Utente:TERMINGROSS/Sendbox

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Il determinismo tecnologico al cinema: tra utopia e distopia[modifica | modifica wikitesto]

Una delle possibilità di rappresentare visivamente il concetto di determinismo tecnologico è fornita dal cinema e quindi dalla ricerca e dall'interpretazione che ne hanno dato i diversi autori; alcuni con toni apocalittici, altri in chiave tragi-comica, altri ancora con smisurato ottimismo.

Tempi Moderni: regia di Charles Chaplin[modifica | modifica wikitesto]

Il determinismo tecnologico emerge in questo film principalmente da due aspetti: il primo riguarda il messaggio che Chaplin ha voluto trasmettere, il secondo riguarda la realizzazione tecnica del film stesso, che pur allineandosi alle idee di Chaplin, fortemente critiche nei riguardi del sonoro, mostra segni d' apertura. Tempi moderni è ricco di sequenze che evidenziano il rapporto uomo-macchina, in cui a volte prevale l’uno: la macchina per mangiare e quella in cui Charlot viene risucchiato e a volte prevale l’altro: Chaplin che si “serve” della nuova tecnologia nel senso che gioca con l’idea del suono inteso come uno sviluppo tecnologico per un suo personalissimo discorso: il rumore assordante delle fabbriche, la memorabile canzone nel ristorante la voce del direttore che comunica con i suoi dipendenti tramite uno schermo, i rappresentanti della macchina per mangiare che comunicano attraverso un disco pubblicitario con una voce registrata, fino alla sequenza in cui Charlot si appresta a parlare ma, inaspettatamente, inizia a cantare in un linguaggio inventato. Uno dei temi che Chaplin sembra comunicare in questo film, è il contrasto tra gli uomini asserviti all’inarrestabile progresso tecnologico e quelli che eventualmente si servono del progresso tecnologico per comunicare un pensiero. Al centro, il personaggio di Charlot nella sua spontaneità.[1]

Avatar : regia di James Cameron.[modifica | modifica wikitesto]

Un film improntato ad un iper-positivismo e ad un determinismo tecnologico al quale tutto è destinato a soccombere, dentro e fuori lo schermo. Uno schermo che è attore e protagonista ancor più delle figure che vi si agitano all’interno.Inutile negarlo: lo sforzo vero e ultimo di Cameron, con Avatar, è stato primariamente tecnologico. La voglia di affermare e dimostrare la supremazia indiscussa dell’immagine, e la capacità di plasmarla in e su dimensioni quasi inedite grazie alla stereoscopia, hanno portato ad un risultato che innegabilmente stabilisce un nuovo standard concettuale riguardo quella che è l’esperienza della visione.[2]

Johnny Mnemonic Regia: Robert Longo[modifica | modifica wikitesto]

Il microchip che il protagonista ha nel cervello non è altro che un estensione artificiale della sua memoria [...]. Ma questo non è l’unico elemento del film anticipato dalle idee di Mc Luhan, nel film il protagonista è costretto a causa di questo trapianto cibernetico a cancellare parte della sua memoria o meglio la memoria artificiale in eccesso ha sovrascritto una parte della sua memoria naturale[3]. Come indicato da Mc Luhan[4]: ogni estensione corrisponde a una parallela “amputazione”, rendendo inevitabile che ciascun medium o tecnologia, nell’estendere un senso, fatalmente ne narcotizza altri, se qualcosa si potenzia un’altra si perde, sbilanciando l’equilibrio sensoriale nell’una o nell’altra direzione.[5]

Contrapposizioni: deterministi e strumentalisti[modifica | modifica wikitesto]

I primi sostengono l’idea del progresso tecnologico come forza autonoma, in grado di influenzare i comportamenti della civiltà nel suo percorso storico. Le posizioni più estreme affermano che le macchine prenderanno il sopravvento sull’uomo. Al polo opposto, il pensiero strumentalista tende a minimizzare il potere della tecnologia e considera i suoi dispositivi sotto il pieno controllo umano. David Sarnoff uno degli esponenti di questo pensiero affermò all’Università di Notre Dame: «Siamo troppo propensi a fare degli strumenti tecnologici i capri espiatori dei peccati di coloro che li maneggiano. In sè stessi i prodotti della scienza non sono nè buoni nè cattivi: è il modo in cui vengono usati che ne determina il valore » [6]

NOTE:[modifica | modifica wikitesto]

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

  • L.,G. Bifulco, Vitiello (a cura di), Sociologia della Comunicazione, 2004, Ipermedium libri.
  • A.,G. Cavicchia Scalamonti, Pecchinenda (a cura di), Sociologia della comunicazione: media e processi culturali, 2001, Ipermedium libri.
  • Nicholas Carr, The Shallows.What the Internet Is Doing to Our Brains, 2010, tr.it : Internet ci rende stupidi? Come la rete stà cambiando il nostro cervello, Raffaello Cortina Editore, 2011
  • Derrick De Kerckhove, Connected Intelligence, the Arrival of the Web Society, Somerville House, Toronto, 1997.
  • Derrick De Kerckhove, La conquista del tempo, Editori Riuniti, 2003.
  • Lelia Green, Technoculture: From Alphabet to Cybersex, Allen & Unwin, Sydney, 2002.
  • Harold A Innis, Impero e comunicazioni, Meltemi, 2001. ISBN 978-88-8353-103-3.
  • E. Lamberti, Marshall McLuhan: tra letteratura, arte e media, B. Mondadori, 2000.
  • Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Milano, Il Saggiatore, 1999. ISBN 88-428-0819-9.
  • D. McQuail, Sociologia dei media, il Mulino, 2007.
  • Andrew Murphie, John Potts, 1, Culture and Technology, London, 2003.
  • Langdon Winner, Do Artefacts Have Politics?, University of Chicago, The Whale and the Reactor, 1986.