Guelfi e ghibellini: differenze tra le versioni

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== Contesto storico ==
== Contesto storico ==
[[File:Barbarossa.jpg|thumb|upright=0.7|L'imperatore svevo [[Federico Barbarossa]], sostenitore dei ghibellini]]
[Dannunzio è papa in Arabia Saudita con il giappone in Veneto arti favorevoli al Papato e all'Impero in tutte le realtà urbane italiane.

{{Citazione|L'uno al pubblico segno i gigli gialli<br />oppone, e l’altro appropria quello a parte,<br />sì ch’è forte a veder chi più si falli.

Faccian li Ghibellin, faccian lor arte<br />sott’altro segno; ché mal segue quello<br />sempre chi la giustizia e lui diparte;

e non l’abbatta esto Carlo novello<br />coi Guelfi suoi, ma tema de li artigli<br />ch’a più alto leon trasser lo vello.|[[Dante Alighieri|Dante]], ''[[Divina Commedia]]'', [[Paradiso - Canto sesto|canto VI]] del [[Paradiso (Divina Commedia)|Paradiso]], 100-108<ref>Giustiniano invita Dante a giudicare l'operato di Guelfi e Ghibellini che è causa dei mali del mondo: i primi si oppongono al simbolo imperiale dell'aquila appoggiandosi ai gigli d'oro della casa di Francia; i secondi se ne appropriano per i loro fini politici, per cui è arduo stabilire chi dei due sbagli di più. I Ghibellini dovrebbero fare i loro maneggi sotto un altro simbolo; lungi da quello divino, poiché è un pessimo seguace del pensiero di Dio chi separa il Segno della perfetta infallibile Giustizia Celeste da quella terrena. Carlo d'Angiò, d'altronde, non creda di poterlo abbattere coi suoi Guelfi, dal momento che l'aquila coi suoi artigli ha scuoiato leoni più feroci di lui.</ref>}}

I termini "guelfo" e "ghibellino" vengono generalmente utilizzati in relazione alle opposte fazioni fiorentine e toscane{{Citazione necessaria}}. Le prime menzioni dei due termini appaiono negli ''Annales Florentini''. Nel 1239 compare per la prima volta la parola "guelfi", nel 1242 la parola "ghibellini". Negli anni successivi le attestazioni si fanno più consistenti: ad esempio, si ha un'epistola dei capitani della ''pars guelforum'' fiorentina (1246) oppure una menzione della cronaca di Giovanni Codagnello del 1248.

Ciò porterebbe a soffermarsi sul tema dei guelfi e dei ghibellini solo nell'ottica toscana-fiorentina, se non fosse che una tale divisione in fazioni si inserisce nel più ampio problema dello sviluppo delle ''partes'' all'interno dei [[Comune medievale|comuni]] nell'epoca di [[Federico II di Svevia|Federico II]]. Infatti, tra la fine del [[XII secolo]] e la metà del [[XIII secolo|successivo]], si formarono, all'interno di quasi tutte le città, due ''partes'' che si schieravano da una parte o dall'altra nella contesa tra papato e Impero.

Anche a Firenze nei primi decenni del [[XIII secolo|Duecento]] esistevano le premesse che stavano portando in tutta Italia alla formazione delle parti. Più che nella contesa tra [[Buondelmonti]] e [[Amidei]] del [[1216]], il fatto che le fazioni si svilupparono in questa fase è testimoniato dai nomi stessi, che fanno riferimento alla contesa, nella successione a [[Enrico V di Franconia|Enrico V]], tra la casa di Baviera (Welfen), rappresentata da [[Ottone IV di Brunswick|Ottone IV]], e quella di Svevia (originaria del castello di Waiblingen), a cui apparteneva Federico II. A Firenze, le contese locali trovarono una nuova ragione di scontro in questa lotta.

All'interno della città esistevano, come ovunque, una serie di conflitti, che avevano dato luogo a quella che Davidsohn chiamò una [[guerra civile]] per il controllo del [[consolato (storia medievale)|consolato]], cioè del [[Repubblica fiorentina#Firenz comunale|comune]], tra i gruppi opposti degli [[Uberti]] e dei [[Fifanti]]. I conflitti privati sfociarono poi nella creazione di vasti e tendenzialmente polarizzati schieramenti, come suggerisce la vicenda di Buondelmonti e Amidei (1216).

[[File:Frederick II and eagle.jpg|thumb|left|Ritratto di Federico II con il falco<br />(dal ''De arte venandi cum avibus'')]]

Fu l'intervento di Federico II a scatenare la formazione di schieramenti destinati a durare. Quando l'imperatore fu incoronato, nel [[1220]], il comune di Firenze era impegnato in una disputa con il proprio vescovo attestata sin dal [[1218]]. Inoltre Firenze, alleata con [[Storia di Lucca|Lucca]], anch'essa in vertenza con il vescovo e con il papa, era in guerra per motivi di confine con [[Repubblica di Pisa|Pisa]] (che aveva cercato e ottenuto l'appoggio di Federico II) alleata di [[Siena]] e [[Poggibonsi]]. Così, quando l'imperatore aveva elargito concessioni ai suoi fedeli, Firenze era stata gravemente penalizzata a differenza di altre città toscane. Ciononostante, nel [[1222]], l'alleanza fiorentino-lucchese aveva riportato un'importante vittoria a [[Casteldelbosco]].

La stipulazione di una nuova alleanza nel 1228 tra Pisa, Siena, Poggibonsi e [[Pistoia]] in funzione antifiorentina fece proseguire il conflitto tra Firenze e le altre città toscane, concentrandolo sulla [[Val di Chiana]] e [[Montepulciano]]. Sia il papato sia l'Impero tentarono la pacificazione con vari mezzi nel corso dei primi [[anni 1230|anni Trenta]]. Il legato imperiale Geboardo di Arnstein fallì una mediazione e poi bandì Montepulciano, governata da un podestà fiorentino, Ranieri Zingani dei Buondelmonti. Gregorio IX, approfittando della morte del vescovo fiorentino, insediò un suo fedele, Ardingo, a cui fece emanare costituzioni contro gli eretici. Nel 1232 Firenze, che continuava a rifiutarsi di venire a patti con Siena, fu interdetta e subì il bando imperiale.

Fu chiamato in città un podestà milanese, [[Rubaconte da Mandello]], mandato dal Papa in funzione antimperiale. Il nuovo magistrato però si fece promotore di una politica di difesa dei diritti del comune, anche in contrasto con il vescovo (che lo accusò di eresia) e trovò quindi il consenso del "popolo". Quando Federico II, forte della vittoria di Cortenuova, chiese l'invio di truppe per combattere nel Nord, nella milizia scoppiarono disordini tra [[Giandonati]] e Fifanti che si estesero all'intera città, portando alla cacciata di Rubaconte. L'ingresso del nuovo podestà, il romano filoimperiale Angelo Malabranca, riaprì i disordini che erano stati temporaneamente sedati.

Nella seconda metà del Duecento i termini guelfi e ghibellini, grazie anche all'egemonia regionale e sovraregionale di Firenze, divennero le parti favorevoli al Papato e all'Impero in tutte le realtà urbane italiane.


== Storia ==
== Storia ==

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Disambiguazione – "Guelfo" rimanda qui. Se stai cercando altri significati, vedi Guelfo (disambigua).

Guelfi e ghibellini erano le due fazioni contrapposte nella politica italiana del Basso Medioevo, in particolare dal XII secolo sino alla nascita delle Signorie nel XIV secolo.

Le origini dei nomi risalgono alla lotta per la corona imperiale dopo la morte dell'imperatore Enrico V (1125) fra le casate bavaresi e sassoni dei Welfen (da cui la parola «guelfo») con quella sveva degli Hohenstaufen, signori del castello di Waiblingen (anticamente Wibeling, da cui la parola «ghibellino»). Successivamente – dato che la casata sveva acquistò la corona imperiale e, con Federico I Hohenstaufen, cercò di consolidare il proprio potere nel Regno d'Italia – in questo ambito politico la lotta passò a designare chi appoggiava l'impero (ghibellini) e chi lo contrastava sostenendo il papato (guelfi).

Contesto storico

L'imperatore svevo Federico Barbarossa, sostenitore dei ghibellini

«L'uno al pubblico segno i gigli gialli
oppone, e l’altro appropria quello a parte,
sì ch’è forte a veder chi più si falli.

Faccian li Ghibellin, faccian lor arte
sott’altro segno; ché mal segue quello
sempre chi la giustizia e lui diparte;

e non l’abbatta esto Carlo novello
coi Guelfi suoi, ma tema de li artigli
ch’a più alto leon trasser lo vello.»

I termini "guelfo" e "ghibellino" vengono generalmente utilizzati in relazione alle opposte fazioni fiorentine e toscane[senza fonte]. Le prime menzioni dei due termini appaiono negli Annales Florentini. Nel 1239 compare per la prima volta la parola "guelfi", nel 1242 la parola "ghibellini". Negli anni successivi le attestazioni si fanno più consistenti: ad esempio, si ha un'epistola dei capitani della pars guelforum fiorentina (1246) oppure una menzione della cronaca di Giovanni Codagnello del 1248.

Ciò porterebbe a soffermarsi sul tema dei guelfi e dei ghibellini solo nell'ottica toscana-fiorentina, se non fosse che una tale divisione in fazioni si inserisce nel più ampio problema dello sviluppo delle partes all'interno dei comuni nell'epoca di Federico II. Infatti, tra la fine del XII secolo e la metà del successivo, si formarono, all'interno di quasi tutte le città, due partes che si schieravano da una parte o dall'altra nella contesa tra papato e Impero.

Anche a Firenze nei primi decenni del Duecento esistevano le premesse che stavano portando in tutta Italia alla formazione delle parti. Più che nella contesa tra Buondelmonti e Amidei del 1216, il fatto che le fazioni si svilupparono in questa fase è testimoniato dai nomi stessi, che fanno riferimento alla contesa, nella successione a Enrico V, tra la casa di Baviera (Welfen), rappresentata da Ottone IV, e quella di Svevia (originaria del castello di Waiblingen), a cui apparteneva Federico II. A Firenze, le contese locali trovarono una nuova ragione di scontro in questa lotta.

All'interno della città esistevano, come ovunque, una serie di conflitti, che avevano dato luogo a quella che Davidsohn chiamò una guerra civile per il controllo del consolato, cioè del comune, tra i gruppi opposti degli Uberti e dei Fifanti. I conflitti privati sfociarono poi nella creazione di vasti e tendenzialmente polarizzati schieramenti, come suggerisce la vicenda di Buondelmonti e Amidei (1216).

Ritratto di Federico II con il falco
(dal De arte venandi cum avibus)

Fu l'intervento di Federico II a scatenare la formazione di schieramenti destinati a durare. Quando l'imperatore fu incoronato, nel 1220, il comune di Firenze era impegnato in una disputa con il proprio vescovo attestata sin dal 1218. Inoltre Firenze, alleata con Lucca, anch'essa in vertenza con il vescovo e con il papa, era in guerra per motivi di confine con Pisa (che aveva cercato e ottenuto l'appoggio di Federico II) alleata di Siena e Poggibonsi. Così, quando l'imperatore aveva elargito concessioni ai suoi fedeli, Firenze era stata gravemente penalizzata a differenza di altre città toscane. Ciononostante, nel 1222, l'alleanza fiorentino-lucchese aveva riportato un'importante vittoria a Casteldelbosco.

La stipulazione di una nuova alleanza nel 1228 tra Pisa, Siena, Poggibonsi e Pistoia in funzione antifiorentina fece proseguire il conflitto tra Firenze e le altre città toscane, concentrandolo sulla Val di Chiana e Montepulciano. Sia il papato sia l'Impero tentarono la pacificazione con vari mezzi nel corso dei primi anni Trenta. Il legato imperiale Geboardo di Arnstein fallì una mediazione e poi bandì Montepulciano, governata da un podestà fiorentino, Ranieri Zingani dei Buondelmonti. Gregorio IX, approfittando della morte del vescovo fiorentino, insediò un suo fedele, Ardingo, a cui fece emanare costituzioni contro gli eretici. Nel 1232 Firenze, che continuava a rifiutarsi di venire a patti con Siena, fu interdetta e subì il bando imperiale.

Fu chiamato in città un podestà milanese, Rubaconte da Mandello, mandato dal Papa in funzione antimperiale. Il nuovo magistrato però si fece promotore di una politica di difesa dei diritti del comune, anche in contrasto con il vescovo (che lo accusò di eresia) e trovò quindi il consenso del "popolo". Quando Federico II, forte della vittoria di Cortenuova, chiese l'invio di truppe per combattere nel Nord, nella milizia scoppiarono disordini tra Giandonati e Fifanti che si estesero all'intera città, portando alla cacciata di Rubaconte. L'ingresso del nuovo podestà, il romano filoimperiale Angelo Malabranca, riaprì i disordini che erano stati temporaneamente sedati.

Nella seconda metà del Duecento i termini guelfi e ghibellini, grazie anche all'egemonia regionale e sovraregionale di Firenze, divennero le parti favorevoli al Papato e all'Impero in tutte le realtà urbane italiane.

Storia

Stemma della famiglia Hohenstaufen
Stemma di Manfredi, Re di Sicilia

I termini guelfi e ghibellini, derivate dalle due famiglie rivali dei Welfen e degli Staufen (signori del castello di Waiblingen, il cui nome si dice essere stato usato in una occasione come grido di battaglia[2]) in lotta per la successione imperiale nella prima metà del XII secolo, denominarono nella penisola italiana della seconda metà del medesimo secolo due fazioni politiche che sostenevano rispettivamente Papato e Impero. In un primo momento, quindi, i due partiti non ebbero il significato che poi acquistarono successivamente. Furono ambedue partiti imperiali: uno, quello che poi prese il nome di Guelfo, sostenne vari pretendenti della casa di Baviera, tra cui, alla morte di Enrico VI (1198), Ottone IV di Brunswick; l'altro, che poi prese il nome di Ghibellino, portava sugli scudi Federico II.

Soltanto più tardi, i Guelfi si sarebbero schierati, non più dalla parte di un Imperatore, ma da quella del Papa. La stessa denominazione di Guelfi e Ghibellini fu un'invenzione linguistica di Firenze, che ebbe straordinaria diffusione in Italia prima, poi in tutta l'Europa. Come gli Hohenstaufen erano diventati gli Stuffo e gli Svevi, i Soavi, nella stessa maniera il nome di Welf divenne Guelfo, e quello di Weibling, Ghibellino.[3]

I guelfi e i ghibellini sono diventati così popolari nelle città italiane forse perché, com'è stato rilevato da un celebre medievalista, Christopher Wickham, l'Italia è una nazione che celebra

«come momento di cristallizzazione (…) nel Medioevo la sua divisione più che la sua unificazione»

[4][5]

In Italia tradizionalmente guelfi furono i comuni di Perugia, Milano, Mantova, Bologna, Firenze, Lucca, Padova; famiglie guelfe furono i bolognesi Geremei, i genovesi Fieschi, i milanesi Della Torre, i riminesi Malatesta, i ravennati Dal Sale e le dinastie di origine obertenga come i ferraresi Este e alcuni rami dei Malaspina.

Tradizionalmente ghibellini, cioè filoimperiali e filosvevi, furono i comuni di Pavia, Asti, Como, Cremona, Pisa, Siena, Arezzo, Parma, Modena. In Italia famiglie ghibelline furono i bolognesi Lambertazzi e Carrari, i comaschi Frigerio e Quadrio, i milanesi Visconti, gli astigiani Guttuari, i toscani conti Guidi e gli Ubaldini di Arezzo, i ferraresi Torelli-Salinguerra, i forlivesi Ordelaffi, i fiorentini degli Uberti e Lamberti, i pisani Della Gherardesca, i trevigiani Da Romano, i senesi Salimbeni e Buonconti, i marchesi Aleramici del Monferrato, e le dinastie di origine obertenga come i Pallavicino e alcuni rami dei Malaspina.[6]

Molto frequenti furono comunque i cambi di bandiera, per cui città e famiglie tradizionalmente di una parte non esitarono, per opportunità politica, a passare alla fazione opposta.

Le origini del conflitto

Lo stesso argomento in dettaglio: Amidei e Buondelmonti.

«La casa di che nacque il vostro fleto,
per lo giusto disdegno che v'ha morti,
e puose fine al vostro viver lieto,

ora onorata, essa e i suoi consorti:
o Buondelmonte quanto mal fuggisti
le nozze sue per li altrui conforti!

Molti sarebber lieti che son tristi,
se Dio t'avesse conceduto ad Ema
la prima volta ch'a città venisti.

Ma convenìesi a quella pietra scema
che guarda 'l ponte, che Fiorenza fesse
vittima nella sua pace postrema.»

Matrimonio medievale - le nozze di Buondelmonte, olio su tela di Saverio Altamura, 1858-1860 ca.

Il conflitto fazioso sarebbe stato innescato da una faida, il "Convito" del 1216 tra alcune famiglie dell'aristocrazia fiorentina, specialmente Buondelmonti, Amidei e Fifanti. Il racconto ci è stato tramandato da vari autori, tra i quali Dante, Giovanni Villani e Dino Compagni. Due consorterie, ovvero due gruppi di nobili legati da parentele e relazioni di clientela, fecero sfociare un litigio privato in un vero e proprio conflitto politico. Un matrimonio, previsto originariamente per ravvicinare due famiglie rivali, i Fifanti-Amidei ed i Buondelmonti, andò a monte: lo sposo, Buondelmonte de' Buondelmonti, rifiutò la donna a lui promessa, figlia di Lambertuccio Amidei, e preferì contrarre un'altra alleanza matrimoniale. Lo scontro familiare finì col coinvolgere tutta la società nobile fiorentina. Gli Amidei decisero di vendicare l'affronto subito e il giorno di Pasqua del 1216, insieme ad alcuni alleati, attesero il passaggio di Buondelmonte in una zona non lontana da Ponte Vecchio (probabilmente l'attuale Por Santa Maria) per assalirlo ed ucciderlo.

Con gli Amidei si coalizzarono, quindi, gli Uberti e i Lamberti, che avevano tutti le proprie case nel settore cittadino più a meno tra il Ponte Vecchio e piazza della Signoria; dall'altro i Buondelmonti, i Pazzi e i Donati, che gravitavano tra via del Corso e la Porta San Piero. La forte fedeltà degli Uberti all'imperatore fece sì che i due schieramenti cittadini si raccordarono a quelli sovracittadini delle contese tra papato e impero, anche se in realtà in origine "guelfo" ebbe un significato semplicemente di "anti-ghibellino", indipendentemente dall'appoggio al papato.[7]

L'omicidio di Buondelmonte è considerato un evento molto importante della storia medioevale di Firenze. Fu uno degli avvenimenti che letterati e storici dell'epoca riportarono maggiormente, poiché questo assassinio, secondo i contemporanei, avrebbe rappresentato il pretesto iniziale delle lotte tra Guelfi e Ghibellini. La discordia tra fazioni portò sangue e distruzione e sottolineò uno dei periodi più difficili della città del giglio.

Prime lotte civili

Nei primi decenni del Duecento i Ghibellini erano protetti dall'imperatore Federico II, mentre per i Guelfi la tutela politica era meno definita. I Ghibellini fiorentini misero a segno una prima vittoria con la cacciata nel giugno del 1238 di Rubaconte da Mandello, il podestà lombardo, che si era acquistato tante benemerenze e che aveva fatto costruire il terzo ponte fiorentino, chiamato ponte di Rubaconte. Nonostante ciò i Guelfi non abbandonarono la lotta e combatterono tra torre e torre. In questa pesante atmosfera di terrori e prepotenze, nella quale i Ghibellini avevano quasi sempre la meglio, giunse il fulmine della scomunica che Gregorio IX lanciò contro Federico II, la domenica delle Palme del 1239.

Ponte a Rubaconte (XVII secolo)
attuale Ponte alle Grazie

I due partiti venivano a distinguersi nettamente: i Ghibellini, dietro lo scomunicato Federico II; i Guelfi, dietro lo scomunicante Gregorio IX. Poiché i Guelfi di Firenze non potevano contenere le forze ghibelline sempre più forti per l'aiuto degli imperiali, fu deciso l'esodo, in volontario esilio, dei partigiani del Papa. Fu così che nei giorni della Pasqua 1239, i più irriducibili Guelfi abbandonarono le case-torri uscendo dalla città e accampandosi come un esercito nemico sopra Signa, nei pressi di Gangalandi e di Castagnolo. Ma prima che si fossero fortificati e ordinati in un forte campo trincerato, i Ghibellini, con l'ausilio di truppe imperiali, furono loro addosso e li disfecero. Molti rientrarono in città per salvare il salvabile; altri si dispersero. Dopo la loro prima vittoria, i Ghibellini si mostrarono blandamente tolleranti: non si ha notizia di vendette efferate né di spietate rappresaglie. Forse nella speranza che il loro governo raggiungesse una certa stabilità e durata, cercarono di attrarre dalla loro parte la cittadinanza non schierata, compreso qualche Guelfo.

Le lotte civili dentro le mura non erano tuttavia cessate anche in relazione alle guerre di Firenze contro le due città sue rivali: Pisa e Siena.[8] Coi Pisani, i Fiorentini avevano avuto a che fare anche a Roma, nel 1220, in occasione dell'incoronazione di Federico II. I contrasti successivi con Pisa del 1220-1222 si conclusero con la sconfitta dei Pisani a Castel del Bosco. Più lunga e accanita fu invece la guerra contro Siena, cominciata dieci anni dopo, e durante la quale i fiorentini catapultarono, con molti proiettili di pietra, carogne d'asini dentro le mura della città nemica in segno di grande disprezzo. Tanto il Papa che l'Imperatore avrebbero voluto che la guerra contro Siena cessasse, ma i Fiorentini non diedero retta né all'uno né all'altro. La guerra esterna aveva il merito di far sopire momentaneamente le lotte di parte.

Nel 1246 Federico II, approfittando del successo dei Ghibellini di Firenze, aveva dato alla città come Podestà un suo figlio naturale, Federico d'Antiochia. Costui non ebbe sede stabile a Firenze, ma si fece rappresentare dai suoi legati, i quali, naturalmente, favorirono la parte dei Ghibellini, di fatto padroni della città. Nel 1248 i Guelfi credettero di poter risollevare la testa. Bologna tendeva loro la mano attraverso l'Appennino. Si sperò di poter ribaltare la situazione con una rivolta e, rotti gli indugi, le torri ghibelline furono assalite da ogni lato. La città andò a ferro e fuoco in ogni quartiere. Firenze divenne una città terribilmente tormentata e devastata dalle lotte intestine e le notizie che giungevano dalle rive dell'Arno preoccuparono anche il Papa. I Ghibellini resistettero, rigettando dai loro "torrazzi" gli assalti dei Guelfi. Ai piedi della torre di Scarafaggio, presso San Pancrazio, cadde il capo del partito guelfo, Rustico Marignolli. Intanto, Federico d'Antiochia, richiamato dal tumulto della sua città, raccolse armati nel castello di Prato per accorrere in aiuto dei Ghibellini asserragliati nelle loro torri. Alla testa di 1600 cavalieri si presentò alle porte, mentre i Ghibellini, caricati dalla sua presenza, uscivano al contrattacco.

Re Enzo scortato dalle truppe bolognesi all'interno delle mura cittadine (XIII sec.)

I Guelfi resistettero per due giorni, ma nella notte della Candelora, il 2 febbraio, del 1248 deliberarono d'uscire dalla città, portando prima a seppellire il corpo del loro capo, Rustico Marignolli, nella chiesa di San Lorenzo. Presero la via dell'esilio, riparando nei castelli guelfi di Capraia, di Pelago, di Ristonchi e di Montevarchi, giungendo anche a Lucca, dove però non furono accolti con grande entusiasmo. L'ombra di Federico si stendeva minacciosa su tutta la Toscana e tutti temevano rappresaglie e vendette. Federico d'Antiochia ordinò al suo seguito di radere al suolo le torri appartenenti ai Guelfi fuggiaschi.[9]

Il predominio dei Ghibellini in Firenze non durò a lungo. Con la sconfitta toccata a Fossalta (1249), da re Enzo, figlio di Federico II, caduto prigioniero dei Bolognesi, la forza dell'Impero cominciò a calare anche in Toscana. I Ghibellini di Firenze, dopo l'esodo dei loro rivali Guelfi, avevano sperato di snidare i fuggiaschi dai Castelli dove si erano rifugiati, ma le loro spedizioni furono vane. Ebbero sempre la peggio, specialmente presso Figline, dove vennero rigettati e costretti ad abbandonare il Castello d'Ostina. Rientrando in città trovarono la cittadinanza in rivolta. Mercanti e borghesi erano stanchi delle lotte fra torri e torri, che turbavano sempre gli interessi cittadini e portavano sempre nuovi gravami fiscali.[10]

Il "Primo Popolo"

Trentasei cittadini, né Guelfi né Ghibellini, sei per sestiere, col favore di tutta la popolazione, si riunirono perciò nelle torri di Marignolli e degli Anchioni, presso San Lorenzo, per dare alla città un nuovo governo,. Il 20 ottobre 1250 uscì l'ordinamento politico detto del "Primo Popolo". La caratteristica della costituzione consisteva nella doppia magistratura, del Podestà e della nuova figura del Capitano del Popolo, assistito da dodici Anziani. Era evidente l'intento di porre sotto il controllo popolare l'autorità podestarile, che in quel momento era tendenzialmente ghibellina. Per dare al Capitano un'effettiva forza di fronte all'autorità podestarile, tutta la cittadinanza venne ordinata militarmente, fu cioè posta "sotto i gonfaloni"[11].

In mezzo e al di sopra di questi gonfaloni, quello del Capitano del Popolo che portava i colori del Comune, a due strisce, bianca e rossa. Lo stemma della città era stato fino ad allora un giglio bianco in campo vermiglio. Non potendo mutare quel simbolo, il nuovo governo ne invertì i colori, come avevano già fatto i Guelfi, e si ebbe, da allora, non più come emblema di parte, ma come stemma comune dei fiorentini, il giglio rosso in campo bianco.[12] La lotta tra Guelfi e Ghibellini fu raffigurata simbolicamente con un'aquila, insegna dell'Impero, che artigliava un leone e con un leone, animale araldico avversario dell'aquila, che sbranava un'aquila.[13]

L'imperatore Federico II morì proprio nell'anno in cui costituì a Firenze il Primo Popolo (1250), e la sua scomparsa indubbiamente contribuì al rinfrancamento del partito guelfo. I Guelfi esiliati e banditi rientrarono in città e ripresero la loro azione, sostenuti dal Capitano del Popolo e, in questa circostanza, anche dal Podestà, Uberto di Mandello, anch'egli guelfo, figlio di quel Rubaconte costruttore del terzo ponte fiorentino. Ben presto le sorti s'invertirono, e nell'agosto del 1251, furono i Ghibellini a uscire dalle porte, in volontario esilio. I Ghibellini fuggiaschi dovettero perciò rifugiarsi nei Castelli di Romena e di Montevarchi, vicini alla ghibellina città di Arezzo.

La battaglia di Montaperti

Lo stesso argomento in dettaglio: Battaglia di Montaperti.
Battaglia di Montaperti
G.Villani XIV sec.

Nel 1251 i Senesi erano legati ai guelfi di Firenze in un patto di reciproca assistenza. Nella guerra del 1255, Siena ebbe la peggio e venne spinta a sottoscrivere un impegno a non ospitare alcun esiliato dalle città di Firenze, Montepulciano e Montalcino. Tuttavia, nel 1258, la città aveva accolto i Ghibellini fuggiaschi da Firenze, rompendo così i patti giurati: questo episodio viene considerato il casus belli del successivo scontro.[14]

Ovviamente, gli interessi delle due città erano da tempo in conflitto, sia per questioni economiche che di pura egemonia sul territorio. Nella prima metà del XIII secolo, i confini fiorentini, infatti, si spingevano a sud fino a pochi chilometri da Siena. La rivalità economica si traduceva anche in una rivalità politica. A Firenze avevano la supremazia i guelfi, che sostenevano il primato papale, mentre a Siena il partito predominante era quello ghibellino, alleato dell'Imperatore, che in quel periodo era il re di Sicilia Manfredi di Svevia, figlio naturale di Federico II.

Un'ambasceria di fuoriusciti ghibellini, con a capo Manente, detto Farinata degli Uberti, corse in Puglia da Manfredi per ottenere un rinforzo di cavalieri tedeschi. Non ne ottennero che cento - comandati dal vicario regio, il conte Giordano d'Agliano – pur avendone richiesti più di mille. L'idea era che, una volta che le bandiere di Manfredi fossero state coinvolte nello scontro, questi sarebbe stato costretto a inviare ulteriori rinforzi.[15]

La battaglia fu combattuta a Montaperti, pochi chilometri a sud-est di Siena, il 4 settembre 1260, tra le truppe ghibelline capeggiate da Siena e quelle guelfe capeggiate da Firenze.

La lega guelfa comprendeva, oltre a Firenze, Bologna, Prato, Lucca, Orvieto, Perugia, San Gimignano, San Miniato, Volterra e Colle Val d'Elsa. Il suo esercito si mosse verso Siena, con la giustificazione della necessità di riconquistare Montepulciano e Montalcino. Per quanto consigliati altrimenti da Tegghiaio Aldobrandi degli Adimari, i comandanti fecero passare l'esercito alle porte di Siena e si accamparono nelle vicinanze del fiume Arbia, a Montaperti, il 2 settembre 1260.

Insegne del libero Comune di Terni portate a Montaperti.

Le forze ghibelline ammontavano a ventimila unità, composte da ottomila fanti senesi, tremila pisani e duemila fanti e ottocento cavalieri germanici di re Manfredi di Sicilia. A loro, si aggiungeva la storica e più accanita città ghibellina umbra: Terni (premiata da poco più di un ventennio da Federico II con l'aquila nera in campo oro nel proprio gonfalone cittadino: «...per la fedeltà e la gagliardia dei suoi uomini...» e comandata da un'antica, solida e orgogliosa aristocrazia di origine germanica, la famiglia Castelli in primis, discendente dei principi franchi di Terni, ma anche quella dei Camporeali e dei Cittadini). A questa si aggiungevano altre città e fazioni toscane: i fuorusciti fiorentini, Asciano, Santafiora e Poggibonsi.

La mattina del 4 settembre l'esercito ghibellino, superato il fiume Arbia, si preparò alla battaglia. A determinare la disfatta dei Fiorentini fu il tradimento dei Ghibellini che si erano infiltrati nella cavalleria e avevano avuto coi fuoriusciti segrete intese. Bocca degli Abati, appena i Senesi attaccarono i Fiorentini, con un colpo di spada tagliò la mano a Jacopo de' Pazzi, reggente l'insegna di Firenze. Fu il segnale del tradimento. Gli altri Ghibellini, che si trovavano tra le file della cavalleria fiorentina, strappandosi le rosse croci guelfe, le sostituirono con quelle bianche ghibelline; e si volsero a ferire i loro stessi commilitoni. I Fiorentini furono poi attaccati alle spalle dalla cavalleria tedesca e il comandante generale Iacopino Rangoni da Modena fu ucciso; l'episodio causò l'inizio della rotta dei guelfo-fiorentini.[16] I ghibellini si lanciarono all'inseguimento e iniziarono "lo strazio e 'l grande scempio che fece l'Arbia colorata in rosso"[17] durato fino all'arrivo della notte. Si calcola che le perdite siano ammontate a diecimila morti e quindicimila prigionieri in campo guelfo (solo i fiorentini ebbero 2500 caduti e 1500 furono catturati) a fronte di 600 morti e 400 feriti in campo ghibellino.[18] La notizia della disfatta di Montaperti, in quel 4 settembre 1260, si diffuse ovunque molto velocemente. I Ghibellini rimasti celatamente a Firenze si sollevarono abbattendo i gigli rossi e strapazzando il Leone, simbolo della potenza guelfa.

I Guelfi rimasti in città non pensarono neppure alla resistenza contro l'esercito ghibellino, che certamente si sarebbe rovesciato su Firenze. Essi videro scampo solo nella fuga, timorosi non tanto dei nemici di fuori, quanto degli avversari di dentro. Il 13 settembre del 1260 i guelfi fiorentini abbandonarono la loro città e si rifugiarono a Bologna e a Lucca.[19]

Congresso di Empoli

Lo stesso argomento in dettaglio: Congresso di Empoli.
Piazza Farinata degli Uberti
(detta anche Piazza dei leoni)

Alla fine dello stesso mese fu convocata a Empoli una dieta delle città e dei signori della Toscana di parte ghibellina per discutere come rafforzare il ghibellinismo toscano e consolidare nella regione l'autorità del re. Ad Empoli, il Vicario generale, conte Giordano di Agliano, portò nel consiglio la volontà del Re: Firenze doveva essere cancellata dalla faccia della terra. Molti capi ghibellini, chi per odio verso Firenze, chi per compiacenza verso Manfredi, acconsentirono al progetto. Alla base di una simile scelta si possono con facilità individuare ben precise ragioni politiche ed economiche: per Manfredi ed altre città toscane si trattava di eliminare la città che fino ad allora si era opposta più fermamente allo sviluppo del dominio ghibellino e che deteneva una posizione strategica al centro della penisola.[20] Da anni Firenze sfidava impunemente l'autorità regia e tra i molti episodi di tale sfida, non certo solo militare, si segnalava la coniatura del fiorino d'oro, autentica usurpazione di un privilegio fino ad allora esclusivamente imperiale. È dunque comprensibile come Manfredi scrivesse, congratulandosi, ai vittoriosi senesi: “E non basti a voi ed ai vostri discendenti che Firenze sia deflorata del fiore della sua giovinezza, la spada vincitrice non si fermi se non quando il fuoco da essa scaturito non distrugga ed annichilisca, affinché non possa più avvenire che risorga”.[21]

L'incontro di Dante con Farinata degli Uberti in una miniatura del 1478 ca.(Biblioteca Apostolica Vaticana cod.Urbinate lat.365)

Per Siena distruggere Firenze significava eliminare per sempre quella che già era ed ancor più sarebbe divenuta in futuro l'odiata egemone della regione. Solo la ferma opposizione dei Ghibellini fiorentini salvò Firenze. Farinata degli Uberti chiese e ottenne la parola come capo dei Ghibellini di Firenze. Egli avrebbe protetto, contro tutti, la propria città. La coraggiosa presa di posizione di Farinata salvò Firenze dalla totale distruzione e a lui fruttò l'ammirazione di tutti i cittadini, compresi i guelfi. Tutti i cronisti, Dante con i suoi celebri versi ed anche la tradizione storiografica, indicano concordi in Farinata degli Uberti colui che "solo", "a viso aperto", difese Firenze dalla certa rovina.[22] La battaglia di Montaperti fu decisiva per la nascita dell' “animo” guelfo: « (...) il popolo di Firenze ch'era più guelfo che ghibellino d'animo per lo danno ricevuto, chi di padre, chi di figliuolo, e chi di fratelli alla sconfitta di Monte Aperti (...) ».[23]

Tra il 1260 e il 1266, tra la battaglia di Montaperti e quella di Benevento – si crearono in effetti a Firenze le premesse per la formazione di un'identità guelfa. Nell'aprile del 1267 i Guelfi rientrano in città e in quell'occasione la parte guelfa e Carlo d'Angiò iniziarono a giocare un ruolo da protagonisti nel governo della città.

Intanto, il 27 settembre 1260, i Ghibellini vittoriosi di Montaperti avevano fatto il loro ingresso veramente trionfale da Porta di Piazza, e i Guelfi non avevano neppure atteso di vederli spuntare dalla salita di San Gaggio. Si insediarono al governo della città e a tutti i cittadini fu fatta giurare fedeltà al re Manfredi. I Ghibellini, dopo la partenza dei Guelfi, stavano facendo quello che già avevano fatto i Guelfi, dieci anni prima, cioè abbattevano le case e le torri dei loro avversari. Centotré palazzi, cinquecentottanta case e ottantacinque torri completamente rase al suolo; due palazzi, sedici case e quattro torri demoliti in parte. E poi mulini, tiratoi, in città; castelli e corti nel contado. E insieme con le case e con le torri, venne demolita la costituzione del Primo Popolo. Abbattuta l'insegna e l'autorità del Capitano del Popolo; abolito il Consiglio degli Anziani, dispersi i Buonomini. Il Podestà, di nomina imperiale, venne reintegrato in tutte le sue prerogative e nella piena autorità di primo magistrato cittadino. Alla carica di Podestà fu eletto il conte Guido Novello, che aveva comandato l'esercito ghibellino nella battaglia di Montaperti.[24]

Il governo guelfo, detto del Primo Popolo, era durato dieci anni, dal 1250 al 1260, cadendo a Montaperti sotto i colpi dei cavalieri di Manfredi; quello ghibellino durò sei anni, dal 1260 al 1266, cadendo a Benevento sotto i colpi di re Carlo d'Angiò.

La battaglia di Benevento e i tre gruppi politici

Lo stesso argomento in dettaglio: Battaglia di Benevento (1266).
La battaglia di Benevento, miniatura della Nuova Cronica di Giovanni Villani

La battaglia di Benevento fu combattuta il 26 febbraio 1266 fra le truppe guelfe di Carlo d'Angiò e quelle ghibelline di Manfredi di Sicilia. La sconfitta e la morte di quest'ultimo portarono alla conquista angioina del Regno di Sicilia.

Nel 1267 finì per sempre la dominazione del partito ghibellino in Firenze e la fortuna politica di quelle grandi famiglie che con esso si erano identificate. Tre gruppi politici dunque si contesero in questi mesi il dominio del più importante centro della Toscana: i Ghibellini che tentarono a tutti i costi di mantenere il potere, fidando anche sul notevole deterrente costituito dal forte nucleo di cavalieri tedeschi al soldo del conte; il Popolo[25], che si trovò insperatamente in una posizione di privilegio, dal momento che, al contrario dei Guelfi, molti dei suoi membri più in vista erano rimasti in città e avevano più immediate possibilità di tornare alla guida del Comune, sfruttando lo stato di insicurezza e di crisi dei Ghibellini; i Guelfi, infine, sebbene in esilio, potevano contare sull'appoggio del Papa Clemente IV e si aspettavano un aiuto militare da parte di Carlo d'Angiò, non appena questi avesse consolidato la conquista dell'Italia Meridionale.

I primi a muoversi furono i Ghibellini, che in un Consiglio unanime, pochi giorni dopo Benevento, decisero di inviare quattro ambasciatori al Papa per cercare di togliere le scomuniche che da anni gravavano sul Comune. Dal canto suo Clemente IV, dotato di notevole accortezza politica, non disdegnò questo atto di sottomissione preventivo: in cuor suo avrebbe certamente preferito cacciare i Ghibellini da Firenze e dalle altre città della Toscana, ma al momento non aveva forze militari disponibili, poiché non poteva contare sull'aiuto dell'Angioino, ancora impegnato nel Sud.[26] Egli volle innanzi tutto che l'ubbidienza dei Fiorentini fosse garantita pecuniariamente da sessanta mercanti. Un'altra garanzia, ben più precisa politicamente, venne inoltre richiesta: l'assoluzione definitiva fu subordinata infatti alla riconciliazione delle autorità fiorentine con i Guelfi esiliati; se alla data del 16 maggio, giorno di Pentecoste, la pace non fosse stata conclusa, sarebbe stato lo stesso Pontefice a fissarne le condizioni.

Sembrava dunque tutto risolto, ma i contrasti erano ben lungi dall'essere appianati: i Ghibellini nonostante le minacce papali rimandavano di mese in mese la pacificazione con i Guelfi e si rifiutavano di licenziare i cavalieri tedeschi mal visti dal Papa. Clemente IV dal canto suo andava a rilento nell'assolvere i Ghibellini più potenti e pericolosi.[27] Si instaurò così sulla scena politica fiorentina una sorta di gioco delle parti nel quale ogni attore, sia esso il Papa o i Ghibellini o il Popolo, cercò di mantenere o di riconquistare il dominio della città. Fu una situazione di precario equilibrio che si protrasse ad alterne vicende fino all'11 novembre 1266, quando una mossa avventata eliminò definitivamente i Ghibellini da questa scena.

Si suppone che dopo la battaglia di Benevento si sia creata in Firenze una sorta di alleanza tra il Popolo e i Ghibellini, attraverso la quale il primo tendeva a riconquistare i privilegi perduti nel 1260 e gli altri, venuto a mancare il principale sostenitore esterno, cercavano nuovi accordi interni per evitare, o almeno rimandare il più possibile, il ritorno dei Guelfi. In virtù di questa alleanza i Ghibellini riuscirono a resistere alle imposizioni del Papa, trattenendo in città i cavalieri teutonici e lasciando confinati i Guelfi. Come contropartita il Popolo doveva aver chiesto probabilmente la restaurazione del Consolato delle Arti e di tutti i diritti connessi, cioè tutte quelle prerogative che i Ghibellini avevano abolito nei sei anni precedenti ed ora erano costretti a ripristinare.[28]

Decapitazione di Corradino (G.Villani)

Il tumulto dell'11 novembre 1266 (in cui, a seguito di un moto popolare, Guido Novello con una schiera di cavalieri, molti dei quali tedeschi, abbandonò la città) segnò il tramonto della stella ghibellina nel cielo di Firenze. Contemporaneamente all'eclisse ghibellina si ebbe il breve ed effimero ritorno al potere degli esponenti popolari. Subentrarono invece i Guelfi, che si erano dati una struttura associativa saldamente organizzata, cementata nel corso dei sei anni di esilio. Quando le truppe angioine consegnarono nelle mani dei loro sostenitori fiorentini il potere del Comune, la parte guelfa era, probabilmente, l'organismo più robusto ed efficace che si trovasse dentro le mura della città e fu così che divenne a partire dal 1267 un vero organo di governo, influente in patria ed eminente nelle sue relazioni con l'estero.[29]

Sua prima preoccupazione fu quella di sopprimere le magistrature popolari, sostituendo ad esse i propri istituti, come il Capitano della Massa di Parte Guelfa che doveva rappresentare, agli occhi del popolo, una sorta di beffa nei confronti del precedente Capitano del Popolo. Era la prima volta che il nome di un partito appariva negli ordinamenti repubblicani, in luogo del "comune" o del "popolo". Ciò significava che il governo della Repubblica si trovava nelle mani di una sola "parte" e non di tutta la città. In più voleva dire che dipendeva esclusivamente da Carlo d'Angiò, il quale non dissimulava il progetto di assoggettare tutta la Toscana con le forze e con le ricchezze di Firenze, specialmente quando le speranze dei Ghibellini caddero con la testa dell'ultimo degli svevi, Corradino (1268).[30]

Gli anni dal 1267 al 1280 rappresentarono un periodo in cui le vecchie famiglie del guelfismo fiorentino dominarono la città senza contrasti troppo acuti. Accanto a questo gruppo convisse, abbastanza pacificamente, tutto un vasto ceto che proveniva dall'attivissimo mondo mercantile di Firenze e che contese fin dall'inizio del secolo la guida del Comune ai vecchi governanti. Furono questi i gruppi sociali che formarono di fatto la classe dirigente guelfa: la vecchia aristocrazia, i futuri magnati e i popolani più ricchi e potenti.

"Rampini" e "Mascherati" nella Repubblica di Genova

Le lotte tra guelfi e ghibellini, che nella Repubblica presero il nome rispettivamente di "rampini" e "mascherati"[31], iniziarono già ai tempi di Federico Barbarossa e progredirono fino al 1270, anno in cui Oberto Doria e Oberto Spinola, a seguito di un'insurrezione ghibellina, divennero di fatto "diarchi" e riuscirono a governare la città per circa 20 anni, in pace. Il pretesto per la rivolta venne dopo la sfortunata ottava crociata in cui, a seguito di un'epidemia, trovò la morte Luigi IX di Francia. Carlo d'Angiò prese le redini della crociata il cui obiettivo fu Tunisi invece della Terrasanta e fece rapidamente la pace con l'emiro per proseguire il suo piano di consolidare il potere in Italia e attaccare Costantinopoli per ripristinare l'Impero Latino. Questa minaccia all'antico alleato bizantino oltre alla crescente supremazia guelfa in Italia, alla disfatta della crociata effettuata con navi genovesi e al tentativo di imporre su Ventimiglia un podestà anch'egli guelfo, furono le cause dell'insurrezione ghibellina a Genova. All'insediamento dei diarchi e all'istituzione di un "abate del popolo" in affiancamento ai due Capitani, con funzione di rappresentante della borghesia e dei ceti popolari, seguì l'espulsione della nobiltà guelfa cittadina, guidata tradizionalmente dalle casate Grimaldi e Fieschi. I primi si rifugiarono nel ponente ligure, mentre i Fieschi trovarono riparo nei loro feudi dello spezzino. I Doria e gli Spinola condussero con successo campagne militari contro ambedue le casate guelfe e ripristinarono l'ordine nella Repubblica, grossomodo fino alla fine del secolo.

La Pace sull'Arno

Quando Clemente IV morì nel 1268, invece di un papa francese come sperava Carlo d'Angiò, venne eletto nel 1271 il piacentino Tebaldo Visconti, che prese il nome di Gregorio X. Egli perseverò nella politica di pacificazione, che significava anche limitazione del potere di Carlo d'Angiò. Difese così i Ghibellini dall'eccessiva persecuzione guelfa. Nell'illusione di comporre l'insanabile dissidio, arrivò egli stesso a Firenze nell'estate del 1273, in compagnia di re Carlo e di Baldovino II imperatore di Costantinopoli. Il papa volle che in una vasta piazza sotto il ponte di Rubaconte si svolgesse la cerimonia di pacificazione. Quel tentativo sul greto dell'Arno non durò neppure un giorno. La sera stessa si diffuse la voce, fatta spargere da Carlo d'Angiò, contrario alla concordia, che tutti i capi ghibellini sarebbero stati presi e uccisi. Nella nottata essi fuggirono, rompendo i patti giurati. Il papa, fortemente adirato, se ne andò da Firenze.[32]

La Pace del Cardinale Latino

Latino Malabranca Orsini, Tommaso da Modena, Sala del Capitolo del Seminario di Treviso, 1352

Fallita la pace sul greto, tentata da Gregorio X, ne fu tentata un'altra, sei anni dopo, sulla piazza vecchia di Santa Maria Novella. Sedeva sulla cattedra di San Pietro un romano, della famiglia Orsini. Per ristabilire un certo equilibrio, Niccolò III si fece così, in qualche modo difensore dei Ghibellini perseguitati, nei confronti dei Guelfi persecutori, protetti e sorretti dal re Carlo. Ma l'intento del papa non era quello di rovesciare le sorti: desiderava, come Gregorio X, la pacificazione delle due parti, o la coesistenza dei due partiti, in un bilanciato equilibrio di cui egli, che aveva ricevuto dall'imperatore Rodolfo d'Asburgo il territorio della Romagna, sarebbe stato l'imparziale arbitro. Pochi giorni dopo la sua elezione, si era presentato a lui l'abate di Camaldoli, il quale gli aveva fatto presente la condizione di Firenze, ancora divisa, ancora discorde, e dove gli stessi guelfi, rimasti padroni della città, avevano tra di loro continue brighe.

Niccolò III fece ritogliere dall'imperatore Rodolfo il Vicariato della Toscana a re Carlo d'Angiò, e assunse egli stesso l'arbitrato su quella città troppo importante per essere lasciata in balia delle discordie e alla mercé di un sovrano straniero. Era evidente nel papa Orsini l'intenzione, non tanto di dominare Firenze, quanto di pacificarla, per farne una grossa pedina tra Roma e Bologna. A tale scopo inviò come paciere il cardinale Latino Malabranca Orsini, che già si trovava nella Romagna, dove aveva dato prova di saggezza e di ferma autorità.[33]

Il Cardinale paciere per la grande cerimonia della pacificazione scelse la piazza di Santa Maria Novella nella quale esortò i Fiorentini alla concordia, esaltò il dono della pace, chiese al popolo che gli venissero concessi tutti i poteri legislativi, esecutivi e giudiziari. Convocò inoltre gli esponenti dei due partiti; con un “lodo” fece richiamare in città molti Ghibellini esiliati, restituendo loro i beni confiscati. Anch'egli combinò nuovi sposalizi tra giovani d'avverse famiglie, e quando gli parve che la pace fosse finalmente matura, nel gennaio del 1280, ritornò sulla medesima piazza, per la solenne e pubblica cerimonia della conclusa pace.

L'intervento del cardinale Latino in Firenze apportò notevoli mutamenti al quadro politico della città. Più che una reale pacificazione tra le parti che nel cinquantennio precedente si erano accanitamente date battaglia, il risultato della lunga opera di mediazione attuata durante il periodo di permanenza del cardinale in Firenze fu un sostanziale mutamento costituzionale e l'inizio di un nuovo clima politico.[34]

Torre di Corso Donati

Dopo la pace del gennaio - febbraio 1280, infatti, cominciò un periodo di transizione che terminò con l'istituzione del Priorato. Il nuovo ordine costituzionale istituito dal cardinale paciere, basato su una teorica pariteticità tra Guelfi e Ghibellini, se da una parte contribuì in maniera notevole ad incrinare l'indiscussa egemonia della parte guelfa che aveva dominato il Comune nei tredici anni precedenti, dall'altra favorì all'interno della città la formazione di un nuovo ceto sociale. L'obiettivo del cardinale e quindi del Papa Niccolò III era quello di instaurare un nuovo e stabile equilibrio di potere, che trovò la sua espressione nella Magistratura dei XIV, aperta ad entrambe le opposte fazioni e all'elemento popolare, e nell'ufficio del Capitano Conservatore della Pace, che aveva il compito di mantenere l'ordine così faticosamente raggiunto. Si volevano eliminare, una volta per sempre, abolendo tutte le organizzazioni di parte, gli antichi rancori e le antiche divisioni che avevano costituito gran parte della storia interna della città fino ad allora. La pace però era solo fittizia e diversi fattori contribuirono a vanificarla: le organizzazioni di parte, ad esempio, e soprattutto la parte guelfa restarono meno potenti politicamente, ma pur sempre influenti.

I Ghibellini riuscirono così, dopo molti anni di esilio, a rientrare in una città che aveva ormai preso un indirizzo guelfo, soprattutto nel suo settore più vitale, quello dei commerci.[35]

La convivenza forzata tra i vecchi nemici, d'altra parte, indeboliva in generale la classe più alta della popolazione a favore del ceto più produttivo. Si stava dunque attuando progressivamente non solo una profonda trasformazione istituzionale, ma, di pari passo, un ricambio all'interno della classe dirigente.

Palazzo Mozzi

Il significato della pace del cardinale Latino stava nella vittoria di quella politica papale antiangioina che, iniziatasi con Gregorio X, si era potuta concludere con il Pontificato di Niccolò III, che aveva saputo barcamenarsi tra le opposte forze di Carlo d'Angiò e del nuovo imperatore Rodolfo d'Asburgo. Sul piano interno questo si traduceva in una sostanziale diminuzione di potere per i seguaci fiorentini di Carlo d'Angiò, che rappresentavano il guelfismo intransigente e facevano capo alla famiglia dei Donati.[36] In quel periodo ebbero particolare influenza certe famiglie dell'alto ceto mercantile come i Mozzi[37], che favorirono i trattati di pacificazione e quindi il ritorno dei ghibellini.

Il momento era dunque favorevole per l'attuazione del nuovo mutamento costituzionale, che seguiva di poco un altro rivolgimento di rilevanza internazionale: i Vespri Siciliani. Il 30 marzo 1282 infatti, scoppiò a Palermo un tumulto che liberava la Sicilia dai francesi, mettendo in crisi la potenza angioina in Italia.

Il Priorato e l'ascesa del ceto mercantile

L'istituzione del Priorato, determinata in parte dal declino della potenza angioina in Italia, ma soprattutto dall'emergere in Firenze di un nuovo ceto, espressione della parte più attiva del mondo mercantile, era la logica conclusione di un processo che, iniziato con la pace del cardinale Latino, aveva visto un lento spostamento all'interno della classe dirigente a favore della grande "borghesia" mercantile e artigiana. I mercanti, gli artigiani maggiori, avevano il vantaggio rispetto ai grandi di essere meno divisi politicamente, poiché se è vero che esistevano mercanti di tendenza guelfa e mercanti di tendenza ghibellina, il comune interesse commerciale e la consapevolezza di rappresentare il ceto produttivo della città, rendevano ormai superati i contrasti di partito. In questo senso essi rappresentavano una classe, sia pure dai confini non troppo rigidi, di fronte al discorde blocco delle grandi famiglie.

I Bardi, protetti di Carlo d'Angiò, gli Spini, protetti del Papa, i Becchenugi, ricchi mercanti di Calimala, si erano politicamente affermati durante i tredici anni della dominazione guelfa. Il loro processo di ascesa, che li aveva visti salire ai vertici della classe dirigente, si consolidò in questo periodo e se in precedenza questi casati avevano svolto il ruolo di comprimari nell'élite dirigente guelfa, essi arrivarono a detenere in prima persona le sorti del Comune.[38]

Il Priorato, più che una magistratura rivoluzionaria, fu quindi la necessaria trasformazione costituzionale che i mutati rapporti sociali e le mutate condizioni politiche ed economiche rendevano ormai inevitabile.

Se la parte guelfa e i suoi prestigiosi sostenitori riuscirono a mantenere un notevole ascendente nelle decisioni politiche che si presero all'interno dei consigli e degli organi di governo della città, altrettanto non si può dire di quelle famiglie che, dal 1260 al 1266, avevano formato l'élite ghibellina. Il peso delle numerose sanzioni politiche e degli esili di massa aveva ormai indebolito e disperso le forze dei vecchi sostenitori filo-svevi, impedendo loro di ricostituire su basi sufficientemente solide una parte ghibellina che potesse contrastare in Firenze quella dei tradizionali nemici. L'influenza politica delle grandi famiglie ghibelline era, di conseguenza, praticamente nulla dopo il 1280, cosicché alcuni casati come i Caponsacchi, i Guidi, i Lamberti, gli Ubriachi, i Bogolesi- Fifanti, i Cappiardi, i Galli e gli Schelmi, gran parte cioè della nobiltà ghibellina, non comparivano più in alcun incarico politico. La parte ghibellina mancava dunque dei suoi tradizionali capi, condannati ad un esilio che si protraeva ormai da quasi una generazione e destinati a scomparire per sempre dalla storia della classe dirigente fiorentina.[39]

La battaglia di Campaldino

Lo stesso argomento in dettaglio: Battaglia di Campaldino.
Diorama della battaglia di Campaldino, Museo della Casa di Dante, Firenze

In Toscana rimaneva un unico focolaio di ghibellinismo: Arezzo. Nel maggio del 1289 vennero drizzate le insegne di guerra alla Badia di Ripoli, in direzione del Valdarno. Ciò significava dichiarazione di guerra di Firenze ad Arezzo.

L'esercito attaccante non era formato da soli fiorentini. Sotto i gonfaloni gigliati si trovavano anche Guelfi di Bologna, di Pistoia, di Prato, di Volterra, di Siena che, nel frattempo, era diventata guelfa. Era tutta la Toscana guelfa che muoveva contro Arezzo ghibellina.

L'11 giugno 1289 si combatté nella piana di Campaldino, fra Poppi e Pratovecchio: i fiorentini, guidati da Neri de' Cerchi, Corso Donati e altri, riportarono una grande vittoria contro gli aretini e gli altri ghibellini guidati dal vescovo di Arezzo e da Buonconte da Montefeltro. Tra i combattenti si trovava anche Dante Alighieri, come feditore a cavallo. Guido Novello comandava la cavalleria di riserva ghibellina, Corso Donati quella guelfa.[40]

La mattina di sabato 11 giugno cominciò la battaglia. Dopo vari scontri, la cavalleria ghibellina fu accerchiata. Guglielmino degli Ubertini affrontò i nemici con i suoi fanti e fu abbattuto dopo un aspro combattimento. Caddero anche Buonconte da Montefeltro e Guglielmo Pazzo. La battaglia era ormai giunta a conclusione in favore dei Guelfi.

Si cominciarono a raccogliere e a cercare di riconoscere i moltissimi caduti: da parte ghibellina si contarono circa 1700 morti; da parte guelfa se ne contarono circa 300. Vennero sepolti in grandi fosse comuni in prossimità del convento di Certomondo.

Furono condotti, inoltre, più di mille prigionieri a Firenze che in parte furono rilasciati in cambio di un riscatto. Chi non fu riscattato morì in breve tempo nelle prigioni fiorentine: furono alcune centinaia. Questi furono sepolti a lato della via di Ripoli, a Firenze, in un luogo che ancora oggi si chiama "Canto degli aretini". Il luogo della battaglia è oggi ricordato da un monumento, detto "Colonna di Dante".[41]

Gli Ordinamenti di Giano della Bella

Lo stesso argomento in dettaglio: Ordinamenti di giustizia.
Giano della Bella
G.Villani, Nuova Cronica

Nello stesso anno tornò a Firenze, ricco di sostanze e d'esperienza acquistate in Borgogna, Gianni Tedaldi della Bella, che era stato tra i Priori, nel 1289. Venne rieletto anche nel 1292, e fu allora che, con destrezza e decisione, operò il suo colpo di mano, in favore delle Arti minori e di quello che fu chiamato "il secondo popolo".[42] Ormai nella città non si poteva più parlare né di guelfi né di ghibellini. Firenze era tutta guelfa, ma comunque divisa in varie fazioni. Approfittando della loro rivalità, varò prima nel Consiglio dei Cento, poi nel Consiglio speciale del Capitano, una deliberazione con la quale anche le Arti minori venivano ammesse nel governo della città. Ciò gli assicurò immediatamente il favore dei popolani e suscitò le ire dei Magnati, che lo considerarono traditore della propria classe. Perché costoro, ricevuto il duro colpo, non rialzassero la testa, Giano della Bella, il 15 febbraio 1289, chiamò tre giuristi ad elaborare una nuova costituzione, detta poi degli Ordinamenti di giustizia.[43]. Per applicare immediatamente ed efficacemente gli Ordinamenti, fu istituita la nuova magistratura del Gonfaloniere di Giustizia, al quale venne data "l'arme del popolo", cioè la croce rossa nel campo bianco, e che doveva vigilare che i grandi non recassero ingiurie ai popolani.[44]

Guelfi bianchi e neri

Lo stesso argomento in dettaglio: Guelfi Bianchi e Neri.

Firenze, ormai stabilmente guelfa, risultava comunque divisa in due fazioni: i Bianchi, riuniti intorno alla famiglia dei Cerchi, fautori di una moderata politica filo papale, che riuscirono a governare dal 1300 al 1301; e i Neri, il gruppo dell'aristocrazia finanziaria e commerciale più strettamente legato agli interessi della chiesa, capeggiato dai Donati, che salirono al potere con l'aiuto di Carlo di Valois, inviato dal papa Bonifacio VIII.

«Queste due parti, Neri e Bianchi, nacquono d'una famiglia che si chiamava Cancellieri, che si divise: per che alcuni congiunti si chiamarono Bianchi, gli altri Neri; e così fu divisa tutta la città»

Le fazioni prendono nome dai due partiti in cui si divideva la città di Pistoia, chiamati i cancellieri bianchi e neri. Le principali famiglie di Firenze si schierarono tutte con l'una o l'altra fazione. Giunse a Firenze il cardinale Matteo d'Acquasparta, legato pontificio. Ma poiché i Bianchi rifiutarono di dimettersi dagli uffici, il cardinale legato lasciò Firenze, lanciando l'interdetto sulla città. Si crearono disordini in città al termine dei quali il Comune mandò in esilio i capi delle fazioni. I Neri, con Messer Corso Donati, furono confinati a Castel della Pieve, i Bianchi a Sarzana. Fra i Bianchi costretti all'esilio c'era Dante.

Siena

A Siena, la pace del cardinale Orsini (1280) aveva riammesso in città i ghibellini, ma dal 1289, a causa degli intrighi orditi da costoro alla morte di Carlo d'Angiò, venne ripristinato un governo guelfo di ricche famiglie popolari e mercantili, il cosiddetto “governo dei Nove”, che durò fino al 1355, mantenendo rapporti di amicizia con Firenze. Fu il miglior governo di Siena: la città raggiunse la maggiore prosperità e grandezza, con più di 70.000 abitanti.

Pisa

Castruccio Castracani, Biblioteca Statale di Lucca

Il comune di Pisa era in declino. Sul finire del XII secolo, alla storica rivalità marittima con Genova, soprattutto per il controllo della Sardegna e della Corsica, si era aggiunto il contrasto con Firenze. Fin dal primo scontro, conclusosi con la conquista fiorentina di Empoli nel 1182, Firenze, seppe trarre vantaggio dalla debolezza interna del comune pisano, spaccato dal conflitto di interesse fra gli industriali e il ceto mercantile (ai primi la concorrenza di Firenze nuoceva, i secondi dal transito delle merci fiorentine per il porto traevano lauti guadagni). Lacerata da conflitti interni e indebolita dai decenni di pressione di Firenze e Genova, Pisa subì nel 1284 la definitiva sconfitta della Meloria, nei pressi di Livorno.

Primi decenni del Trecento

Nei primi decenni del Trecento Firenze subì ripetuti attacchi dalle città toscane ghibelline; mentre Siena, retta stabilmente dal governo guelfo dei Nove, era passata fra gli alleati. Nel 1315, a Montecatini, Firenze fu sconfitta dalle truppe di Pisa, capeggiate da Uguccione della Faggiola e da Castruccio degli Antelminelli, detto Castracani per l'ardore della combattività. Dallo stesso Castruccio, divenuto nel frattempo signore di Lucca, Firenze subì nel 1325 anche la disfatta di Altopascio. Nominato nel 1327 Duca e Vicario imperiale da Ludovico IV il Bavaro, Castruccio minacciò seriamente la supremazia di Firenze, progettando un ampio dominio territoriale. Solo la sua morte, nel 1328, al termine dell'estenuate assedio di Pisa, consentì a Firenze di riprendere le proprie mire espansionistiche, a danno di Pistoia (1331), Cortona (1332), Arezzo (1337), Colle Val d'Elsa (1338).[45]

Araldica di Guelfi e Ghibellini toscani

Parte Guelfa

Nel 1265, papa Clemente IV fece dono a una delegazione di Guelfi fiorentini fuoriusciti, del proprio personale stemma: un'aquila rossa su campo bianco che artiglia un drago verde.[46] Dalla Cronica del Villani, che è l'unica fonte disponibile circa la notizia dell'esistenza di uno stemma personale di papa Clemente IV e il dono da lui elargito, emerge come, successivamente, la Parte Guelfa di Firenze vi aggiunse un piccolo giglio rosso - simbolo del Comune fiorentino dal 1251[47] - collocato sopra la testa dell'aquila. Tale bandiera, fu quella sventolata dal pistoiese Corrado da Montemagno sulla piana di Grandella nella battaglia di Benevento il 26 febbraio del 1266.[48]

Nell'Apocalisse, il Drago rappresenta

«l'antico serpente che si chiamava Diavolo e Satana, il seduttore del mondo intero.»

[49]

L'immagine dell'aquila che artiglia un serpente è, comunque, un tema antico che simboleggia la lotta tra il Bene e il Male. Risulta dunque chiaro come il simbolo prescelto fosse un messaggio di crociata contro gli Svevi e contro Manfredi e i suoi alleati ghibellini. Ma l'Aquila, per dirla con Dante, era il "pubblico segno", "il sacrosanto segno" dell'Impero e, pertanto, l'Aquila rappresentata nell'atto di artigliare il Drago risulta essere un'appropriazione pontificia del simbolo peculiare dell'Impero. Essa appariva, nel vessillo di Clemente IV, di colore rosso, anziché nero, e con il capo rivolto verso sinistra, invece che verso destra. Lo stemma corretto era, per l'Impero, l'Aquila nera su campo oro. A Terni invece, la parte guelfa era rappresentata da un angelo crucifero.

Parte Ghibellina

Un sigillo della fazione ghibellina, datato agli ultimi decenni del XIII secolo e conservato presso il Bargello, viene descritto nel volume dedicato ai Sigilli Civili del Museo del Bargello: "Ercole a cavallo del Leone Nemeo, in atto di sganasciarlo; nel fondo alcune pianticelle con trifogli".[50] Lo stemma raffigurato sul sigillo fiorentino raffigura un uomo vestito che, a cavalcioni della bestia, ne disarticola le fauci prendendolo alle spalle. L'interpretazione di tale sigillo risulta controversa: inizialmente, nel personaggio viene identificato Ercole e nel leone la fiera di Nemea, la prima delle fatiche erculee. Dunque Ercole sarebbe stato scelto come simbolo della Parte Ghibellina per la sua forza e il suo coraggio contro il maligno Leone.

Successivamente, si giunge ad una diversa lettura della raffigurazione: il personaggio rappresentato non è Ercole, e il leone non è la fiera di Nemea. Si tratta, invece, di Sansone che smascella il leone. L'animale era diventato, infatti, il simbolo della città, in cui la Repubblica si riconosceva. A rafforzare il legame tra la città e l'animale contribuì l'alluvione del 1333 che spazzò via la statua di Marte, considerato il protettore di Firenze, posta presso Ponte Vecchio. Per questo, l'etimologia più probabile del Marzocco, è quella della contrazione di un diminutivo di Marte, Martocus.

Resta il dubbio sul motivo per cui i Ghibellini fiorentini avessero scelto di rappresentare la morte del Leone. Secondo alcune ipotesi, per simboleggiare la fine della Firenze popolare e filoguelfa; secondo altre, rappresentava la vittoria del Bene sul Male poiché spesso l'animale è divenuto simbolo di superbia, ferocia e forza incontrollata, in Dante[51] come nel Vecchio e nel Nuovo Testamento. Se dunque lo stemma di Parte Guelfa sottendeva il simbolismo della lotta della Giustizia contro il Demonio, altrettanto valeva per il sigillo della Parte Ghibellina. Dall'interpretazione dei due vessilli, risulta evidente come entrambe le fazioni combattevano sotto l'egida di Dio per scardinare un sistema guidato dal Maligno.[52]

Evoluzione dei termini

[53] I due termini, guelfo e ghibellino, che così tanto successo hanno avuto nella storia italiana, hanno però subìto un'evoluzione semantica complessa e molto interessante. Se i Guelfi e i Ghibellini sono legati, almeno nell'immaginario collettivo, alle vicende del XIII secolo ed eternati dalle parole del guelfo Dante Alighieri, ancora nel XV secolo Bernardino da Siena[54] richiedeva l'eliminazione dei due epiteti. E altrettanto faceva il vescovo di Venezia, Pietro Barozzi[55], nel suo De factionibus extinguendis; obiettivo non conseguito affatto se Andrea Alciato[56], quasi un secolo più tardi, affermava che il conflitto tra Guelfi e Ghibellini era giunto sino ai suoi tempi. Bisogna poi ricordare la ripresa Ottocentesca dei due termini, quando sorsero il partito Neoguelfo e il movimento Neoghibellino, capitanati da figure come Gioberti o Guerrazzi e che indicavano sostanzialmente un atteggiamento filopontificio o decisamente laico se non anticlericale nell'Italia risorgimentale.

Le origini

«I maladetti nomi di parte guelfa e ghibellina si dice che si criarono prima in Alamagna, per cagione che due grandi baroni là aveano guerra insieme, e aveano ciascuno un forte castello l'uno incontro all'altro, che l'uno avea nome Guelfo e l'altro Ghibellino».[57] In realtà il nome della fazione guelfa non derivava dal maniero familiare, ma dal nome stesso del duca Welf, mentre Weiblingen era proprio il nome del castello degli Hohenstaufen. L'origine dei nomi fu oggetto di studio molto presto e però, già nel corso del '300, diverse e fantasiose versioni legavano i due epiteti chi a nomi di demoni, chi di cani, chi di castelli, chi, infine, li legava a citazioni bibliche.

Firenze e Federico II (1220-1250)

Le ripetute discese di Federico Barbarossa in Italia scatenarono, prevalentemente nei comuni del Centro Nord, idee nuove sull'atteggiamento da tenere nei riguardi dell'Impero, specie in materia di autonomia. Le due fazioni, una più condiscendente, l'altra più contraria alla volontà imperiale, non sono però ancora denominate coi nomi di Guelfi e Ghibellini. Con l'arrivo sulla scena politica italiana di Federico II (1250) iniziano ad essere citate nelle fonti «le parti della Chiesa e dell'Imperio». Queste due denominazioni andarono a complicare decisamente il panorama comunale italiano che sino ad allora aveva solo utilizzato i nomi delle famiglie preminenti come etichetta di gruppi contrapposti: Lambertazzi e Geremei a Bologna, Uberti e Buondelmonti a Firenze e così via. Ma proprio a Firenze, i due gruppi familiari contrapposti assunsero i nomi di Guelfi e Ghibellini. La divisione del Comune fiorentino in Guelfi e Ghibellini divenne poi sinonimo di lotta tra Papato ed Impero, tra filopapali e filoimperiali, se non, in qualche caso, fra cattolici ed eretici.

L'eclissi sveva

Con l'insuccesso politico e la morte di Federico II il significato dei due termini cambiò notevolmente. Federico e i suoi erano stati al centro di una serie di campagne diffamanti da parte della Curia culminanti nella crociata indetta contro l'Anticristo, identificato nello Svevo. In questa fase il discrimine non era essere filopapali e buoni cristiani o meno. Il clima era quello di uno scontro di tipo religioso. Non fu perciò un caso che papa Clemente IV dotasse la Lega Guelfa di uno stemma inequivocabile: l'Aquila rossa che artiglia il Drago, dove quest'ultimo, simbolo biblico del Male per eccellenza, rappresentava certamente i Ghibellini. Ma negli stessi anni la Lega Ghibellina rispondeva fregiandosi del simbolo di Ercole che strangola il Leone. Questo, più che al Marzocco fiorentino, rinvia a uno degli animali venefici del bestiario medievale. In questo vibrante ventennio, che possiamo far concludere col 1268, con la morte dell'ultimo Hohenstaufen a Napoli, l'opposizione era dunque non tanto tra filopontifici e filoimperiali, quanto piuttosto tra i filosvevi e gli antisvevi o, meglio, i filoangioini.

Uso religioso dei termini
Scena della battaglia di Tagliacozzo

L'uso dello strumentario religioso nelle guerre, che oramai riguardavano tutta l'Italia, assume toni di vera e propria strategia politica a ridosso della duplice vittoria di Carlo d'Angiò, a Benevento (1266) e Tagliacozzo[58] (1268). Negli anni successivi vennero intentati alcuni processi religiosi per eresia contro i Ghibellini, il cui nome era ora associato sia all'opposizione politica al nuovo sovrano come all'opposizione ai precetti della Chiesa. Così, nella fase che coincise col successo guelfoangioino, se l'essere guelfo tornava a significare essere "Parte della Chiesa", l'essere Ghibellino, che già significava essere avverso a Carlo di Angiò, divenne sinonimo di nemico della vera fede e quindi eretico.

Il caso della famiglia di Farinata diventò il simbolo dell'accanimento contro il ghibellinismo fiorentino: tra il 1283 e il 1285 furono riesumate e bruciate le ossa di alcuni membri della famiglia Uberti, accusati di essere eretici patarini.

Nuove lotte (dal 1330 in poi)

Nel XIV secolo, i due epiteti avevano perduto buona parte i loro significati originari. Agli inizi del '300, papa Giovanni XXII, affermò che rimane il vulgus ad utilizzare tali nomi, un uso che oramai da tempo non era più limitato alla Toscana, ma esteso a tutta l'Italia. I nomi erano rimasti, i significati, decisamente mutati. Dante, nel VI canto del Paradiso prega i Ghibellini, e probabilmente si riferisce a quelli di Firenze, a far «lor'arte sot-t'altro segno» che non sia l'aquila imperiale, un simbolo grandioso e sacro dietro cui invece ormai si nascondevano per lo più solo interessi di poche e sfortunate famiglie fiorentine esuli. Non è possibile fornire una definizione soddisfacente dei due termini, poiché da essi sorsero tanti e variegati significati utilizzati nei modi più svariati.

Sviluppi successivi

I sostantivi di guelfo e ghibellino sono stati utilizzati nei secoli successivi per definire, nel primo caso, posizioni politiche prossime al potere papale e al regno di Francia e, nel secondo, al Sacro Romano Impero. Ad esempio, Cesare Hercolani, "colpevole" di aver procurato agli imperiali l'occasione della vittoria di Pavia (1525) contro Francesco I di Francia, venne poi ucciso da attentatori guelfi.

Nel XIX secolo, poi, in Italia rinascono i contrasti, con la contrapposizione fra Neoguelfi e Neoghibellini, anche se questo scontro è completamente diverso da quello del Medioevo.

In seguito i due nomi di partito hanno generato diversi toponimi e nomi di persona o di famiglia riconducibili ad essi. Un esempio per entrambi i casi: Guffanti = Guelfi-fanti; Giubellini = Ghibellini.

Maggiori città ghibelline

Maggiori città guelfe

Città con schieramento variabile

Note

  1. ^ Giustiniano invita Dante a giudicare l'operato di Guelfi e Ghibellini che è causa dei mali del mondo: i primi si oppongono al simbolo imperiale dell'aquila appoggiandosi ai gigli d'oro della casa di Francia; i secondi se ne appropriano per i loro fini politici, per cui è arduo stabilire chi dei due sbagli di più. I Ghibellini dovrebbero fare i loro maneggi sotto un altro simbolo; lungi da quello divino, poiché è un pessimo seguace del pensiero di Dio chi separa il Segno della perfetta infallibile Giustizia Celeste da quella terrena. Carlo d'Angiò, d'altronde, non creda di poterlo abbattere coi suoi Guelfi, dal momento che l'aquila coi suoi artigli ha scuoiato leoni più feroci di lui.
  2. ^ James Bryce e a cura di Paolo Mazzeranghi, Il Sacro Romano Impero, D'Ettoris Editori, p. 71, ISBN 978-88-9328-032-7.
  3. ^ Raveggi, L'Italia dei Guelfi e Ghibellini, Mondadori, 2009
  4. ^ C.Wickham, Legge, pratiche e conflitti. Tribunali e risoluzione delle dispute nella Toscana del XII secolo, Roma 2000, p.43
  5. ^ Rosa Maria Dessì, Guelfi e Ghibellini, prima e dopo la battaglia di Montaperti(1246-1358), Siena, Accademia degli Intronati, 2011, pp.21-32
  6. ^ Raveggi, Tarassi, Medici, Parenti, Ghibellini, Guelfi e Popolo Grasso, La Nuova Italia, 1978, pp.70-72 162-164
  7. ^ E. Faini, Il convito del 1216. La vendetta all'origine del fazionalismo fiorentino, «Annali di storia di Firenze», 1 (2006)
  8. ^ Villani, Nuova Cronica, VII, III e VI
  9. ^ R.Davidsohn, Storia di Firenze, Firenze, 1956-1968, vol.I
  10. ^ Villani, Nuova Cronica, VII, IV
  11. ^ Vessilli
  12. ^ Aristocrazia e popolo nelle città italiane. Il caso di Firenze (il comune e il popolo). Reti medievali. G.Villani, Nuova Cronica, VIII
  13. ^ Federico Canaccini, Restano i termini, mutano i significati: Guelfi e Ghibellini. L'evoluzione semantica dei nomi delle fazioni medioevali italiane. pp. 89-90
  14. ^ Franco Cardini, Storie fiorentine, Ed. Loggia de' Lanzi, Firenze, 1994, ISBN 88-8105-006-4
  15. ^ Villani, Nuova Cronica, VII, LXXIV
  16. ^ Villani, Nuova Cronica, VII, LXXVIII
  17. ^ Dante, Divina Commedia, Inferno, Canto X, 85
  18. ^ Rosa Maria Dessì, Guelfi e Ghibellini, prima e dopo la battaglia di Montaperti(1246-1358), Siena, Accademia degli Intronati, 2011
  19. ^ Villani, Nuova Cronica, VII, LXXIX
  20. ^ Raveggi, Tarassi, Medici, Parenti, Ghibellini, Guelfi e Popolo Grasso, La Nuova Italia, 1978, pp. 7-8
  21. ^ R.Davidsohn, Forschungen zur Geschichte von Florenz, IV, Berlin 1908, p.159
  22. ^ Raveggi, Tarassi, Medici, Parenti, Ghibellini, Guelfi e Popolo Grasso, La Nuova Italia, 1978, p.8
  23. ^ Villani, Nuova Cronica, VIII, XIII, p.430
  24. ^ Raveggi, Tarassi, Medici, Parenti, Ghibellini, Guelfi e Popolo Grasso, La Nuova Italia, 1978, pp. 13-21
  25. ^ Per "popolo" si intende quei numerosi esponenti della parte popolare non troppo legati alle due fazioni. G.Salvemini, Magnati e popolani in Firenze dal 1280 al 1295, Milano 1966, Excursus I, pp. 198-231
  26. ^ Raveggi, Tarassi, Medici, Parenti, Ghibellini, Guelfi e Popolo Grasso, La Nuova Italia, 1978, p.78
  27. ^ R.Davidsohn, Storia di Firenze, II, Firenze, 1969, pp. 814 e ss.
  28. ^ Salvemini. Cfr. anche G.Villani, Cronica, ed.Magheri, Firenze 1823, VII, 13; L.Bruni, Istoria fiorentina, trad. a cura di D.Acciaioli, Firenze 1861, p.99
  29. ^ Della politica estera condotta da questa Parte fa menzione Davidsohn; ad esempio, nel 1274, i Guelfi aiutarono, a Bologna, la fazione dei Geremei contro i ghibellini Lambertazzi (Storia, V, P.193). Anche Villani si occupa di questo argomento (Cronica, VII, 20.)
  30. ^ Villani, Nuova Cronica, VIII, XIII
  31. ^ Martini - Gori, La Liguria e la sua anima, Savona, Sabatelli, 1967, ISBN 88-7545-189-3.
  32. ^ Davidsohn, Storia di Firenze, II, pp.114-115
  33. ^ Raveggi, Tarassi, Medici, Parenti, Ghibellini, Guelfi e Popolo Grasso, La Nuova Italia, 1978, pp. 207-209
  34. ^ R.Davidsohn, Storia di Firenze, II, Firenze, 1969, pp. 205 e ss.
  35. ^ Raveggi, Tarassi, Medici, Parenti, Ghibellini, Guelfi e Popolo Grasso, La Nuova Italia, 1978
  36. ^ Accanto ai Donati, vi erano famiglie come i Bardi, i Becchenugi, i Frescobaldi, gli Scali, i della Tosa e i Pazzi, legati alla corte angioina per i loro interessi economici.
  37. ^ Banchieri ricchissimi che ebbero anche la gestione della tesoreria pontificia
  38. ^ Raveggi, Tarassi, Medici, Parenti, Ghibellini, Guelfi e Popolo Grasso, La Nuova Italia, 1978, p. 183
  39. ^ R.Davidsohn, Storia di Firenze, II, Firenze, 1969, pp. 283-295
  40. ^ Antonio Bartolini, La Battaglia di Campaldino: Racconto dedotto dalle cronache dell'ultimo periodo del secolo XIII. Con note storiche intorno ad alcuni luoghi del Casentino, Firenze, Tipografia Polverini, 1876
  41. ^ Franco Cardini, Storie fiorentine, Firenze, Loggia de' Lanzi, 1994
  42. ^ R.Davidsohn, Storia di Firenze, II, Firenze, 1969, pp. 537 e ss.
  43. ^ R.Davidsohn, Storia di Firenze, II, L'egemonia guelfa e la vittoria del popolo, Firenze 1957, pp.622-644
  44. ^ Dino Compagni, Cronica, I, 11
  45. ^ Bussotti, Grotti, Moriani, Storia della Toscana, Ed. il capitello
  46. ^ Villani, Nuova Cronica cit. (nota 6), VIII, 2.
  47. ^ R.Davidsohn, Storia di Firenze, Firenze, 1956-1968, vol. II, pp. 547-548
  48. ^ Federico Canaccini, Battaglie di immagini tra Guelfi e Ghibellini nella Toscana comunale. Sull'uso storico di fonti sfragistiche ed araldiche circa la lotta di fazione in Toscana. «Studi medievali», s. III, 53(2012), p. 639
  49. ^ Apoc. 12, 3
  50. ^ Federico Canaccini, Battaglie di immagini tra Guelfi e Ghibellini nella Toscana comunale. Sull'uso storico di fonti sfragistiche ed araldiche circa la lotta di fazione in Toscana. «Studi medievali», s. III, 53(2012), p. 642
  51. ^ Dante, Divina Commedia, Inferno, I, vv.31-54
  52. ^ Federico Canaccini, Battaglie di immagini tra Guelfi e Ghibellini nella Toscana comunale. Sull'uso storico di fonti sfragistiche ed araldiche circa la lotta di fazione in Toscana. «Studi medievali», s. III, 53(2012), p. 653
  53. ^ Federico Canaccini, Restano i termini, mutano i significati: Guelfi e Ghibellini. L'evoluzione semantica dei nomi delle fazioni medioevali italiane
  54. ^ Al secolo Bernardino degli Albizzeschi (Massa Marittima, 8 settembre 1380 – L'Aquila, 20 maggio 1444), fu un religioso italiano appartenente all'Ordine dei Frati Minori: è stato proclamato santo nel 1450 da papa Niccolò V.
  55. ^ Pietro Barozzi (Venezia, 1441 – Padova, 10 gennaio 1507) è stato un vescovo cattolico e umanista italiano
  56. ^ Giovanni Andrea Alciato o Alciati (Milano, 8 maggio 1492 – Pavia, 12 gennaio 1550) è stato un giurista e insegnante italiano, nato nel Ducato di Milano
  57. ^ Villani, Cronache
  58. ^ La battaglia di Tagliacozzo, fu combattuta il 23 agosto 1268 tra i ghibellini sostenitori di Corradino di Svevia e le truppe angioine di Carlo I d'Angiò, di parte guelfa.
  59. ^ Agenore Bassi, Storia di Lodi, Lodi, Edizioni Lodigraf, 1977, pagg. 39-44. ISBN 88-7121-018-2.

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