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Storia della decadenza e caduta dell'Impero romano

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Storia della decadenza e caduta dell'Impero romano
Titolo originaleThe History of the Decline and Fall of the Roman Empire
Altri titoliDecadenza e caduta dell'Impero Romano
Edward Gibbon (1737–1794)
AutoreEdward Gibbon
1ª ed. originale1776-1789
1ª ed. italiana1779-1796
Generesaggio storiografico
Lingua originaleinglese

Storia della decadenza e caduta dell'Impero romano (titolo originale The History of the Decline and Fall of the Roman Empire) è un'opera storica in sei volumi scritta dallo storico inglese Edward Gibbon. Traccia le tappe della civilizzazione dell'Occidente – raccontando pure le conquiste islamiche e mongole – dall'apogeo dell'Impero romano alla conquista di Costantinopoli da parte di Maometto II. Il primo volume fu pubblicato nel 1776, e poi ristampato altre sei volte. I volumi II e III vennero dati alle stampe nel 1781; i volumi IV, V e VI tra il 1788 e 1789. Dato l'uso di fonti primarie, insolito per l'epoca, la metodologia adottata divenne un modello per gli storici, meritando a Gibbon la definizione di «primo storico moderno dell'antica Roma». Il testo è considerato una splendida opera letteraria, un'introduzione molto leggibile al periodo trattato, anche se i progressi compiuti nell'archeologia e nella documentazione storica rendono talune interpretazioni esposte oramai superate e non più conoscenze accademiche accettate, come avvenne fino al XX secolo.

L'opera copre la storia dell'Impero romano da Traiano, dal 98 al 1453, concludendosi nel 1590. Egli prese come materiale per il suo lavoro i comportamenti e le decisioni che portarono prima alla lunga decadenza e poi alla caduta dell'Impero romano: Impero bizantino e Impero romano d'Occidente, esponendo una spiegazione circa i motivi della sua caduta. Il suo pessimismo ed il distaccato uso dell'ironia è comune al genere storico di questo periodo.

Nonostante abbia scritto anche altre opere, Gibbon dedicò gran parte della sua vita (1772-1789) a questo suo lavoro. La sua autobiografia Memoirs of My Life and Writings è dedicata per gran parte alle sue riflessioni su come il libro sia virtualmente divenuto la sua stessa vita. Egli paragonò la pubblicazione di ogni volume alla nascita di un nuovo figlio.[1]

Gibbon lavorava in questo modo: «modellare di getto un intero paragrafo, ripeterlo a alta voce, depositarlo nella memoria, ma sospendere l'azione della penna fin tanto che non avessi dato l'ultima rifinitura al lavoro». Gibbon stesso notò una certa differenza di stile tra i vari volumi che compongono la sua opera: il primo volume era secondo lui «un po' aspro e elaborato», il secondo e il terzo «maturati in naturalezza e precisione», mentre negli ultimi tre, composti per lo più in Svizzera (a Losanna), temeva che «l'uso costante di parlare in una lingua e scrivere in un'altra abbia infuso una certa mescolanza di gallici idiomi.»

Nella prefazione dell'opera Gibbon afferma che «in tre periodi possono dividersi le memorabili rivoluzioni, che nel corso di circa tredici secoli, hanno urtato l'edifizio della romana grandezza e infine lo hanno gettato a terra»:

«I. Il secolo di Traiano e degli Antonini fu l'epoca nella quale la monarchia romana in tutto il suo vigore e giunta all'apice della grandezza cominciò a pendere verso la sua rovina. Quindi il primo periodo cominciando dal regno di questi principi si estende fino alla distruzione dell'impero d'Occidente operata dalle armi de' Germani e degli Sciti, popoli barbari e feroci i di cui discendenti formano in oggi le più ingentilite nazioni dell'Europa. Una tale straordinaria rivoluzione, per cui Roma fu assoggettata alla potenza de' Goti ebbe il suo compimento ne' primi anni del sesto secolo.

II. Il secondo periodo comincia col regno di Giustiniano il quale con le sue leggi e le sue vittorie restituì all'impero d'Oriente l'antico suo splendore. Questo periodo abbraccia la invasione dei Longobardi in Italia; la conquista dell'Asia e dell'Africa fatta dagli Arabi che abbracciata avevano la religione di Maometto; la ribellione del popolo romano contro i deboli sovrani di Costantinopoli e la elevazione di Carlo Magno, che nell'anno 800 fondò un nuovo Impero.

III. L'ultimo e il più lungo di questi periodi contiene quasi sei secoli e mezzo, vale a dire cominciando dal rinnovamento dell'impero in Occidente fino alla presa di Costantinopoli fatta dai Turchi, ed alla estinzione della stirpe di quei principi avviliti che si adornavano dei vani titoli di Cesare e di Augusto nel tempo stesso in cui il loro potere era circoscritto fra le mura di una sola città, dove non conservavano neppur un'ombra del linguaggio e dei costumi degli antichi romani. Le crociate fanno parte degli avvenimenti di questo periodo poiché hanno anch'esse contribuito alla rovina dell'impero bizantino. Allorché si vuol parlare di queste guerre sacre non è possibile non fare alcune ricerche sullo stato in cui Roma si è trovata in mezzo alle tenebre ed alla confusione de' secoli bassi.»

Gibbon nella prefazione aggiunge che non è sicuro di completare un così «immenso piano» che «ergerebbe molti anni di salute, di ozio, e di costanza» e che molto probabilmente si sarebbe fermato al primo periodo; alla fine però decise di proseguire l'opera narrando, non molto approfonditamente a dire il vero, la millenaria storia dell'Impero romano d'Oriente (o bizantino).

Capitoli 1-14

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I primi tre capitoli dell'opera sono dedicati allo Stato e alla costituzione dell'Impero nei primi due secoli, mentre il quarto capitolo è dedicato a Commodo e all'inizio della crisi. I successivi capitoli sono dedicati ai vari Imperatori del III secolo (Valeriano, Gallieno, Aureliano, Claudio il Gotico, Diocleziano ecc.) e il modo in cui avevano rallentato o accelerato la crisi dell'Impero. Due capitoli sono dedicati anche alla Persia e alla Germania e i popoli bellicosi che vi abitavano.

Capitoli 15-16: l'opinione di Gibbon sul Cristianesimo

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Nei Capitoli 15 e 16 dell'opera originale il Gibbon si dilunga sulle origini e sulla diffusione del Cristianesimo, e parla anche delle persecuzioni. A causa del forte anticlericalismo che pervade tali pagine, questi capitoli vennero fortemente criticati. In una lettera scritta alla matrigna verso la fine del 1776, paragonava le critiche a tali capitoli a «un cannoneggiamento tanto violento quale quello che potrebbe venir raccolto contro Washington». In risposta a tali critiche, Gibbon pubblicò, in risposta a un libello di H.E. Davis, un'opera A vindication of some passages in the fifteenth and sixteenth chapters (Difesa di alcuni brani dei capitoli XV e XVI), dopodiché rimase in silenzio. Nella sua biografia scrive che sarebbe stato tentato di attenuare questi due capitoli se solo avesse previsto il loro effetto sui «pii, sugli incerti e sui prudenti».

Alcuni curatori di Gibbon erano di fede cattolica e provarono a censurare l'opera. Thomas Bowdler nella sua edizione del Declino e caduta tagliò dall'opera originale tutte le parti anticlericali e per questo motivo venne coniata una nuova parola ispirandosi al cognome del censore, Bowdolirized (espurgato). Un altro curatore, il Decano Millman, definì l'opera un attacco sfrontato e in malafede al Cristianesimo, mentre il vittoriano Birbeck Hill rimase colpito dalla «indecenza della sua scrittura» e dalla sua «fredda e erudita oscenità».

Capitolo 38: Osservazioni generali sulla caduta dell'Impero romano in Occidente

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Nel Capitolo 38, in un paragrafo chiamato Osservazioni generali sulla caduta dell'Impero romano in Occidente, il Gibbon elenca una serie di cause che portarono al declino e alla caduta dell'Impero romano d'Occidente:

«... la decadenza di Roma fu conseguenza naturale della sua grandezza. La prosperità portò a maturazione il principio della decadenza... Invece di chiederci perché fu distrutto, dovremmo sorprenderci che abbia retto tanto a lungo. Le legioni vittoriose, che in guerre lontane avevano appreso i vizi degli stranieri e dei mercenari, ... il vigore del governo militare fu indebolito e alla fine abbattuto dalle istituzioni parziali di Costantino, e il mondo romano fu sommerso da un'ondata di barbari. Spesso la decadenza di Roma è stata attribuita al trasferimento della sede dell'Impero [...]. Tale pericolosa novità ridusse la forza e fomentò i vizi di un duplice regno... Sotto i regni successivi l'alleanza tra i due imperi fu ristabilita, ma l'aiuto dei Romani d'Oriente era tardivo, lento e inefficace [...].»

Ma da discepolo fedele di Voltaire, identificava nel Cristianesimo la causa prima della crisi dell'Impero:

«...l'introduzione, o quanto meno l'abuso, del cristianesimo ebbe una certa influenza sulla decadenza e caduta dell'Impero romano. Il clero predicava con successo la pazienza e la pusillanimità. Venivano scoraggiate le virtù attive della società, e gli ultimi resti di spirito militare finirono sepolti nel chiostro. [...] la Chiesa e persino lo stato furono sconvolti dalle fazioni religiose [...]; il mondo romano fu oppresso da una nuova specie di tirannia, e le sette perseguitate divennero i nemici segreti del paese. ... Se la decadenza dell'Impero romano fu affrettata dalla conversione di Costantino, la sua religione vittoriosa attenuò la violenza della caduta e addolcì l'indole crudele dei conquistatori»

A parte l'evidente spirito anticlericale illuministico che ispirava l'analisi di Gibbon bisogna tuttavia riconoscerne l'attualità se anche Momigliano (1959) concordava nell'evidenziare come il trionfo del Cristianesimo avesse notevolmente influito sulle istituzioni della società pagana.

Capitolo 48: Invettiva contro i Bizantini e piano degli ultimi due volumi dell'opera

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All'inizio del capitolo 48, dedicato agli Imperatori bizantini dal 641 al 1204, Gibbon lancia un'invettiva contro i bizantini:

«[...] Questi annali devono continuare a ripetere una tediosa e uniforme storia di debolezza e miseria [...]. Dal tempo di Eraclio, [...] i confini dell'impero, che erano stati definiti dalle leggi di Giustiniano e dalle armi di Belisario, recedono su tutti i fronti [...]; il nome romano [...] è ridotto a un ristretto angolo dell'Europa, ai solitari sobborghi di Costantinopoli; e il fato dell'Impero Greco è stato comparato a quello del Reno, che si perde nelle sabbie, prima che le sue acque possano mescolarsi con l'oceano. [...] E la perdita di splendore esterno non è compensata dalle qualità più nobili della virtù e del genio. I sudditi dell’Impero Bizantino, che assumono e disonorano i nomi sia dei Greci che dei Romani, presentano una uniformità di vizii abietti, che non vengono nemmeno ammorbiditi dalla debolezza dell’umanità, o animati dal vigore di crimini memorabili. [...] Gli uomini liberi dell’antichità potrebbero ripetere con generoso entusiasmo la frase di Omero, “che nel primo giorno di servitù, il prigioniero è privato di metà della sua virtù di uomo”, Ma il poeta aveva solo visto gli effetti della schiavitù civile o domestica, e non poteva predire che la seconda metà dell’umanità deve essere annichilita dal despotismo spirituale che limita non solo le azioni, ma anche i pensieri, del fedele prostrante.»

Questo giudizio negativo sui Bizantini è stato condannato dal Bury, che lo considera «uno dei [giudizi] più falsi e di maggior effetto mai espressi da uno storico attento».

Nonostante l'evidente disprezzo per i Bizantini, lo storico decide di non abbandonare (nonostante ne fosse tentato) «gli schiavi Greci e i loro storici servili», in quanto «il fato della monarchia Bizantina è passivamente connesso con le più splendide e importanti rivoluzioni che hanno cambiato lo stato del mondo». Infatti le province perdute dai Greci vennero occupate da nuovi regni e, secondo lo storico inglese, «è nelle loro origini e conquiste, nella loro religione e governo, che dobbiamo esplorare le cause e gli effetti del declino e caduta dell'Impero d'Oriente». Dunque nei capitoli successivi il Gibbon analizzerà le nazioni nemiche dell'Impero d'Oriente, descrivendo usi e costumi di tali popoli, i loro rapporti con Bisanzio, come lo sviluppo di tali nazioni incise sulla decadenza e rovina dell'Impero d'Oriente. Lo storico rassicura i lettori che:

«Non sarà questo proposito o l’abbondanza e la varietà di questi materiali incompatibile con l’unità della composizione. Come, nelle loro preghiere quotidiane, il Mussulmano di Fez o Delhi ancora rivolge la sua faccia verso il tempio di Mecca, l’ occhio dello storico sarà sempre fissato sulla città di Costantinopoli. L’excursus abbraccerà le zone sperdute dell’Arabia e della Tartaria, ma il cerchio alla fine verrà ridotto ai confini restringenti della monarchia romana.»

Ecco le nazioni trattate dal Gibbon negli ultimi due volumi dell'Opera:

  1. I Franchi: Carlo Magno e il Sacro Romano Impero (capitolo 49)
  2. Gli Arabi: Maometto (cap. 50), Conquiste (cap. 51) e declino (cap. 52) dell'Impero islamico.
  3. I Bulgari, Ungari e Russi (cap. 55)
  4. I Normanni (cap. 56)
  5. I Turchi Selgiuchidi (cap. 57)
  6. I Crociati (cap. 58, 59, 60)
  7. I Mongoli di Gengis Khan (cap. 65)
  8. I Turchi Ottomani

I Capitoli 53 e 54 sono dedicati interamente all'Impero bizantino: nel primo di questi vengono trattate le condizioni dell'Impero nel X secolo, descrivendo l'organizzazione delle province, dell'esercito, le cariche politiche ecc. Il Cap. 54 viene invece dedicato all'eresia dei Pauliciani. Il Cap. 61 viene dedicato all'Impero latino, cioè l'Impero fondato dai Crociati dopo la loro conquista di Costantinopoli nel 1204. Il Cap. 62 viene dedicato alla riconquista greca di Costantinopoli e la rifondazione dell'Impero d'Oriente sotto la Dinastia dei Paleologhi. I capitoli dal 62 al 68 descrivono gli ultimi due secoli di vita dell'Impero, ridotto praticamente alla capitale; il capitolo 68 descrive la caduta di Costantinopoli del 1453 a opera degli Ottomani e la caduta dell'Impero romano in Oriente.

Conclusione dell'Opera

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Gli ultimi tre capitoli sono dedicati allo Stato di Roma alla fine del Medioevo: le sue rovine e l'inizio della ricostruzione. Alla fine del Capitolo 71 scrive la conclusione di tutta l'opera:

«L'attenzione di questi pellegrini, così come di ogni lettore, sarà richiamata da una Storia del declino e della caduta dell'Impero romano, la scena forse più grandiosa e più tremenda della storia dell'umanità. Le varie cause e gli effetti progressivi sono connessi con molti avvenimenti tra i più interessanti degli annali umani: la politica scaltra dei Cesari, che conservarono a lungo il nome e l'immagine di una repubblica libera, i disordini del dispotismo militare, l'ascesa, l'instaurazione e le sette del Cristianesimo, la fondazione di Costantinopoli, la divisione della monarchia, l'invasione e gli insediamenti dei barbari della Germania e della Scizia, le istituzioni del diritto civile, il carattere e la religione di Maometto, il potere temporale dei Papi, la restaurazione e la decadenza dell'Impero d'Occidente di Carlo Magno, le Crociate dei Latini in Oriente, le conquiste dei Saraceni e dei Turchi, la caduta dell'Impero greco, lo stato e le rivoluzioni di Roma nel medioevo. Lo storico applaude all'importanza e alla varietà del suo tema, ma, pur essendo consapevole delle proprie imperfezioni, è costretto spesso a accusare l'insufficienza del materiale. Tra le rovine del Campidoglio ebbi per la prima volta l'idea di un'opera che ha occupato e preoccupato quasi vent'anni della mia vita e che, per quanto inadeguata ai miei desideri, affido finalmente alla curiosità e all'imparzialità del pubblico.
Losanna, 27 giugno 1787.»

La teoria di Gibbon

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Gibbon offre una spiegazione per la caduta dell'Impero romano, un compito difficile dovuto alla carenza di fonti scritte, sebbene egli non fosse l'unico storico a trattare il soggetto.[2] La maggior parte dei suoi spunti furono tratti dai pochi documenti disponibili: quelli dei pochi studiosi romani del IV e V secolo.

Secondo Gibbon, l'Impero romano cadde sotto le invasioni barbariche a causa della perdita di senso civico da parte dei suoi sudditi.[3] Essi erano divenuti deboli, cedendo il compito di difendere i confini dell'impero a barbari mercenari che divennero così numerosi ed integrati nel tessuto della società da esser capaci di distruggere l'impero. Egli pensava che i romani fossero divenuti effeminati, incapaci di una vita virile da veri soldati. In altri termini Gibbon sostenne che il cristianesimo creò la certezza che una migliore vita sarebbe esistita dopo la morte e che questa idea portò i cittadini romani ad una indifferenza circa la vita terrena, che indebolì il loro desiderio di sacrificarsi per l'Impero. Egli credette anche che il pacifismo, così radicato nella nuova religione, contribuì a smorzare il tradizionale spirito marziale romano. Per ultimo, così come gli altri pensatori illuministi, Gibbon ebbe in disprezzo il medioevo così come il clero dei presunti secoli bui. Fu soltanto nella sua era, l'età della ragione e del pensiero razionale, che si pensò, a suo dire, che la storia umana potesse riprendere il suo progresso.

  1. ^ Patricia B. Craddock, Edward Gibbon, Luminous Historian. (Baltimore: Johns Hopkins University Press, 1989), 249-266.
  2. ^ Vedere ad esempio le tesi di Henri Pirenne (1862-1935) pubblicate nei primi anni del XX secolo. Per le fonti più recenti, Gibbon certamente attinse al breve lavoro di Montesquieu, Considérations sur les causes de la grandeur des Romains et de leur décadence, e dal precedente lavoro pubblicato da Bossuet (1627-1704) in Histoire universelle à Monseigneur le dauphin (1763). vedi Pocock, EEG. per Bousset, pp. 65, 145; per Montesquieu, pp. 85-88, 114, 223.
  3. ^ J.G.A. Pocock, «Between Machiavelli and Hume: Gibbon as Civic Humanist and Philosophical Historian», Daedulus 105,3(1976), 153-169; e in Bibliografia: Pocock, EEG, 303-304; FDF, 304-306.
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  • Cosgrove, Peter. Impartial Stranger: History and Intertextuality in Gibbon's Decline and Fall of the Roman Empire (Newark: Associated University Presses, 1999); ISBN 0-87413-658-X.
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  • Wootton, David. "Narrative, Irony, and Faith in Gibbon's Decline and Fall," History and Theory 33,4 (Dec., 1994), 77–105.

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