Gaio Claudio Crasso Inregillense Sabino

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Gaio Claudio Crasso Inregillense Sabino
Console della Repubblica romana
Nome originaleCaius Claudius Crassus Inregillensis Sabinus
GensGens Claudia
Consolato460 a.C.

Gaio Claudio Crasso Inregillense Sabino (... – Campidoglio, ...; fl. V secolo a.C.) è stato un politico romano, fu console della Repubblica romana.

Consolato[modifica | modifica wikitesto]

Gaio Claudio fu eletto console nel 460 a.C. con il collega Publio Valerio Publicola[1], ed alla sua morte, resse il consolato con Cincinnato.

Durante il consolato continuarono le controversie tra Patrizi e Plebei, con i tribuni della plebe, per bocca di Aulo Verginio, che accusarono parte del Senato di aver ordito un complotto per uccidere i tribuni stessi. Per tutti rispose Publio Valerio, bollando come falsa l'accusa[2].

In quell'anno sembrava che Equi e Volsci fossero pronti a ricominciare le "annuali" e "rituali" ostilità, quando una notte, appunto, il Campidoglio e la rocca furono occupati. Circa duemilacinquecento fra esuli e schiavi[3], comandati da Appio Erdonio, si asserragliarono fra i templi della Triade Capitolina. Quelli che non vollero aderire alla lotta furono massacrati; ma qualcuno riuscì a fuggire e si precipitò nel Foro e lanciò l'allarme alla cittadinanza[4]. Nel buio e nella confusione, la carenza di notizie non permise una pronta reazione:

(LA)

«Consules et armare plebem et inermem pati timebant, incerti quod malum repentinum, externum an intestinum, ab odio plebis an ab servili faude, urbem invasisset.»

(IT)

«I consoli erano in apprensione dovendo sceglier se armare la plebe o lasciarla disarmata e non sapendo cosa fosse quell'improvvisa calamità che si era abbattuta sulla città. Forse un assalto nemico, forse una rivolta interna causata dall'odio dei plebei o un tranello teso dagli schiavi.»

In tempi "normali" non sarebbe stato un grande problema trarre le armi dall'Erario e darle ai cittadini. Ma quelli, a Roma, non erano tempi normali. Due anni prima il tribuno della plebe Gaio Terentilio Arsa aveva proposto la Lex Terentilia che voleva migliorare le condizioni politiche della plebe. La discussione della legge aveva pesantemente squassato la vita politica della città. I patrizi resistevano temendo una perdita di potere. In questo quadro -ad esempio- si inserisce il processo al patrizio Cesone Quinzio, figlio di Cincinnato, condannato l'anno precedente e fuggito in Etruria). Era logico supporre che potesse essere alla guida di un gruppo paramilitare teso ad ottenere il rientro dell'esule.

Sul versante plebeo i tribuni della plebe si agitavano a favore della legge e minacciavano di non combattere per la Patria se la plebe non avesse ottenuto qualche vantaggio politico ed economico da tanti sacrifici e tanto sangue[4].

(LA)

«Lux deinde aperuit bellum decemque belli. Servos ad libertatem Appius Herdonius ex Capitolio vocabat: se miserrimi cuisque suscepisse causam, ut exules iniuria pulsos in patriam reduceret et servitiis grave iugum demeret.»

(IT)

«La luce del giorno rivelò che guerra fosse e chi la comandasse. Appio Erdonio incitava dal Campidoglio gli schiavi a liberarsi: lui si era assunto la difesa di tutti i disperati per riportare in patria chi era stato cacciato ingiustamente in esilio e per liberare gli schiavi dal loro pesante giogo.»

Appio Erdonio continuava asserendo che avrebbe preferito che l'iniziativa fosse partita dal popolo romano ma che, visto che non c'era nessuna speranza che questo avvenisse, non avrebbe esitato a ricorrere a mezzi estremi, fino alla richiesta di aiuto di Volsci ed Equi. Fino, quindi, al tradimento.

La situazione aveva tutta l'apparenza di un'operazione studiata a tavolino dai nemici esterni (si sospettavano i Sabini e Veienti) e gestita con l'organizzazione di una quinta colonna interna composta da bassa manovalanza bellica lanciata allo sbaraglio dalla disperazione. Soprattutto si temeva la rivolta degli schiavi in quanto per nessuno sarebbe stato possibile sapere si i suoi schiavi sarebbero rimasti fedeli o se avrebbero costituito un pericolo addirittura dentro le pareti domestiche.

Altre volte, i patrizi e i plebei erano riusciti a ritrovare la concordia per affrontare i nemici esterni. Questa volta però, i tribuni della plebe, resi edotti da altri comportamenti poco "nobili" del patriziato, ostacolavano le leve militari asserendo che non si trattava di una guerra ma di un simulacro di guerra appositamente mandato nel Campidoglio per bloccare la votazione della Lex Terentilia. Ne derivava l'analisi che la sommossa era stata organizzata dai patrizi utilizzando ospiti e clientes che sarebbero tranquillamente scomparsi in quanto inutili una volta approvata la Lex Terentilia.

I patrizi, su queste basi dialettiche, ritenevano che i tribuni fossero, per lo Stato, ("loro" si consideravano "lo Stato") un pericolo ben maggiore che qualche schiavo ribelle.

Il console Publio Valerio, alla notizia che la plebe stava deponendo le armi, lasciò la seduta del senato e si precipitò ad esortare i tribuni:

(LA)

«Quid hoc rei est tribuni? Appi Herdoni ductu et auspicio rem publicam enversuri estis? Tam felix vobis corrumpendi fuit, qui servitia non commovit auctor?»

(IT)

«Cosa sta accadendo, tribuni? volete proprio rovesciare lo Stato sotto gli ordini e gli auspici di Appio Erdonio? È stato così abile a corrompere voi, lui che non è riuscito a sollevare gli schiavi?»

È interessante questa parte del discorso di Valerio. Se ne può evincere che le richieste di Appio Erdonio fossero state presentate in tempi precedenti. Probabilmente la sovraesposizione mediatica della contestatissima Lex Terentila ha messo in secondo piano queste richieste - forse persino poste in modo legale- e Appio Erdonio si era visto costretto all'azione violenta. Violenza che, d'altra parte, permeava la quotidianità di quegli anni di lotta per il potere fra patrizi e plebei.

Publio Valerio continuò implorando i concittadini di "liberare gli dèi" e si diceva deciso a intraprendere l'attacco anche da solo considerando come nemico chiunque si fosse interposto fra lui ed Appio Erdonio. Ma la notte fermò l'azione del console, l'inazione dei tribuni. La vita politica della città si era fermata. La legge non fu approvata e i rivoltosi riuscirono a resistere. Nella stessa notte (Eadem nocte -Liv. III,18) la notizia giunse a Tusculum, città alleata di Roma e il dittatore tuscolano Lucio Mamilio, vedendo un'ottima occasione per rendersi gradito ai potenti vicini, partì per l'Urbe alla guida del suo esercito. Sul far del giorno i Tuscolani arrivarono a Roma[5]. Dapprima scambiati per Volsci ed Equi, i Tuscolani furono fatti entrare e si unirono a Publio Valerio che stava nuovamente cercando di schierare un esercito. Nonostante l'opposizione dei tribuni della plebe i due eserciti si scagliarono sul Campidoglio e i ribelli

(LA)

«Trepidare tum hostes nec ulli satis rei paeterquam loco fidere; trepidantibus inferrunt signa Romani sociisque.»

(IT)

«furono presi da scoramento perché ormai potevano contare solo sulla posizione favorevole e su di loro si abbatté l'assalto dei Romani e degli alleati.»

I malcapitati furono costretti ad arretrare all'interno dei templi per difendersi. Nell'atrio del tempio (Tito Livio non specifica quale ma probabilmente si tratta del tempio di Giove Capitolino) Publio Valerio Publicola rimase ucciso[5], ma questo non fermò i cittadini ormai giunti a concludere l'attacco guidati da Publio Volumnio Amintino Gallo che era stato console l'anno precedente.

(LA)

«multi exulum caede sua foedavere templum, multi vivi capti, Herdonius interfectus.»

(IT)

«Molti esuli profanarono col loro sangue il tempio: molti furono presi vivi; Erdonio rimase ucciso.»

La punizione dei ribelli fu comminata a seconda della loro condizione. Gli uomini liberi furono decapitati; gli schiavi, crocefissi.

Note[modifica | modifica wikitesto]

Voci correlate[modifica | modifica wikitesto]

Altri progetti[modifica | modifica wikitesto]

Predecessore Fasti consulares Successore
Publio Volumnio Amintino Gallo
e
Servio Sulpicio Camerino Cornuto
(460 a.C.)
con Publio Valerio Publicola
(suff.) Lucio Quinzio Cincinnato
Quinto Fabio Vibulano III
e
Lucio Cornelio Maluginense Uritino