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La storia militare del Regno di Sicilia e del Regno di Napoli (quest'ultimo sorto in seguito alla guerra del Vespro) inizia con la fondazione del Regno di Sicilia, avvenuta nel 1130, ad opera di Ruggiero II d'Altavilla, il quale, dopo aver sottratto la Sicilia ai saraceni, assunse il controllo degli stati dell'Italia meridionale sconfiggendo gli altri sovrani normanni, i duchi bizantini e i princpipi longobardi[1]. Nei vari secoli i reami siciliani e napoletani sono stati protagonisti di guerre, invasioni e rivolte che hanno visto spesso le truppe meridionali impegnate sul campo di battaglia, molte volte anche contrapposte fra loro.

I Normanni[modifica | modifica wikitesto]

Il Gran Conte Ruggero sconfigge gli arabi in Sicilia
Guerrieri normanni durante la conquista dell'Inghilterra, dall'Arazzo di Bayeux

Intorno all'anno 1000 l'Italia meridionale era divisa in diversi stati contraddistinti da componenti etniche, religiose e politiche eterogenee, spesso in lotta tra loro: le principali città costiere del sud della penisola erano indipendenti (ducati di Amalfi, Gaeta, Napoli) o appartenevano all'Impero Romano d'Oriente, l'entroterra invece vedeva la presenza dei principati di Benevento, Capua e Salerno (la cosiddetta Langobardia Minor), mentre la Sicilia era controllata stabilmente dagli arabi.

Dopo il 1000, nella lotta fra queste diverse entità, si inserirono gli interessi dei numerosi mercenari normanni, guerrieri di origini scandinave chiamati dai condottieri longobardi e bizantini per schierarli nelle loro battaglie. I normanni si dimostrarono eccezionali combattenti, e per ripagarli dei loro buoni servigi i signori locali spesso li dotavano di ampi domini sui loro territori.

I normanni, capendo che la situazione locale dava ampie possibilità, cominciarono a raggiungere in gran numero l'Italia meridionale dando vita ad una vera e propria migrazione verso sud che ben presto portò l'estensione dei loro possedimenti e la loro potenza a divenire tale da riuscire ad esautorare i signori locali. Sotto la guida di Roberto il Guiscardo e di suo fratello Ruggero I, gli uomini del nord riuscirono gradualmente a prendere il controllo dell'intera Italia meridionale in modo capillare, anche se non ancora in maniera unitaria[2].

Il timore suscitato dalla crescente influenza normanna portò alla formazione di una coalizione di principi longobardi, bizantini e truppe pontificie, ispirata da papa Leone IX, ma la battaglia di Civitate nel 1053 consacrò il dominio normanno sul sud della penisola.

Contemporaneamente i nuovi signori normanni si impegnarono attivamente anche nei Balcani ed in Terra Santa per ampliare i loro possedimenti ed il loro prestigio: in particolare durante la prima crociata si distinse per le sue doti militari il principe di Taranto Boemondo.

Il Regno di Sicilia[modifica | modifica wikitesto]

Ruggero II Re di Sicilia

Sbaragliati i nemici dell'Italia meridionale peninsulare, i normanni concentrarono le proprie attenzioni sulla Sicilia, che fu conquistata grazie all'opera di Ruggero I e successivamente di Ruggero II, il quale riuscì finalmente a riunire sotto il proprio controllo tutti i possedimenti normanni dell'Italia meridionale, fondando in questo modo un nuovo, ricco e moderno stato chiamato Regno di Sicilia, di cui fu incoronato sovrano nel 1130.

Ruggero II e i suoi eredi, Guglielmo il Malo e Guglielmo il Buono, utilizzarono per la formazione del nuovo stato l'ottima burocrazia greca e araba, gestita da personale esperto e ben preparato, riuscendo in questo modo a coniugare in maniera ottimale le tradizioni normanne a quelle preesistenti. Questi ed altri illuminati provvedimenti fecero del Regno di Sicilia uno stato moderno e forte, dotato in particolare di una poderosa marina militare e di un'abbondante produzione agricola, destinato a suscitare ammirazione e timori tra gli altri stati dell'epoca, in particolare nei confronti del Papa che considerava i re siciliani suoi vassalli[3].

La corte, con la guardia d'onore di Federico II, nella reggia di Palermo

La natura conquistatrice dei nuovi sovrani normanni siciliani si espresse anche in numerose imprese oltremare: negli anni 1140 Ruggero II cercò di porre sotto il proprio controllo numerose città strategiche della costa nordafricana (in particolare Tripoli e Madhia, centri di raccolta dell'oro africano). Tuttavia il suo successore, Guglielmo I, detto "il Malo", non ebbe lo stesso successo del padre in battaglia e non riuscì a conservare il dominio del "regno africano". Guglielmo II, detto "il Buono", invece attaccò con successo l'Impero bizantino riportando numerose vittorie. Nel 1185 conquistò Durazzo e Tessalonica, e sembrò perfino sul punto di impadronirsi di Costantinopoli, mentre la flotta siciliana difendeva efficacemente le coste del regno e combatteva alle Baleari, al largo dell'Egitto e sulle coste della Terra Santa, comandata da Tancredi d'Altavilla.

Enrico VI di Hohestaufen, re di Sicilia
Il castello normanno-svevo di Melfi

L'esercito siciliano riuscì più volte a respingere gli attacchi degli imperatori tedeschi, i quali avevano da sempre mire espansionistiche in Italia. Tuttavia dopo la morte del re Tancredi, che aveva valorosamente guidato l'esercito siciliano, le armate del Reame dovettero arrendersi alle truppe dell'imperatore Enrico VI di Hohenstaufen che nel 1194 conquistarono il Regno di Sicilia in nome di Costanza d'Altavilla, sposa normanna dell'imperatore e pretendente al trono di Sicilia dopo la morte di Guglielmo II.

Ad Enrico VI, fervido difensore della cristianità in Terra Santa, seguì sul trono di Sicilia nel 1197 Federico II, vera e propria spina nel fianco della Santa Sede per tutta la durata del suo regno. Come il padre, Federico II non intaccò le tradizioni del regno normanno, tuttavia egli si fece promotore dell'allontanamento della comunità musulmana dalla Sicilia, relegandola nella fortezza di Lucera, dalla quale gli arabi avrebbero fornito all'imperatore truppe scelte di arcieri e abili armaioli[4].

I siciliani vittoriosi a Cortenuova

Dopo aver imposto le proprie volontà nell'Italia meridionale Federico II volse la sua attenzione a nord: nel 1218 conquistò la corona tedesca e quindi quella del Sacro Romano Impero, che ricevette dal Papa Onorio III nel 1220. Quindi, riunito su di sé il potere in Germania ed in Sicilia, ritornò sulle orme del nonno Federico Barbarossa, e decise di prendere una volta per tutte il controllo dell'Italia settentrionale, suscitando grande preoccupazione sia negli stati del nord Italia che nel Papato. Questo atteggiamento costò la scomunica a Federico II, che nel frattempo si era impegnato nella conquista di Gerusalemme e di Cipro contro la volontà papale.

Il Papa Gregorio IX decise quindi di scendere con un'armata nel Regno di Sicilia per riportare Federico II all'ubbidienza, ma le truppe pontificie ricevettero una bruciante sconfitta che fu sancita ufficialmente dalla pace di San Germano del 1231. Così il re di Sicilia decise di rivolgere di nuovo le sue attenzioni all'Italia settentrionale, riportando una brillante vittoria a Cortenuova, nel 1239, dove, anche grazie alle truppe siciliane ed agli arcieri musulmani di Lucera, mise in fuga le truppe dei comuni lombardi anti-imperiali.

Dopo Cortenuova il Papa Gregorio IX decise di indire una crociata nei confronti di Federico II, ma nonostante ciò il pontefice fu costretto a fuggire a Lione, dando inizio ad un periodo di guerra permanente.

Federico II morì improvvisamente nel 1250, lasciando il regno di Sicilia al figlio Corrado IV, che continuò a mostrarsi interessato alla situazione politica dell'Italia settentrionale. Corrado IV morì nel 1254, ed il Papa Innocenzo IV approfittò del momento di confusione per insediare sul trono siciliano il figlio più "docile" di Federico II, Manfredi, che tuttavia dopo poco tempo riprese la lotta contro la Santa Sede, infliggendo alle truppe pontificie un'altra sconfitta a Lucera nel 1254. Manfredi, dopo aver preso stabilmente il potere nel Regno di Sicilia, appoggiò costantemente le città ghibelline dell'Italia centro-settentrionale, e riuscì a rivendicare la sua sovranità anche molto a nord, approfittando dell'appoggio ghibellino di molte importanti città toscane e lombarde (si ricordi la magnifica vittoria di Manfredi alla battaglia di Montaperti). Inoltre egli portò sotto il dominio degli Hohenstaufen l'isola di Corfù, Durazzo, Valona e Butrinto[5].

Nel frattempo però la Santa Sede si era messa da tempo alla ricerca di un campione del Papa che potesse riportare il Regno di Sicilia sotto l'ala pontificia. Questo campione sarà trovato nel conte di Provenza Carlo d'Angiò.

Gli Angioini e gli Aragonesi[modifica | modifica wikitesto]

La storia del Regno di Sicilia in epoca angioina fu segnata dalle continue guerre tra la dinastia francese insediatasi a Napoli e gli eredi legittimi degli Hohenstaufen di Sicilia. Questa lotta finì per coinvolgere anche i sovrani aragonesi, i quali, essendo imparentati agli antichi re svevi di Sicilia, avanzarono pretese di dominio sia sull'Isola che sull'Italia meridionale.

La battaglia di Benevento

Tutto iniziò con la sconfitta dell'esercito siciliano di re Manfredi a Benevento il 26 febbraio 1266 ad opera del principe francese Carlo d'Angiò. Manfredi era infatti il principale esponente ghibellino in Italia ed esercitava un potere militare sulla penisola che veniva difficilmente contrastato dalla fazione guelfa, cosa che gli procurò anche due scomuniche da parte dei pontefici dell'epoca. Il Papa Clemente IV quindi, in seguito ai numerosi tentativi falliti di portare il Regno di Sicilia sotto il dominio guelfo, in una sorta di crociata contro gli Svevi di Sicilia, chiamò in Italia Carlo d'Angiò con i suoi cavalieri francesi, con la promessa di fargli dono dei troni di Sicilia e di Piemonte in caso di vittoria.

Drouet trafitto dalla spada viene ucciso, da I Vespri siciliani di Francesco Hayez

Carlo, dopo aver agevolmente sconfitto i ghibellini dell'Italia settentrionale, avanzò senza colpo ferire fino al Garigliano, dove si scontrò e vinse le truppe siciliane. La vittoria finale fu conquistata sui campi di Benevento, dove Manfredi trovò valorosamente la morte, e così Carlo salì sul trono di Napoli col nome di Carlo I d'Angiò, diventando Re di Sicilia e capo della fazione guelfa in Italia.

Un tentativo di rivincita Sveva si ebbe a Tagliacozzo nel 1268, dove le truppe ghibelline, guidate da Corradino, nipote di Federico II, furono nuovamente sconfitte dalle truppe di Carlo I le quali, dopo un primo momento di difficoltà, approfittarono degli errori strategici commessi dai ghibellini per infliggergli una durissima sconfitta. Lo stesso Corradino sarà poi trasportato a Napoli e decapitato il 29 ottobre 1268, mettendo così la parola fine alla storia della dinastia Sveva in Italia.

La Sicilia, refrattaria al dominio del nuovo sovrano francese Carlo I d'Angiò, nel 1282 con una plateale rivolta detta dei "Vespri Siciliani" scacciò gli angioni dall'isola per portare sul trono palermitano il re aragonese Pietro III, marito di Costanza di Hohenstaufen (figlia di Manfredi). Questo drammatico avvenimento portò alla separazione del Regno di Sicilia, governato dagli Aragonesi, e del Regno di Napoli, governato dagli Angioini e generò una lunga guerra tra i due Reami. Le lotte per il controllo dell'isola si susseguirono negli anni successivi con l'ascesa al trono di Napoli di Carlo II d'Angiò "lo Zoppo", le cui truppe si dovettero scontrare con i siciliani di Ruggero di Lauria e la "Compagnia Catalana" di Ruggero da Fiore, fino alla ratifica della pace di Caltabellotta il 31 agosto 1302, che sancì la separazione ufficiale dei Regni di Napoli e Sicilia in due distinte unità amministrative.

L'assedio di Tunisi
Artiglieria angioina durante l'entrata a Napoli di Carlo VIII (1495). Cronaca figurata del Quattrocento di Melchiorre Ferraiolo

La dinastia angioina, come le precedenti case regnanti, inoltre fu fautrice di politiche espansionistiche nell'Italia settentrionale e nel Mediterraneo. Carlo I conquistò Durazzo e gran parte dell'Albania, progettando un'espansione militare nei Balcani ai danni di Costantinopoli. Mosse guerra a Tunisi e stabilì un presidio permanente angioino nella fortezza di Acri, in Terra Santa. Carlo II e Roberto il Saggio rafforzarono ed espansero i feudi angioini in Piemonte, Liguria, Toscana ed Emilia Romagna. Un loro successore, Ladislao d'Angiò, si lanciò alla conquista della penisola italiana, operazione interrotta dalla morte prematura del re di Napoli. La politica estera angioina contribuì ad un sensibile indebolimento finanziario del Regno di Napoli, che, alla morte della regina Giovanna II d'Angiò, tornò ad essere terreno di battaglia per le truppe aragonesi di Alfonso il Magnanimo, allora re di Sicilia e reggente della Corona d'Aragona.

Nonostante i numerosi sforzi fatti dagli angioini di Napoli e di Francia per riconquistare il regno, nel 1442 Alfonso il Magnanimo ebbe la meglio: conquistò Napoli e riunificò sotto la sua corona i regni di Napoli e Sicilia in un unico regno detto "delle Due Sicilie".

La dinastia aragonese riportò un clima di prosperità nelle Due Sicilie ed influenzò pesantemente anche le consuetudini militari di questo territorio, soprattutto grazie all'apporto delle truppe catalane che fecero guadagnare agli aragonesi il soprannome di "almogaveri".

Tuttavia gli splendori del rinascimento napoletano furono presto oscurati dalla discesa in Italia del nuovo pretendente francese al trono di Napoli, Carlo VIII di Valois, il quale, dopo aver raggruppato un poderoso esercito ed aver facilmente superato gli ostacoli dell'Italia settentrionale e centrale, entrò a Napoli il 22 febbraio 1495.

Il re aragonese di Napoli, Ferrandino, nonostante la sconfitta di Seminara, non si diede per vinto e, approfittando delle pulsioni filo-aragonesi dei suoi sudditi, organizzò in breve tempo un nuovo esercito napoletano che riuscì alla fine a cacciare i francesi dal Regno di Napoli.[6]

Il successore di Carlo VIII, Luigi XII di Francia, tentò nuovamente la conquista del reame di Napoli accordandosi con il re spagnolo Ferdinando il Cattolico per una spartizione del Regno napoletano tra Francia e Spagna.

L'ultimo re aragonese di Napoli, Federico I, saputa della congiura che tramava alle sue spalle il re di Spagna che credeva suo alleato, accettò le condizioni del re di Francia ed abbandò il regno di Napoli in mano francese.

Ferdinando il Cattolico, reduce dalla "reconquista", tuttavia insistette nelle sue pretese scatenando così la II Guerra d'Italia e, dopo aver sconfitto i francesi a Cerignola e sul Garigliano, nel 1504 entrò a Napoli trionfante e fece dei due regni di Napoli e Sicilia dei vicereami spagnoli.

Della seconda "Guerra d'Italia" si ricorda in particolare la disfida di Barletta del 1503, in cui 13 cavalieri napoletani, schierati dalla parte di Ferdinando, si scontrarono con altrettanti cavalieri francesi riportando una brillante vittoria.

I vicereami spagnoli[modifica | modifica wikitesto]

Battaglia di Pavia
Giovan Battista Castaldo, celebre condottiero campano al servizio di Carlo V

Dopo la conquista dei Regni di Napoli e Sicilia da parte di Ferdinando il Cattolico, avvenuta grazie alle ottime doti militari di Consalvo di Cordova (detto il Gran Capitano) dimostrate nelle battaglie di Cerignola e del Garigliano, venne instaurato anche nelle Sicilie un regime vicereale dipendente dalla corona spagnola.

Nei due secoli di viceregno Napoli e Sicilia diedero un grandissimo contributo alle politiche militari spagnole, fornendo abbondanti tasse alle casse imperiali e numerosi soldati alle armate impegnate in Europa ed America. Ricordiamo ad esempio il contributo, non solo logistico, dato dai marinai e dai soldati napoletani e siciliani, molti dei quali impiegati nei Tercios spagnoli, durante la battaglia di Lepanto.

Un altro esempio significativo è rappresentato dalla presenza di truppe nepoletane (ed in misura minore siciliane) nelle Fiandre sin dal XVI secolo, epoca in cui decine di migliaia di soldati provenienti dai possedimenti spagnoli italiani (specialmente napoletani e lombardi) furono chiamati in aiuto dei sovrani spagnoli impegnati nella repressione delle rivolte nelle Province Unite e nella guerra degli ottant'anni nei Paesi Bassi spagnoli. Le truppe napoletane e siciliane quindi, sempre inserite nelle forze armate spagnole, furono chiamate a svolgere un ruolo di primo piano anche nelle battaglie della guerra dei trent'anni e della guerra d'Olanda[7].

Ambrogio Spinola, comandante dei tercios, decreta la resa di Breda

In pratica i sudditi napoletani furono impiegati in quasi tutti i fronti di guerra spagnoli, da Pavia (in cui alla vittoria contribuì grandemente Fernando Francesco d'Avalos) durante le guerre d'Italia fino alla Battaglia di Lepanto; furono stanziati a Milano, in Lombardia ed in Piemonte durante la guerra del Monferrato. Si distinsero durante l'assedio di Maastricht (in cui il tercio di Marzio Origlia fu quasi del tutto annientato dalla cavalleria francese, guadagnandosi le lodi del conte di Monterrey e dello stesso re Luigi XIV), ad Anversa, ad Ostenda (battaglia nella quale spiccò Tommaso Caracciolo duca di Roccarainola, che molti anni dopo comandò i napoletani nella Battaglia della Montagna Bianca) a Breda, nelle Fiandre, nella Zelanda e nel Brabante, con Camillo de Monte, Camillo Caracciolo Principe di Avellino e Domizio Caracciolo marchese di Montesilvano. I reparti superstiti dalle guerre olandesi poi, sotto il comando di Lelio Brancaccio, formarono il reggimento di guardia delle fortezze del Reno. I napoletani combatterono inoltre a Rocroy (in cui si distinse Giovanni da Ponte), parteciparono anche alla Guerra di restaurazione portoghese, alla repressione della Sollevazione della Catalogna e alla repressione delle rivolte di Messina del 1674. I soldati del Sud Italia furono impiegati inoltre in Brasile, in cui il marchese di Torrecuso ed il conte di Bagnoli combatterono nuovamente contro gli olandesi.

Si ricorda di quel periodo in particolare il contributo dato durante la battaglia di Nördlingen, cittadella fortificata bavarese, il 5 ed il 6 settembre 1634, a cui parteciparono molti dei grandi nomi della Napoli militare dell'epoca: Gherardo Gambacorta duca di Limatola, Carlo Andrea Caraccio marchese di Torrecuso, Vincenzo Carafa, Lelio Brancaccio, Francesco Filangieri, Carlo Spinelli, Andrea Cantelmo, ecc. Questi reparti napoletani, i tercios di fanteria più la cavalleria guidata dal Gambacorta, costrinsero gli svedesi ad abbandonare la Germania meridionale, mettendo la parola fine alla fase svedese della Guerra dei trent'anni e contribuendo in modo decisivo alla vittoria imperiale.

Alla fine del '600 la situazione nel regno appariva quasi insostenibile in quanto le campagne erano costantemente depauperate di braccia da lavoro a causa delle chiamate militari e le casse dei viceregni erano ormai quasi del tutto vuote in quanto la già esosa fiscalità spagnola delegò a Napoli e Sicilia i costi della difesa della Lombardia e dell'intera Italia settentrionale, in modo da preservare le già problematiche finanze castigliane.[8]

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ Mariano d'Ayala, Napoli Militare, pp. 3-10
  2. ^ Abulafia, I regni del Mediterraneo occidentale dal 1200 al 1500, Editori Laterza
  3. ^ Abulafia, I regni del Mediterraneo occidentale dal 1200 al 1500, Editori Laterza
  4. ^ Abulafia, I regni del Mediterraneo occidentale dal 1200 al 1500, Editori Laterza
  5. ^ Abulafia, I regni del Mediterraneo occidentale dal 1200 al 1500, Editori Laterza
  6. ^ Abulafia, I regni del Mediterraneo occidentale dal 1200 al 1500, Editori Laterza
  7. ^ Bianchi, Maffi, Stumpo "italiani al Servizio Straniero in età moderna" Franco Angeli, Milano 2008
  8. ^ Davide Maffi, La cittadella in armi, Franco Angeli, Milano 2010

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

Voci correlate[modifica | modifica wikitesto]