Agnichayana

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L'antico rito sacrificale vedico dell'agnicayana (lett. "accumulo di Agni") ancora praticato dai brahmani ultraortodossi, detti Nambūṭiri, del Kerala. Questo rito richiede la costruzione di un altare del fuoco (vedi) a forma di uccello composto da più di duemila mattoni. Il rito ha la durata di dodici giorni, e durante la costruzione occorre, tra l'altro, la recitazione di specifici mantra estratti dal Veda.
Video che presenta il modello dell'altare eretto durante il rito dell'agnicayana. Nel prosieguo del video vengono mostrati i vari strumenti sacrificali, sambhārá e le basi dei tre fuochi sacrificali.

Lo Agnicayana (devanāgarī अग्निचयन, lett. "accumulo di Agni") è uno dei riti solenni (śrauta) propri della religione vedica e del brahmanesimo e tutt'oggi praticato da brahmani ortodossi della regione del Kerala detti Nambūṭiri.

Lo agnicayana consiste nella costruzione della base dell'altare sacrificale (uttaravedi) contenente a sua volta il fuoco sacrificale (Agni).

Tale base sacrificale, a forma di uccello con le ali spiegate, veniva eretta ad Oriente rispetto al recinto che conteneva i tre fuochi sacrificali[1][2]. L'altare dello agnicayana è costruito con l'utilizzo di oltre duemila mattoni[3][4], posti su cinque livelli, ogni mattone possiede un proprio nome e ogni qual volta esso viene posto occorre la recitazione di un mantra tratto dal Veda[3].

La cerimonia dura dodici giorni durante i quali progressivamente prende forma l'uccello, la costruzione di Agni, dove l'ala destra è la Terra, l'ala sinistra il Cielo, il corpo il Vento, la coda la Luna, la testa il Fuoco e il cuore il Sole.

Nel mentre viene ad essere questo altare a forma di uccello, allo stesso tempo il sacrificante (ovvero colui che chiede l'esecuzione del rito, lo yajamāna[5]) acquisisce un nuovo ātman[6].

Il rito procede con la messa in posa dei mattoni necessari, ognuno dei quali richiede la recitazione di uno specifico mantra tratto dal Ṛgveda, il rito richiede anche la intonazione di canti (sāman) tratti dal Sāmaveda e le relative circumambulazioni intorno alla costruzione.

Vi è dunque una corrispondenza tra il rito avvenuto sulla terra e ciò che avviene nel mondo divino del Cielo.

Il nuovo ātman è rappresentato da una statuetta d'oro (hiraṇmáya púruṣa) collocata nella struttura dell'altare: al termine del rito, il sacrificante acquisisce un nuovo "corpo glorioso" e immortale, allo stesso modo con cui gli Dei dei Veda acquisirono l'immortalità[6].

Quando con la morte del sacrificante il suo corpo fisico verrà distrutto, il suo corpo immortale dopo il rito vivente nel Sole e nel suo occhio destro, gli verrà incontro con i capelli e la barba d'oro, per condurlo nella beatitudine[6].

Così l'indologo olandese Jan C. Heesterman osserva:

«Quando mette insieme i mille mattoni che compongono i cinque strati dell'altare vedico del fuoco, sagomato come un uccello che non volerà mai, il sacrificante cerca di ricostruire il corpo smembrato dell'uomo cosmico che è al tempo stesso Agni, il fuoco, il suo alter ego. Ma quest'ultimo è destinato a subire ancora una volta il sacrificio. E quando tutto è finito, il prestigioso altare è un cadavere (come mi è stato detto dai brahmani Nambudiri), il corpo esanime di Agni, che non deve essere più toccato. La sola cosa che l'uomo in quanto sacrificante può ottenere è di suddividere e ripartire il mondo spezzato, così come taglia e distribuisce le parti della vittima, quelle che vanno distrutte e quelle che vanno mangiate dai partecipanti. Ciò serve certamente a delineare un ordine ideale, ma non può restaurare l'unità primordiale.»

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ Cfr., tra gli altri, Charles Malamoud, La danza delle pietre. Milano, Adelphi, 2005, pag.127.
  2. ^ I tre fuochi sacrificali della religione vedica corrispondono:
    • il più importante, denominato gārhapatya (il "fuoco del capofamiglia"), è posto ad Ovest su una sede circolare ed è il luogo dove dimora l'Agni originario; con questo fuoco alimentato esclusivamente dal capofamiglia, dalla moglie o dal primogenito viene attinta la fiamma per il secondo fuoco;
    • il secondo fuoco, sede dell'Agni sacrificante, è posto da Est su base quadrata; denominato āhavanīya, su questo fuoco si svolge il l'offerta sacrificale;
    • il terzo fuoco (lo anvāhāryapacana, detto anche dakṣiṇāgni "fuoco di destra" in quanto il sacerdote si volge per il sacrificio di fronte allo āhavanīya), di base semicircolare è posto a Sud ed è di supporto al fuoco orientale in quanto è il fuoco del sacrificio del riso situato a destra dell'officiante quando egli è rivolto verso l'Oriente, questo fuoco è il fuoco che consuma con i suoi sacrifici i pericoli e la morte (mṛtyu) che dal Meridione provengono.
  3. ^ a b Gavin Flood. Op.cit..
  4. ^ La dimensione dell'altare dipende da un esatto multiplo del corpo del sacrificante. Cfr. Mario Piantelli. Giovanni Filoramo (a cura di), Mario Piantelli, Carlo Della Casa, Stefano Piano, Hinduismo, Bari, Laterza, 2007, ISBN 978-88-420-8364-1. pag.38.
  5. ^ Il quale tuttavia rimane passivo per la durata dell'intero rito. Cfr. Gavin Flood. Op.cit..
  6. ^ a b c Mario Piantelli. Op.cit..

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