Storiografia della guerra civile in Italia (1943-1945)

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Voce principale: Guerra civile in Italia.

La storiografia della guerra civile in Italia è la letteratura storiografica relativa alla lotta fra partigiani e fascisti repubblicani nel periodo 1943-1945, interpretata come una guerra civile interna alla nazione italiana nel quadro della guerra di liberazione italiana.

La guerra civile negli scritti e nei discorsi dei protagonisti[modifica | modifica wikitesto]

La definizione di "guerra civile" era diffusa già nel periodo 1943-1945, sia tra i partigiani che tra i fascisti della Repubblica Sociale Italiana, in riferimento al conflitto intestino che opponeva gli uni agli altri.

A partire dal dopoguerra, l'espressione «guerra civile» – sebbene ricorresse nei discorsi e negli scritti di importanti personalità della Resistenza – fu progressivamente accantonata (e poi rifiutata) dagli antifascisti[1], in particolar modo dai comunisti[2][3], cosicché per molto tempo fu usata quasi in via esclusiva dai reduci della RSI, che ne fecero un uso polemico finalizzato a legittimare la propria causa, accusando il movimento partigiano di aver scatenato una guerra fratricida tra italiani. Conseguentemente, la storiografia italiana inquadrò gli scontri tra connazionali nell'ambito della guerra di liberazione contro l'invasore tedesco, mettendo in risalto il carattere patriottico della lotta partigiana, e negando idealmente ai fascisti – che pure definivano «antinazionali» i loro avversari – la qualifica di italiani[4] in quanto collaborazionisti della Germania nazista.

Nel 1985 lo storico Claudio Pavone, ex partigiano, ripropose nel mondo accademico italiano, per la prima volta dopo molti anni, la categoria interpretativa della "guerra civile", suscitando un acceso dibattito, e nel 1991 la pose al centro della sua opera Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza. Il dibattito sorto attorno a tale studio segnò l'inizio di una prolifica stagione di ricerca sul tema, tale che la definizione di guerra civile per descrivere lo scontro tra italiani fascisti ed antifascisti negli anni 1943-1945 ha trovato una diffusione vasta presso la storiografia e la divulgazione storica di ogni orientamento, divenendo anche occasione di scontro ideologico nel contesto di un "uso pubblico della storia": in particolare, secondo Pavone, nell'area della destra italiana il termine è stato usato surrettiziamente sia, come detto, in senso negativo e addossando la responsabilità delle violenze del biennio agli antifascisti (e soprattutto ai comunisti), sia nel tentativo di equiparare i due fronti del conflitto; dall'altro lato, chi si è opposto da sinistra alla categoria ha assunto una posizione difensiva eccessivamente appiattita sul piano nominalistico[5].

Durante il conflitto[modifica | modifica wikitesto]

Durante il conflitto entrambe le fazioni in lotta definivano guerra civile lo scontro che combattevano contro il proprio nemico interno[6]. Generalmente il termine guerra civile era adoperato nel suo significato tragico di lotta fratricida, cosicché i fascisti e gli antifascisti si incolpavano reciprocamente di aver scatenato la guerra civile e di alimentarla[7], mentre da parte centrista e monarchica la medesima accusa era rivolta a entrambi gli schieramenti[N 1].

Non mancavano tuttavia incitamenti a combattere senza tregua e fino in fondo la guerra civile, ritenuta un compito storico ineluttabile per la salvezza del Paese. Nell'ottobre 1943 l'edizione di Roma de l'Unità indicò i tre compiti che il popolo italiano doveva affrontare: «guerra contro l'aggressore nazista; guerra civile contro i fascisti suoi alleati; lotta politica contro le forze reazionarie»[8]. Nello stesso mese, il primo numero della rivista comunista La nostra lotta proclamò: «È l'ora del fuoco, l'ora della guerra dei partigiani, l'ora della guerra civile. L'ora della guerra attivamente combattuta contro i tedeschi e contro i fascisti»[9].

In dicembre Fortunato Pintor, in una lettera a Giovanni Gentile, commentando la situazione italiana scrisse: «si sono aggiunte rovine a rovine, sino allo sciagurato armistizio e allo smembramento dell'Italia. Ed ora siamo alla guerra civile»[10]. Lo stesso Gentile nel gennaio 1944 scrisse dell'«orrore della guerra civile, tra Italiani e Italiani; ossia dell'Italiano contro se stesso; e la coscienza rimane perplessa, incerta di quello che sia il dovere presente del cittadino italiano»[11].

Il termine è largamente ricorrente nella corrispondenza intercorsa tra Giorgio Agosti e Dante Livio Bianco, comandanti delle Brigate Giustizia e Libertà in Piemonte, tra il gennaio 1944 e il marzo 1945[12].

Lo storico Adolfo Omodeo, in una lettera inviata da Napoli al figlio Pietro il 12 aprile 1944, nel contrapporre il torpore dell'Italia meridionale liberata alla gravità della situazione nel nord, riferì: «Molti non si persuadono che siamo nella tragica atmosfera della guerra civile»[13].

Giovanni Gentile negli ultimi anni. L'uccisione del filosofo contribuì a una presa di consapevolezza circa la natura di guerra civile del conflitto.

Tra le reazioni all'uccisione di Giovanni Gentile, avvenuta per mano di partigiani comunisti il 15 aprile 1944 a Firenze, si rinvengono molteplici riferimenti alla guerra civile. Benedetto Croce, secondo il genero Raimondo Craveri, «pre[se] coscienza di una guerra civile ormai in corso e non soltanto di una animosa resistenza militare contro i Tedeschi»[14]. Umberto Zanotti Bianco scrisse nel suo diario di non poter pensare alla morte di Gentile «senza un senso di rivolta verso la guerra civile che va dilagando in tutte le città d'Italia»[15]. Il diario di Piero Calamandrei, tra i commenti alla stessa notizia, riporta: «Leggevo ieri, sulla bella Letteratura di Marchesi, le vicende della vita di Cicerone; è quello che viviamo oggi: la guerra civile, gli esili, le fughe, gli assassinii politici, le liste di proscrizione. Risiamo al periodo tra Silla e Augusto»[16].

Aligi Sassu, La guerra civile, olio su tela, 1944, Roma, Galleria nazionale d'arte moderna e contemporanea

Nel 1944 il pittore socialista Aligi Sassu chiamò La guerra civile un dipinto raffigurante i corpi dei partigiani trucidati nella strage di Piazzale Loreto, avvenuta a Milano nell'agosto di quell'anno[17].

Giovanni Dolfin, segretario personale di Mussolini, conclude l'introduzione al suo diario scrivendo che «la tragica esperienza della guerra civile ci ha insegnato molte cose». Dolfin sostiene inoltre che Mussolini usò diverse volte l'espressione "guerra civile" nel commentare la situazione italiana: ad esempio, in seguito alla notizia dell'uccisione del federale di Milano Aldo Resega affermò che i servizi segreti di Mosca, Washington e Londra collaboravano per fomentare la guerra civile in Italia e che, essendo gli italiani disposti a trucidarsi in famiglia, con tali uccisioni la guerra civile sarebbe entrata facilmente in una fase più acuta[18].

Nel novembre 1944, l'edizione romana de l'Unità attaccò il generale Roberto Bencivenga, già comandante del Fronte militare clandestino durante l'occupazione tedesca della capitale, per aver invocato una pacificazione tra fascisti e antifascisti che potesse «colmare il fosso» che divideva i due schieramenti e porre fine alla guerra civile. L'organo di stampa comunista, diretto da Velio Spano, accusò Bencivenga di mirare «a colmare il fosso e a spegnere la guerra civile onde non sia spento il fascismo. Ma il popolo italiano, per fortuna, è di parere contrario. [...] Il popolo italiano non vuol colmare il fosso, vuole colmare le fosse. Le fosse dei responsabili della catastrofe nazionale che debbono essere soppressi nel corso di questa santissima guerra civile, affinché viva l'Italia»[19].

Nel dopoguerra[modifica | modifica wikitesto]

Nel dopoguerra diversi esponenti dell'antifascismo definivano guerra civile il conflitto appena terminato: Emilio Sereni parlò ripetutamente di «due anni di guerra civile» il 6 agosto 1945 al congresso dei CLN milanesi; Carlo Galante Garrone nel 1947 dichiarò che era stata combattuta una «sanguinosa guerra civile»; Leo Valiani definì l'«inferocimento degli animi» come «il pericolo più recondito e insieme più profondo che ogni guerra civile (e nella lotta contro i fascisti si trattava ben di questo) porta seco»; Luigi Meneghello usò correntemente il termine; Francesco Scotti affermò che la Resistenza fu «anche guerra civile contro il fascismo e per la creazione di uno Stato completamente nuovo, socialmente più avanzato»; mentre Paolo Spriano nei suoi scritti alterna l'uso delle espressioni «guerra civile» e «guerra di liberazione»[20].

Nel 1949, per il quarto anniversario della liberazione d'Italia, l'intellettuale Franco Fortini scrisse per il quotidiano socialista Avanti! un duro articolo in cui criticava come ipocrite e retoriche le celebrazioni ufficiali dell'avvenimento da parte dei «padroni di oggi», ossia della maggioranza democristiana al governo. Fortini replicò all'accusa di aver «monopolizzato» la Resistenza che veniva mossa ai partiti di sinistra dai loro avversari, sostenendo che questi ultimi non avrebbero potuto elaborare un'interpretazione convincente della guerra di liberazione, ossia un'interpretazione non solo in termini di guerra nazionale ma anche di guerra civile e guerra di classe: «ma che cosa ne avrebbero fatto [della Resistenza], essi? Che interpretazione ne avrebbero dato? Che senso avrebbero potuto dare alla guerra civile? Perché guerra civile fu, e non solo guerra nazionale. Guerra di scelte politiche, e perciò anche di classe; non soltanto bandiera, non soltanto un ridicolo onore»[21].

Nell'ambito delle lezioni che tenne all'Istituto di studi politici di Parigi nel gennaio 1950, poi raccolte nel volume L'Italia contemporanea pubblicato in Italia nel 1961, lo storico Federico Chabod – già delegato azionista presso il CLN della Valle d'Aosta – affermò che dopo la fondazione della RSI sull'Italia «s'abbatte anche la guerra civile»[22].

La «guerra civile in Italia» è menzionata anche nell'opera sulla seconda guerra mondiale del primo ministro britannico Winston Churchill. Nel quinto volume, pubblicato nel 1951, Churchill formula un giudizio analogo a quello degli antifascisti italiani sostenendo che il progetto mussoliniano di ricostituire il regime fascista «immerse l'Italia negli orrori della guerra civile»[23].

Nel 1953, il provvedimento di indulto per reati commessi per motivi politici durante il conflitto e nel dopoguerra (poi approvato con il D.P.R. 19 dicembre 1953, n. 922), secondo il suo relatore, il deputato qualunquista Francesco Colitto, intendeva «chiudere il ciclo fin troppo lungo di una lotta politica assai aspra e drammatica, cancellando i residui della dura guerra civile e dare così inizio ad una nuova era di solidarietà nazionale»[24]. Nel corso del dibattito parlamentare, il deputato monarchico Cesare Degli Occhi definì più volte guerra civile il conflitto iniziato dieci anni prima e in particolare affermò: «non possiamo ignorare che ancora nel 1953 noi siamo i figli della guerra e i figli della guerra civile e che è giusto a questo punto rinnegare – non nella memoria ma nell'eredità degli odî – le lugubri paternità e maternità»[25].

Lo storico liberale Mario Vinciguerra, in un articolo pubblicato il 24 marzo 1954 per commemorare il decimo anniversario dell'eccidio delle Fosse Ardeatine, scrisse che in quegli anni molti territori italiani si erano trovati «stretti immediatamente nella morsa della guerra combattuta tra due eserciti stranieri sul nostro suolo, ed entrambi a noi ostili; oppure della guerra civile gravida di amari odi; oppure di entrambe le guerre in intreccio vipereo»[26].

Nelle sue memorie pubblicate nel 1954, Dante Livio Bianco definì «la guerra di liberazione non come una guerra fra stati, fra "nazioni" e "potenze" e "governi" in conflitto, ma come una vera guerra civile, una guerra ideologica e politica quant'altre mai, una guerra destinata non solo a scacciar gli invasori tedeschi e ad eliminare i traditori fascisti, ma a gettare le basi per un nuovo ordine politico e sociale»[27].

Il 22 aprile 1955 il presidente della Camera dei deputati, il democristiano Giovanni Gronchi, durante il discorso celebrativo del decennale della liberazione dichiarò: «Ogni guerra civile – ed il popolo italiano fu allora veramente costretto ad una guerra civile – ha i suoi orrori ed i suoi errori, ha le vittime dall'una e dall'altra parte, per tragiche incomprensioni o per scoppio improvviso di settarismi e di istinti di violenza. Ma non in questo si è materiato il grande fatto storico che domina in Italia l'ultimo biennio della guerra»[28]. Tre giorni dopo Alfredo Pizzoni, già presidente del CLNAI, durante il suo discorso in piazza del Duomo a Milano disse: «La guerra civile, che insanguinò l'Italia e intorbidò le coscienze di tanti italiani, noi non la volemmo [...] noi la subimmo; dovemmo accettarla e combatterla, combatterla con animo angustiato e col cuore oppresso, perché così dovevamo agire, ed era grave sofferenza rivolgere le armi contro italiani, anche se indegni, o illusi, pur sempre figli della stessa patria»[29].

Ferruccio Parri

Ferruccio Parri, che era stato vicecomandante del Corpo volontari della libertà e capo del governo insediatosi dopo la liberazione, nel 1962 affermò: «Avevamo riconosciuto nel '43, prima dell'8 settembre, che non avremmo potuto risolvere il problema italiano senza una prova sanguinosa nei riguardi dell'occupazione tedesca, ben sapendo e prevedendo che cosa avrebbe costato. Ma la nostra era prima ancora una guerra di liberazione interna. Era una guerra civile: se non lo diciamo e non lo riconosciamo, non intendiamo il senso e il valore della lotta»[30]. In un altro scritto, lo stesso Parri ne attribuì tutta la responsabilità ai fascisti, poiché nel periodo tra il 25 luglio e l'8 settembre «non era ancora all'orizzonte la necessità della guerra civile, della lotta di liberazione dal fascismo, poiché la repubblica di Salò non era ancora emersa»[31].

La rimozione[modifica | modifica wikitesto]

Palmiro Togliatti a un comizio, 1948. Togliatti non utilizzò mai la definizione di guerra civile, ma nel 1947 parlò di «guerra tra italiani».

Claudio Pavone rileva le prime tracce della rimozione nel volume delle Opere di Palmiro Togliatti relativo al periodo 1944-1955, «in cui le parole "guerra civile" non compaiono mai, tanto era forte nel leader comunista la volontà di accreditare il proprio partito come partito nazionale»[4]. Tuttavia, lo stesso Togliatti nel 1946 promosse un'amnistia che presupponeva la realtà di una guerra civile protrattasi oltre il 25 aprile 1945, estendendo la depenalizzazione fino al 31 luglio[32][33]. Inoltre, in un discorso ai giovani comunisti del 1947 raccolto nello stesso volume, il segretario comunista, pur non utilizzando precisamente la locuzione "guerra civile", si mostrò ben consapevole del fatto che la guerra di liberazione era stata anche una «guerra tra italiani», esprimendo comprensione verso una parte dei giovani fascisti:

«Questi giovani sono stati i nostri avversari e anche nemici. Contro i fascisti, diventati servi dello straniero, non abbiamo esitato, quando ce lo imposero le circostanze stesse, a prendere le armi. La guerra di liberazione è quindi anche stata, lo sappiamo benissimo, guerra tra italiani. Ma se nel corso della guerra vi era fra le due parti un abisso e scorse il sangue, questo non vuole dire che tra noi e una parte di coloro che combattevano contro di noi non esistesse quello che vorrei chiamare – se la parola non fosse inadeguata a un fatto politico e sociale così profondo – un "malinteso"[34][N 2]

Lo scrittore partigiano Beppe Fenoglio. Nel 1949 la Einaudi gli rifiutò la pubblicazione della raccolta Racconti della guerra civile. L'opera fu pubblicata tre anni dopo con il titolo modificato dalla stessa casa editrice torinese in I ventitré giorni della città di Alba.

Nel corso degli anni, l'idea che in Italia negli anni 1943-1945 si fosse combattuta una guerra civile divenne comunque un tabù[35][36][37][38], che finì per condizionare anche le scelte editoriali nel campo della narrativa. Nel 1949 lo scrittore Beppe Fenoglio, già partigiano, tentò l'esordio con una raccolta intitolata Racconti della guerra civile, proponendola alla Einaudi. Il percorso dell'opera verso la pubblicazione fu lungo e travagliato anche a causa del titolo, sgradito al consulente editoriale Elio Vittorini, che propose di cambiarlo in Racconti barbari[39]. Il libro fu infine pubblicato nel 1952 con il titolo I ventitré giorni della città di Alba, dal nome del primo racconto[40][41].

Analoghe difficoltà incontrò nel 1955 il romanzo La polvere sull'erba di Alberto Bevilacqua, ove si narra del "Triangolo della morte" emiliano; nonostante i giudizi positivi di Leonardo Sciascia, il libro fu bloccato dalla censura e non trovò nessun editore fino al 2000. Pier Paolo Pasolini espresse la sua solidarietà a Bevilacqua in una lettera in cui gli scrisse: «hai raccontato il Triangolo della morte, pensa un po', due anni di guerra civile sui quali è calata la pietra tombale del silenzio come se fossero accaduti nella Città Proibita»[42][43].

Simile sorte toccò ad Arrigo Petacco che, per vedere pubblicato il suo romanzo I ragazzi del '44, rifiutato da tutti gli editori nel 1965, dovette aspettare vent'anni[44].

Tra le opere storiografiche, il concetto di guerra civile era presente in un volumetto edito nel 1953 dallo storico azionista Luigi Salvatorelli intitolato Venticinque anni di storia (1920-1945)[45], che veniva gratuitamente distribuito dal Ministero della pubblica istruzione agli insegnanti e agli alunni dell'ultimo anno delle scuole superiori. Il libretto di Salvatorelli fu fortemente criticato da diversi studiosi di orientamento marxista, tra cui Ernesto Ragionieri e Mario Alighiero Manacorda[46]. L'avversione verso il volume frenò il più ampio progetto del ministro della pubblica istruzione Antonio Segni di introdurre la storia contemporanea nei programmi scolastici[47], allora fermi al 1919 per effetto di un provvedimento preso dopo il 25 luglio 1943 nell'ambito della defascistizzazione[48].

In uno scritto del 1964 sull'uccisione di Giovanni Gentile, il critico letterario Carlo Dionisotti, già esponente del Partito d'Azione piemontese durante la guerra, rilevò la rimozione osservando: «mi sembra che per motivi diversi ci sia stata e ancora ci sia la tendenza a mascherare e attenuare l'importanza della guerra civile che di fatto si combatté in Italia nel '44 e '45»[49].

In occasione del ventennale della liberazione (1965), l'Unità – organo di stampa del PCI – pubblicò e commentò alcuni temi scolastici sulla Resistenza svolti per l'occasione dagli studenti delle scuole italiane. La traccia di uno di questi, assegnata in un istituto magistrale di Venezia, iniziando con la frase «Voi che avete la fortuna di non aver conosciuto direttamente gli orrori della guerra civile», venne stigmatizzata dal giornalista autore del servizio, che la citò come esempio di professori che «sono arrivati al punto di inserire nei temi qualche considerazione addirittura ignobile»[50].

Analisi storiografica[modifica | modifica wikitesto]

Di seguito sono riportate le spiegazioni di vari storici circa le cause della rimozione della guerra civile dalla storiografia e dalla memoria pubblica.

Claudio Pavone[modifica | modifica wikitesto]

Claudio Pavone riconduce la rimozione della guerra civile all'occultamento del dato elementare che «anche i fascisti, nonostante tutto, erano italiani», avvenuto perché durante la guerra entrambi gli schieramenti si sentivano rappresentanti di tutta la nazione italiana, e così come «i fascisti avevano sempre chiamato "antinazionali" i loro avversari», gli antifascisti «li hanno ricambiati espellendoli in idea – almeno quelli della RSI – dalla storia d'Italia, se non addirittura dall'umanità». Esempio di tale sentimento è il titolo dato da Elio Vittorini ad uno dei suoi romanzi resistenziali: Uomini e no[4][N 3].

Pavone nota quindi che «è il fatto stesso della guerra civile che reca in sé qualcosa che alimenta la tendenza a seppellirne il ricordo», e riscontra analoghe rimozioni in Francia, dove per definire tutti i conflitti intestini dalla Rivoluzione in poi (compreso quello tra governo di Vichy e Resistenza francese) fu coniata l'espressione guerres franco-françaises, e in Jugoslavia, in cui a livello ufficiale si negava la guerra civile nonostante i violenti scontri interni tra partigiani comunisti, cetnici, ustascia e belagardisti. Ne individua le cause nel fatto che «i membri di un popolo che si pongono al servizio dello straniero oppressore vengono considerati colpevoli di un tradimento radicale al punto da spegnere in loro la qualità stessa di appartenenti a quel popolo»[51].

Sostenendo inoltre l'esistenza di un legame tra i concetti di guerra civile e di rivoluzione, afferma che «poiché la Resistenza italiana non è stata da nessuno rivendicata come rivoluzione, il suo nesso con la guerra civile è rimasto nella memoria solo come scampato pericolo», e ricorda in proposito come i comunisti abbiano sempre rivendicato il merito di aver risparmiato all'Italia una guerra civile post-liberazione come quella greca. Evidenzia invece il fatto che i meno restii a parlare di guerra civile fossero gli azionisti, che invocavano la rivoluzione democratica per il dopoguerra[52]. Infatti, «solo una rivoluzione vittoriosa ha la forza di iscrivere senza timore le sofferenze di una guerra civile nella propria storia», mentre «una rivoluzione sconfitta può rivendicare di essere stata protagonista di una guerra civile quando non intenda nascondere il suo carattere rivoluzionario»[53].

Secondo Pavone le cause della rimozione della guerra civile in Italia sono da ascrivere anche alle esigenze politiche delle varie componenti dell'antifascismo:

«L'ostracismo dato fino a non molto tempo fa alla categoria di guerra civile applicata alla lotta fra Resistenza e Repubblica sociale discende, oltre che dall'orrore che la guerra fratricida di per sé suscita, dal fatto che la destra (intendo ovviamente la destra antifascista) doveva fare propria l'immagine di una Resistenza rassicurante, levigata ed esclusivamente patriottica e militare, che aveva saputo circoscrivere e alla fine espellere le infiltrazioni rosse; e che dal canto suo, la sinistra, per accreditarsi come la più schietta rappresentante dell'unità nazionale in nome del suo intransigente antifascismo, doveva rigettare sulla destra la responsabilità della frattura dell'unione di tutti i veri italiani. Destra e sinistra convergeranno dunque nella programmatica negazione ai fascisti della Rsi della qualità di italiani, indispensabile presupposto del carattere "civile" della guerra[54]

La sinistra (socialisti e comunisti) aveva dunque bisogno di riaffermare l'unità ciellenistica dopo la sua estromissione dal governo nel 1947 e conseguente esclusione (conventio ad excludendum), che l'aveva privata della legittimazione a governare negandole «il massimo risultato politico da ottenere per il peso preminente che aveva sostenuto nella Resistenza», conseguito invece dalla destra antifascista (democristiani e liberali) nonostante avesse contribuito molto meno[55]. Questa necessità era sentita specialmente dai comunisti, intenzionati a qualificarsi come forza nazionale – rivendicando il ruolo di guida della riscossa di tutto il popolo italiano contro l'invasore – proprio perché sempre discriminati come antinazionali, in modo da legittimarsi come parte del sistema repubblicano (il cosiddetto «arco costituzionale», che dava al PCI, sia pure come forza di opposizione, una legittimazione negata alle destre eredi del fascismo e della monarchia) e addebitare tutta la responsabilità per la rottura dell'unità antifascista alle forze moderate. Per queste ultime invece, il «glissare sul concetto di guerra civile rappresentava un'implicita polemica contro quel troppo di rosso che c'era stato nella Resistenza», ed era motivato dalla necessità di non lasciarne il monopolio alla sinistra, evidenziandone il carattere di guerra patriottica ed esorcizzardone tutti gli aspetti problematici, così da contrapporre all'immagine della «Resistenza tradita» (secondo cui alla liberazione non era seguito un vero rinnovamento) quella di una «Resistenza beata e soddisfatta»[56].

Luciano Canfora[modifica | modifica wikitesto]

Anche Luciano Canfora ha indicato come causa dell'oblio del concetto di guerra civile la necessità di negare ai fascisti ogni legittimazione come forza nazionale, per accreditarla alle forze di sinistra e in particolare al PCI, in modo da cementare l'unità antifascista:

«"Guerra civile" e "Resistenza" sono parsi a lungo, a sinistra, termini da tenersi ben distinti. Adoperare l'espressione "guerra civile" per indicare la Resistenza sembrava una concessione ai fascisti, un modo di legittimarli, di restituire loro dignità in quanto esponenti di una parte sia pure sconfitta e minoritaria del paese. Essi dovevano rimanere invece i "traditori fascisti" e "manutengoli del Tedesco invasore"; la guerra che li aveva liquidati era stata una "guerra di liberazione nazionale" appunto perché i fascisti italiani non erano stati che un'appendice insignificante e subalterna degli occupanti tedeschi.

Che questa schematica presentazione del conflitto sviluppatosi nell'Italia centro-settentrionale nel 1943-45 abbia avuto corso per molti anni, nonostante le fratture sempre più profonde e dissolutrici dell'unità antifascista, fu fenomeno positivo sul piano politico, non storiografico: fu uno strumento che protesse e garantì anche nei momenti peggiori la legittimazione della sinistra, in particolare dei comunisti[57]

Cesare Bermani[modifica | modifica wikitesto]

Cesare Bermani fa risalire la completa rimozione della guerra civile dalla storiografia al 1965, quando «si fa improvvisamente asfissiante il controllo su tutto ciò che riguarda le possibilità di studio critico sulla guerra di liberazione». In quell'anno infatti venne celebrato il ventennale della liberazione con al potere il secondo dei governi di Aldo Moro, i quali – comprendendo anche il Partito Socialista Italiano, uscito dall'isolamento nel 1963 – furono i primi esecutivi di centro-sinistra della storia repubblicana. Secondo Bermani è da allora che «la guerra di liberazione diventa un vero e proprio canone ufficiale di autointerpretazione e autolegittimazione della Repubblica», sintetizzato dalla formula della «Repubblica nata dalla Resistenza». Per cementare la ritrovata unità delle forze antifasciste, si iniziò a promuovere un'immagine della Resistenza come «qualcosa di non conflittuale» e le diversità ideali tra le varie componenti «vennero appiattite, rese tutte falsamente oleografiche». Emblematica in tal senso la manifestazione per il ventennale tenutasi il 9 maggio a Milano, in cui per volontà delle loro associazioni i partigiani sfilarono non con i propri fazzoletti rossi, verdi o azzurri, ma con fazzoletti tricolore[58].

Per Bermani è dunque questo il momento in cui la guerra civile diventa un argomento tabù, anche a causa del fatto che «le sinistre, e in particolare i comunisti, furono spinte a rivendicare fino all'enfasi il valore nazionale e unitario della guerra di liberazione come armi contro la discriminazione dalle quali erano vittime, in un periodo in cui l'ideologia ufficiale aveva sostituito l'anticomunismo all'antifascismo». Quindi definisce quella del ventennale «la prima grande operazione di "revisionismo storiografico"», volta ad espungere dalla storia della guerra di liberazione le categorie fino ad allora presenti di guerra civile, lotta di classe e lotta di liberazione sociale, per ridurla al solo aspetto di lotta patriottica contro l'invasore tedesco[59].

Aurelio Lepre[modifica | modifica wikitesto]

Secondo Aurelio Lepre, il ritardo con cui in Italia è stata riconosciuta la guerra civile è legato anche al processo di autoassoluzione per aver combattuto a fianco della Germania negli anni 1940-1943:

«l'interpretazione della Resistenza come guerra contro lo straniero consentiva di far ricominciare la storia d'Italia dall'8 settembre 1943, cancellando i tre anni precedenti, che avevano visto l'Italia a fianco della Germania. Certo, la prospettiva della guerra civile è inaccettabile per i rivoluzionari: "Il rivoluzionario si sente portatore, non di interessi di parte, come egli considera essere i suoi avversari, ma degli interessi del popolo e dell'umanità intera". Gli antifascisti si sentivano portatori proprio di valori di questo genere e non potevano accogliere una definizione, come quella di guerra civile, che non escludeva, già di per sé, i fascisti dal popolo e dall'umanità. In Italia era ancora più inaccettabile, e non solo per i rivoluzionari, bensì anche per i moderati, perché impediva di cancellare il ricordo degli anni 1940-1943[60]

La RSI nella storiografia resistenziale delle origini[modifica | modifica wikitesto]

Uno dei primi studi approfonditi sul biennio 1943-1945 è la Storia della Resistenza italiana di Roberto Battaglia, partigiano azionista successivamente approdato al PCI, la cui prima edizione è del 1953 e l'ultima del 1964. Diversamente dagli scritti immediatamente successivi alla liberazione – in cui Battaglia, ancora legato ad una visione azionista, non aveva avuto remore nel rilevare come la guerra partigiana «inevitabilmente, per il suo stesso carattere, precipita[sse] in certo momento in guerra civile»[61] – in Storia della Resistenza italiana il conflitto non è descritto come guerra civile[N 4], mentre si preferisce parlare di «guerra di popolo» come facevano nei loro scritti del periodo i dirigenti comunisti Pietro Secchia e Luigi Longo. Quest'ultimo infatti, visionato il manoscritto di Battaglia, vi apportò delle correzioni per eliminarne gli evidenti residui azionisti. Secondo Cesare Bermani, il mancato uso della categoria interpretativa della guerra civile da parte di Battaglia rappresentava dunque «una concessione alla politica di unità nazionale, della quale uno storico di partito volente o nolente in quegli anni doveva tenere conto»[N 5].

Battaglia rappresenta il movimento partigiano come un esercito di popolo in lotta contro un fascismo repubblicano completamente isolato dalle masse. In particolare, evidenzia un consenso diffuso anche nell'ambiente contadino, che avrebbe assicurato il sostegno materiale e morale alla resistenza partigiana, ed il netto rifiuto del nazifascismo da parte delle masse popolari[62]. Inoltre sottolinea il fallimento del nuovo fascismo di Salò nei confronti degli strati popolari ed anche del ceto medio, la sua dipendenza totale per la propria sopravvivenza dall'appoggio tedesco e la sua funzione effettiva di «agenzia di reclutamento al servizio dell'invasore»[63]. Battaglia descrive anche le motivazioni «aberranti» presenti negli aderenti alla RSI, basate sui «torbidi» miti del «tradimento», dell'«eroismo» solitario, della lotta di «pochi, ma sani» contro il resto del mondo, che «spinsero alcune migliaia di individui a farsi complici, se non promotori di tanti delitti contro la propria gente»[64].

Nella prima storiografia antifascista, la Resistenza viene dunque rappresentata come una «guerra di popolo» contro gli occupanti tedeschi e una sparuta minoranza di fascisti, dipinti come «stranieri di lingua italiana» – come li aveva definiti Pietro Nenni[65] – e chiamati sprezzantemente "repubblichini", mossi solo dal desiderio di servire al meglio i nuovi padroni tedeschi, e da sadismo, cupidigia o – al massimo – cupa e crepuscolare vendicatività. La guerra civile dunque non poteva esservi stata, perché da un lato c'erano i partigiani, sostenuti da tutto il popolo italiano compattamente schierato, e dall'altro i tedeschi e un pugno di scherani prezzolati del tutto isolati dalla popolazione[66].

Battaglia si mostrò comunque consapevole che la Resistenza era stata anche una guerra civile, tanto che, nell'ambito della relazione tenuta alla conferenza internazionale organizzata dalla Federazione Internazionale della Resistenza (FIR) a Firenze dal 20 al 23 novembre 1959, sostenne la necessità di insegnarlo senza remore ai giovani:

«Nessun timore, nessuna preoccupazione ci può trattenere dall'insegnare ai giovani che la Resistenza fu anche lotta e guerra civile, nemmeno gli speciosi pretesti moralistici invocati per "non turbare la loro coscienza". Moralità è verità; e la verità storica non si svolge mai in modo idillico, ma proprio nel contrasto essenziale della "civiltà" con la "non civiltà", né è possibile affrontare un termine di discussione senza affrontare anche l'altro. Né può essere comprensibile la luce della fraternità umana che emana dalla Resistenza se non si descrive anche l'ombra da cui essa faticosamente emerge prima di raggiungere la sua pienezza[67]

La contestazione del Sessantotto[modifica | modifica wikitesto]

La generazione del Sessantotto contestò la rappresentazione della Resistenza come fenomeno unitario e patriottico, valorizzandone esclusivamente la componente comunista rivoluzionaria e internazionalista e liquidando tutto il resto come «attendismo, sabotaggio, tradimento, connivenza con gli americani»[68].

Claudio Pavone individua nella contestazione sessantottina il momento in cui, rotta l'«unità oleografica della Resistenza» (cita a proposito lo slogan «la Resistenza è rossa, non è democristiana»), la storiografia iniziò ad esaminare la guerra di liberazione in tutte le sue contraddizioni, preparando in questo modo «il terreno per riconoscere che il concetto di guerra civile non può più essere esorcizzato»[56].

Anche Cesare Bermani attribuisce alla generazione del Sessantotto un ruolo nell'evoluzione della storiografia, avendo reagito ad una lettura della Resistenza in chiave di guerra patriottica, criticandone lo sbocco nella continuità dello Stato e accentuandone invece gli aspetti «rossi» di lotta antifascista e lotta di classe, proponendone cioè una lettura anche in chiave di guerra civile. Le nuove interpretazioni furono tuttavia rifiutate dal PCI e dalle associazioni partigiane. Anche i nascenti Istituti storici della Resistenza svilupparono una storiografia rigidamente attestata sullo schema «lotta di liberazione nazionale all'invasore tedesco / lotta al traditore fascista / unità antifascista del Cln», rinunciando a trovare categorie interpretative più idonee a cogliere la complessità storica del periodo[69].

Pietro Secchia, esponente comunista estromesso dal gruppo dirigente del partito nel 1954, dedicò gli ultimi anni della sua vita alla storiografia, mostrando apertura verso le posizioni del movimento giovanile

Il carattere di guerra civile e di guerra di classe della Resistenza fu invece riconosciuto da Pietro Secchia che, emarginato dal partito nel 1954 e ormai politicamente ininfluente, guardava con grande interesse alla contestazione giovanile, condividendo la critica al linguaggio ufficiale delle celebrazioni della Resistenza:

«La guerra di liberazione in quasi tutti i paesi occupati dai nazifascisti assunse il carattere di "guerra civile". C'è chi in questi anni si è sentito in dovere, ed a torto, di precisare che la nostra Resistenza in Italia non fu "guerra civile", quasi che l'espressione ci faccia vergogna. Il carattere di "guerra civile" la Resistenza lo ebbe da noi, come in Jugoslavia, come in Francia ed in altri paesi; anzi da noi più che altrove, poiché i nazisti trovarono in Italia l'appoggio di non pochi fascisti. Vent'anni di fascismo pesarono. Vi furono italiani che combatterono contro italiani e la divisione tra chi stava da una parte e chi dall'altra parte della barricata la si trovava più o meno in ogni regione, in ogni provincia, in ogni villaggio, talvolta passava entro la stessa famiglia. Ci piaccia o no, non tutti gli italiani furono dalla parte della Resistenza; vi furono italiani che si schierarono dalla parte dei tedeschi e combatterono con i metodi più feroci contro altri italiani. Non soltanto per questo la resistenza ebbe carattere di guerra civile, ma per il fatto che essa non fu soltanto guerra di liberazione dallo straniero, ma lotta contro quel fascismo che in Italia non era stato portato dai carri armati tedeschi. Pertanto la guerra di liberazione fu lotta nazionale e al tempo stesso lotta di classe.

Nelle celebrazioni commemorative, con l'intento di ristabilire l'unità che talvolta è soltanto formale, si ricorre spesso ad un linguaggio vago ed astratto, si parla dello "spirito della Resistenza", dell'eroismo di tutti i suoi martiri, tutti egualmente grandi e meritevoli nel sacrificio, senza distinzioni di ideologie e di partito. D'accordo, ma i discorsi celebrativi d'occasione non possono essere scambiati con la realtà e con la storia[70]

Il concetto di guerra civile nel reducismo fascista[modifica | modifica wikitesto]

Mentre spariva dalla storiografia antifascista, la definizione di guerra civile continuò ad essere adoperata dalla pubblicistica reducistica di Salò, fino a diventarne un elemento caratterizzante. Gli eredi del fascismo sottolineavano il carattere di guerra civile del conflitto per incolpare la Resistenza della lacerazione dell'unità nazionale degli italiani. Emblematico di tale punto di vista è il manifesto pubblicato nei primi anni settanta dal Movimento Sociale Italiano per contestare la mai accettata festa della liberazione: «25 Aprile. Italiani dimenticate la guerra civile. L'odio è rosso. La Patria è tricolore»[71].

Giorgio Pisanò

L'espressione più completa della tesi neofascista sulla guerra civile è rappresentata dalla vasta produzione del giornalista e saggista Giorgio Pisanò, già ufficiale della Xª Flottiglia MAS nella RSI e per molti anni esponente del MSI, comprendente volumi come Il vero volto della guerra civile[72], Sangue chiama sangue[73] e soprattutto Storia della guerra civile in Italia (1943-1945)[74], iniziata nel 1965 e terminata due anni dopo.

Gli scritti di Pisanò intendevano dar voce ai fascisti sconfitti e legittimare anche le loro ragioni, respingendo la visione che voleva la RSI un mero strumento dei tedeschi, ed al contrario attribuendole il merito di aver protetto il Paese dal piano nazista di farne una semplice zona di occupazione militare. Secondo Massimo Luigi Salvadori, il concetto di guerra civile serviva quindi a Pisanò per «negare alla radice che da un lato vi fosse stata una creatura morta, la Repubblica dei traditori e dei servi dei nazisti, e dall'altra una creatura viva, la Resistenza, che aveva lottato per la liberazione nazionale dal nemico tedesco»[75].

Inoltre Pisanò, rovesciando l'interpretazione antifascista – secondo cui la guerra civile fu una conseguenza della nascita della RSI – utilizzava il termine soprattutto in chiave anticomunista, additando il PCI come il principale fomentatore dello scontro fratricida tra italiani, in cui avrebbe coinvolto tutte le altre forze antifasciste con la rottura dell'attesismo[76]. I comunisti, descritti come «fedeli esecutori degli ordini di Mosca»[77], avrebbero percorso coscientemente la strada degli attentati e degli assassini mirati – specialmente di «elementi più moderati» come Igino Ghisellini[N 6], Aldo Resega, Eugenio Facchini, Arturo Capanni e Giovanni Gentile – allo scopo di incendiare il clima politico e di «esasperare fascisti e tedeschi per farli scatenare in rappresaglie sanguinose»[78]. Tale interpretazione della guerra civile risalirebbe, secondo Pisanò, a Carlo Silvestri, giornalista vicino a Mussolini durante la RSI, il quale avrebbe dichiarato:

«L'iniziativa della guerra civile non fu di Graziani e di Mussolini, non fu del fascismo repubblicano. Affinché non vi siano ombre di chiarezza, testimonio, ancora una volta, che tutte queste uccisioni furono volute col criterio di esasperare la situazione e di rendere inevitabile la guerra civile secondo il desiderio di Mosca[79]

Secondo alcuni autori, i lavori di Pisanò furono considerati privi di credibilità dagli storici a causa della sua condizione di ex "repubblichino"[80][81][82]. Altri autori hanno sottolineato lo scarso valore scientifico della produzione di Pisanò[83][84]. In ogni modo, il termine guerra civile fu per anni utilizzato in prevalenza dalla pubblicistica neofascista, rafforzando la diffidenza degli antifascisti, causata – come spiega Claudio Pavone – «dal timore che parlare di guerra civile conduca a confondere le due parti in lotta e ad appiattirle sotto un comune giudizio di condanna o di assoluzione»[85].

Nel 1992 Pisanò per Mursia pubblicò Il triangolo della morte. La politica della strage in Emilia durante e dopo la guerra civile, anticipatore degli scritti di Giampaolo Pansa sulle violenze compiute da partigiani nei confronti di fascisti, durante e dopo la seconda guerra mondiale.

Lo studioso Francesco Germinario, in un saggio del 2005, osserva che quello di guerra civile è stato «uno dei concetti-chiave della storiografia di destra del secondo dopoguerra», avendo per decenni la destra «rivendicato con passione il carattere "civile" della guerra. Rivendicazione di natura squisitamente politica, piuttosto che storiografica, utilizzata per istituire un'equipollenza di principio fra gli ideali dei vinti e le ragioni dei vincitori, in nome di una "pacificazione nazionale" [...] con il fine di vedere riconosciuta la piena legittimità a quella parte che si proclamava erede della Repubblica sociale»[86]. Lo stesso studioso giudica però «fortemente aporetica» la riflessione della destra sul periodo 1943-45, in quanto da un lato «si è sempre riaffermato, anche dopo Fiuggi, il carattere "civile" della guerra fra RSI e movimento partigiano, dall'altro la Resistenza è stata "decivilizzata" e come espulsa dalla storia nazionale». Per Germinario, intorno al concetto di guerra civile «si sono unanimemente coagulati tutti i risentimenti che l'estrema destra ha covato nei confronti dell'Italia repubblicana», producendo una pubblicistica in cui «i partigiani sono trattati da sanguinari terroristi perlopiù appartenenti ad altre razze o nazionalità (balcanici, greci, russi)» e in cui, in particolare, il «pregiudizio antislavo dettava il profilo del combattente infiltrato: sotto il profilo antropologico-criminale, costui era incline a pratiche ataviche e barbariche di violenza; da un punto di vista politico, era imbevuto di un'ideologia aberrante, il comunismo; infine, in senso etnico-razziale, corrispondeva all'immagine non civilizzata dello slavo che il fascismo aveva ereditato dal nazionalismo precedente»[87]. Fra gli altri temi caratterizzanti di questa pubblicistica, Germinario menziona poi la «rimozione dell'antisemitismo del regime fascista e della Repubblica sociale» e l'equiparazione tra la Shoah e il «dramma delle foibe»; quest'ultimo «oggetto - secondo un Leitmotiv della storiografia di destra - di pesante autocensura ideologica da parte antifascista», cosa che secondo i neofascisti «bastava a decretare l'assoluta anti-italianità dell'antifascismo». Germinario afferma che nell'«immaginario "storiografico" neofascista ha dominato incontrastata la tendenza a slavizzare la Resistenza: per gesti terroristici [...] ed efferatezze, scelte ideologiche e composizione etnica e razziale, la Resistenza italiana non poteva rivendicare radici nazionali»[88]. Per Germinario, nell'indisponibilità (da parte dei neofascisti) «a riconoscere le matrici nazionali della "guerra civile" scatta ancora una volta una visione se non totalitaria, certo autoritaria della nazione: entità che è necessario preservare unita e compatta di fronte ai criminali disegni politici di individui o partiti che invece pretendono di introdurre la differenziazione ideologica, la lotta di classe o, peggio, lo scontro armato fra i cittadini». In questo modo (conclude Germinario) la pubblicistica neofascista sulla guerra civile ha «finito per sabotare, a destra, la nozione storiografica brandita contro la sinistra: puntuale eterogenesi dei fini che, espellendo dalla nazione una delle parti combattenti, ha negato il carattere "civile" della guerra rivendicato dall'altra»[89].

La guerra civile nella saggistica storica[modifica | modifica wikitesto]

Giorgio Bocca, come ricorda Claudio Pavone, parlò di guerra civile senza alcuna reticenza.

Nel 1965 fu pubblicata da un editore minore l'opera Italia drammatica. Storia della guerra civile in tre volumi, una ampia raccolta illustrata di scritti di vari autori, con contributi di Domenico Bartoli, Enzo Biagi, Giorgio Bocca, Paolo Monelli e Indro Montanelli[90].

Nel 1975, il direttore di Storia Illustrata Carlo Castellaneta allega al numero 215 della rivista una piccola antologia, dal titolo La guerra civile in Italia[91] contenente «testi di scrittori che furono testimoni di quelle vicende, dalle due parti della barricata», che «vogliono essere di monito alle nuove generazioni a non ricadere negli orrori di una guerra fratricida, ma anche di esempio nei valori della Resistenza»[92]. Il volume raccoglie scritti di Nuto Revelli, Davide Lajolo, Valdo Fusi, Elio Vittorini, Beppe Fenoglio, Piero Caleffi, Ubaldo Bertoli, Carlo Levi, Giose Rimanelli, Mario Gandini. I primi otto autori antologizzati militarono nelle file della Resistenza; gli ultimi due - Rimanelli e Gandini - combatterono nei ranghi della RSI. Nella sua introduzione al volume, Antonio Pitamitz scrive fra l'altro che la lotta di liberazione dai tedeschi «col risorgere del fascismo in alta Italia, si trasforma in guerra civile»[93].

Giorgio Bocca nel 1977 pubblicò La repubblica di Mussolini, un saggio sulla RSI il cui sesto capitolo è intitolato La guerra civile[94]. Claudio Pavone infatti definisce Bocca «uno dei pochi scrittori non fascisti che abbia senza reticenza parlato di guerra civile»[4]. Il libro non mancò di suscitare le proteste del reducismo partigiano, poiché si riteneva «disdicevole e quasi blasfemo che un comandante partigiano fosse andato a parlare con i "repubblichini"»[95].

La prima opera destinata alla divulgazione presso il grande pubblico ad adottare il termine già nel titolo fu invece L'Italia della guerra civile, quindicesimo volume della Storia d'Italia di Indro Montanelli, scritto nel 1983 insieme a Mario Cervi, che aprì la porta ad una reinterpretazione della Resistenza che in seguito avrebbe trovato consensi[96]. I due autori operarono la scelta di titolare il loro libro facendo riferimento alla guerra civile anziché alla Resistenza[97]. Fu la prima volta che due popolari divulgatori, estranei all'area neofascista, espressero apertamente la convinzione che la Resistenza fosse solo uno dei tanti aspetti che caratterizzarono gli eventi occorsi in Italia tra il 1943 e il 1945.[98] I due autori sostenevano infatti che nei tragici mesi che seguirono l'armistizio si combatterono molteplici guerre civili[99]: oltre a quella che oppose fascisti ad antifascisti, ci fu quella tra il Regno del Sud e la Repubblica Sociale Italiana e quella interna alla stessa Resistenza tra i comunisti e gli altri per assumere la guida del movimento.

Nel 1984 un'autrice di sinistra legata al PCI, Miriam Mafai, pubblicò una biografia di Pietro Secchia in cui adoperò la defizione di guerra civile per indicare la lotta partigiana e le uccisioni di fascisti dell'immediato dopoguerra:

«[Il 17 maggio 1945] Sono passati ventitré giorni dall'Insurrezione vittoriosa del 25 Aprile, diciannove dalla fucilazione di Mussolini, otto dalla proclamazione della fine della guerra tra le grandi potenze del mondo. Ma in Italia la guerra civile, la più atroce di tutte le guerre, non è finita. Di notte, a luci spente, si celebra nel Nord una giustizia che non conosce né avvocati né tribunali. A Milano gruppi di partigiani che hanno appena smesso la divisa cercano i fascisti più noti, i torturatori che non sono riusciti in tempo a fuggire, li finiscono in un prato o in una strada isolata alla luce della luna. Se qualche operaio, passando all'alba in bicicletta, intravede tra la ghiaia e l'erba un cadavere, commenta, senza emozione "l'era un fazzulet...", un fascista, e accelera l'andatura[100]

La riscoperta storiografica ad opera di Claudio Pavone[modifica | modifica wikitesto]

I convegni storiografici degli anni ottanta[modifica | modifica wikitesto]

La definizione di guerra civile iniziò a essere considerata dalla storiografia accademica a partire dal 1985, allorché fu proposta da Claudio Pavone, storico affermato e in gioventù partigiano, in due convegni storiografici svoltisi in quell'anno. Nella relazione che presentò al convegno L'Italia nella seconda guerra mondiale e nella Resistenza, tenutosi a Milano nell'aprile 1985[N 7], riferendosi alla Resistenza Pavone si soffermò sul

«carattere antifascista della lotta, cioè [...] il suo essere anche una guerra civile. Questa espressione, allora e dopo, è stata pronunciata raramente e malvolentieri dagli antifascisti, così da lasciarne il quasi monopolio ai fascisti. Eppure il dato è incontrovertibile. I venti mesi del 1943-1945 videro come una definitiva e sanguinosa resa dei conti fra italiani, dopo che il 25 luglio tutto era sembrato concludersi fin troppo pacificamente. È questo carattere di ricapitolazione degli antagonismi rivelatisi nella società italiana fin dal primo dopoguerra che ci aiuta a comprendere l'accanimento posto da entrambe le parti in una lotta il cui esito materiale era scontato[101]

In occasione del convegno internazionale 1943-'45. Repubblica Sociale Italiana, organizzato a Brescia dalla Fondazione Luigi Micheletti nell'ottobre dello stesso anno, Pavone presentò una relazione interamente dedicata al tema, intitolata appunto La guerra civile[102]. Per la prima volta dopo almeno vent'anni uno storico di sinistra sollevava apertamente il problema della guerra civile, in un periodo in cui utilizzare questa definizione equivaleva a «mettersi sullo stesso piano di Giorgio Pisanò o Indro Montanelli»[103].

Gian Carlo Pajetta, dirigente del PCI, nel 1985 contestò la tesi di Claudio Pavone sulla guerra civile

Facendo propria l'opinione di Carlo Galante Garrone (che nel 1947 scrisse di una «sanguinosa guerra civile») e respingendo la posizione del PCI, Pavone sostenne che gli avvenimenti del biennio 1943-1945 possedevano, tra gli altri, anche i caratteri tipici di una guerra civile. L'intervento dello storico fu vivacemente contestato da Gian Carlo Pajetta, ex capo partigiano e senatore comunista, che ritenendo l'espressione non accettabile obiettò:

«Non si è trattato di una guerra civile, si è trattato di una guerra di popolo, di una guerra unitaria, di una guerra per l'indipendenza: come l'Italia, forse, non aveva conosciuto mai[104][N 8]

Gli storici presenti, tra cui il britannico Frederick William Deakin, non condivisero l'opinione dell'esponente comunista, mentre la posizione di Pavone fu sostenuta anche da Silvio Lanaro, docente dell'Università di Padova, che intervenne domandando: «Lotta partigiana vuol dire combattere per una parte contro un'altra parte, e ciò non sta forse a significare "guerra civile"?»[105]. Secondo Luigi Ganapini il convegno di Brescia diede inizio ad «una vivacissima e chiarificatrice polemica sul significato e sul termine stesso di "guerra civile". Se non si ha paura delle parole, i termini proposti da Pavone vanno integralmente accettati perché mettono a fuoco, sia pur crudamente, la profondità della lacerazione aperta non solo nel tessuto sociale, ma nella coscienza stessa degli uomini che la vissero»[106].

Nel marzo 1988 lo stesso Pajetta utilizzò il termine guerra civile, ricordando in un'intervista che nel dopoguerra «le carceri italiane erano piene di partigiani, dopo che Togliatti, con un gesto che certo non rimpiango, era stato promotore dell'amnistia a conclusione della guerra civile, o meglio, dell'insurrezione contro l'invasore tedesco e i traditori fascisti, come dicevamo allora»[107]. Secondo Luciano Canfora, l'utilizzo del termine da parte di «un protagonista dei più restii» segnò, dopo oltre quarant'anni, la fine del "divieto" di adoperarlo[108].

Gli interventi di Pavone diedero inizio a una stagione di dibattito storiografico sul tema. Nell'ottobre 1988 si tenne infatti a Belluno il convegno Guerra, guerra di liberazione, guerra civile, al quale parteciparono ventidue studiosi, con relazione introduttiva sempre di Pavone[109].

Le successive polemiche[modifica | modifica wikitesto]

Dopo il convegno di Belluno il dibattito tornò ad attraversare momenti di aperta polemica. Il giornalista comunista Emilio Sarzi Amadé – che aveva partecipato discutendo una relazione in cui si contrapponeva la «guerra incivile» dei fascisti alla «guerra civile», nel senso di civiltà, dei partigiani[110] – scrisse per le colonne de l'Unità l'articolo Guerra civile o Resistenza?[111], in cui protestava contro l'abitudine di «adottare – spesso per distrazione, ma quanto mai colpevole! – quel termine di "guerra civile" che è comodo, sbrigativo, e tanto carico di torbida suggestione». Accusava quindi Pavone di essere il principale esponente di una «corrente revisionistica» e concludeva l'articolo denunciando il pericolo di una «legittimazione del fascismo e della sua equiparazione alle forze che lo combatterono». Contro la tesi della guerra civile, Sarzi Amadé argomentò:

«La Rsi non aveva alcun consenso di governi che non fossero quelli satelliti della Germania; aprì la propria esistenza con un plebiscito di 600.000 "no", quelli dei soldati italiani internati in Germania [...]; Mussolini, capo di questo "Stato", non può telefonare ai propri ministri se non passando attraverso i centralini tedeschi; riesce ad arruolare soltanto forze armate che potrà utilizzare non contro gli "invasori" ma quasi unicamente in funzione antipartigiana; per cui, si è chiesto, come potrebbero essere ritenute omologabili le forze di polizia di Salò, che agivano solo contro altri italiani, ed i partigiani, i quali facevano invece la guerra contro le forze armate di uno Stato sovrano quale era la Germania nazista?»

Pavone replicò con un articolo sullo stesso quotidiano, intitolato Resistenza o «guerra civile». Uso la seconda categoria e adesso vi spiego i motivi[112], in cui ribatté che il revisionismo «non si combatte con la rituale riaffermazione dei principi offesi», ma «attraverso l'analisi storica, articolando ricerche e giudizi, facendosi carico delle nuove domande che i tempi nuovi pongono, mostrando di saper rispondere ad esse in modo più solido degli avversari». Quindi proseguì:

«È per dare un contributo a questo processo che chi scrive si è soffermato sulla "guerra civile" e sulla sua applicabilità alla lotta fra Resistenza e Repubblica sociale italiana. Parificare questo atteggiamento, che mira a sottolineare e a meglio intendere la irriducibilità della opposizione fra le parti in lotta, alla pretesa dei revisionisti di mettere sullo stesso piano fascisti e antifascisti, Resistenza e Repubblica sociale, è operazione scorretta. Nel convegno di Belluno si è discusso di tutto ciò con una ricchezza e un senso critico dei quali, nell'articolo di Sarzi Amadé, non c'è purtroppo traccia.»

Riferendosi ai fascisti della RSI, Pavone concluse:

«Dire che erano nere ombre senza realtà è operazione esorcistica che poco ha a che vedere con la ricerca storica. Erano invece italiani come noi resistenti: e in questo sta uno degli aspetti più drammatici di quei venti mesi. Tanto erano italiani, che proprio questa qualità li rendeva irrimediabilmente nemici. Resistenti e fascisti erano italiani così diversi che si sparavano addosso a vicenda. Cogliere il senso di questa irriducibile diversità è esattamente il contrario che mirare, come scrive Sarzi Amadé, a una "legittimazione del fascismo e alla sua equiparazione alle forze che lo combatterono". Non si tratta dunque di contrapporre una formula a un'altra, ma di cercare di comprendere un po' meglio. Il peggior servizio che si possa fare oggi alla Resistenza è quello di ucciderne la memoria facendola scomparire in una ripetitiva oleografia.»

Tuttavia, gli storici fedeli alla linea ufficiale del PCI continuarono a tenere un atteggiamento di chiusura e ostilità verso la tesi di Pavone fino allo scioglimento del partito. Particolarmente critico fu Filippo Frassati (coautore con Pietro Secchia di una Storia della Resistenza nel 1965), che attaccò i sostenitori di quella che definiva «pseudo teoria della guerra civile», secondo lui

«condotta contro la Resistenza, contro i suoi valori, per una riabilitazione di quelli che sono stati dall'altra parte della barricata. C'è sotto questo. Non ci può essere nessun altro serio motivo. Tutte le altre motivazioni che noi possiamo andare a ricercare non reggono ad un attento esame, non possono convincere e coloro che le fanno proprie divengono strumenti di questa operazione, siano consapevoli o meno ha un'importanza secondaria[113]

I primi anni Novanta[modifica | modifica wikitesto]

Chi sa parli![modifica | modifica wikitesto]

Nel 1990 destò grande impressione la pubblicazione di un articolo di Otello Montanari su Il Resto del Carlino del 29 agosto intitolato Rigore sugli atti di "Eros" e Nizzoli e reso famoso dall'appello «Chi sa parli!». Il pezzo intese aprire un dibattito su quello che è definito il primo delitto del dopoguerra italiano, il caso di Arnaldo Vischi, ingegnere capo delle Officine Meccaniche Reggiane, ucciso – presumibilmente da partigiani comunisti – il 31 agosto 1945. La polemica montò immediatamente, scatenando nel breve volgere di qualche settimana oltre un migliaio di articoli[114].

Lo storico Luciano Casali, unico tra gli intellettuali "organici" al PCI, intervenne su l'Unità del 6 settembre 1990, proponendo una riflessione sulla Resistenza come guerra civile, conflitto che per sua natura non può avere una fine netta e istantanea:

«Che la Resistenza possa essere considerata anche una guerra civile, è argomento sul quale per troppo tempo non è stato facile intervenire o riflettere. Nelle a volte retoriche celebrazioni del 25 aprile, nessuno sembrava mai aver considerato che la guerra non era finita né poteva finire al preciso scoccare di quella data fatidica soprattutto là dove la lotta di liberazione era stata combattuta aspramente contro un nemico anche interno[115]

Qualche mese dopo fu pubblicata la corrispondenza tra i comandanti partigiani azionisti Giorgio Agosti e Dante Livio Bianco[12]. Il quotidiano La Stampa dedicò al volume un servizio che comprendeva un articolo di Alberto Papuzzi (secondo cui le lettere confermavano che «per gli azionisti la guerra partigiana fu innanzi tutto una guerra civile») e alcuni stralci delle missive relativi a temi quali gli attentati contro i fascisti, il progetto di rapinare le banche per il finanziamento della lotta, il proposito di consegnare meno armi possibile dopo la liberazione al fine di organizzare gruppi armati clandestini[116]. Il filosofo Norberto Bobbio, ex azionista, protestò sullo stesso quotidiano sostenendo che il servizio avesse estrapolato i passaggi più duri della corrispondenza a fini sensazionalistici. Scrisse Bobbio:

«Una volta considerata la guerra partigiana non solo come guerra di liberazione dallo straniero ma anche come guerra fra italiani e quindi come guerra civile, si tende a mettere in evidenza l'asprezza della lotta, di fronte alla quale peraltro le due parti non possono essere messe sullo stesso piano (o forse abbiamo dimenticato i torturatori di via Asti o la banda Carità?), più che le ragioni, per cui l'una e l'altra parte hanno combattuto, perdendo di vista o cercando di far perdere di vista il significato storico degli eventi. E il recente processo alla Resistenza è uno dei tanti effetti, secondari ma perversi, della crisi del partito comunista, che della Resistenza è stato uno degli attori principali, e non solo nel nostro Paese[117]

Negli stessi giorni su la Repubblica Alberto Cavallari annoverò tra i «miti storiografici» ormai caduti quello che rappresentava la «guerra di liberazione come luminosa catarsi, e non come guerra civile semipermanente»[118].

Una guerra civile di Claudio Pavone[modifica | modifica wikitesto]

Nel 1991, mentre erano ancora in corso le polemiche sul triangolo della morte, Claudio Pavone pubblicò quello che sarebbe diventato un classico della storiografia resistenziale: Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza. Questo volume, per la sua ampia diffusione non più limitata ai soli ambienti accademici (ne furono vendute oltre 6 000 copie a meno di due mesi dalla sua uscita, successo inconsueto per una pubblicazione storiografica[56]), fu al centro di un animato dibattito, ma aprì definitivamente al termine "guerra civile", eliminando un tabù e consentendo agli storici di applicare questa categoria storiografica senza più dover sottostare a pregiudizi di matrice ideologica[119][120].

La tesi di Pavone è che la Resistenza non vada letta solo come un «movimento di liberazione contro l'occupazione nazifascista» bensì come tre guerre in una: quella patriottica (contro i tedeschi), quella di classe (contro il padronato) e quella civile (contro il fascismo repubblicano). Dunque, la guerra civile per Pavone rappresenta una delle tre componenti della più ampia lotta di resistenza, sebbene prevalga sulle altre due fin dal titolo dell'opera perché «offre una chiave di lettura di carattere generale», e «sottrae alla pubblicistica fascista e parafascista l'uso strumentale, e nelle intenzioni provocatorio, di una constatazione di fatto»[121].

Inoltre Pavone – per la prima volta nell'ambito della storiografia accademica – analizza anche le motivazioni della cosiddetta "altra parte" (i fascisti repubblicani), registrando, con una visione "dal basso", il punto di vista, le motivazioni e i sentimenti degli uomini che hanno vissuto quella esperienza da una parte e dall'altra[122].

Nonostante il perdurare delle polemiche - sempre più ristrette al solo ambito politico nel corso degli anni - a partire dallo studio di Pavone, la storiografia italiana ha iniziato a considerare generalmente la guerra civile italiana come un fenomeno di più ampio respiro nell'ambito del quale inserire i diversi aspetti sociali, militari, politici della lotta di resistenza, di quella di liberazione, del fascismo repubblicano e delle occupazioni tedesca ed alleata.

Non mancò inoltre chi, come Carlo Dionisotti, il quale già utilizzava ampiamente la definizione di guerra civile e ne biasimava la rimozione[123], espresse sconcerto per il ritardo impiegato dalla storiografia nel riconoscere un dato storico ritenuto di palese evidenza[124].

Il cinquantenario e la ricerca di una memoria condivisa[modifica | modifica wikitesto]

Nel corso degli anni successivi, con l'avvicinarsi delle celebrazioni per il cinquantenario della liberazione (1995), gli studi sul periodo 1943-1945 si intensificarono, e si moltiplicarono le pubblicazioni dedicate al problema della guerra civile. Inoltre, complice il mutato clima politico e il superamento degli steccati ideologici della Prima Repubblica, anche dalle istituzioni arrivarono inviti ad approfondire le problematiche legate alla Repubblica Sociale Italiana, in modo da giungere all'elaborazione di una memoria condivisa. Significativo in tal senso il discorso che l'allora pidiessino Luciano Violante pronunciò nel maggio 1996 in occasione del suo insediamento alla Presidenza della Camera, in cui per la prima volta un'alta carica dello Stato – per di più proveniente dalla tradizione politica comunista – mostrava volontà di comprensione per le ragioni dei «ragazzi di Salò»:

«Mi chiedo se l'Italia di oggi – e quindi noi tutti – non debba cominciare a riflettere sui vinti di ieri; non perché avessero ragione, o perché bisogna sposare, per convenienze non ben decifrabili, una sorta di inaccettabile parificazione tra le parti, bensì perché occorre sforzarsi di capire, senza revisionismi falsificanti, i motivi per i quali migliaia di ragazzi e soprattutto di ragazze, quando tutto era perduto, si schierarono dalla parte di Salò e non dalla parte dei diritti e delle libertà. Questo sforzo, a distanza di mezzo secolo, aiuterebbe a cogliere la complessità del nostro paese, a costruire la liberazione come valore di tutti gli italiani, a determinare i confini di un sistema politico nel quale ci si riconosce per il semplice e fondamentale fatto di vivere in questo paese, di battersi per il suo futuro, di amarlo, di volerlo più prospero e sereno. Dopo, poi, all’interno di quel sistema comunemente condiviso, potranno esservi tutte le legittime distinzioni e contrapposizioni[125]

Il successivo 4 novembre, giornata dell'Unità Nazionale e delle Forze Armate, il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro fece un ulteriore passo verso la «pacificazione nazionale», pronunciando le seguenti parole: «Il primo, devoto pensiero si rivolge come ricordo e preghiera alla memoria di coloro che hanno combattuto anche su fronti opposti, ma con onestà di intenti, fino all'estremo sacrificio»[126][127].

Resistenza e postfascismo di Gian Enrico Rusconi[modifica | modifica wikitesto]

Nel 1995 Gian Enrico Rusconi pubblicò Resistenza e postfascismo, nel quale esaminò le vicende del periodo partendo dal concetto di guerra civile. Rusconi rileva che «l'espressione "guerra civile" ha sempre creato e crea disappunto e disagio in molti gruppi partigiani, mentre ha trovato da sempre piena accoglienza nel campo neofascista. Ma non c'è bisogno di affidarsi alla letteratura repubblichina per capire che la "guerra civile" della Resistenza non è uno stigma da dissimulare o negare, ma è il segno della serietà – anche morale – dell'impresa. L'espressione del resto è presente nel linguaggio spontaneo e originario di molti resistenti, azionisti in particolare. Significativamente è assente invece nei documenti alleati che lo usano soltanto per indicare la natura del conflitto che potrebbe verificarsi in Italia dopo la Liberazione, per opera dei comunisti»[128].

L'opera fu recensita da Leo Valiani con un articolo intitolato La Resistenza fu guerra civile? Non poteva che essere così[129].

Rosso e Nero di Renzo De Felice[modifica | modifica wikitesto]

Lo stesso argomento in dettaglio: Rosso e Nero (De Felice).
Renzo De Felice. L'ultimo volume della biografia di Mussolini scritta dallo storico reatino è intitolato La guerra civile 1943-1945.

Ben maggior clamore suscitò l'uscita del volume-intervista Rosso e Nero di Renzo De Felice, sempre del 1995, che, vent'anni dopo la sua Intervista sul fascismo, contribuì a diffondere gli argomenti del dibattito storiografico a livello divulgativo, sollevando il problema della Guerra civile anche al di fuori dell'ambito specialistico. Il volume provocò un'aspra polemica (De Felice fu accusato di voler "rivalutare il fascismo"[130]) ma ebbe importante eco.

Nell'intervista, De Felice anticipava anche che l'ultimo volume (rimasto però incompiuto per la prematura scomparsa dello storico nel 1996) della sua biografia di Mussolini sarebbe stato intitolato Mussolini l'alleato. La guerra civile. L'opera uscì postuma l'anno successivo, per i tipi di Einaudi, limitata al tomo I.

Mussolini l'alleato. II. La guerra civile di De Felice[modifica | modifica wikitesto]

Si tratta dell'ultimo volume della monumentale opera di Renzo De Felice, rimasto incompleto per la scomparsa dell'autore.

Vi ricostruisce le motivazioni che portarono alla nascita della Repubblica sociale e i caratteri di quella che viene ormai riconosciuta come "guerra civile"[131], fino ai primi mesi della RSI. Accanto alle vicende politiche e militari trovano spazio le difficoltà di un popolo che rinuncia a fare una precisa scelta di campo. Nell'ultimo capitolo De Felice studia le varie componenti del fascismo repubblicano e i complessi rapporti con l'alleato tedesco.

La nostra guerra 1940-1945 di Arrigo Petacco[modifica | modifica wikitesto]

Anche Arrigo Petacco, nel secondo capitolo del suo volume La nostra guerra 1940-1945 del 1995, significativamente intitolato "Verso la guerra civile", rileva che "non tutti coloro che combatterono contro i tedeschi e i fascisti avevano come fine soltanto il riscatto nazionale"[132]. Nella resistenza italiana vi sarebbero state, secondo Petacco, almeno "tre anime", una che combatté una "guerra patriottica", una che affrontò la "guerra civile" ed un'altra che combatté una "guerra di classe"[132].

Gli ulteriori sviluppi[modifica | modifica wikitesto]

La morte della patria di Ernesto Galli della Loggia[modifica | modifica wikitesto]

L'anno seguente Ernesto Galli della Loggia pubblicò un altro saggio significativo, La morte della patria, nel quale dà per scontato il concetto di "guerra civile italiana", che l'autore pone fra le basi della crisi morale del Paese nel dopoguerra[133]. Il problema dell'agnizione della Guerra civile come uno degli elementi della crisi italiana - assieme all'8 settembre e alla "democrazia bloccata" del dopoguerra, - è tuttora uno dei temi aperti del dibattito sull'identità nazionale italiana.

Il nemico interno di Cesare Bermani[modifica | modifica wikitesto]

Nel 1997 Cesare Bermani pubblicò la prima edizione della raccolta di saggi Il nemico interno. Guerra civile e lotte di classe in Italia (1943-1976), riveduta ed ampliata nella successiva edizione del 2003. Bermani definisce la guerra civile «il nesso più profondo e occultato della nostra storia». A tale problema storiografico è in particolare dedicato il saggio Le storie della Resistenza, in cui si dimostra come «la categoria di "guerra civile" divenne un tabù solo con l'avvento del centrosinistra e la retorica della "pacificazione", venendo fatta propria dai fascisti in chiave anticomunista»[134].

La Repubblica delle camicie nere di Luigi Ganapini[modifica | modifica wikitesto]

L'esposizione dei cadaveri di Mussolini e altre personalità del regime a Piazzale Loreto. Nel 1999 il filosofo Norberto Bobbio, tra i principali esponenti dell'azionismo, definì l'evento «la riprova, una delle poche prove certe che la guerra partigiana è stata una guerra civile. Solo una guerra civile può finire con il capo appeso per i piedi, una guerra fra Stati non finisce così. Fu una guerra tra italiani»[135].

Luigi Ganapini, professore ordinario di Storia contemporanea all'Università di Bologna, nel 1999 pubblicò La Repubblica delle camicie nere. I combattenti, i politici, gli amministratori, i socializzatori, primo studio approfondito sulla Repubblica Sociale Italiana, che rappresenta una sorta di pendant ideale con Una guerra civile di Claudio Pavone[136], analizzando minuziosamente le motivazioni che spinsero numerosi italiani ad aderire al fascismo repubblicano. In questo libro Ganapini mostra come a seguire Mussolini dopo l'8 settembre non ci fossero solo dei giovani che – secondo la celebre espressione di Carlo Mazzantini – andavano a «cercar la bella morte» continuando a combattere con i tedeschi, ma anche un vero e proprio ceto politico e amministrativo che operava per assicurare la sopravvivenza del regime del ventennio.

La storia della Repubblica di Mussolini di Aurelio Lepre[modifica | modifica wikitesto]

Nel 1999 Aurelio Lepre nella prefazione de La storia della Repubblica di Mussolini evidenziava la differente posizione tenuta nel corso della Resistenza, in cui era accettata la definizione di guerra civile, rispetto al dopoguerra, in cui quella definizione era stata rimossa e considerata gravissima[137]. Lepre rileva poi come l'uso del termine "revisionista" come accusa fu mossa contro "altri studiosi, anche di sinistra, che non si occuparono della Resistenza in tono apologetico".[138]. E quindi aggiunge la sua interpretazione della guerra del 1943-45 come guerra civile[139]

La resa dei conti di Gianni Oliva[modifica | modifica wikitesto]

La teoria di Pavone è nella sostanza condivisa anche da Gianni Oliva, che nel breve saggio La resa dei conti del 1999 riprende la tripartizione di Una guerra civile. Nel capitolo intitolato "Violenza e guerra civile" Oliva specifica che il periodo 1943-1945 fu «innanzitutto una stagione di guerra patriottica contro il nemico occupante» ma anche una "guerra di classe". Oliva precisa di preferire questa denominazione alla più diffusa "lotta di classe" per via del perdurante clima di guerra. In terzo luogo anche "guerra civile".[140]

Oliva sostiene che la definizione di guerra civile sia controversa poiché da una parte accusata da parte resistenziale di legittimare il fascismo repubblicano[141] e in campo fascista di strumentalizzazione per ottenere una "equiparazione morale"[142]. Secondo Oliva, il conflitto civile, pur sviluppandosi all'interno del contesto della guerra di liberazione, è comunque «il tratto saliente del periodo 1943-45» il cui elemento caratterizzante è lo scontro fascismo-antifascismo.[143]. In conclusione, per Oliva, la categoria interpretativa di guerra civile è sul piano scientifico la più adatta.[144]

La fine di una stagione di Roberto Vivarelli[modifica | modifica wikitesto]

Roberto Vivarelli, professore di Storia contemporanea alla Normale di Pisa, nel 2000 pubblicò il saggio autobiografico La fine di una stagione. Memoria 1943-1945[145]. Con questo libro Vivarelli, conosciuto fino ad allora come uno storico di sinistra – avendo alle spalle diversi incarichi negli Istituti storici della Resistenza ed una carriera caratterizzata da un orientamento saldamente antirevisionista, che lo aveva portato non solo a polemizzare con De Felice, ma anche a criticare revisioni provenienti da sinistra[37] – rivelò che da adolescente, sulla spinta emotiva della morte in guerra di suo padre per mano dei partigiani jugoslavi, si era arruolato nella RSI[146].

L'opera – in cui Vivarelli scrive di aver iniziato a riflettere sulla propria esperienza personale dopo la lettura di Una guerra civile di Claudio Pavone[147] – provocò accese reazioni ancor prima della pubblicazione. Alla recensione-intervista di Paolo Mieli[148], in cui Vivarelli dichiarò di non essere pentito e rivendicò anzi la moralità della propria scelta, seguirono infatti diversi interventi di storici e giornalisti sui maggiori quotidiani italiani[149]. Tra questi, la recensione negativa di Claudio Pavone[150].

Il sangue dei vinti di Giampaolo Pansa[modifica | modifica wikitesto]

Grande successo commerciale ebbe nel 2003 la pubblicazione del volume del giornalista Giampaolo Pansa Il sangue dei vinti, nel quale l'autore – sotto forma di romanzo – raccontava di stragi ed omicidi compiuti da partigiani (o presunti tali) ai danni di fascisti (o presunti tali) sul finire della guerra e nell'immediato dopoguerra, divulgando presso un grande pubblico argomenti trattati in precedenza quasi esclusivamente in ambito specialistico[151].

L'ampia eco mediatica sviluppata attorno al testo e le polemiche che ne seguirono (continuate anche in seguito alla contrastata uscita di un film sceneggiato ispirato al libro di Pansa) contribuirono comunque al consolidamento della diffusione del concetto di guerra civile combattuta fra italiani durante e immediatamente dopo la seconda guerra mondiale[152]. Al primo volume di Pansa seguirono poi sul medesimo argomento, dello stesso autore, Sconosciuto 1945 nel 2005 e I vinti non dimenticano nel 2010.

Il discorso del presidente Napolitano del 25 aprile 2008[modifica | modifica wikitesto]

Nel 2008, durante un discorso tenuto a Genova in occasione della festa della Liberazione, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha dichiarato di condividere la tesi di Claudio Pavone sulla guerra civile:

«All'inizio dello scorso decennio, è apparso un saggio storico di non comune impegno e profondità, dovuto a Claudio Pavone, nel quale si sono messi in evidenza i diversi volti della Resistenza, e in particolare, accanto a quello di una guerra patriottica, quello di una "guerra civile". Tale profilo è stato a lungo negato, o considerato con ostilità e reticenza, da parte delle correnti antifasciste. Ma se ne può dare – Pavone lo ha dimostrato – un'analisi ponderata, che non significhi in alcun modo "confondere le due parti in lotta, appiattirle sotto un comune giudizio di condanna o di assoluzione". E questo vale anche per i fenomeni di violenza che caratterizzarono in tutto il suo corso la guerra anti-partigiana e da cui non fu indenne la Resistenza, specie alla vigilia e all'indomani della Liberazione. Le ombre della Resistenza non vanno occultate, ma guai a indulgere a false equiparazioni e banali generalizzazioni; anche se a nessun caduto, e ai famigliari che ne hanno sofferto la perdita, si può negare rispetto: un rispetto naturalmente maturato, col tempo, sul piano umano. Insomma, è possibile e necessario raccontare la Resistenza, coltivarne la storia, senza sottacere nulla, "smitizzare" quel che c'è da "smitizzare" ma tenendo fermo un limite invalicabile rispetto a qualsiasi forma di denigrazione o svalutazione di quel moto di riscossa e riscatto nazionale cui dobbiamo la riconquista anche per forza nostra dell'indipendenza, dignità e libertà della Nazione italiana[153]

Secondo lo storico Giovanni De Luna, il discorso del capo dello Stato «consacra una tesi storiografica che negli ultimi tempi nessuno ha più seriamente contestato, ma che fino a non molti anni fa ha alimentato un dibattito acceso»[154].

War, massacre, and recovery in Central Italy, 1943-1948 di Victoria Belco[modifica | modifica wikitesto]

Nel 2010 l'americana Victoria Belco, nel suo libro War, massacre, and recovery in Central Italy, 1943-1948, sostiene che "sì, ci fu una guerra civile in Italia tra il 1943 ed il 1945, almeno nelle parti d'Italia dove operavano fascisti repubblicani e partigiani, e laddove vi fu resistenza contro nazifascisti e occupanti tedeschi."[155] Al Centro e al Nord, spiega la Belco, vi erano sia fascisti repubblicani che partigiani, ma le due fazioni erano entrambe relativamente piccole se comparate con la popolazione complessiva. Inoltre, secondo la storica americana, le due parti impegnate nel conflitto civile si trovarono tutt'altro che frequentemente coinvolte in scontri che le videro l'una "esclusivamente" contro l'altra. Tanto che, citando Don Narciso Polvani,[156] chiama half civil war ("una mezza guerra civile") la situazione di conflitto in cui si trovava la provincia di Arezzo nel giugno 1944, stretta tra l'avanzata degli inglesi e l'arretramento tedesco e deduce che la guerra civile in Italia non avrebbe potuto avere luogo senza occupazione tedesca.[155].

Modern Italy, di Nick Carter[modifica | modifica wikitesto]

Nel 2010, lo storico Nick Carter ha pubblicato un volume, Modern Italy in Historical Perspective in cui ha affrontato diffusamente il tema della guerra civile.[157] Secondo Carter il crollo della Prima Repubblica e la fine del PCI agli inizi degli anni novanta hanno incitato gli storici a rivedere la Resistenza come mito fondante della Repubblica. Secondo i revisionisti[quali revisionisti?] la Resistenza era stata una catastrofica guerra civile combattuta da una minoranza di partigiani antipatriottici contro gli italiani lealisti (fascisti): nel lungo termine il mito della Resistenza avrebbe influenzato negativamente la fibra morale della nazione. Secondo Carter, Renzo De Felice[perché De Felice è citato dopo questo tipo di revisionisti?], specialmente con il suo Rosso e Nero, ha rappresentato un punto di riferimento per il dibattito storiografico che ne è seguito.[158]

Seguendo l'analisi di James Miller, Carter sostiene che i neo-fascisti poterono diffondere[presso quale pubblico?] l'interpretazione della Resistenza come guerra civile principalmente a causa del comportamento del PCI che, tentando di appropriarsi della storia della Resistenza, la danneggiò come mito fondante nazionale, in ciò aiutato anche dalle altre forze politiche.[159][occorre citazione letterale]

L'autore osserva come, nonostante ciò, vari storici, tra cui C. Pavone e J. Miller, pur accettando di affrontare il tema della guerra civile, sfrondando la storia della Resistenza dagli elementi celebrativi e mitologici, continuino a vedere nella lotta di liberazione un importante - se non il più luminoso - momento della storia nazionale, capace di stimolare negli italiani un sentimento di cittadinanza democratica e di identità nazionale.[160]

L'opinione di Carter è che la Resistenza fu necessariamente una guerra civile sanguinosa e senza regole, con atrocità commesse da ambo le parti. Nelle regioni del nord dove vent'anni prima i fascisti erano stati particolarmente feroci, la guerra civile fu più violenta. Tuttavia essa era stata solo un aspetto di una guerra che, come argomentato da Pavone, era stata anche patriottica e di classe. Inoltre essa si inquadrava in una più ampia guerra civile dell'Europa a difesa della propria civiltà. In Italia il principale obiettivo dei partigiani era quello di sconfiggere il Fascismo e il Nazismo. Gli ideali per cui partigiani e repubblichini morirono furono diversi: secondo Carter solo i primi sono degni di rispetto.[161]

Partigia di Sergio Luzzatto[modifica | modifica wikitesto]

Nel 2013 ha provocato molte discussioni il saggio "Partigia. Una storia della Resistenza" di Sergio Luzzatto, storico che in passato si era distinto come acceso critico del revisionismo e in particolare dei libri di Giampaolo Pansa sulle uccisioni del dopoguerra, considerati sintomi di una crisi dell'antifascismo.[162]

Il libro ha rivelato una vicenda inedita che vede coinvolto il giovane partigiano Primo Levi (allora ventiquattrenne), che il 9 dicembre 1943 sul Col de Joux, nei pressi di Saint-Vincent, partecipò all'esecuzione della condanna a morte, eseguita "con metodo sovietico" (cioè mediante raffica di mitra nella schiena senza preavviso), di due giovani partigiani appartenenti alla sua brigata, Fulvio Oppezzo (18 anni, di Casale Monferrato, nome di battaglia "Furia") e Luciano Zabaldano (17 anni, di Torino, nome di battaglia "Mare"), accusati di furto. I due erano stati considerati per decenni "eroi trucidati dai fascisti", venendo citati nell'Albo d'oro della Resistenza valdostana tra i 186 partigiani caduti nella regione, tra i tre uccisi nel 1943.[163]

All'interno del testo, Luzzatto si sofferma diffusamente sul carattere di guerra civile della lotta in corso, intendendo raffigurare "un Levi dolente, prima ancora che come testimone della Soluzione finale del problema ebraico, come testimone degli aspetti più scabrosi di una guerra civile".[164] La vicenda della fucilazione dei due giovani è contestualizzata nella "realtà per cui, nel mondo crudele della guerra civile, ai partigiani era toccato anche di decretare la morte di altri partigiani".[165]. Tra le conclusioni dell'autore "la guerra civile italiana fu questo ancora: un gioco delle parti, fra pietà e cinismo, passioni e interessi, in attesa che la storia decretasse vincitori e vinti".[166]

L'uscita del volume è stata accompagnata da varie polemiche, essendo ritenuto irrispettoso della figura di Primo Levi e della resistenza partigiana (ad esempio da parte del giornalista Gad Lerner, che fra l'altro ha criticato Luzzatto per aver usato "anch'egli il termine dispregiativo "vulgata resistenziale" che tanto gratifica gli iconoclasti"). La stessa Einaudi, casa editrice delle opere di Primo Levi, nonostante avesse già pubblicato vari scritti di Luzzatto, ha rifiutato il testo, edito poi da Mondadori.[167]

Diffusione[modifica | modifica wikitesto]

In seguito al gran numero di pubblicazioni sul tema degli anni novanta, il termine è diventato d'uso comune anche al di fuori del mondo accademico, risultando la tripartizione di Pavone (guerra patriottica, civile e di classe) nel 2011 «generalmente condivisa, tanto da essere ripresa dalla maggior parte dei manuali scolastici di storia»[168][169][170]. Inoltre, l'accezione relativa all'Italia del 1943-1945 è stata introdotta nella voce "Guerra civile" di diverse pubblicazioni edite dall'Istituto dell'Enciclopedia Italiana[171].

Nel novembre 2006 è stato effettuato uno studio sul senso comune riguardo alla Resistenza e agli eventi che portarono alla nascita della Repubblica, basato sui risultati di un questionario sottoposto ad un campione di insegnanti delle scuole secondarie superiori di Novara. Agli intervistati è stato domandato se condividessero o meno alcune affermazioni, chiedendo loro di motivare le risposte. Una delle frasi recita: «Tra il '43 e il '45 in Italia si è combattuta una guerra civile e nelle guerre civili i torti e le colpe sono equamente distribuiti tra le parti combattenti». Lo studioso Andrea Paracchini, autore della ricerca, osserva che la frase «insiste in realtà su due concetti chiave: quello di “guerra civile” e quello di “equiparazione delle colpe”». Circa il primo concetto (guerra civile), secondo Paracchini le risposte del questionario hanno rivelato che «l'interpretazione in chiave di "guerra civile" dei venti mesi della Resistenza sembra [...] essere stata accettata [...]. In particolare, un solo intervistato dichiara esplicitamente di considerare la Rsi "un organismo politico satellite della Germania" e quindi "straniero". Del resto, dopo l'uscita del saggio di Pavone, sono ormai in pochi, anche in ambito pubblico, a mettere in discussione quello che ormai è considerato un assunto». Riguardo al secondo concetto (equiparazione delle colpe), Paracchini commenta scrivendo che ben «più problematico risulta invece il giudizio sui due schieramenti» e ritiene che tale concetto sia ispirato a un «relativismo che mira anzitutto a tirare fuori tutto il buono possibile del fascismo e al contrario screditare il più possibile la Resistenza nel complesso, perché interpreta la “guerra civile” nell’accezione di “guerra fratricida”, intesa come conflitto sanguinoso in cui i combattenti delle due parti sono allo stesso tempo distinti dagli ideali ugualmente nobili e degni dunque di ricordo, ma assimilati in nome del comune ricorso alla violenza». Paracchini respinge tale equiparazione richiamando le differenze fra partigiani e fascisti, le quali, «pure ammettendo che tra i partigiani ci fossero personaggi moralmente discutibili e fra i saloini giovani in buona fede, riguardano anzitutto la causa degli uni, la liberazione d’Italia e il suo rinnovamento, e quella degli altri, il fascismo e la sudditanza nazista». Tuttavia Paracchini riconosce che su una simile conclusione «non sembra esserci l’accordo del campione», avendo gli insegnanti espresso posizioni fra loro differenziate al riguardo[172].

Anche dopo la sua affermazione nella storiografia, conseguente al lavoro di Pavone, alcuni ex resistenti e alcuni esponenti della sinistra italiana hanno continuato a respingere la definizione di guerra civile, associandola ancora all'uso polemico che ne ha fatto per anni la pubblicistica neofascista e temendo quindi una delegittimazione del movimento partigiano[173]. Tra questi, il giornalista Furio Colombo[174] e l'ex comandante dei GAP Giovanni Pesce[175].

Note[modifica | modifica wikitesto]

Note esplicative e di approfondimento[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ Nel discorso trasmesso da Radio Bari il 24 settembre 1943, il re Vittorio Emanuele III fu uno dei primi a parlare di guerra civile accusando coloro che, «gli uni tradendo il giuramento prestato, gli altri dimenticando le ripetute assicurazioni di fedeltà a me personalmente date, fomentano la guerra civile incitando gli italiani a combattere i propri fratelli». Citato in Pavone 1991, p. 249.
  2. ^ Il discorso continua: «Non ci eravamo intesi, con le generazioni che furono fasciste, sin dall'inizio, cioè fin dalla fine della precedente guerra, ma non è detto che non avremmo potuto intenderci, se non fossero intervenuti l'inganno e la violenza, che hanno falsato tutto il processo di sviluppo, rompendo l'unità delle forze nazionali. Il "malinteso" consisteva nel fatto che, quando una generazione di giovani aspirava alla grandezza della nazione italiana e alla felicità degli italiani che vivono di lavoro, aspirava alle stesse cose cui noi aspiriamo. Non solo, ma quando questa generazione accoglieva l'idea di una più elevata giustizia sociale, questa idea era la nostra. Il malinteso venne creato e quindi il successivo abisso che ci separò venne scavato da coloro per cui l'affermazione di questi grandi obiettivi non era che frasario demagogico e strumento di manovra che divideva le forze nazionali. L'unità della nazione venne spezzata scagliando una parte di essa contro le forze nazionali più avanzate, che sono, nel periodo storico attuale, la classe operaia e la sua avanguardia».
  3. ^ Tale approccio della cultura antifascista verso il fascismo è già rilevato e criticato in Costanzo Casucci (a cura di), Il fascismo. Antologia di scritti critici, Bologna, Il Mulino, 1961, pp. 429-430: «il fascismo ci appartiene, è cosa nostra, prodotto della nostra storia, ci piaccia o meno, e per questo va accettato; ma appunto perché nostro, del nostro paese, non lo trascende, ma ne è trasceso. Per una sorta di metafisica negazione noi antifascisti vorremmo quasi che i fascisti siano fascisti e nient'altro, come gli "uomini e no" di Vittorini, che gli italiani divenuti fascisti quasi cessino di essere italiani, per cui l'Italia del ventennio si riduce ad un pugno di eroi che seppero testimoniare. Invece no! Fu l'Italia, furono gli italiani che divennero ad un certo momento fascisti senza cessare mai di essere italiani, per poi diventare o tornare a diventare democratici: compito della storiografia è l'analisi di questo processo in tutta la sua interezza, senza hiatus, senza "parentesi", non separando mai le componenti di esso, ma distinguendole e riportandole costantemente all'unità della storia».
  4. ^ Tuttavia, in Battaglia 1964, p. 184 (pp. 221-2 nell'edizione originale 1953), nel paragrafo Le azioni dei GAP, si legge: «Le azioni dei GAP [Gruppi di Azione Patriottica avevano fin dall'inizio introdotto nella Resistenza italiana un tono che era sembrato troppo aspro all'opinione pubblica, riluttante ad accettare i duri termini della guerra civile. Ma era stata fin dall'inizio un'azione necessaria nella sua durezza, destinata a sventare le insidie della falsa concordia predicata dai servitori del nazismo per illudere e corrompere gli italiani».
  5. ^ Bermani 2003, pp. 11-12, rileva anche che negli anni successivi, grazie all'indebolimento del «controllo dello stalinismo sulla nostra storiografia di sinistra», lo stesso Battaglia sia tornato a considerare la definizione di guerra civile. Infatti, in Resistenza e Risorgimento, Roma, Editori Riuniti, 1964, pp. 30-31, Battaglia scrive: «Guerra civile, senza dubbio, ma allo stesso modo del Risorgimento che vide l'Italia scissa in patrioti e austriacanti, in garibaldini e borbonici, in piemontesi e papalini [...] Guerra civile, ma non nel senso di contrapporre parte a parte, ideale a ideale, ma nel senso ben diverso che far rinascere l'Italia a dignità di nazione libera e indipendente, occorreva innanzi tutto sgombrare il campo dai suoi oppressori interni, dai servi sciocchi e feroci del III Reich».
  6. ^ La matrice dell'uccisione di Ghisellini è controversa.
  7. ^ Nello stesso mese il concetto fu ripreso anche dal filosofo cattolico Augusto Del Noce, nell'intervista Fu vera gloria? La resistenza quarant'anni dopo Archiviato il 1º dicembre 2007 in Internet Archive., in Litterae Communionis, anno XII, aprile 1985, p. 20s., da Storia Libera (www.storialibera.it).
  8. ^ Claudio Pavone rievocò la vicenda: «Ricordo che ne ebbi una terribile lavata di capo da parte di Giancarlo Pajetta che intervenne dicendo risolutamente che non era vero, che quella era stata una guerra di liberazione nazionale, una guerra di tutto il popolo italiano. Pajetta era una persona che io rispettavo molto, ma su questo punto era di una intransigenza ferrea e non accettava discussioni». Cfr. Intervista a Claudio Pavone: Fascismo, guerre e guerra civile: il percorso Mario Isnenghi, a cura di Alessandro Casellato e Simon Levis Sullam, su officinadellastoria.eu, 10 novembre 2008. L'intransigenza di Pajetta verso rappresentazioni della Resistenza non del tutto conformi all'ortodossia del PCI si era già manifestata nel 1976, durante una proiezione del film Novecento, pur complessivamente fedele all'interpretazione comunista degli eventi, a causa dei numerosi riferimenti agli aspetti di guerra civile e di classe del conflitto. Il regista Bernardo Bertolucci, a lungo iscritto al PCI, ricordò: «Alla fine del primo tempo, Pajetta, entusiasta, mi abbracciò. Poi, vedendo le immagini della Liberazione, in cui mostravo anche le vendette private, i processi popolari contro i fascisti, si alzò furioso e se ne andò gridando: mi rifiuto di partecipare». Cfr. Bernardo Bertolucci, intervista a cura di Barbara Palombelli, Registi d'Italia, Milano, Rizzoli, 2006, p. 45. Secondo Gianni Borgna, anch'egli presente alla proiezione, «Pajetta, di fronte a noi che eravamo sbigottiti e a un ancor più sbigottito Bertolucci, prese quest'ultimo per il bavero e gliene disse di tutti i colori». Cfr. Gianni Borgna, L'ultima generazione. Incontri, passione e politica. Autobiografia di un comunista italiano, Roma, Edizioni Ponte Sisto, 2016 (leggi estratto).

Note bibliografiche[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ Commissione storica italo-tedesca 2012, p. 80. Il Rapporto parla di «fatto – negato per lungo tempo dalle forze antifasciste – che il conflitto aveva assunto anche le forme di una guerra civile».
  2. ^ Sechi 2006, p. 147: «Questa omissione della guerra civile non rimase senza conseguenze. La più vistosa fu quella di negare che da parte, soprattutto, degli antifascisti di sinistra (in primo luogo dei comunisti) ci fosse stato un regolamento di conti sul piano sociale, cioè una guerra di classe. […] In realtà questo esorcismo di Togliatti ebbe il significato di aumentare l'accreditamento del proprio partito come forza nazionale, patriottica, democratica – un'immagine se non proprio levigata, almeno rassicurante. Le cose sono andate diversamente da come le descrive una storiografia apologetica delle intenzioni dei dirigenti. Una guerra civile in Italia è continuata anche dopo il 25 aprile 1945, con un triste elenco di morti, frutto di vendette, esecuzioni sommarie, desideri di farsi giustizia da sé. In secondo luogo, la guerra civile è continuata come una minaccia, un pericolo agitato come uno stato di necessità o un compito inesorabile di un partito rivoluzionario».
  3. ^ Dondi 1999, p. 188: «Da parte sua il Pci aveva compiuto un primo passo indietro, circa una della cause all'origine della violenza, quando, subito dopo la liberazione, si spinge a negare il carattere di guerra civile all'interno del quale si era mosso il fronte della Resistenza. È una negazione-esorcizzazione che il partito compie con l'evidente ragione di proporsi come il principale artefice di una guerra nazionale di liberazione. La scelta di rimuovere il riferimento alla guerra civile – che pur compare nei documenti precedenti la liberazione –, si presenta anche come primo netto distacco dalla stessa formazione teorica del Pci, si pensi alla concezione leninista della guerra civile come fenomeno conseguente al processo rivoluzionario».
  4. ^ a b c d Pavone 1991, p. 222.
  5. ^ Claudio Pavone, Prefazione all'edizione 1994 di Una guerra civile, Bollati Boringhieri, Torino, 1994, p. XVI.
  6. ^ De Felice 1997, p. 69 n.; nonché Lepre 1999, pp. 4 e ss.; sempre Aurelio Lepre con Claudia Petraccone, Storia d'Italia dall'unità ad oggi, Bologna, Il Mulino, 2008, p. 267, rileva come «la definizione di guerra civile» fosse «accettata in quegli anni anche dai comunisti».
  7. ^ Ermanno Gorrieri, La Repubblica di Montefiorino. Per una storia della Resistenza in Emilia, Bologna, Il Mulino, 1966, p. 176, cita un manifesto del CLN in cui si attribuisce ai fascisti la responsabilità di aver scatenato la guerra civile.
  8. ^ Governo di Partiti (PDF), in l'Unità, edizione di Roma, 5 ottobre 1943, n. 18, p. 1. Citato in Pavone 1991, p. 252.
  9. ^ Due svolte. La nostra organizzazione di fronte ai compiti nuovi, in La nostra lotta, anno I, ottobre 1943, n. 1, p. 19. Citato in Pavone 1991, p. 252.
  10. ^ Giovanni Gentile, Fortunato Pintor, Carteggio (1895-1944), a cura di Emilia Campochiaro, Firenze, Le Lettere, 1993, lettera del 5 dicembre 1943, p. 431.
  11. ^ Giovanni Gentile, Questione morale, in Italia e Civiltà, 8 gennaio 1944, poi in Politica e cultura, a cura di Hervé A. Cavallera, Firenze, Le Lettere, 1991, vol. II, p. 213.
  12. ^ a b Giorgio Agosti, Dante Livio Bianco, Un'amicizia partigiana. Lettere 1943-1945, a cura di Giovanni De Luna, Torino, Albert Meynier, 1990.
  13. ^ Adolfo Omodeo, Lettere 1910-1946, Torino, Einaudi, 1963, p. 727.
  14. ^ Raimondo Craveri, La campagna d'Italia e i servizi segreti. La storia dell'ORI (1943-1945), Milano, La Pietra, 1980, pp. 57-58.
  15. ^ Umberto Zanotti Bianco, La mia Roma. Diario 1943-1944, a cura di Cinzia Cassani, con un saggio introduttivo di Fabio Grassi Orsini, Manduria-Bari-Roma, Piero Lacaita Editore, 2011, p. 191 (16 aprile 1944).
  16. ^ Piero Calamandrei, Diario. II. 1942-1945, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2015, p. 427 (17 aprile 1944).
  17. ^ Aligi Sassu, La guerra civile (Piazzale Loreto), 1944.
  18. ^ Giovanni Dolfin, Con Mussolini nella tragedia. Diario del capo della segreteria particolare del Duce, 1943-1944, Milano, Garzanti, 1949, p. 158.
  19. ^ Bencivenga terrazziere, in l'Unità, edizione di Roma, 4 novembre 1944, p. 1.
  20. ^ Pavone 1991, pp. 221-222.
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  22. ^ Chabod 2002, p. 118.
  23. ^ Winston Churchill, The Second World War, vol. V: Closing the Ring, Londra, Cassell, 1952 [1951], p. 166. La prima voce del sommario dell'undicesimo capitolo, intitolato The Broken Axis, è «Civil War in Italy».
  24. ^ Amedeo Santosuosso, Gli anni '50 e '60, in Amedeo Santosuosso, Floriana Colao, Politici e amnistia. Tecniche di rinuncia alla pena per i reati politici dall'unità ad oggi, Verona, Bertani, 1986, pp. 129-150: 136.
  25. ^ Camera dei deputati, II legislatura, resoconto stenografico della seduta pomeridiana di venerdì 20 novembre 1953 (PDF), pp. 4126-35: 4127.
  26. ^ Mario Vinciguerra, Voce di martiri, in Il Messaggero, 24 marzo 1954, p. 1.
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  28. ^ Camera dei deputati, II legislatura, resoconto stenografico della seduta pomeridiana di venerdì 22 aprile 1955 (PDF), pp. 17962-6: 17962.
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  30. ^ Ferruccio Parri, intervento nel dibattito sulla relazione di Franco Venturi La resistenza italiana e gli Alleati, in Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia, La resistenza europea e gli Alleati, Milano, Lerici, 1962, pp. 310-311, cit. in Bermani 2003, p. 29.
  31. ^ Ferruccio Parri, Dalla Resistenza, alla Repubblica alla Costituzione, in AA.VV., Fascismo e antifascismo (1936-1938). Lezioni e testimonianze, Milano, Feltrinelli, 1962, vol. II, p. 612, cit. in Bermani 2003, p. 30.
  32. ^ Canfora 1992, p. 82, definisce l'amnistia «atto che di per sé sanciva il carattere di guerra civile del conflitto appena conclusosi».
  33. ^ Bermani 2003, pp. 66-67.
  34. ^ Palmiro Togliatti, Discorso alla Gioventù, pronunciato alla Conferenza nazionale giovanile del Partito Comunista Italiano, Roma, 24 maggio 1947, in Opere, a cura di Luciano Gruppi, vol. V, 1944-1955, Roma, Editori Riuniti, 1984, pp. 300-1.
  35. ^ Pavone 1991, p. 221, spiega che poco dopo la fine del conflitto «il tabù contro la guerra civile era stato meno forte».
  36. ^ Bermani 2003, p. 48, che riferendosi al 1965 afferma: «da allora improvvisamente parlare di guerra civile diventò un tabù. La rimozione di quella categoria fu comunque pressoché totale, tanto che anche i giovani storici che contestarono in seguito il pateracchio di quegli anni non ne fecero quasi più uso, come se accettassero un tacito compromesso, perdendo persino la memoria che "guerra civile" era stata una categoria centrale nell'interpretazione della guerra di liberazione».
  37. ^ a b Adriano Sofri, Di che cosa parliamo se parliamo di guerra civile, in la Repubblica, 25 novembre 2000, p. 1.
  38. ^ Acciai 2011.
  39. ^ Gabriella Fenocchio (a cura di), Il Novecento. 2. Dal neorealismo alla globalizzazione, in La letteratura italiana, diretta da Ezio Raimondi, Milano, Mondadori, 2004, p. 104: «Sofferta fu la genesi editoriale del libro, a partire dal titolo per il quale l'autore aveva inizialmente proposto Racconti della guerra civile. Ma l'espressione "guerra civile" era in quegli anni un tabù per la cultura di sinistra, e Vittorini non lo accettò, suggerendo in un primo momento Racconti barbari».
  40. ^ Sulle ragioni del cambiamento di titolo, Luca Bufano, Beppe Fenoglio e il racconto breve, Ravenna, Longo, 1999, p. 89: «L'insofferenza di gran parte della sinistra italiana verso il termine "guerra civile" aveva perciò (e per taluni continua ad averlo oggi) un significato squisitamente politico, quasi il suo impiego implicasse una sorta di legittimazione della parte avversa: non guerra civile, dunque, ma guerra di Resistenza e di Liberazione dal tedesco. I fascisti di Salò – era questo il senso ultimo – non dovevano considerarsi "italiani", ma traditori che avevano rinnegato la loro patria asservendosi al nemico invasore».
  41. ^ Dante Isella, La guerra civile di Fenoglio il «barbaro» della Resistenza, in Corriere della Sera, 23 aprile 2006.
  42. ^ Francesco Cevasco, Guerra civile, Bevilacqua censurato, in Corriere della Sera, 20 aprile 2008, p. 35.
  43. ^ Alberto Bevilacqua, Io, ragazzo perseguitato dalla censura (video), rai.it, min. 1:01 e ss.
  44. ^ Dario Fertilio, Torna la Resistenza di Petacco. Politicamente scorretta, in Corriere della Sera, 10 aprile 2004, p. 31.
  45. ^ Luigi Salvatorelli, Venticinque anni di storia (1920-1945), Firenze, Scuola e Vita, 1953, p. 69. A commento della creazione della RSI, l'autore scrive: «Si aggiunse così per l'Italia alla guerra esterna quella civile».
  46. ^ Mario Alighiero Manacorda, Il veleno nei libri di testo (PDF), in l'Unità, 29 maggio 1953, p. 3 (archiviato dall'url originale il 4 marzo 2016). In questa recensione Salvatorelli – definito «"parente" dei clericali e il cui libro esce col crisma di un ministro clericale» – veniva accusato di essere «scaduto nel più trito oggettivismo» e di essersi «schiera[to] apertamente tra i falsificatori della storia».
  47. ^ Michele Corsi, Roberto Sani, L'educazione alla democrazia tra passato e presente, Vita e Pensiero, 2004, pp. 79-81.
  48. ^ Giovanni Belardelli, Il fascismo nei manuali di storia dell'Italia repubblicana Archiviato il 22 settembre 2013 in Internet Archive., in La storia contemporanea tra scuola e università Archiviato il 23 settembre 2013 in Internet Archive., a cura di Giuseppe Bosco e Claudia Mantovani, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, 2002, dal sito della Società Italiana per lo Studio della Storia Contemporanea (SISSCO).
  49. ^ Carlo Dionisotti, La morte amara di Gentile, in Resistenza. Giustizia e Libertà, Torino, XVIII, 4, aprile 1964, p. 1, poi in Id., Scritti sul fascismo e sulla Resistenza, Torino, Einaudi, 2008, pp. 215-219: 217.
  50. ^ I giovani del ventennale di fronte alla Resistenza (PDF), in l'Unità, 3 maggio 1965, p. 4 (archiviato dall'url originale il 4 marzo 2016).
  51. ^ Pavone 1991, p 223.
  52. ^ Sul concetto azionista di guerra civile, cfr. Casalino 2001, p. 2.
  53. ^ Pavone 1991, p. 224.
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  57. ^ Canfora 1992, p. 81.
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  61. ^ Roberto Battaglia, Un uomo un partigiano, Roma-Firenze-Milano, Edizioni U, 1946, p. 236, cit. in Bermani 2003, p. 11.
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  65. ^ Articolo di Pietro Nenni pubblicato sull'Avanti! il 7 giugno 1944, cit. in Galli della Loggia, p. 51.
  66. ^ Sulla contrapposizione tra guerra civile e guerra di popolo, Pierfrancesco Manca, Guerra civile e guerra di popolo nel Biellese Archiviato il 27 ottobre 2007 in Internet Archive., in "l'impegno", a. XX, n. 3, dicembre 2000 e a. XXI, n. 1, aprile 2001, Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nelle province di Biella e Vercelli.
  67. ^ Roberto Battaglia, Resistenza e Risorgimento, Roma, Editori Riuniti, 1964, p. 375. Bermani 2003, p. 14, ne conclude che Battaglia può essere annoverato tra quegli storici che «hanno posto l'accento sulla lotta al fascismo e non sulla cacciata dell'invasore tedesco e sono stati quindi portati a valorizzare la categoria di "guerra civile"».
  68. ^ Mimmo Franzinelli, La Resistenza e le provocazioni del Sessantotto Archiviato il 28 febbraio 2018 in Internet Archive., "l'impegno", a. XXI, n. 2, agosto 2001, Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nelle province di Biella e Vercelli.
  69. ^ Bermani 2003, pp. 49-50.
  70. ^ Secchia 1973, pp. XL-XLI. A seguire, Secchia fa suo il sopracitato passaggio della relazione tenuta da Roberto Battaglia alla conferenza della FIR (Firenze 1959) in merito alla necessità di «insegnare ai giovani che la Resistenza fu anche lotta e guerra civile».
  71. ^ Due anni di lavoro per il MSI-Destra nazionale. Dal IX congresso novembre 1970 al X congresso gennaio 1973, Roma, Ufficio stampa e relazioni pubbliche del MSI, 1973, p. 60.
  72. ^ Giorgio Pisanò, Il vero volto della guerra civile. Documentario fotografico, Rusconi, 1961.
  73. ^ Giorgio Pisanò, Sangue chiama sangue, Milano, Pidola, 1962. Edizione di riferimento: Milano, CDL Edizioni, 1994.
  74. ^ Giorgio Pisanò, Storia della guerra civile in Italia (1943-1945), Milano, Edizioni FPE, 1965. Edizione di riferimento: Melegnano, Eco Edizioni, 1999.
  75. ^ Salvadori 2003, p. 217.
  76. ^ Bermani 2003, p. 49, secondo il quale: «La tesi, va da sé, non sta in piedi. Inizialmente furono infatti le atrocità dei tedeschi a suscitare la Resistenza, come risposta al terrore tedesco e come necessità politica di riscatto. Inoltre la rottura dell'attesismo – questo è ciò che Pisanò giudica guerra civile – non venne solo da parte comunista ma anche azionista».
  77. ^ Pisanò 1962, p. 15.
  78. ^ Pisanò 1965, vol. I, pp. 112 e 581-582.
  79. ^ Pisanò 1962, p. 45.
  80. ^ Giuseppe Parlato in Carlo Figari, Diecimila Sardi a Salò, un libro rompe il tabù, in L'Unione Sarda, 27 maggio 2009.
    «A sostenere che si trattò di una guerra civile per primo è stato Claudio Pavone nel 1992 [sic]: sino ad allora lo diceva solo Giorgio Pisanò che essendo un ex repubblichino non veniva neppure considerato. Se i fascisti erano incivili, si ironizzava, come si poteva parlare di guerra civile?»
  81. ^ Paolo Simoncelli, Viva la Resistenza (ripulita, però), in Avvenire, 10 novembre 2006.
  82. ^ Mario Cervi, Torniamo a dire qualcosa di destra, in il Giornale, 30 novembre 2008.
  83. ^ Cfr. Germinario 1999, pp. 65-73; 121-31.
  84. ^ Nicola Adduci, La storiografia sulla Repubblica sociale italiana: evoluzione e problemi aperti (1945-2008) (PDF), su http://www.istoreto.it, 2014. URL consultato il 25 giugno 2023.
  85. ^ Pavone 1991, p. 211.
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  90. ^ Milano-Roma, Della Volpe, 3 voll.
  91. ^ Pitamitz 1975.
  92. ^ Pitamitz 1975, quarta di copertina. L'antologia, recante in copertina una fotografia di un gruppo di partigiani armati che stanno entrando in una casa a Venezia alla ricerca di fascisti nell'aprile 1945, si apre con un'introduzione di cinque pagine di Antonio Pitamitz, consistente in un excursus sulla storia della Liberazione, la quale si conclude con il numero dei partigiani morti in combattimento e dei civili uccisi per rappresaglia nazifascista: cfr. Pitamitz 1975, pp. 5-9.
  93. ^ Pitamitz 1975, pp. 6-7.
  94. ^ Giorgio Bocca, La repubblica di Mussolini, Roma-Bari, Laterza, 1977, p. 97.
  95. ^ Dalla prefazione di Bocca all'edizione 1994, p. VII, cit. in Bermani 2003, p. 51.
  96. ^ Miller, p. 43: «… opened the door to a reinterpretation of the Resistance that eventually found powerful intellectual support».
  97. ^ Montanelli, Cervi 1983, p. 5: «Molti ci chiederanno come mai abbiamo intitolato questo volume L'Italia della guerra civile invece che L'Italia della Resistenza. È stata una scelta, cui ci siamo sentiti autorizzati dalla nostra partecipazione a quegli eventi».
  98. ^ Montanelli, Cervi 1983, p. 6 «[...] di quei sedici mesi di tregenda, la Resistenza fu uno degli episodi, ma non il solo, e di scarsissimo peso risolutivo sugli avvenimenti [...] Questo atteggiamento di distacco ci procurerà certamente molte critiche, ma noi crediamo che a quarant'anni di distanza sia tempo di fare Storia e di farla fuori dei miti e delle leggende».
  99. ^ Montanelli, Cervi 1983, p. 6: «In realtà il titolo avrebbe dovuto essere non l'Italia della, ma delle guerre civili, perché non una sola, ma molte se ne intrecciarono in quel periodo».
  100. ^ Mafai 1984, cap. I.
  101. ^ Claudio Pavone, Tre governi e due occupazioni [Relazione presentata al convegno su 'L'Italia nella seconda guerra mondiale e nella Resistenza', Milano, aprile 1985] (PDF), in Italia contemporanea, n. 160, aprile-giugno 1982, pp. 57-79: 72.
  102. ^ Il convegno si tenne il 4 e 5 ottobre 1985. Gli atti sono contenuti in Pier Paolo Poggio (a cura di), La Repubblica sociale italiana 1943-45, Brescia, Annali della Fondazione "Luigi Micheletti", n. 2, 1986. La relazione di Claudio Pavone, dal titolo La guerra civile, è alle pp. 395-415.
  103. ^ Bermani 2003, p. 52.
  104. ^ Intervento di Pajetta alle pp. 431-434 degli Atti, cit. in Bermani 2003, prefazione, pp. VIII-IX.
  105. ^ Renzo Rossotti, «Studiare Salò» serve a capire la Resistenza, in La Stampa, 7 ottobre 1985, p. 9..
  106. ^ Luigi Ganapini, Una città, la guerra. Lotte di classe, ideologie e forze politiche a Milano, 1939-1951, Milano, Franco Angeli, 1988, p. 292.
  107. ^ Gian Carlo Pajetta, intervista a cura di Fausto Ibba, L'Ottobre lontano e vicino, in l'Unità, 16 marzo 1988, p. 23.
  108. ^ Luciano Canfora, La guerra civile ateniese (PDF), Milano, Rizzoli, 2013, L'anno inesistente, nota.
  109. ^ Il convegno si è svolto nei giorni 27-29 ottobre 1988. Atti in Legnani-Vendramini. La relazione introduttiva di Claudio Pavone, dal titolo Le tre guerre; patriottica, civile e di classe, è alle pp. 25-36.
  110. ^ Bermani 2003, p. 53.
  111. ^ Emilio Sarzi Amadé, Guerra civile o Resistenza?, in l'Unità, 4 novembre 1988, p. 2.
  112. ^ Claudio Pavone, Resistenza o «guerra civile». Uso la seconda categoria e adesso vi spiego i motivi (PDF), in l'Unità, 9 novembre 1988, p. 2 (archiviato dall'url originale il 4 marzo 2016).
  113. ^ Citazione da una conferenza tenuta a Novara nel 1989 da Filippo Frassati, in Bermani 2003, p. 52, che definisce tale dichiarazione un «esempio impudico di "cultura del sospetto" di staliniana memoria».
  114. ^ Secondo Bertani 2003, p. 308, n. 41, nel solo mese di settembre sulla stampa nazionale presa in esame comparvero 1.321 articoli sull'argomento.
  115. ^ Luciano Casali, Questo attacco al cuore della repubblica, in l'Unità, 6 settembre 1990. Citato in Bertani 2003, p. 334.
  116. ^ Alberto Papuzzi, Resistenza, gli anni spietati, in La Stampa, 24 ottobre 1990, p. 15.
  117. ^ Norberto Bobbio, Quell'amicizia partigiana, in La Stampa, 1º novembre 1990, p. 17.
  118. ^ Alberto Cavallari, Quella guerra civile che non è mai scoppiata, in la Repubblica, 4 novembre 1990.
  119. ^ Ernesto Galli della Loggia, I padroni della memoria, in Corriere della Sera, 1º novembre 2003, p. 1.
  120. ^ Guido Crainz, Claudio Pavone e i tabù infranti, in la Repubblica, 15 dicembre 2010, p. 61.
  121. ^ Pavone 1991, premessa, p. XIX.
  122. ^ Giuseppe Rinaldi, La crisi del paradigma antifascista, in Costituzione e identità nazionale nel recente dibattito storiografico, "Quaderni di storia contemporanea" n. 25-26, Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea della provincia di Alessandria.
  123. ^ «[...] in Piemonte, come in altre parti d'Italia, la cosiddetta guerra di liberazione fu anche, e anzitutto, guerra civile. [...] Su questo punto non s'insisterà mai abbastanza. [...] La guerra civile del 1943-45 nell'Italia centro-settentrionale, con il suo inseparabile antefatto di persecuzione politica, di emarginazione e, nei tardi anni Trenta, di guerra di Spagna e di questione della razza, è diventata guerra tutta e soltanto di liberazione. In realtà fu guerra civile, senza quartiere, e per quell'antefatto anche guerra di religione, nuova nella storia d'Italia». Cfr. Carlo Dionisotti, Per un taccuino di Pavese, in Belfagor, gennaio 1991, pp. 1-10, poi in Id., Ricordi della scuola italiana, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1998, pp. 511-522: 514.
  124. ^ «Sono allibito, di fronte a dibattiti storiografici assolutamente risibili. Siamo alla scoperta dell'acqua calda: la Resistenza come guerra civile. Ma guarda tu! E perché, forse che nella Spagna del '36, gli italiani già non si sparavano gli uni contro gli altri? Forse che Rosselli non diceva già allora: oggi in Spagna, domani in Italia? Nel '44 difficile era far sparare contro i tedeschi. Ma contro i fascisti eran sempre tutti pronti. È sconcertante». Cfr. Carlo Dionisotti, intervista a cura di Franco Marcoaldi, Straccioni d'Italia, in la Repubblica, 19 febbraio 1994.
  125. ^ Discorso d'insediamento alla Presidenza della Camera dei deputati di Luciano Violante, 9 maggio 1996.
  126. ^ Messaggio del Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro per il 4 novembre Festa dell'Unità Nazionale, 4 novembre 1996, da www.quirinale.it.
  127. ^ Corrado Ruggeri, Scalfaro: ci fu eroismo da entrambe le parti, in Corriere della Sera, 4 novembre 1996, p. 4.
  128. ^ Rusconi 1995, p. 19.
  129. ^ Leo Valiani, La Resistenza fu guerra civile? Non poteva che essere così, in Corriere della Sera, 23 marzo 1995, p. 31.
  130. ^ Ad esempio nella prefazione di Giorgio Rochat al saggio di Guido Bersellini, Il riscatto. 8 settembre-25 aprile. Le tesi di Renzo De Felice, Salò, la Resistenza, l'identità della nazione, Milano, Franco Angeli, 1998, p. 15: «Il volumetto Rosso e nero di Renzo De Felice rappresenta il culmine di questa operazione politica: un totale rifiuto della produzione storiografica sull'Italia 1943-1945 (ignorata e respinta in blocco con l'etichetta ingiuriosa di "vulgata antifascista") in modo da lasciare via libera alle più vecchie e becere accuse alla Resistenza e al recupero del nazifascismo, sotto la copertura della supposta "autorità scientifica" dell'autore».
  131. ^ Mussolini l'alleato. II. La guerra civile, "quarta di copertina", Einaudi tascabili, 1998
  132. ^ a b Arrigo Petacco, La nostra guerra 1940-1945, l'avventura bellica tra bugie e verità nel capitolo "Verso la guerra civile", edizioni Oscar storia Mondadori, 1996, pag. 217
  133. ^ Cfr. anche la recensione di Nicola Tranfaglia su L'Indice, nº 5, 1996.
  134. ^ Bermani 2003, note del retro copertina.
  135. ^ Intervista di Pietrangelo Buttafuoco a Norberto Bobbio, in Il Foglio, 12 novembre 1999.
  136. ^ Simonetta Fiori, Salò, una storia italiana, in la Repubblica, 8 febbraio 1999, p. 25.
  137. ^ Lepre 1999, pp. 4 e ss.: «Nel dopoguerra [...] era considerato gravissimo ogni accenno alla guerra civile, una definizione alla quale, invece, si era fatto ricorso, senza alcun problema, durante la lotta partigiana. Se ne tornò a parlare solo dopo la pubblicazione di alcuni saggi e di un libro di Claudio Pavone. Data la sua posizione politica e scientifica Pavone non offriva nessun appiglio alle accuse di "revisionismo"».
  138. ^ Lepre 1999, p. 5.
  139. ^ Lepre 1999, p. 5: «Dal 1943 al 1945 era stata combattuta veramente una guerra civile. La linea di separazione tra i due schieramenti che si combattevano era passata talvolta all'interno delle stesse famiglie».
  140. ^ Oliva, pp. 51-54: "Il 1943-45 è innanzitutto una stagione di guerra patriottica contro il nemico occupante.... In secondo luogo, il 1943-45 è una guerra di classe, espressione più corretta di quella tradizionale di "lotta di classe" perché lo scontro sociale si intreccia alla guerra... In terzo luogo è una lunga e feroce guerra civile..."
  141. ^ Oliva, p. 53: "da parte resistenziale, essa è stata rifiutata perché presunto argomento di legittimazione del fascismo di Salò".
  142. ^ Oliva, p. 53: "i reduci della Rsi l'hanno strumentalizzata per distrarre il giudizio storico dalle ragioni ideali del conflitto dirottandolo sul terreno della lotta in sé e per sé, e per stabilire in questo modo un'equiparazione morale tra contendenti".
  143. ^ Oliva, p. 58.
  144. ^ Oliva, p. 58: "Entro questo schema, lo scontro tra fascismo e antifascismo rappresenta il cuore stesso degli eventi che caratterizzano il periodo, la ragione ideale per la quale si combatte: il che, al di là di qualsiasi strumentalizzazione di parte, rinvia necessariamente alla categoria interpretativa della guerra civile, la più idonea sul piano scientifico ad offrire una chiave di lettura generale degli avvenimenti".
  145. ^ Roberto Vivarelli, La fine di una stagione. Memoria 1943-1945, Bologna, il Mulino, 2000, ISBN 88-15-07813-4..
  146. ^ Recensione del libro Archiviato il 28 dicembre 2004 in Internet Archive. sul sito della casa editrice il Mulino (www.mulino.it).
  147. ^ Vivarelli, p. 111.
  148. ^ Paolo Mieli, Il fascista con i calzoni corti, in La Stampa, 5 novembre 2000, p. 19.
  149. ^ Tra questi, nell'ordine, Dario Fertilio, Salò. Così finisce la stagione della reticenza, in Corriere della Sera, 6 novembre 2000, p. 21. Mario Pirani, Che cosa nasconde la nostalgia di Salò, in la Repubblica, 7 novembre 2000, p. 1. Nicola Tranfaglia, Da almeno trent'anni storici e testimoni raccontano quell'esperienza, in la Repubblica, 7 novembre 2000, p. 52. Giovanni Belardelli, La Resistenza, Salò e i ragazzi del '44: chi ne parla rischia ancora la scomunica, in Corriere della Sera, 8 novembre 2000, p. 33. Per una sintesi della vicenda, Antonio Carioti, Antifascista, ma ex «ragazzo di Salò», in Corriere della Sera, 11 maggio 2005, p. 35.
  150. ^ ' Claudio Pavone, La corta memoria dei ragazzi di Salò, in La Stampa, 27 dicembre 2000, p. 19. Nell'occhiello dell'articolo Roberto Vivarelli è confuso con il fratello Piero, anch'egli milite della RSI in gioventù.
  151. ^ Bruno Bongiovanni, Bravo Pansa! Ma prima di Pansa..., in l'Unità, 26 ottobre 2003, p. 25 (archiviato dall'url originale il 7 luglio 2012).
  152. ^ Cfr. ad esempio, Miriam Mafai (citata nel comunicato ASCA del 27 ottobre 2008: "Miriam Mafai... ha sottolineato come rimanga la sostanza vera del film, ovvero che gli italiani si sono scannati tra loro in una guerra civile che non ha conosciuto pietà. La colpa della sinistra è stata di non riconoscere che era altro, oltre una guerra di liberazione". Cinema Roma: "Il Sangue Dei Vinti" accende le polemiche su Guerra Civile, su it.notizie.yahoo.com. URL consultato il 30 novembre 2008.; Il segretario del PRC Paolo Ferrero, Però rimane una porcheria revisionista Archiviato il 26 maggio 2009 in Internet Archive., in La Stampa, 27 ottobre 2008: «trasformare quella che è stata anche una guerra civile in una guerra di liberazione, cioè di tutti, fu un'operazione politica condotta dal Pci proprio per far sì che chiunque, magari anche chi era stato fascista, potesse reinventarsi nella democrazia. Senza quell'operazione allora sì che la guerra civile sarebbe durata all'infinito, e i morti sarebbero stati molti di più».
  153. ^ Intervento del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in occasione della celebrazione della Festa della Liberazione, Genova, 25 aprile 2008, da www.quirinale.it.
  154. ^ Giovanni De Luna, Il coraggio di dire guerra civile, in La Stampa, 26 aprile 2008, p. 5.
  155. ^ a b Victoria Belco, Capitolo II, in War, massacre, and recovery in Central Italy, 1943-1948, Toronto, University of Toronto Press, 2010, p. 78, ISBN 978-0-8020-9314-1.
    ««Yes, there was a civil war in Italy between 1943 and 1945, at least in the parts of Italy where Republican Fascists and partisans operated, and where resistance (the Resistance) against the 'Nazi-Fascists' and against German occupation was carried out. […]In Arezzo, as in the rest of central and northern Italy, there were Republican Fascists and there were partisans, and there were partisans, but the two sides were relatively small compared to the population overall, and they very rarely, if ever, engaged in actual fighting only against one another. […] Without German occupation, there would have been no civil war in Italy.»»
  156. ^ Autore di Diario 1944, diario di memorie di guerra raccolte dal sacerdote in provincia di Arezzo.
  157. ^ Nick Carter, Italian politics from the fall of Mussolini and the rise of Berlusconi, in Modern Italy in Historical Perspective, Bloomsbury Academic, 2010, pp. 168, 179, 180, 185, ISBN 978-1-84966-029-7.
  158. ^ Carter, p. 168.
  159. ^ Carter, p. 179.
  160. ^ Carter, p. 180.
  161. ^ Carter, pp. 185-186.
  162. ^ Cfr. sul punto S.Luzzatto, "La crisi dell'antifascismo", Einaudi, Torino 2004
  163. ^ Paolo Mieli, I compagni dimenticati del partigiano Primo Levi, Corriere della Sera, 16 aprile 2013
  164. ^ S.Luzzatto, Partigia. Una Storia della Resistenza, Mondadori, Milano 2013, retro di copertina
  165. ^ S.Luzzatto, Partigia. Una Storia della Resistenza, Mondadori, Milano 2013, pag. 14
  166. ^ S.Luzzatto, Partigia. Una Storia della Resistenza, Mondadori, Milano 2013, pag. 152
  167. ^ Primo Levi e l'”ossessione” di Sergio Luzzatto, da blog di Gad Lerner]
  168. ^ Paolo Bernardi, La Resistenza[collegamento interrotto], Enciclopedia Treccani on-line, 16 marzo 2011.
  169. ^ Tra i testi scolastici e i manuali riassuntivi universitari si sono occupati della guerra civile: Giovanni Sabbatucci, Vittorio Vidotto, Il mondo contemporaneo - dal 1848 ad oggi, Laterza; I ed. 2004, V ed. 2006: «La principale funzione effettivamente svolta dal governo di Salò fu quella di reprimere e combattere il movimento partigiano che stava nascendo nell'Italia occupata per opporsi ai tedeschi. Le regioni del centro-nord diventavano così teatro di una guerra civile tra italiani, che si sovrapponeva a quella combattuta dagli eserciti stranieri»; Roberto Vivarelli, Profilo di Storia Contemporanea, La Nuova Italia, 1999-2001, pp. 383 e 425 e ss. Inoltre, in Massimo Bontempelli, La Resistenza Italiana, p. 51, l'autore scrive: «la guerra di liberazione contro il tedesco è anche guerra civile fra italiani».
  170. ^ Acciai 2011.
    «Oggi, fortunatamente, si è universalmente accettato di categorizzare quanto accadde in alcune zone d'Italia durante il biennio '43-'45 anche come una guerra civile.»
  171. ^ "Guerra civile", Enciclopedia Treccani on-line; Luigi Bonanate, "Guerra civile", Enciclopedia dei ragazzi, 2005.
  172. ^ Andrea Paracchini, Rappresentazioni sociali della Resistenza (PDF), in l'impegno, anno XXVI, nuova serie, n. 2, Varallo, Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nelle province di Biella e Vercelli “Cino Moscatelli”, dicembre 2007, pp. 71-90. URL consultato il 15 aprile 2023.
  173. ^ Eva Cecchinato, I percorsi della memoria. Racconti e ricordi della Resistenza, in Memoria resistente. La lotta partigiana a Venezia e provincia nel ricordo dei protagonisti, a cura di Giulia Albanese e Marco Borghi, Istituto veneziano per la storia della Resistenza, Nuova Dimensione Edizioni, 2005, p. 46: «L'ipersensibilità alla categoria "guerra civile" – rifiutata o accettata a fatica, con mille distinguo, magari a patto di chiamarla in altro modo – sembra essere una reazione dettata dalla coscienza delle potenziali implicazioni revisionistiche del concetto. Ciò significa che l'idea della guerra civile, nell'orizzonte mentale degli ex resistenti, rimane associata all'uso strumentale che per anni ne fecero i settori neofascisti, piuttosto che al punto di vista storico recentemente proposto da Claudio Pavone».
  174. ^ Furio Colombo, E la chiamano guerra civile (PDF), in l'Unità, 25 aprile 2002, p. 1 (archiviato dall'url originale il 4 marzo 2016).
  175. ^ Intervista a Giovanni Pesce Archiviato il 5 dicembre 2008 in Internet Archive. per ecomancina.com: «C'è oggi nel Paese un tentativo di sottovalutare o addirittura cancellare quella che è stata la lotta di liberazione. È assurdo, è contro la storia parlare di "guerra civile"! La nostra è stata una lotta aspra e difficile anche contro una piccola parte di italiani che si schierò con i nazisti. [...] alcuni vogliono oggi dipingere quella lotta come finalizzata a fare emergere in seguito il predominio di un partito o di una certa idea politica: questo è falso! All'interno della lotta partigiana ognuno aveva le proprie idee, il proprio modo di pensare, ma tutta l'azione rispondeva ad una coscienza comune: liberare il Paese».

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

Atti di convegni
  • La Repubblica sociale italiana 1943-45 (Atti del convegno, Brescia 4-5 ottobre 1985), Annali della Fondazione "Luigi Micheletti", n. 2, Brescia, 1986.
  • Guerra, guerra di liberazione, guerra civile, Massimo Legnani e Ferruccio Vendramini, Milano, Franco Angeli, 1990. Contributi di A. Benedotti, C. Bermani, A. Bistarelli, B. Bocchini Camaiani, D. Borioli, R. Botta, F. Cereja, P. Corsini, M. Di Giovanni, M. Isnenghi, L. Klinkhammer, M. Magri, I. Muraca, G. Paladini, M. Palla, A. Parisella, C. Pavone, P. P. Poggio, G. Quazza, E. Sarzi Amadé, S. Tramontin, G. Vaccarino.

Voci correlate[modifica | modifica wikitesto]

Collegamenti esterni[modifica | modifica wikitesto]