Decreto Berlusconi

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Decreto Berlusconi è una locuzione che indica tre decreti legge emanati in Italia tra il 1984 e il 1985 dal governo Craxi I.

Le norme contenevano una serie di norme a carattere transitorio, emanate in attesa della stesura di una legge generale di riordino del sistema radiotelevisivo, che avvenne nel 1990 con la promulgazione della legge Mammì.

Storia[modifica | modifica wikitesto]

Tra il 13 e il 16 ottobre 1984, a seguito delle denunce della RAI, dell'emittente franco-monegasca Telemontecarlo e dell'Associazione nazionale teleradio indipendenti (ANTI), i pretori di Torino, Pescara e Roma emanarono alcuni decreti ingiuntivi ordinando alla Fininvest di sospendere l'interconnessione dei ripetitori delle emittenti televisive Canale 5, Italia 1 e Rete 4, limitatamente alle regioni di loro competenza[1] poiché secondo i magistrati il sistema d'interconnessione simultanea regionale, attraverso l'utilizzo di videocassette, avrebbe violato l'articolo 195 del D.P.R. 29 marzo 1973, n. 156, che puniva a titolo di contravvenzione chi «stabilisce od esercita un impianto di telecomunicazioni senza aver prima ottenuto la relativa concessione, o l'autorizzazione» amministrativa.[2]

Poco dopo Bettino Craxi, amico personale di Silvio Berlusconi, intervenne affinché le TV private del gruppo Fininvest potessero continuare a trasmettere su tutto il territorio nazionale, infatti poco dopo le ordinanze della magistratura italiana il primo provvedimento emanato dal governo Craxi I fu un primo decreto legge soprannominato decreto Berlusconi, bocciato dalla Camera dei deputati il 28 novembre 1984[3] poiché considerato incostituzionale. Qualche giorno dopo l'esecutivo presentò il Berlusconi bis e, ponendo su di esso la questione di fiducia, il 4 febbraio 1985 ne ottiene la conversione in legge.[4]

Poiché le norme del secondo decreto ebbero efficacia limitata a sei mesi, il 1º giugno 1985 venne il Berlusconi ter per prorogare il regime transitorio fino al 31 dicembre 1985; il provvedimento venne poi convertito in legge il 1º agosto 1985.[5]

Nel 1988, nel corso di un giudizio iniziato dalla Rai contro Canale 5, Italia 1, Rete 4, Telemontecarlo e molte altre reti private, la Corte Costituzionale dichiarò incostituzionale il decreto senza però annullare la legge in quanto trovava una base giustificativa nella sua provvisorietà, in attesa che una futura legge generale sul sistema radiotelevisivo potesse intervenire per disciplinare il regime radiotelevisivo[6]. In seguito, la legge Mammì del 6 agosto 1990 colmerà il vuoto normativo.

Le norme[modifica | modifica wikitesto]

I provvedimenti normativi, emanati nel biennio 1984/1985, furono in tutto tre:

  1. decreto legge 20 ottobre 1984, n. 694, (decreto Berlusconi) decaduto per mancata conversione;[7]
  2. decreto legge 6 dicembre 1984, n. 807, convertito in legge 4 febbraio 1985, n. 10 (decreto Berlusconi bis)[8]
  3. decreto legge 1º giugno 1985, n. 223 (decreto Berlusconi ter) convertito in legge 2 agosto 1985, n. 397.[9]

Le reazioni[modifica | modifica wikitesto]

Il giurista Paolo Barile giudicò il decreto come "una presa in giro del cittadino" e un "affronto alla Corte costituzionale".[10]

Il giornalista Vittorio Feltri nel 1990 commentò i decreti con queste parole:[11]

«Per quattordici anni, diconsi quattordici anni, la Fininvest ha scippato vari privilegi, complici i partiti: la Dc, il Pri, il Psdi, il Pli e il Pci con la loro stolida inerzia; e il Psi con il suo attivismo furfantesco, cui si deve tra l'altro la perla denominata 'decreto Berlusconi', cioè la scappatoia che consente all'intestatario di fare provvisoriamente i propri comodi in attesa che possa farseli definitivamente. Decreto elaborato in fretta e furia nel 1984 ad opera di Bettino Craxi in persona, decreto in sospetta posizione di fuorigioco costituzionale, decreto che perfino in una repubblica delle banane avrebbe suscitato scandalo e sarebbe stato cancellato dalla magistratura, in un soprassalto di dignità, e che invece in Italia è ancora spudoratamente in vigore senza che i suoi genitori siano morti suicidi per la vergogna»

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ Franco Scottoni, Tre pretori contro i colossi TV, la Repubblica, 17 ottobre 1984.
  2. ^ Art. 195 D.P.R. 29 marzo 1973, n. 156 come modificato dall'art. 45 della legge 14 aprile 1975, n. 103, su edizionieuropee.it.
  3. ^ Laura Delli Colli, Cade al primo ostacolo il decreto TV, su ricerca.repubblica.it, la Repubblica, 29 novembre 1984.
  4. ^ Sandra Bonsanti, Laura Delli Colli, Approvato il decreto sulle TV con un finale a tappe forzate, su ricerca.repubblica.it, la Repubblica, 5 febbraio 1985.
  5. ^ Camera dei deputati, Conversione in legge del decreto-legge 1º giugno 1985, n. 223, concernente proroga di termini in materia di trasmissioni radiotelevisive (PDF), su legislature.camera.it, p. 30805.
  6. ^ Corte Costituzionale: sentenza 14 luglio 1988, n. 826, su cortecostituzionale.it (archiviato dall'url originale il 16 maggio 2022).
  7. ^ Decreto legge 20 ottobre 1984, n. 694, su normattiva.it.. Misure urgenti in materia di trasmissioni radiotelevisive (decreto decaduto).
  8. ^ Decreto legge 6 dicembre 1984, n. 807, su normattiva.it.. Disposizioni urgenti in materia di trasmissioni radiotelevisive.
  9. ^ Decreto legge 1º giugno 1985, n. 223, su normattiva.it.. Proroga di termini in materia di trasmissioni radiotelevisive.
  10. ^ Paolo Barile, Se la Corte mette fine al Far West delle TV, su la Repubblica, 23 gennaio 1990 (archiviato dall'url originale il 30 novembre 2022).
  11. ^ Franca Rame, Quando Feltri e Bossi erano quasi comunisti, su MicroMega, 11 settembre 2009.

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

Voci correlate[modifica | modifica wikitesto]