Tentazione nel convento

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Vai alla navigazione Vai alla ricerca
Tentazione nel convento
Dramma
AutoreGiovanni Testori
Lingua originaleitaliano
Composto nel1949
Personaggi
  • Suor Marta
  • Suor Elena
  • La Madre
  • Don Dionigi
  • Alcune suore e converse
 

Tentazione nel convento è un dramma teatrale religioso di Giovanni Testori del 1949. Scritto in due versioni e inviato al regista Orazio Costa[1], non fu mai rappresentato durante la vita dell'autore, nonostante l'interessamento di Luchino Visconti.

Trama[modifica | modifica wikitesto]

Suor Marta Solbiati di Arcisate, il cui segno distintivo è la visione mistica (a dodici anni, la Madonna le era apparsa sulla riva del fiume), intraprende una vera e propria lotta con il «male» che assume le forme di un cane. Don Dionigi e la Madre Superiora si interrogano su come gestire la particolare irrequietezza di suor Marta, su come non creare un effetto di contagio sulle altre sorelle. Tutti si sono accorti che qualcosa è accaduto: dal cappellano alla superiora alla vice superiora. La ragazza viene interrogata. Lei stessa si interroga. Finché una notte non comincia ad essere posseduta: il cappellano e le suore prendono l'aspetto di bestie con la coda e le zampe. Lei si munisce di un coltello e va per uccidere il cane. Lo segue fino in fondo al giardino e lì ha luogo un lungo abbraccio tra loro – la scena viene raccontata per cui non si capisce bene di cosa si sia trattato –, poi lei, invece di ucciderlo, si taglia le vene e muore[2], lasciando ai vivi, quanto mai morti dentro, il compito di inventare una pia bugia che celi al mondo la verità sulla sua morte e riporti il buio nelle coscienze.

Poetica[modifica | modifica wikitesto]

Con questo dramma, che narra la storia di una lotta con Dio[3], l'autore intendeva approfondire aspetti dell'umano sconosciuti, anche impietosi, mettendo in crisi con una serie di eventi la normale vita di meditazione e preghiera del convento e riuscendo a rendere tangibile il conflitto interiore tra un pensiero critico e le stratificazioni di convenzioni sociali e culturali. Uno sperimentalismo non mirato a giungere alla realtà, a una tipologia di realismo scontata[4], che parte dalla realtà non tanto per dipingere, ma per vivere[5].

Dal testo emerge l'estrema carnalità di Testori: nelle immagini (vi compaiono ferite, sangue, visi deturpati, orecchie pendenti, carne «pezzata di fetide piaghe») e genericamente nei contenuti, ma più in particolare nella stessa tessitura verbale che veicola quelle immagini e quei contenuti. La carne è sì condanna ma può volgersi anche in liberazione, al punto che la religiosa pregherà Dio di impossessarsene per darle pace: «Se per me c'è salvezza, entra nella mia carne»[6], quasi per ricondurre la fede al mistero dell'incarnazione: tanto che quando la bestia si impadronisce di lei, suor Marta dice: «Chiusa nell'alveo del suo ventre, mi parve d'essere tornata nella carne stessa di mia madre»[1].

Testori giudicava quest'opera come la più meritevole di rivalutazione tra quelle da lui scritte in gioventù[7].

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ a b Fondazione Mondadori, Archivio Giovanni Testori
  2. ^ G. Testori in L. Doninelli, Conversazioni con Testori, Guanda Editore, 1993
  3. ^ F. Panzeri, Avvenire, 3 dicembre 2016
  4. ^ Valentina Leone, in [1], 2020
  5. ^ G. Testori in una lettera all'amico pittore Renato Guttuso
  6. ^ P. Di Stefano, Corriere della Sera, 17 febbraio 2012
  7. ^ G. Testori in L. Doninelli,Conversazioni con Testori, Guanda Editore, 1993