Un paradiso abitato da diavoli

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Un paradiso abitato da diavoli
AutoreBenedetto Croce
1ª ed. originale2006
Genereraccolta di saggi
Lingua originaleitaliano

Un paradiso abitato da diavoli è una raccolta di saggi postuma di Benedetto Croce relativa alla città di Napoli, alla sua storia e cultura. La raccolta trae il nome dal primo dei saggi, letto alla Società napoletana di storia patria nell'assemblea generale dei soci il 12 giugno 1923".[1]

Descrizione[modifica | modifica wikitesto]

Nel primo saggio, Benedetto Croce rintraccia la storia di un antico detto secondo cui la città di Napoli era "un paradiso abitato da diavoli". Croce esordisce dicendo che già nel 1923, tale detto era caduto in disuso e prosegue descrivendo la prima comparsa e la storia di questo detto. In particolare rintraccia il primo riferimento in una traduzione italiana dell'opera del viaggiatore olandese del Seicento Luca de Linda[2] dal titolo Descriptio orbis et omnium ejus rerumpublicarum. Tale traduzione fu pubblicata da Maiolino Bisaccioni a Venezia nel 1660 col titolo Le descrittioni universali et particolari del Mondo e delle Repubbliche e contiene il detto "universale", riferito alla "gente bassa", secondo cui sarebbe "un Paradiso habitato da Demonij".[3][4]

Tale detto fu successivamente ripreso da Louis Moreri nel suo Le grand dictionnaire historique (1673)[5] nonché da Antoine-Augustin Bruzen de La Martinière nel suo Le grand dictionnaire geographique (1737)[6] i quali contribuirono non poco a diffondere il detto all'estero. Infatti, a partire dal XVIII secolo, lo si ritrova in qualche pubblicazione estera, in particolare in un discorso all'Università di Altdorf del 12 novembre 1707 tenuto da un cultore di filologia e filosofia di nome Johann Andreas Buhel e dal titolo Proverbium Italorum: Regnum Neapolitanum Paradisus est, sed a Diabolis habitatus, ulterius explicatum.[7] In questo discorso, agli ambienti paradisiaci di Napoli si contrappongono i vizi dei suoi abitanti, descritti come estremamente gelosi, "tiranni delle donne" e dediti alla cura dell'aspetto esteriore, alla lussuria e alla prostituzione.[8]

Anche Antonio Genovesi, all'interno della sua opera Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze (1754), cita il proverbio in questione avendolo letto nel sopraccitato dizionario di Moreri. Genovesi attirbuisce impropriamente la paternità del proverbio al "francese" Moreri e afferma che sarebbe scaturito dall'invidia di chi ne è escluso per il non poter far parte del mondo napoletano.[9][10]

L'origine[modifica | modifica wikitesto]

Benedetto Croce individua anche alcuni precedenti rispetto alla prima comparsa seicentesca del proverbio nella sua forma compiuta. In particolare, lo stesso contenuto, seppur in forma diversa, lo si ritrova in una lettera del 1539 di Bernardino Daniello ad Alessandro Corvino:

«Io pur venni a Napoli gentile e da bene, il cui sito a me pare meraviglioso e il più bello ch'io vedessi mai, perché io non ho veduto città ch'abbia dall'un de' lati il monte e dall'altro la batti il mare, come fa questa; ed anche per altre sue particolarità, che tutte insieme e ciascuna per sé la fanno parere mirabile. Ma perché dovete sapere che la natura non vuole, né si conviene (come disse quella pecora del Petrarca) "per far ricco un, por gli altri in povertate", quando l'ebbe molte delle sue doti più care concedute, le parve di ristringer la mano , affine che l'altre città non le mandassero loro ambasciatori a dolersi con esso lei di tanta parzialità, e propose fra se stessa di dare questo paradiso ad habitare a diavoli; e così come aveva proposto, mandò ad effetto.»

Secondo Croce, sicuramente non fu Daniello a inventare da quel momento il proverbio. Croce, pur non riuscendo a trovare precedenti riferimenti certi, ne riconosce l'origine italiana e individua un passo delle Facezie del piovano Arlotto (XV secolo) che allude perlomeno a un pregiudizio nei confronti dei napoletani in cui si dice che "l'aria di Napoli opera bene in tutte le cose e male negli uomini, i quali nascono «di poco ingegno, maligni, cattivi e pieni di tradimenti» e che, se non fosse così, Napoli sarebbe un paradiso".[11] Croce sviluppa anche una sua teoria sull'origine del detto, il quale risalirebbe agli ambienti mercantili italiani del Trecento:

«Per mia parte, sono persuaso che il proverbio risalga per lo meno al trecento, e sia di origine più propriamente fiorentina, fiorito sulle labbra di quei mercatanti e altri uomini di negozi e di politica, che da Firenze in tanto numero venivano nel Regno al tempo degli Angioini.»

L'analisi[modifica | modifica wikitesto]

Croce, pur ammettendo un fondo di verità in alcuni strati della popolazione napoletana, rifiuta categoricamente l'esistenza di "una condizione totale e naturale di cattiveria e di stoltezza". Inoltre l'aver cristallizzato in un proverbio comportamenti così repentinamente cangianti come quelli sociologici e antropologici di un popolo ha fatto sì che tale proverbio venisse di volta in volta adattato a situazioni diverse nel corso dei secoli.[12] Croce, inoltre, cita anche le posizioni di coloro che ripudiavano la generalizzazione e per così dire, "discriminazione", in quanto non adatta a un secolo di ragione e di lumi qual era il XVIII secolo.[13]

Edizione[modifica | modifica wikitesto]

Note[modifica | modifica wikitesto]

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

Voci correlate[modifica | modifica wikitesto]

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