Danielle Bunten Berry

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Danielle Bunten Berry, nata Daniel Paul Bunten (Saint Louis, 19 febbraio 1949Little Rock, 3 luglio 1998), è stata un'autrice di videogiochi statunitense, conosciuta per la creazione di importanti titoli come M.U.L.E.[1] e The Seven Cities of Gold[2].

Biografia[modifica | modifica wikitesto]

Nato a Saint Louis, da giovane si trasferì a Little Rock per frequentare le scuole superiori. Laureatosi in ingegneria gestionale nel 1974,[3] iniziò a programmare videogiochi testuali per hobby. Nel 1978, Bunten realizzò, per una software house canadese chiamata Speakeasy Software, un gioco strategico per Apple II dal titolo Wheeler Dealers. Dotato di una modalità multiplayer, necessitava di un controller dedicato; per questo motivo veniva venduto a un prezzo nettamente superiore della media dell'epoca, fattore che ne decretò il fallimento commerciale.[3]

Non scoraggiato dall'insuccesso, Bunten iniziò a lavorare per la Strategic Simulations (SSI), realizzando tre titoli di genere vario, ma tutti sempre dotati di importante componente multigiocatore: il simulatore tattico di football americano Computer Quarterback (1979), il simulatore economico Cartels and Cutthroats (1981), e il wargame con azione Cytron Masters (1982).[4]

Dopo questi titoli, Bunten fondò una software house chiamata Ozark Softscape a Little Rock, insieme a suo fratello Bill Bunten (con il quale aveva già collaborato) e ad altri due soci. Alla Ozark Dan Bunten svolgeva il ruolo di co-designer e co-programmatore, oltre a esserne il capo tecnico e spirituale, in virtù della sua maggiore esperienza nel settore.[5] La Electronic Arts aveva già apprezzato il precedente Cartels and Cutthroats e ne aveva chiesto i diritti di conversione ad altre piattaforme, ma la SSI aveva rifiutato; a questo punto fu Bunten a rivolgersi alla EA, proponendole di sviluppare un gioco simile a Cartels and Cutthroats, ma molto più avanzato; la EA accettò e fece da editrice dei primi prodotti della Ozark Softscape.[4]

Il primo titolo realizzato per EA fu M.U.L.E. (1983), per la famiglia Atari 8-bit: la scelta cadde su questo computer per la presenza di quattro porte per joystick. Il gioco, ispirato al romanzo di fantascienza Lazarus Long l'immortale di Robert A. Heinlein[3] e con elementi tratti dal gioco da tavolo Monopoly,[6] venne in seguito portato anche su Commodore 64. M.U.L.E. ottenne un discreto successo di pubblico (circa 30 000 copie vendute[3]), ma fu con The Seven Cities of Gold (1984) che Bunten ottenne un grande riconoscimento di critica e mercato, con 150 000 copie vendute.[3]

I due titoli successivi, Heart of Africa (1985) e Robot Rascals (1986), non ebbero la medesima fortuna. Bunten era interessato a realizzare un adattamento del gioco da tavolo Civilization, ma l'editore insistette per ripetere la formula di The Seven Cities of Gold e il risultato fu Heart of Africa, probabilmente penalizzato dall'eccessiva somiglianza col predecessore.[7] Nel 1988 fu la volta di Modem Wars (1988), uno dei primi titoli dotato di modalità multiplayer tramite modem, notevole anche per la presenza di altri elementi non comuni all'epoca, come nebbia di guerra, formazioni di unità, replay e punteggi salvabili online.[7] A questo punto Bunten lasciò l'EA per Microprose, dove adattò il gioco da tavolo Axis and Allies, che diventò Command HQ (1990). Il secondo e ultimo titolo per Microprose di Bunten fu Global Conquest (1992), primo strategico bellico dotato di modalità multiplayer via modem o network per quattro giocatori.[7]

Nel novembre 1992 Bunten, dopo un terzo matrimonio fallito e tre figli, decise di cambiare sesso; in seguito si pentì di questa scelta, a causa delle somme di denaro spese per l'operazione e per la rottura di molte relazioni familiari.[8] Sempre nel 1992 venne annullata una nuova versione di M.U.L.E. per Sega Mega Drive perché si rifiutò di inserire armi nel gioco, fattore che, secondo lei, avrebbe stravolto il concetto originale.[2][3] La Ozark Softscape chiuse poco dopo.[9]

Dopo la transizione sembra che anche lo sviluppo di videogiochi passò in secondo piano per la Bunten; lei stessa ammise che non voleva più passare molto tempo davanti a un computer a programmare.[9] Lavorò per un anno alla Interval Research, il think tank di Paul Allen, e infine tornò allo sviluppo di giochi lavorando per l'editore online MPath, legato a MPlayer.com. Il suo ultimo videogioco fu Warsport per la MPath.[9] Era una sorta di calcio-combattimento tra squadre di robot in multigiocatore sul servizio online di MPlayer, non più esistente.[10] All'incirca nel periodo dalla pubblicazione di Warsport le venne diagnosticato un carcinoma del polmone, dovuto probabilmente agli anni in cui aveva fumato molto.[9] Si spense il 3 luglio 1998, in un ospedale di Little Rock.[2]

Impatto sull'industria[modifica | modifica wikitesto]

Bunten dava grande importanza al multigiocatore e focalizzò quasi sempre su questo la propria produzione (con la notevole eccezione di The Seven Cities of Gold), poiché per lui il videogioco doveva essere principalmente un mezzo di interazione tra più persone.[4]

(EN)

«No one ever said on their deathbed, "Gee, I wish I had spent more time alone with my computer."[11]»

(IT)

«Nessuno ha mai detto, sul proprio letto di morte: "Eh, avrei voluto passare più tempo da solo con il mio computer."»

Benché la maggior parte dei videogiochi realizzati dalla Bunten non siano stati enormi successi commerciali, alcuni di essi vengono considerati pietre miliari nel campo dell'intrattenimento videoludico, e precursori della maggior parte dei moderni titoli che fanno delle modalità multiplayer il loro punto di forza.[2][12][13] L'influenza di M.U.L.E. in particolare è stata straordinaria. Nel 2005 si arrivò perfino a integrare il software Kaillera nell'emulatore Atari800winplus principalmente per potersi sfidare al M.U.L.E. originale su Internet.[7]

Il 7 maggio 1998, a due mesi dalla sua morte, le venne dedicato un premio postumo dalla Computer Game Developers Association. Nel 2000 il designer Will Wright ha dedicato The Sims alla sua memoria, citando la sua grande influenza per quanto riguarda il game design.[1]

Nel 2007 la Academy of Interactive Arts & Sciences ha scelto la Bunten per la sua Hall of Fame.[14]

Ringraziamenti speciali le vengono fatti nei crediti di diversi titoli, anche postumi, come Spore, Offworld Trading Company e The Swords of Ditto.

Videogiochi realizzati[modifica | modifica wikitesto]

Videogiochi dei quali Dan/Danielle Bunten è responsabile del design, e quasi sempre anche della programmazione.

Titolo Anno Piattaforma/e Editore
Wheeler Dealers 1978 Apple II Speakeasy
Computer Quarterback 1979 Apple II SSI
Cartels and Cutthroats 1981 Apple II, C64, MS-DOS SSI
Cytron Masters 1982 Apple II, Atari 8-bit SSI
M.U.L.E. 1983 C64, Atari 8-bit, NES, MS-DOS, MSX Electronic Arts
The Seven Cities of Gold 1984 Atari 8-bit, Amiga, Mac OS, MS-DOS Electronic Arts
Heart of Africa 1985 C64 Electronic Arts
Robot Rascals 1986 Apple II, C64, MS-DOS Electronic Arts
Modem Wars 1988 C64, MS-DOS Electronic Arts
Command HQ 1990 MS-DOS MicroProse
Global Conquest 1992 MS-DOS Electronic Arts
Warsport 1997 Microsoft Windows MPath Interactive
Rockett's New School[15] 1997 Microsoft Windows Purple Moon Media

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ a b (EN) Curt Feldman, Dani Bunten named to AIAS Hall of Fame, su GameSpot, 23 gennaio 2007. URL consultato il 19 dicembre 2009.
  2. ^ a b c d (EN) Ernest Adams, Designer's Notebook: In Memoriam: Danielle Berry, su gamedeveloper.com, 17 luglio 1998. URL consultato il 14 novembre 2023.
  3. ^ a b c d e f (EN) Danielle Berry (intervista su Halcyon Days: Interviews with Classic Computer and Video Game Programmers), su dadgum.com.
  4. ^ a b c The Games Machine 261, p. 100.
  5. ^ Videogiochi 27, p. 30.
  6. ^ (EN) Dan Bunten and M.U.L.E., su filfre.net.
  7. ^ a b c d The Games Machine 261, p. 101.
  8. ^ (EN) Danielle Bunten Berry, Special Note to Those Thinking About a Sex Change, su anticlockwise.com (archiviato dall'url originale il 30 aprile 2015).
  9. ^ a b c d (EN) Dani Bunten changed video games forever, su arktimes.com.
  10. ^ (EN) The Bleeding Edge, su wired.com, 1º ottobre 1997.
  11. ^ (EN) Danielle Bunten Berry, Why I Design Multi-Player, Online Games, su anticlockwise.com (archiviato dall'url originale il 25 luglio 2011).
  12. ^ (EN) John Gorenfeld, Get behind the M.U.L.E., su salon.com, 18 marzo 2003. URL consultato il 19 dicembre 2009.
  13. ^ (EN) Chris Baker, Dani Bunten Berry: Pioneering Game Designer, su Wired, 30 gennaio 2007. URL consultato il 19 dicembre 2009.
  14. ^ (EN) Ryan Kim, Dani Bunten Berry, pioneering video game designer makes the Hall of Fame, su SFGate, 8 febbraio 2007. URL consultato il 19 dicembre 2009.
  15. ^ Danielle Berry accreditata solo come consulenza al design.

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

Collegamenti esterni[modifica | modifica wikitesto]