Censura fascista: differenze tra le versioni

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La censura fascista in Italia consisté in un'attività di censura e di controllo sistematico della comunicazione e, in particolare, della libertà di espressione, di pensiero, di parola, di stampa e nella repressione della libertà di associazione, di assemblea, di religione avutasi soprattutto durante il ventennio fascista (1922-1943).

La censura in Italia non terminò del tutto con la fine del regime fascista, anche se i governi democratici della Repubblica Italiana, pur sussistendo alcune disposizioni del codice Rocco, si dichiararono esplicitamente a favore della libertà d'espressione come sancito dall'articolo 21 dalla costituzione della Repubblica Italiana.

Contesto storico

Foto vietata che ritrae, in una parata al Foro Italico di Roma, Benito Mussolini, la figlia Edda Ciano e altri gerarchi bagnati da un'innaffiatrice.

Precedenti limitazioni di alcune delle libertà civili erano presenti in realtà anche nella politica culturale sabauda[1] prima dell'unità d'Italia e nel periodo antecedente l'avvento del fascismo.

L'intervento repressivo e autoritario, sporadico nel 1923, aumenta nel 1924 e conosce una svolta a partire dal 1925, quando inizia a prendere forma lo stato dittatoriale che reprimerà ogni forma di libertà d'espressione. Durante il ventennio fascista la polizia politica esercita uno stretto controllo sulle vite dei cittadini.[2]

Caratteristiche e scopi

La censura si proponeva il controllo:

  • dell'immagine pubblica del regime, ottenuto anche con la cancellazione immediata di qualsiasi contenuto che potesse suscitare opposizione, sospetto, o dubbi sul fascismo;
  • dell'opinione pubblica come strumento di misurazione del consenso;
  • dei singoli cittadini ritenuti sospetti dal governo con la creazione di archivi nazionali e locali (schedatura) nei quali ognuno veniva catalogato e classificato a seconda delle idee, delle abitudini, delle relazioni d'amicizia, dei comportamenti sessuali e delle eventuali situazioni e atti percepiti come riprovevoli.

La censura fascista aggiunse ai temi che già in epoca liberale venivano tenuti sotto sorveglianza, come la morale, la magistratura, la casa reale e le forze armate, una quantità di argomenti che variavano a seconda dell'evolversi dell'ideologia fascista e dei suoi atti politici. In particolare veniva censurato ogni contenuto ideologico alieno al fascismo o considerato disfattista dell'immagine nazionale, ed ogni altro tema culturale considerato disturbante il modello stabilito dal regime.

In questo modo fu dapprima tagliata dalle forbici del censore quanto riguardava ogni considerazione ritenuta lesiva del regime a proposito del Duce, della guerra, della patria, del sentimento nazionale e, in seguito, ogni accenno ritenuto negativo nei confronti della maternità, della battaglia demografica, dell'autarchia ecc. In modo particolare la censura fascista era attenta ed occhiuta quando nelle produzioni e visione degli spettacoli si rintracciava una qualche considerazione celebrante l'individualismo che mettesse in discussione la supremazia dello Stato, principio supremo della ideologia fascista.[3]

La censura sulla stampa

«Il giornalismo italiano è libero perché serve soltanto una causa e un regime: è libero perché, nell'ambito delle leggi del regime, può esercitare, e le esercita, funzioni di controllo, di critica, di propulsione.[4]»

Mussolini saluta il re Vittorio Emanuele III, ma l'inchino e la stretta di mano erano vietati dal regime: la foto fu censurata.

L'8 novembre 1925 veniva sospesa la distribuzione de L'Unità e dell'organo del Partito Socialista Italiano Avanti!, che aveva già subito un assalto dei fascisti a Milano il 15 aprile 1919.

In data 31 dicembre 1925 entrò in vigore la legge n. 2307 sulla stampa che disponeva che i giornali potessero essere diretti, scritti e stampati solo se avessero avuto un responsabile riconosciuto dal prefetto, vale a dire dal governo. Quelli privi del riconoscimento prefettizio venivano considerati illegali. Il regime aumentò il suo controllo anche con l'esercizio di intimidazioni e pressioni indirette, come avvenne quando nel 1925 Luigi Albertini, in occasione degli articoli riguardanti il delitto Matteotti, fu costretto a dimettersi dalla direzione del Corriere della Sera e a lasciare la società editrice, che passò sotto la proprietà dei Crespi.

Nell'ottobre del 1926 il fallito attentato a Mussolini a Bologna diede al regime il pretesto per sopprimere l'Avanti! (organo del PSI) e il quotidiano indipendente Il Mondo di Roma. Fu temporaneamente chiusa anche L'Ora di Palermo fino alla fine dello stesso anno. Con l'approvazione del R.D. 26 febbraio 1928, n. 384 si crearono i presupposti per il controllo totale della stampa con lo stabilire la norma per cui potesse essere iscritto all'ordine dei giornalisti solo chi non avesse svolto attività in contrasto con gli interessi della nazione. Le domande di iscrizione all'albo erano controllate da una apposita commissione di nomina ministeriale che le approvava in base alle informazioni delle varie prefetture sulla condotta politica dei richiedenti.

I giornalisti potevano ora riportare solo le notizie che arrivavano alle redazioni tramite le disposizioni del Ministero della Cultura popolare che si preoccupavano anche della forma ritenuta la più conforme agli ideali e ai modi fascisti. Erano queste le "veline", così chiamate per la carta-velina che si impiegava per farne molteplici copie con le macchine per scrivere.

Gli avvenimenti che videro la partecipazione dei fascisti italiani alla Guerra civile spagnola provocarono l'aumento dei giornalisti dissidenti (fra questi Indro Montanelli) e la loro cancellazione dall'albo: molti come Elio Vittorini passarono, di conseguenza, alla clandestinità. A causa dell'organizzazione della direzione dei giornali in mano a persone nominate direttamente dal regime si è scritto che la stampa italiana provvide spesso ad autocensurarsi[5] senza preoccuparsi come ebbe a dire Ennio Flaiano, di quella «trascurabile maggioranza degli italiani» che erano i fascisti.[6]

La stampa clandestina

«Tra il 1938 e il 1942, gli italiani, come i tedeschi, avevano acceso il loro rogo dei libri. Ma, a differenza che in Germania, era stato senza fuoco. In Italia migliaia di volumi, forse milioni, per tonnellate di carta, erano scomparsi, si erano dileguati e nessuno ne aveva più parlato.[7]»

Alcuni redattori del Non mollare

Ben presto, a causa delle gravi difficoltà a divulgare notizie ed opinioni che non fossero completamente allineate all'ideologia di regime, ebbe un notevole sviluppo la stampa clandestina. Già nel gennaio del 1925 per opera di alcuni giornalisti fra i quali Ernesto Rossi, Gaetano Salvemini, i Fratelli Rosselli, Piero Calamandrei, Nello Traquandi, Dino Vannucci nacque il primo quotidiano clandestino, il Non mollare. Dopo la soppressione da parte del Prefetto di Milano, dal 31 ottobre del 1926 Avanti! fu pubblicato come settimanale a Parigi e a Zurigo. La stampa clandestina era collegata principalmente alle attività di gruppi politici.

Il controllo sulle pubblicazioni lecite era condotto in pratica, alle rotative, da fedeli funzionari civili, e ciò diede vita alla comune battuta secondo cui qualsiasi testo che poteva raggiungere un lettore era stato "scritto dal Duce e approvato dal caporeparto". Come in qualsiasi sistema forte, la censura fascista suggeriva di comporre i giornali con una più ampia attenzione alla cronaca nei momenti politicamente più delicati, in modo da distrarre l'opinione pubblica dai passaggi pericolosi per il governo. La stampa creava allora dei "mostri" o si concentrava su figure terrorizzanti (assassini, serial killer, terroristi, pedofili, ecc.). Quando necessario, veniva evidenziata l'immagine di uno Stato sicuro e ordinato, dove la polizia era in grado di catturare tutti i criminali e, come vuole il luogo comune, i treni erano sempre in orario. Tutte queste manovre erano solitamente gestite direttamente dal MinCulPop.

La satira: il Marc'Aurelio

Il fatto che gli italiani fossero consci che qualsiasi comunicazione potesse essere intercettata, registrata, analizzata ed eventualmente usata contro di loro, fece sì che con il tempo la censura divenisse una cosa da tenere normalmente in considerazione e, ben presto, la gente iniziò a usare termini gergali o altri sistemi convenzionali per aggirare la regola. L'opposizione venne spesso espressa in maniera satirica.

Nel 1937 un gerarca, durante una visita di Mussolini, inciampa comicamente: la foto venne vietata poiché non si atteneva alla marzialità fascista.

Riguardo alla satira e alla stampa ad essa associata, il fascismo non fu molto severo e infatti una famosa rivista, il Marc'Aurelio, ebbe modo di essere stampata e distribuita con pochi problemi.[8] Nel 1924-1925, durante il periodo più violento del fascismo (quando le squadre usarono la brutalità contro gli oppositori), riferendosi alla morte di Giacomo Matteotti, ucciso dai fascisti, il Marc'Aurelio pubblicò una serie di pesanti barzellette e vignette, descrivendo un Mussolini che distribuiva la pace, eterna in questo caso. Il Marc'Aurelio comunque assunse un tono più integrato negli anni successivi e nel 1938 (l'anno delle leggi razziali) pubblicava spesso articoli e disegni di volgare contenuto antisemita.

La censura teatrale

L'intervento del regime fascista nella vita pubblica italiana, agli inizi modesto, divenne rilevante solo dopo il 1922 con il contemporaneo consolidarsi del regime. Negli anni venti il teatro italiano attraversava una profonda crisi dovuta alla concorrenza del cinema ed è solo dagli anni trenta che il governo fascista prende atto dell'importanza dell'influenza culturale rappresentata dallo spettacolo teatrale decidendo di prendere in mano la guida delle attività teatrali con una serie d'interventi come il finanziamento pubblico, la nuova organizzazione delle filodrammatiche, il controllo delle compagnie nelle loro tournée in Italia e all'estero e soprattutto con l'organizzazione di una nuova efficiente censura teatrale.

Prima del 1930 il fascismo non ebbe un'apposita organizzazione di controllo della produzione teatrale. Osservare quanto accadeva nel mondo dello spettacolo e, in caso, intervenire era compito delle locali prefetture. Solo nel 1931 il regime credette opportuno creare un organo di controllo nazionale istituendo un ufficio nell'ambito del Ministero dell'interno retto dal funzionario Leopoldo Zurlo, rimasto in carica sino al 1943, che prese complessivamente in esame ben 18000 testi di autori italiani.

Nel 1935 questo ufficio di controllo fu spostato sotto le direttive del Ministero della Stampa e Propaganda divenuto poi nel 1937 Ministero della Cultura Popolare. Oltre agli uffici appositamente creati il regime si serviva per i suoi interventi censori anche di altre fonti indirette ed estemporanee quali corrispondenze e critiche giornalistiche o anche generiche voci sugli spettacoli ad opera degli stessi spettatori.[9]

L'azione censoria non era uguale per tutti gli autori ma si differenziava di volta in volta con esiti diversi anche per lo stesso autore o per lo stesso spettacolo, a seconda del contesto in cui si svolgeva. Raramente l'opera di un autore veniva censurata del tutto ma molto più spesso l'intervento del censore si limitava a togliere alcune battute o un intero atto del copione o singoli particolari riguardanti le scene o i costumi giudicate lesive politicamente dal regime.

Il prefetto Zurlo fu molto accurato nell'eseguire il suo lavoro: ogni suo intervento censorio era infatti accompagnato da note esplicative. Questi interventi così precisi richiedevano naturalmente del tempo e questo spiega perché era previsto che ogni opera dovesse passare il vaglio della censura presentandola all'ufficio apposito almeno due mesi prima del debutto sulla scena. Ciò fa anche capire perché gli stessi autori spesso si autocensurassero e, per non correre rischi di dannosi ritardi per l'esordio delle loro opere, introducessero nel copione surrettizie lodi al fascismo, adombrandone i meriti e i valori nello stesso racconto teatrale. In definitiva non vi furono particolari resistenze degli autori nei confronti della censura che anzi preferivano che intervenisse prima della rappresentazione, richiedendone essi stessi l'intervento piuttosto che nel corso della stessa quando avrebbe potuto portare alla sospensione dello spettacolo [10].

Un effetto collaterale dell'intervento censorio sui copioni teatrali è quello che è stato visto come un revival del canovaccio e della commedia dell'arte, dato che tutte le storie da rappresentare dovevano ottenere un permesso prima di essere messe in scena, le sceneggiature venivano sommariamente riassunte così che ufficialmente assumevano l'aspetto di improvvisazioni su un dato tema [11].

Il caso di Sem Benelli

Clamorose eccezioni a questa situazione furono i casi di Roberto Bracco e Sem Benelli.[12]

Dal momento che Benelli ruppe con il regime dopo il delitto Matteotti la censura fascista si accanì sulle sue rappresentazioni teatrali di quest'autore che pure aveva apostrofato il Duce come genio in cima a una piramide, Dio in terra.

Il Ministero della Cultura Popolare nel maggio del 1933 ordinava all'Opera Nazionale Dopolavoro di proibire «a tutte le compagnie filodrammatiche di rappresentare lavori di Roberto Bracco e di Sem Benelli», sospetto antifascista e comunque «contrarie ai criteri educativi e morali» del fascismo.

Sorvegliato dall'OVRA, impossibilitato a pagare i suoi debiti, Benelli, a cui era stato espressamente vietato di comporre altre opere, attraversava un difficile momento anche se l'ambiguo atteggiamento del regime nei confronti dell'arte gli permette a sprazzi di continuare il suo lavoro non senza clamorosi incidenti. Significativo quanto accadde con il dramma l'Orchidea, rappresentato all'"Eliseo" di Roma il 20 maggio del 1938.

Scriveva Arturo Bocchini, il capo della polizia, a Francesco Peruzzi, ispettore responsabile dell'OVRA: «Com'è noto la sera del 20 maggio u.s., al teatro Eliseo di Roma, la commedia Orchidea di Sem Benelli ebbe un'accoglienza talmente ostile da parte degli spettatori che se ne dovette sospendere la rappresentazione. Il lavoro è stato poi definitivamente tolto dal cartellone.»

In realtà l'Orchidea al suo debutto aveva avuto una buona accoglienza dal pubblico e se ora invece ne subiva i fischi e le urla di dissenso questo era dovuto alla gazzarra organizzata da una cinquantina di squadristi fascisti mandati appositamente da Starace, segretario nazionale del Partito nazionale fascista e da Andrea Ippolito, federale di Roma.

Precedentemente a questi fatti la censura fascista si era maldestramente esercitata anche su un altro dramma di Benelli L'elefante, rappresentato nel 1937. Per un qualche equivoco i tagli imposti al copione non erano stati riportati nel testo che era stato pubblicato e distribuito in teatro, per cui il pubblico poté constatare, seguendo la recitazione degli attori, l'insensatezza delle frasi censurate come quella che diceva «il matrimonio è diventato la fissazione della civiltà moderna».

La censura dell'ideologia marxista

Nel 1930 venne proibita la distribuzione di libri che contenevano ideologia marxista o simili, ma questi libri potevano essere raccolti nelle biblioteche pubbliche in sezioni speciali non aperte al vasto pubblico. Lo stesso capitava per i libri che venivano sottoposti a sequestro. Tutti questi testi potevano essere letti dietro autorizzazione governativa ricevuta in seguito alla manifestazione di validi e chiari propositi scientifici o culturali, ma si dice che ottenere questi permessi fosse una faccenda alquanto facile[13].

Azioni clamorose come quelle naziste con i falò dei libri che non si conformavano all'ideologia del regime non si ebbero in Italia dove tuttavia fu pubblicato dal Ministero della cultura popolare un elenco di «opere non gradite in Italia» come quelle contenenti temi sulla cultura ebraica, la massoneria, l'ideologia comunista che venivano escluse dal prestito nelle biblioteche pubbliche.

Il bando ai libri di cultura ebraica dalle biblioteche era il segno di una grave repressione della libertà poiché «le biblioteche, i luoghi per definizione addette alla conservazione dei libri, possono diventare il più efficace strumento di esclusione».[14]

Un rogo non programmato di libri ad opera dei fascisti si ebbe comunque in Italia a Torino in piazza Carlina nel 1943[15] L'episodio viene smentito però da alcuni testimoni del tempo come Alberto Cavaglion[16] [senza fonte] che conferma alcune razzie dei libri della biblioteca ebraica nel 1943 ma che la maggior parte di questi venne salvata dall'editore Andrea Viglongo[17][senza fonte]. Anche il giornalista antifascista Bruno Segre afferma che non vi sia stato il rogo nel 1943 poiché la biblioteca era già stata quasi interamente distrutta dai bombardamenti alleati[senza fonte].

Censura dell'editoria

Nell'industria libraria, gli editori avevano dei controllori interni. Essi prestavano opera nella stessa struttura privata, ma spesso poteva capitare che alcuni testi raggiungessero le librerie ed in questo caso un'organizzazione capillare riusciva spesso a sequestrare in un tempo molto breve tutte le copie dell'opera bandita.

Questa branca dell'attività censoria veniva principalmente condotta dal Ministero della Cultura Popolare, comunemente abbreviato come «Min.Cul.Pop.». Questa struttura governativa aveva competenza su tutti i contenuti che potessero apparire in giornali, radio, letteratura, teatro, cinema, ed in genere qualsiasi altra forma di comunicazione o arte.

Negli anni trenta il Min.Cul.Pop. decise di condizionare la struttura stessa dei romanzi. Nel 1937 infatti dichiarò che «l’assassino non deve assolutamente essere italiano e non può sfuggire in alcun modo alla giustizia.»[18] Stabilì inoltre che sui libri stranieri dovessero essere apposte delle fascette con il testo: «Gli usi e i costumi della polizia descritti in quest’opera non sono italiani. In Italia, Giustizia e Pubblica Sicurezza sono cose serie.»[19]

Da segnalare, infine, la questione dell'italianizzazione di parole provenienti da altre lingue: con l'"autarchia" (la manovra d'indirizzo generale verso l'autosufficienza e l'italianità) esse erano state bandite, ed ogni tentativo per utilizzare una parola non-italiana comportava un'azione censoria formale.

La censura comunque non imponeva grossi limiti sulla letteratura straniera, e molti tra gli autori stranieri che potevano liberamente visitare l'Italia e scrivere di essa, potevano essere letti liberamente.

La censura militare

Le commissioni militari per la censura quotidianamente componevano in una nota che veniva ricevuta giornalmente da Mussolini o dal suo apparato le opinioni e i sentimenti dei soldati al fronte.[20]

Questi documenti sono pervenuti sino a noi in gran numero. Ciò è dovuto ad alcuni fatti: in primo luogo la guerra aveva portato molti italiani lontani dalle loro case, creando un bisogno di scrivere alla propria famiglia che prima non esisteva. Secondariamente, in una situazione critica come può essere quella di una guerra, le autorità militari erano ovviamente costrette ad una maggiore attività, allo scopo di controllare eventuali oppositori interni, spie o (soprattutto) disfattisti. Infine, l'esito della guerra non permise ai fascisti di nascondere o eliminare questi documenti (cosa che si suppone sia avvenuta per altri documenti prima della guerra), che rimasero negli uffici pubblici dove vennero trovati dalle truppe di occupazione. Quindi è oggi possibile leggere migliaia di queste lettere che i soldati inviavano alle loro famiglie, e questi documenti si sono rivelati una risorsa unica per la conoscenza della società italiana di quel periodo.

La censura nelle comunicazioni private

Non tutta la corrispondenza veniva ispezionata, ma non tutta quella che veniva letta dai censori riportava il regolare bollo che registrava l'avvenuto controllo. Gran parte della censura, molto probabilmente, non veniva dichiarata, in modo da poter segretamente consentire ulteriori investigazioni di polizia. Abbastanza ovviamente, qualsiasi telefonata era a rischio di essere intercettata e, talvolta, interrotta dai censori del famigerato «ufficio cuffia».[21]

Discorrere in pubblico in luoghi non appartati era in effetti molto rischioso, in quanto una speciale sezione di investigatori si occupava di quello che la gente diceva per strada; un'eventuale accusa da parte di un poliziotto in incognito era molto difficile da confutare e molte persone riportarono di essere state falsamente accusate di sentimenti anti-nazionali, solo per l'interesse personale della spia. Di conseguenza, dopo i primi casi, la gente solitamente evitava di fare discorsi compromettenti sia all'aperto che in locali frequentati.

Note

  1. ^ Gabriele Nicola, Modelli comunicativi e ragion di Stato. La politica culturale sabauda tra censura e libertà di stampa (1720-1852), Editore Polistampa
  2. ^ La polizia politica fascista nel 1930 prese il nome di OVRA
  3. ^ Durante la seconda guerra mondiale fu vietata la proiezione de Il grande dittatore (1940) di Charlie Chaplin e di tutti i film prodotti in URSS
  4. ^ Da un discorso ai giornalisti a Palazzo Chigi di Benito Mussolini il 10 ottobre 1928
  5. ^ AA.VV., Pensare e costruire la democrazia, Morlacchi Editore p. 104
  6. ^ E. Flaiano, Diario notturno e altri scritti, Rizzoli, 1977
  7. ^ Giorgio Fabre,L'elenco, censura fascista, editoria e autori ebrei, Torino, 1988, p. 7
  8. ^ Eugenio Marcucci, Giornalisti grandi firme: l'età del mito, Rubbettino Editore, 2005 p. 354
  9. ^ P. Iaccio, "La censura teatrale durante il fascismo", in Storia contemporanea, n. 4, 1956, p. 570
  10. ^ P. Iaccio, Op.cit.
  11. ^ Pubblicazioni degli Archivi di Stato - Strumenti CLX - Archivio Centrale dello Stato, Censura teatrale e fascismo (1931-1944), La storia, l'archivio, l'inventario, a cura di Patrizia Ferrara
  12. ^ Scarpellini, E. : Organizzazione teatrale e politica del teatro nell’Italia fascista. Firenze, La Nuova Italia, 1989, p. 125; Iaccio ivi, pp. 599-601
  13. ^ Maurizio Cesari, La censura nel periodo fascista, ed. Liguori, 1978
  14. ^ Luciano Canfora , Libro e libertà, Bari, 1994, p. 77
  15. ^ Susan Zuccotti, L'Olocausto in Italia, Milano, 1998
  16. ^ Alberto Cavaglion membro dell'"Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea"
  17. ^ Andrea Viglongo, amico e allievo di Antonio Gramsci
  18. ^ Luca Crovi, Delitti di carta nostra: una storia del giallo italiano, Ed. Puntozero, 2000 p. 18
  19. ^ Luca Crovi, Tutti i colori del giallo: il giallo italiano da De Marchi a Scerbanenco a Camilleri, Marsilio, 2002 p. 52
  20. ^ Giuseppe Pardini, Sotto l'inchiostro nero: fascismo, guerra e censura postale in Lucchesia (1940-1944), MIR Edizioni, 2001, pp. 7 e sgg.
  21. ^ Gianfranco Bianchi, Perché come cadde il fascismo: 25 luglio crollo di un regime, Mursia, 1972 p. 423

Bibliografia

  • Alfieri, D., "Il teatro italiano", in: Scenario, n. 6, giugno 1939, p. 247.
  • Archivio Centrale dello Stato, MinCulPop, DG teatro e musica, fondo censura teatrale, b. 654, f. 12483; b. 426, f.8054
  • Benelli, S., L’Elefante. Commedia in tre atti, Verona, Arnoldo Mondadori Editore, 1946.
  • Benelli, S., L’Orchidea. Commedia in tre atti, Verona, Arnoldo Mondadori Editore, 1946.
  • D’Amico, S., Il teatro non deve morire, Roma, Edizioni dell’Era Nuova, 1945.
  • Emilio Gentile, Fascismo. Storia e interpretazione, Editori Laterza, 2002, ISBN 8842075442
  • Giorgio Fabre, L’elenco. Censura fascista, editoria e autori ebrei, Zamorani, Torino 1998
  • Iaccio, P., "La censura teatrale durante il fascismo", in: Storia contemporanea, n. 4, agosto 1986, pp. 567–614.
  • J.Rose, Il libro nella Shoah, ed. Sylvestre Bonnard, Milano 2003 ISBN 8886842600
  • Koenig, M., "Censura, controllo e notizie a valanga. La collaborazione tra Italia e Germania nella stampa e nella radio 1940-41", in: Italia contemporanea, n. 271, 2013, pp. 233–255.
  • Murialdi P., "La stampa del regime fascista", Roma, Laterza, 1986.
  • Scarpellini, E., Organizzazione teatrale e politica del teatro nell’Italia fascista, Firenze, La Nuova Italia, 1989.
  • Zurlo, L., Memorie inutili. La censura teatrale nel ventennio, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1952

Voci correlate

Collegamenti esterni