contro l’accaparramento e sull’indicazione dei prezzi. Questa liberalizzazione voluta dal Ministro delle Finanze De Stefani si scontrava con la visione del Ministro Rossi, che preferiva interventi sui prezzi gestiti localmente. Nel 1924, un decreto affidò alle Camere di Commercio la vigilanza sui prezzi e creò il Comitato Centrale Annonario per controllare gli aumenti. Nonostante queste misure, la domanda di beni alimentari pro capite diminuì significativamente nel periodo fascista, aggravata dal calo dei consumi e dalla crisi economica degli anni Trenta. Molte terre che erano passate ai contadini dopo la guerra tornarono ai vecchi proprietari o furono acquistate da imprenditori.[24]

Per alleviare le tensioni, il governo fascista operò generalmente per accrescere l'influenza statale (e quindi del Partito Nazionale Fascista) sul mercato interno. Come negli altri settori industriali, l'apparato corporativo e statale intendeva sostituirsi alle associazioni e sindacati pre-esistenti. Nel 1921 esistevano circa 7 000 cooperative al consumo: con il sostegno delle amministrazioni locali, esse permettevano l’accesso ai beni di consumo ad una estesa fascia sociale. Nella fase di avvento del fascismo, le sedi delle cooperative vennero assaltate. Successivamente, provvedimenti legislativi smantellarono la rete d cooperative e la sostituì con un fittizio Ente nazionale della Cooperazione (1926). La Confederazione nazionale dei Commercianti (costituita pure nel 1926) venne invece resa l'nica responsabile del rilascio di licenze ai commercianti: si adoperò per sostituire rapidamente un gran numero di commercianti specie di beni alimentari.[24]

Negli anni Trenta, una crescente porzione di distribuzione alimentare venne affidata alle sezioni dell'Opera Nazionale del Dopolavoro. Il numero di imprese commerciali nel settore agro-alimentare diminuì drasticamente a causa delle precarie condizioni del credito. I consumi alimentari pro capite calarono significativamente, con una riduzione del potere d'acquisto. Il governo intervenne regolamentando lo scambio mercantile e cercando di eliminare gli sprechi. Vennero creati mercati all’ingrosso e introdotti comitati per monitorare i prezzi. Nonostante alcuni tentativi di stabilizzazione, il declino delle esportazioni e la necessità di autosufficienza alimentare accentuarono le difficoltà del settore agricolo.[24]

Durante i primi anni della guerra, i consumi alimentari degli italiani diminuirono drasticamente a causa delle difficoltà del mercato agricolo. Crollarono i consumi di frumento, legumi, frutta e vino, mentre aumentarono i consumi di alimenti "poveri" come riso e patate. La situazione economica peggiorò con l'aumento del costo della vita, che nel 1943 era dodici volte superiore rispetto al 1913. Le misure di razionamento e controllo dei prezzi introdotte dal governo non riuscirono a migliorare significativamente la situazione, portando a una dipendenza quasi totale dalla Germania per le importazioni.[24]

Modernizzazione tecnologica

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Accanto ai provvedimenti legislativi e all'impulso dato al miglioramento della produttività per ettaro, l'azione del Fascismo in campo agricolo si articolò anche nella meccanizzazione delle produzioni. Sono infatti degli anni '20 e degli anni '30 le trattrici agricole "testa calda" prodotte dalla storica azienda Landini, che si assicurò il primato nazionale nel settore.

È del 1934 il Superlandini, che si rivela un grande successo commerciale; con 48 cavalli è il più potente trattore dell'epoca di produzione nazionale, e tale resterà fino al primo dopoguerra. Gli unici a produrre modelli di potenza pari o leggermente superiore erano di fabbricazione americana, ma i loro prodotti erano più pesanti e afflitti da scarsa affidabilità e, in particolare, avevano la tendenza a spegnersi.

Solo un anno più tardi, nel 1935 viene messo in produzione il Vélite: più piccolo, versatile e meno impegnativo del Superlandini, incontra anch'esso un successo di vendite.

Risultati economici e trasformazioni sociali

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Nel breve periodo, la politica agraria del governo fascista ottenne risultati positivi. Entro il 1927, la produzione agraria superò la contrazione provocata dalla rivalutazione della lira del 1926. Gli investimenti pubblici permisero ai settori industriali legati alla produzione di fertilizzanti e impianti di lavorazione di superare rapidamente le difficoltà causate dalla stabilizzazione monetaria.[2]

Le importazioni di grano all’estero si ridussero dell'80% tra il 1925 e il 1940, migliorando sensibilmente la bilancia commerciale.[2] Nel 1931 si registrò anche il primato per la produzione di frumento per ettaro: la produzione statunitense, fino ad allora considerata la prima, raggiungeva infatti 8,9 quintali di frumento per ettaro, mentre quella italiana era quasi doppia, contando 16,1 quintali per ettaro.[5]

Nel lungo periodo, però, la "battaglia del grano" ostacolò lo sviluppo di un'agricoltura intensiva. Nonostante gli sforzi, il fabbisogno interno di frumento non fu completamente soddisfatto. In molte province, la produzione di colture più pregiate e redditizie, come foraggi, ortofrutticoli e allevamento, fu sostituita dalla cerealicoltura, favorita anche dal ripristino del dazio sul grano nel 1926.[24]

La crisi del 1929 ebbe effetti negativi sui prezzi agricoli. Mentre i produttori agricoli beneficiarono dei prezzi protetti del grano, i consumatori dovettero affrontare prezzi più alti a causa delle tariffe doganali e dell'esclusione dei cereali americani più economici. Inoltre, l'offerta di carne e frutta non era adeguata, aggravando la situazione per i consumatori.[2] Per effetto combinato del rialzo dei prezzi, della compressone dei salari e del blocco dell'emigrazione dalle campagne alla città, durante il periodo fascista, la domanda di beni alimentari pro capite diminuì significativamente, con una riduzione dei consumi di cereali, riso, frutta, vino e olio tra il 1921 e il 1940.[24]

La percentuale di lavoratori senza terra diminuì (nel 1921 erano il 44%, ridotti al 28% nel 1936). Questo calo fu in parte dovuto all'aumento dei coltivatori diretti, reso possibile dall'inflazione che alleviò i debiti e aumentò il valore dei prodotti agricoli fino al 1926. Questo profondo cambiamento favorì il reclutamento di una grande base di sostegno per il fascismo nelle province rurali. Durante la crisi degli anni Trenta, molti dei terreni che erano stati assegnati ai contadini dopo la guerra tornarono ai vecchi proprietari, che li ricomprarono a prezzi vantaggiosi, o finirono nelle mani di imprenditori e professionisti.[2]

Tuttavia, i maggiori beneficiari delle politiche fasciste furono i grandi produttori e affittuari. Questi trassero vantaggio dai minori costi di produzione, dalle migliori condizioni di accesso al credito agricolo e da un sistema fiscale che tassava meno i redditi più alti rispetto a quelli più bassi fino alla metà degli anni '30. Successivamente, il governo fascista introdusse un'imposta straordinaria immobiliare e un prestito forzoso sulla proprietà fondiaria.[2]

I braccianti agricoli non videro molti miglioramenti concreti nelle loro condizioni. I salari agricoli rimasero stagnanti anche nelle regioni settentrionali, per effetto prima delle politiche di riduzione dei costi per ribilanciare gli effetti della rivalutazione della lira, e poi per l'impatto della grande depressione. Durante gli anni '30 ci fu un'alta disoccupazione, parzialmente mitigata dalle politiche sociali e dal sostegno alla diffusione della piccola proprietà su terreni marginali o da bonificare.[2]

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  • Edmondo Rossoni, Direttive fasciste all'agricoltura, Roma, 1939.
  • Ampia bibliografia sull'argomento, su retescat.com. URL consultato il 17 settembre 2010 (archiviato dall'url originale l'8 giugno 2010).
  • Ferdinando Cordova, Verso lo Stato totalitario: sindacati, società e fascismo, Rubbettino.

Voci correlate

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Collegamenti esterni

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