Genocidio dei rohingya
Genocidio dei rohingya | |
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Tipo | Strage di massa |
Stato | ![]() |
Coordinate | 19°30′N 94°00′E |
Obiettivo | Rohingya |
Responsabili | Tatmadaw Consiglio di Amministrazione dello Stato Movimento 969 Armata dell'Arakan |
Motivazione | Razzismo Nazionalismo religioso Islamofobia Etnonazionalismo |
Conseguenze | |
Morti | 25 000−43 000 |
Mappa di localizzazione | |

Il genocidio dei rohingya è un atto di pulizia etnica e persecuzione religiosa ai danni della minoranza rohingya in Birmania. L'evento è parte integrante del Conflitto rohingya, i cui scontri si protraggono a più riprese fin dagli anni '40. Questa oppressione ha costretto molti perseguitati a fuggire all'estero chiedendo asilo politico soprattutto nel vicino Bangladesh e in altri paesi del subcontinente indiano e del sud-est asiatico. Le violenze perpetrate dal Tatmadaw (Esercito del Myanmar) e da alcuni gruppi buddisti dediti al fanatismo religioso, includono uccisioni di massa, stupri, incendi di villaggi e deportazioni forzate.[1]
Queste azioni sono state riconosciute come genocidio da diverse istituzioni mondiali, tra cui la Corte Internazionale di Giustizia e il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d'America. Inoltre la Corte Penale Internazionale ha avviato un'inchiesta sui crimini commessi nel contesto del genocidio. Tuttavia la Birmania non aderisce allo Statuto di Roma, il che complica ulteriormente le indagini e l'attribuzione di eventuali sanzioni. Difatti la minoranza rohingya è ancora ampiamente vessata; ben oltre un milione di loro vivono ancora nei campi profughi del Bangladesh, affrontando condizioni di vita precarie e rischi per la salute, in attesa di un ritorno sicuro e dignitoso. I rohingya rimasti in Birmania continuano a subire discriminazioni e violenze, con limitate prospettive di vita.[2]
Sebbene il conflitto tra la minoranza islamica e la maggioranza buddista nello Stato Rakhine sia ormai un fatto almeno pluridecennale, è soltanto a partire dal 2016 che la situazione è precipitata culminando nella persecuzione violenta contro i civili rohingya. Per comprendere la grande portata del fenomeno, basti pensare che il Campo profughi di Kutupalong, situato nel distretto bengalese di Cox's Bazar, al 2024 ospitava poco meno di 700 000 esuli musulmani, distribuiti in appena 13 km².[3]
Premessa
[modifica | modifica wikitesto]Nel 1948 la Birmania ottenne l'indipendenza dal dominio coloniale dell'Impero britannico. In seguito scoppiò una violenta guerra civile, poiché diverse minoranze etniche (tra cui i rohingya) e il Partito Comunista della Birmania presero le armi contro il governo centrale guidato da U Nu. Il tentativo fallì e il neo-costituito governo burmese iniziò a considerare la popolazione musulmana un gruppo ostile al Myanmar. Tuttavia nel 1962 un colpo di Stato militare pose fine al fragile governo civile e inaugurò una lunga stagione di regime autoritario. La giunta militare rimarrà al potere per quasi mezzo secolo, fino al 2011, imponendo una visione ultranazionalista estremamente rigida. In questo contesto i rohingya vengono sistematicamente esclusi dalla società birmana. Considerati estranei al tessuto sociale e culturale autoctono, venivano descritti dal regime come sgradevoli, a testimonianza del disprezzo profondamente radicato nei loro confronti. La legge sulla cittadinanza del 1982, infatti, non include i rohingya tra gli oltre 130 gruppi etnici ufficialmente riconosciuti dallo Stato, rendendoli di fatto immigrati illegali. In mancanza dello status di cittadini, i rohingya sono quindi vulnerabili e soggetti a maggiori discriminazioni. Nonostante il parziale ritorno alla democrazia circa trent'anni più tardi, la situazione per i rohingya non migliorò considerevolmente. Infatti anche il successivo governo era loro ostile.[4]
Cruciale è il ruolo svolto da una parte del clero buddista nella diffusione dell’odio verso la minoranza rohingya. Alcuni monaci vedono i musulmani come una minaccia alla "purezza" religiosa e culturale del paese. Campagne di boicottaggio contro attività commerciali gestite dai rohingya, divieto di matrimoni misti e altre discriminazioni fanno parte di un’agenda politica portata avanti da gruppi estremisti e fanatici come il Movimento 969, guidato dal monaco Ashin Wirathu, noto per le sue dichiarazioni violente e razziste. Condannato per incitamento all’odio, è stato liberato grazie a un’amnistia, continuando così la sua propaganda.[5]
Repressione
[modifica | modifica wikitesto]La tensione sfociò in aperte violenze nel 2012, quando uno stupro e l’uccisione di una donna buddista attribuiti a un musulmano diedero origine a scontri etnici e plurimi massacri. La situazione precipitò ulteriormente nel 2017, in seguito ad attacchi compiuti da miliziani aderenti a gruppi paramilitari rohingya contro postazioni militari birmane. La risposta del Tatmadaw fu spietata e sistematica, interi villaggi furono rasi al suolo, con numerosi civili assassinati, donne violentate e bambini arsi vivi. Le violenze sono state così gravi e organizzate da portare molte ONG internazionali e agenzie ONU a parlare apertamente di genocidio e sistema di apartheid.
Secondo la posizione di Amnesty International e Human Rights Watch, il trattamento riservato ai rohingya non è frutto di disordini spontanei, ma di una premeditata strategia di annientamento da parte delle autorità birmane. Anche al di fuori delle fasi di conflitto diretto, la minoranza musulmana subisce una repressione sistematica. Ormai i rohingya necessitano di permessi speciali obbligatori per effettuare ogni spostamento, anche per lavoro, cure mediche o funerali. Si sono verificati numerosi casi di arresti arbitrari, confisca dei beni e tassazione discriminatoria. Le autorità hanno oltretutto emesso il divieto di accesso all’istruzione e ai servizi sanitari. Quindi il sistema giuridico e amministrativo del Myanmar agisce come una macchina di segregazione razziale, volta a disumanizzare la minoranza rohingya.[6]
Profughi
[modifica | modifica wikitesto]Quasi un milione di rohingya continua a vivere in condizioni precarie nel più grande complesso di campi profughi del mondo, nei pressi di Cox’s Bazar, una città costiera nel sud-est del Bangladesh. La loro condizione è diventata un'emblematica crisi umanitaria.
Il 25 agosto 2017 segna una data cruciale. In risposta ad attacchi da parte di milizie intente a difendere gli interessi dei rohingya contro l’esercito birmano, quest'ultimo ha avviato una campagna militare su larga scala segnata da massacri, stupri, incendi sistematici di villaggi e violenze brutali di ogni genere. In poche settimane centinaia di migliaia di rohingya sono fuggiti oltre confine, cercando riparo in Bangladesh per scampare all'operazione di pulizia etnica, progettata da tempo e messa in atto con metodi brutali. Ad oggi nessuno di loro è ufficialmente potuto tornare in Birmania, come affermato anche da Michelle Bachelet, ex Alto Commissario per i Diritti Umani dell’ONU, durante una visita agli esuli rohingya in Bangladesh; ribadendo che i rimpatri dovranno essere volontari e potranno avvenire soltanto quando in Myanmar ci saranno condizioni di sicurezza sostenibili.
Nei campi intorno a Cox’s Bazar, i rohingya vivono in baracche di bambù e teli di plastica all’interno di aree sovraffollate e recintate, dove servizi igienici e acqua potabile scarseggiano. Non è consentito loro lavorare o spostarsi liberamente e l’istruzione è garantita solo a una piccola parte dei bambini. La loro sopravvivenza dipende interamente dagli aiuti umanitari internazionali, sempre più a rischio a causa della carenza di fondi e dell’inflazione globale aggravata dal Conflitto russo-ucraino. La comunità internazionale trova difficoltà anche solo nel fornire materiale da costruzione, cibo, assistenza sanitaria e gas per cucinare, ha dichiarato la portavoce dell’UNHCR in Bangladesh.
Le ONG e le agenzie ONU cercano di formare volontari interni alla comunità per affrontare emergenze come incendi o inondazioni e per promuovere attività educative, ma tali sforzi non sono ancora insufficienti a garantire un futuro dignitoso. Uno studio condotto da Save the Children ha inoltre rivelato un profondo disagio psicologico tra i rifugiati: l'80% dei bambini afferma di sentirsi depresso, l'87% dei genitori non percepisce alcun miglioramento in termini di sicurezza rispetto alla situazione precedente. Per di più i campi sono diventati anche teatro di una criminalità crescente e numerose bande armate si rendono responsabili di attività illecite quali traffico di droga, rapimenti, estorsioni e violenze. Il 9 agosto sono stati assassinati due leader comunitari, evento che segue l’omicidio nel 2021 di Mohib Ullah, attivista e figura di estremo riferimento per la comunità rohingya.[7]

Nel tentativo di alleggerire la pressione su Cox’s Bazar, il governo del Bangladesh ha iniziato a trasferire migliaia di rifugiati sull’isola di Bhasan Char, una lingua di sabbia formatasi nel Golfo del Bengala solo vent’anni fa. Sono state costruite abitazioni in cemento, ma l'isola è isolata, soggetta alle intemperie e vulnerabile all’innalzamento del mare. Human Rights Watch ha definito Bhasan Char una “prigione”, evidenziando come le organizzazioni umanitarie siano state fin dal principio contrarie al trasferimento. Il governo bengalese ha intensificato gli sforzi diplomatici per avviare il rimpatrio dei rohingya, ma il colpo di Stato in Birmania del 2021 ha reso il paese ancora più instabile e pericoloso, riproponendo al potere l'ennesimo regime militarista e intollerante. Molteplici organizzazioni mondiali pacifiste hanno presentato i risultati di un’inchiesta che documenta crimini contro l’umanità pianificati dai vertici del Tatmadaw come parte di una strategia militare ben delineata e finalizzata all'espulsione sistematica dei rohingya dal paese. Nel frattempo la Corte internazionale di giustizia ha avviato il procedimento per crimini di genocidio contro il governo militare del Myanmar, in seguito a una denuncia presentata nel 2019 dal Gambia con il sostegno dell’Organizzazione della cooperazione islamica.[8]
Negazionismo birmano
[modifica | modifica wikitesto]Nel 2017 la posizione ufficiale del governo birmano, espressa dall'ormai ex leader Aung San Suu Kyi (Premio Nobel per la pace nel 1991) davanti alla Corte internazionale di giustizia dell'ONU presso L'Aia, si fonda su una netta difesa dell’operato del Tatmadaw durante le operazioni militari del nello Stato Rakhine. Secondo Suu Kyi, tali operazioni erano mirate esclusivamente contro gruppi dediti al terrorismo islamista, in particolare contro i miliziani responsabili di attacchi letali contro postazioni di sicurezza birmane nell’agosto 2017. Suu Kyi ha riconosciuto la possibilità che vi siano stati abusi, ma ha sostenuto che spetta alle corti militari birmane indagare ed eventualmente punire i responsabili, respingendo quindi l’intervento della giustizia internazionale. Ha inoltre descritto la crisi del Rakhine come un conflitto armato interno e una sfida alla sovranità nazionale.

Questa posizione si pone in netto contrasto con le accuse mosse dal Gambia e da numerosi osservatori internazionali, che parlano di sistematici crimini contro l’umanità, tra cui omicidi, torture, stupri di massa e villaggi dati alle fiamme, con un bilancio stimato di almeno 10.000 morti e oltre 700.000 rifugiati rohingya. Il discorso di Suu Kyi ha confermò il suo allineamento con l’esercito birmano, nonostante in passato ne sia stata vittima durante la precedente dittatura militare. Tale allineamento, unito alla sua retorica difensiva e all’atteggiamento critico verso gli osservatori internazionali, ha ulteriormente deteriorato la sua immagine a livello globale. Tuttavia all’interno del Paese, questa linea dura gode di un certo consenso tra la maggioranza buddista, che teme una minaccia demografica da parte della minoranza musulmana rohingya.[9] La deposizione di Suu Kyi nel 2021 non ha giovato alla risoluzione del conflitto, al contrario il regime ultranazionalista che ha preso il potere in seguito al golpe, nutre una profonda avversione per la minoranza musulmana e continua l'opera di persecuzione attuata dai governi precedenti. La giunta militare birmana guidata dal generale Min Aung Hlaing, mantiene quindi una ferrea posizione negazionista riguardo alle accuse di genocidio nei confronti dei rohingya. Difatti nonostante le indagini internazionali e le richieste di giustizia, il regime continua a respingere ogni accusa, definendo i rohingya come "intrusi bengalesi" e sostenendo che le operazioni militari del 2017 fossero la semplice risposta a offensive terroristiche che minacciavano la pace della nazione.[10]
Note
[modifica | modifica wikitesto]- ^ Persecuzione etnica e religiosa, su internazionale.it.
- ^ Coinvolgimento internazionale, su socialistsanddemocrats.eu.
- ^ Diaspora rohingya, su repubblica.it.
- ^ Preludio alle violenze, su meltingpot.org.
- ^ Fanatismo religioso, su it.gariwo.net.
- ^ Attuazione delle persecuzioni, su cortiledeigentili.com.
- ^ L'inferno di Kutupalong, su diaritoscani.it.
- ^ Crisi umanitaria, su osservatoriodiritti.it.
- ^ Opinione di Aung San Suu Kyi, su it.euronews.com.
- ^ Posizione della giunta militare, su osservatoreromano.va.
Voci correlate
[modifica | modifica wikitesto]- Aung San Suu Kyi
- Consiglio di Stato per la Pace e lo Sviluppo
- Genocidio culturale degli uiguri
- Min Aung Hlaing
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