Acquedotto romano di Catania

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Acquedotto di Catania
Aqua Maculnia
Veduta del ponte-acquedotto a Valcorrente
CiviltàRomana
Utilizzoacquedotto
EpocaEtà augustea
Localizzazione
StatoBandiera dell'Italia Italia
ProvinciaCatania
Amministrazione
Visitabilesolo parzialmente
Mappa di localizzazione
Map
Coordinate: 37°32′57.84″N 14°57′19.8″E / 37.5494°N 14.9555°E37.5494; 14.9555

L'acquedotto romano di Catania fu la maggiore opera di convoglio idrico nella Sicilia romana. Attraversava il territorio compreso tra le fonti sorgive di Santa Maria di Licodia e l'area urbana catanese, percorrendo gli attuali territori comunali di Paternò, Belpasso e Misterbianco prima di giungere al capoluogo etneo.

Studi[modifica | modifica wikitesto]

Gouache di Jean-Pierre Houël rappresentante la Botte dell'acqua a Santa Maria di Licodia.

Nonostante la struttura fosse imponente e piuttosto articolata e sebbene fino al XIX secolo non manchino attestazioni del suo utilizzo in alcune sue parti, della presenza di tale sistema idrico non si ha menzione nelle fonti classiche. La prima citazione la compie il Fazello nella seconda metà del XVI secolo che lo definisce ricco di acque e monumentale come quelli di Roma,[1] mentre è in Bolano[2] la prima descrizione dell'acquedotto in rapporto alla città: esso si diramava in tre direzioni, corrispondenti ad altrettanti quartieri civici. Nel Seicento Pietro Carrera[3] e Giovanni Battista Grossi[4] e nel secolo successivo Vito Maria Amico[5] e Ignazio Paternò Castello[6] descrivono ampiamente il monumentale sistema idrico. Tuttavia, le prime immagini che lo ritraggono si devono a Jean Houel che nel suo Voyage pittoresque des isles de Sicile, de Malta et de Lipari illustra alcuni tratti dell'acquedotto, nonché la cosiddetta botte dell'acqua di Santa Maria di Licodia, una grande cisterna chiusa con volta a botte e divisa in due ambienti, identificata quale la cisterna di raccolta delle sorgive destinate alla distribuzione idrica. Nel XIX secolo la struttura, caduta ormai nel disinteresse, subisce nuovi danneggiamenti ad opera umana (già lo storico Francesco Ferrara[7] ricorda come per la realizzazione delle mura di Catania e per la passeggiata della Marina vennero demoliti gli archi della contrada Sardo e ancora Vincenzo Cordaro Clarenza nel 1833[8]) nonostante nel contempo inizino ad esserci i primi interessi tecnico-scientifici sul monumento, tra cui il Duca di Carcaci[9] ne ipotizza una portata di 46 zappe[10]. L'ingegnere Luciano Nicolosi[11] pubblica la prima monografia sul monumento in cui ne descrive l'aspetto tecnico analizzando tracciato, dimensioni del canale, materiale usato (per l'esterno, come per l'interno del canale) e ipotizza a circa 30.000 cubi di acqua al giorno la portata dell'acquedotto. Nel 1964 l'archeologa Sebastiana Lagona[12] ha per la prima volta usato criteri scientifici moderni nell'analisi dell'edificio e nel 1997 viene pubblicato, a cura della dott.ssa Gioconda Lamagna[13] uno studio accurato del tratto paternese del grande complesso. Infine il 10 maggio 2003, nell'auditorium "Don L. Milani" di Paternò, in occasione della V Settimana della Cultura si è tenuto un convegno con l'acquedotto catanese come tema principale, a cura dell'organizzazione SiciliAntica, con il patrocinio del Comune di Paternò e la collaborazione del Centro Universitario di Topografia antica (CE.U.T.A. dell'Università di Catania) e la Soprintendenza ai Beni Culturali e Ambientali di Catania[14].

Storia[modifica | modifica wikitesto]

Per l'approvvigionamento idrico la città di Katane, nome di fondazione del capoluogo etneo, faceva largo uso delle emergenze che ne bagnavano il suolo. Essendo fondata su un terreno di natura argillosa non erano infrequenti le nascite di sorgive presso le colline che circondavano l'abitato (Monte Po, il Poggio Cibali, Monte San Paolillo, lo stesso Colle di Montevergine sono tuttora ricche alla base di sorgenti spontanee), spesso caratterizzate da sacche o polle d'acqua destinate a estinguersi con la stagione secca; non mancavano nemmeno risorse idriche costanti, come i fiumi - l'Amenano che bagnava la città, il Longane che la lambiva a nord, lo Judicello, ramo a sud dello stesso Amenano - o la Gurna di Aniceto, noto come lago di Nicito. Tuttavia, sin dal 693 a.C., il territorio catanese venne sconvolto dalle eruzioni dell'Etna che contribuirono a rendere instabile la presenza di risorse idriche: il fiume Amenano diventa debole e fiacco e lo stesso lago di Nicito si svuotava lasciando terreni (...) adatti alla coltura.[15] Ovidio racconta che il fiume catanese scorre trascinando sicule sabbie, ora è secco come se le sue fonti si fossero inaridite.[16] Le sorgenti prossime alla città dunque non bastarono più a soddisfare il fabbisogno di acqua e in età non ben identificata iniziò la costruzione del lungo acquedotto che avrebbe congiunto le sorgenti di Santa Maria di Licodia con Catania.
La presenza della grande struttura è certa solo dall'età augustea in poi, in quanto si rinvenne presso la sua parte iniziale una lapide incisa con i nomi dei curatores aquarum e databile al I secolo, oggi custodita al Museo civico catanese del Castello Ursino.[17] Secondo le fonti in età augustea Catina (il nome latino dell'antica Katane) viene eletta al rango di colonia ed è probabile che questo cambio di status abbia anche permesso uno sviluppo della città etnea e relativa necessità di approvvigionamento idrico e da qui l'esigenza di un tale monumento. L'edificio subì diversi danneggiamenti, tra cui, secondo il Principe di Biscari anche l'eruzione del 253 e una lapide - rinvenuta dal medesimo nel 1771 presso il complesso monacale dei benedettini relativa ad un ninfeo che qui insisteva[18] - ne ricorderebbe dunque un restauro eseguito. Mancando analisi congiunte su tutto il tracciato che possano gettare un po' di luce sulla storia passata del monumento non siamo ad oggi in grado di delinearne l'uso nei secoli, si può solo ipotizzare che già in epoca islamica la struttura fosse dimenticata, se all'attento Idrisi ne sfugge la menzione. Bisogna attendere il XVI secolo per averne qualche notizia. Nel 1556 il viceré Juan de Vega ordinò lo smantellamento di un lungo tratto dell'ancora esistente ponte-acquedotto sito nei pressi della città, al fine di ricavarne materiale da costruzione da impiegare nella realizzazione delle mura di Catania, dimezzandone la quantità di archi (da 65 che se ne contavano ad appena 32), e nel 1621 dietro comando del Duca di Carpignano, soprintendente generale alle fortificazioni, nell'ambito di un generale restauro dell'assetto difensivo della città, fece spoliare il monumento insieme ad altri per la realizzazione di una strada pavimentata "con ordinate lastre"[19], cosa straordinaria per quei tempi, che un divenne luogo di passeggio e svago, dotato di panchine e alberi, in cui i catanesi amavano darsi convegno nel tardo pomeriggio[20]. L'eruzione dell'Etna del 1669 contribuì infine a interrare le uniche arcate superstiti presso Catania, lasciandone appena qualche porzione svettante tra le lave, in quelle che agli inizi del Novecento erano le proprietà Borzì-Sulmona (oggi presso via Grassi)[21]. Ulteriori danni fecero il terremoto del Val di Noto del 1693 e l'incuria, nonché il cambio di destinazione d'uso[22] e la cementificazione selvaggia[23]. Durante la seconda guerra mondiale alcuni tratti sono sfruttati dalla popolazione locale per sfuggire ai bombardamenti alleati, mentre solo dal 1997 è in atto un continuo lavoro di comprensione e ricerca della struttura la cui finalità è la catalogazione, il restauro e la preservazione.

Caratteristiche tecniche e percorso[modifica | modifica wikitesto]

Arcata dell'acquedotto in contrada Porrazzo a Paternò.

Dell'edificio originario non rimangono molte tracce, tuttavia sulla base di queste e sulle descrizioni passate possiamo avere un quadro generale del monumento.
Il tracciato dell'acquedotto percorreva circa 24 km[24] da Santa Maria di Licodia a 400 m s.l.m. fino a Catania, presso il monastero benedettino di San Nicola, coinvolgendo cinque territori comunali. A Licodia esistono tutt'oggi quattro diverse sorgenti[25] le cui acque venivano incanalate in un grande serbatoio (la Botte dell'acqua), di cui ci rimane solo un acquerello dell'Houel. Questa struttura, una grande camera a base quadrata divisa da una parete centrale e con copertura a botte, intercettava l'acqua mediante quattro bocche per poi direzionarla ad uno specus, un canale aperto a est, verso Catania. La conduttura misurava oltre mezzo metro in larghezza e un metro e mezzo in altezza ed era coperta con una volta semicircolare impermeabilizzata all'interno con un fine intonaco costituito da malta, pozzolana e frammenti di terracotta (Opus signinum o cocciopesto). Il materiale usato per il resto dell'acquedotto era quindi la pietra lavica principalmente - sia in roccia glabra per il riempimento che in cocci ben squadrati per la copertura - un composto di malta e pozzolana per fissare i blocchi e isolare il flusso idrico (chiamato in antico emplecton), mattoni in terracotta per gli archi. Il Principe di Biscari descrisse diverse lamine di piombo rinvenute all'interno delle condotte e conservate dall'Amico nel museo dei Benedettini con sede nel loro Monastero di San Nicolò l'Arena. Queste lamine per l'Amico dovevano ricoprire l'intera struttura, mentre il principe più argutamente ipotizza fossero dei restauri effettuati in antico per chiudere le fessure generate dall'usura; tale restauro potrebbe essere quello menzionato dalla lapide relativa al curatores Q. Maculnius[26].
Dal serbatoio quindi si dipartiva il lungo tragitto del canale che prevedeva salti di quota, vallate, villaggi. Per mantenere costante la pendenza la struttura si presentava ora completamente interrata, ora su un semplice muro di sostegno, mentre dove la conduttura doveva affrontare dislivelli notevoli vennero realizzati ponti-acquedotto su arcate portanti, talora anche su due file sovrapposte[27].

Analisi tecniche[modifica | modifica wikitesto]

Le uniche analisi effettuate ad oggi sono relative al tratto che interessa quasi esclusivamente il territorio comunale di Paternò e risalgono al 1997. Tale tratto corrisponde a circa il 20% del tracciato originale estendendosi per quasi 5 km[28]. Qui da una quota di terra 369,50 m s.l.m. si giunge a circa 347,50 m s.l.m., mentre il livello di scorrimento dell'acqua va da quota 368,00 m s.l.m. a 349,75 m s.l.m., determinando una pendenza dello 0,0043. Si è supposta[29] quindi una portata di 0,325 m3/s, pari a 325 litri al secondo, non discordanti con le 46 zappe previste dal Duca di Carcaci[9] o con i 30.000 m3 giornalieri supposti dal Nicolosi[11].
Lungo il percorso non erano infrequenti i putei, pozzi di ispezione usati anche per la manutenzione e la pulizia, di cui ancora se ne notano numerosi, come pure persistevano diversi castella aquae (o castelli di distribuzione, ossia cisterne di filtraggio e diramazione dell'acqua) segnalati a Licodia, Valcorrente, Misterbianco, Catania. Il castello dell'acqua di Licodia è andato perduto a seguito di lavori di sbancamento, mentre nella località Sciarone Castello di Belpasso rimangono i resti più notevoli; a Misterbianco, contrada Erbe Bianche, doveva pure esservi un castello di distribuzione che invogliava l'acqua al complesso termale in via delle Terme e di cui non restano che esigue tracce; a Catania, a poca distanza dall'attuale Corso Indipendenza, il Biscari identifica una fabbrica quadrata coperta a volta, che mostra essere stata forse una conserva d'acqua e un'altra nella vigna dei Portuesi[30]. Il sistema avrebbe dovuto quindi raggiungere un grande serbatoio non ancora identificato e sito probabilmente sul punto più alto dell'abitato, cioè in vetta al Colle Montevergine e da qui si diramavano i tratti di acquedotto civico destinato alle fontane e terme pubbliche, a residenze private ecc. Secondo alcuni autori, tra cui il Ferrara e l'Holm, il grande serbatoio si dovrebbe riconoscere nel grande Ninfeo identificato dal Biscari presso il monastero benedettino: non era infrequente infatti che una cisterna venisse monumentalizzata e configurata all'esterno come un grande ninfeo. Tale edificio venne riconosciuto grazie a una lapide incisa su cui era scritto «juxta lapideum aqueductum/ quem ipse construxerat ut in balneas copiosam/ aquam derivaret commodo civium»[26].

Tracciato[modifica | modifica wikitesto]

La lunghezza del monumentale sistema idrico ha proibito un'analisi dettagliata dell'intero tragitto, in quanto ricadente su cinque diversi territori comunali e interessante diverse zone impervie o difficili da raggiungere. Il lavoro del 1997 ha permesso l'identificazione di nuove porzioni fino a quel momento sconosciute ricadenti nel territorio di Paternò e in una recente (febbraio 2011) ricognizione nei pressi della città di Catania un altro segmento si è potuto riconoscere[31]. Al momento quindi i resti di ciò che è noto si trovano nei territori comunali che seguono in elenco.

Santa Maria di Licodia

Sono presenti vasche di contenimento e tratti dell'acquedotto, sia a mezzacosta che su arcate.

Paternò

L'acquedotto segue qui a seconda della natura del suolo un percorso interrato, a mezza costa, su muro, su arcate[32].

Belpasso
Misterbianco
Catania

Tradizioni[modifica | modifica wikitesto]

Molte porzioni dell'acquedotto, soprattutto quelle a quota terra, si sono ben conservate prevalentemente per il riutilizzo come canale di irrigazione. L'uso di un canale di antica fattura ha fatto nascere diverse tradizioni popolari - non scritte, ma tramandate oralmente - come diverse storie legate alla figura di Sant'Agata. Una di queste racconta come un nobile romano si fosse invaghito della santuzza e per dimostrarle l'immensità del suo amore - non corrisposto, in quanto la fanciulla si era promessa a Dio - fece realizzare in una sola notte un acquedotto che da Licodia sarebbe giunto ai piedi della ragazza[34]. Altre storie locali parlano di storie fantastiche e delicate leggende, fino all'identificazione del lungo canale romano con la saja dô Saracinu[35].

Galleria d'immagini[modifica | modifica wikitesto]

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ Il Fazello ci informa che l'acquedotto era costruito in pietre nere e quadrate - ex quadrato et nigro lapide - e che raccoglieva le acque della fonte Butta, che sgorgavano non lontano da Paternò, presso il monastero di Santa Maria di Licodia (Juxta monasterium Divae Mariae Licodiae).
  2. ^ V. ad es. Guido Libertini, «Lorenzo Bolano e l'indagine archeologica catanese nel secolo XVI», in Archivio Storico per la Sicilia Orientale, 1922.
  3. ^ Il Carrera è il primo ad abbozzarne una storia. Idem, Memorie storiche della città di Catania, Catania 1639.
  4. ^ Catanense decachordum vol. 2, Catania 1647, pp. 25-27, oggi edito, con traduzione italiana e commento, in S. Cammisuli, Il Catanense decachordum di Giovan Battista de Grossis, Catania 2018, pp. 88-95 e 185-187.
  5. ^ L'Amico per primo localizza il punto di partenza delle acque a Santa Maria di Licodia indicandone il percorso che si snodava lungo le campagne di Civita, Valcorrente, Misterbianco prima di arrivare nel capoluogo etneo. Idem, Catania illustrata, Catania 1746.
  6. ^ Idem, Viaggio per tutte le antichità di Sicilia, Napoli 1781. Il Principe di Biscari lasciò una descrizione puntuale dei tratti ancora visibili e rovinati dalle eruzioni del 253 e del 1669.
  7. ^ Idem, Storia di Catania sino alla fine del secolo XVIII - con la descrizione degli antichi monumenti ancora esistenti e dello stato presente della città, Catania 1839, pp. 298-307.
  8. ^ Di questi condotti parecchi archi tuttora se ne veggono, essendo tutti gli altri coperti dalle lave dell'Etna, o pure dal tempo distrutti, o dall'avarizia dell'uomo. V. Cordaro Clarenza, Osservazioni sopra la storia di Catania cavate dalla storia generale di Sicilia, Catania 1833, t. I, p. 47.
  9. ^ a b Idem, Descrizione di Catania e delle cose notevoli ne' dintorni di essa, Catania 1841-1843.
  10. ^ Pari circa a 350 litri al secondo. La zappa è un'antica unità di misura idrica siciliana che, fino alla parificazione con l'unità di Palermo imposta dal regime borbonico nel 1850, variava fortemente da zona in zona; essa era formata da quattro darbi, a sua volta il darbo era quadrimultiplo dell'aquila che era composta da quattro dinari (o tarì, a seconda del periodo di riferimento), infine componevano il dinaro quattro pinni; una pinna equivale a 0,0335 litri; Carmelo Sapienza, 112. Si livau 'na pinna di ficatu., in Torna parrinu e ciuscia...!!! - Origini, etimologie e nessi sottostanti relativi alle espressioni verbali più diffuse ed emblematiche in uso nella lingua siciliana, Palermo, Tipo-litografia Priulla per conto di Editoriale Agorà, 2014, p. 142,, ISBN 978-88-89930-28-1.
  11. ^ a b Idem, L'acquedotto antico di Catania, Catania, Tip. Nicolosi e Grasso, 1931.
  12. ^ Idem, «L'acquedotto romano di Catania», in Cronache di archeologia, 1964, pp. 69-86.
  13. ^ XXIII distretto scolastico di Paternò, Assessorato regionale ai Beni Culturali e della Pubblica Istruzione, Soprintendenza ai Beni Culturali e Ambientali di Catania, Studio di Architettura S.E.A di S. Maria di Licodia, Acquedotto romano - Tratto ricadente nel territorio di Paternò (archiviato dall'url originale il 20 gennaio 2012)., 1997.
  14. ^ L'acquedotto romano di Catania, su siciliantica.it. URL consultato il 24 ottobre 2020 (archiviato dall'url originale il 14 settembre 2012). Comunicato stampa sul sito Siciliantica.it.
  15. ^ Strabone, Geographia
  16. ^ Ovidio, Le Metamorfosi
  17. ^ Vi si leggeva (Ferrara, o.c., p. 302): «CVRATORES/ Q. MACVLNIVS/ ETRAITIVODE/ ATVRIVCAΛOCHAC». Di questa lapide, oggetto di vandalismo da parte di anonimi popolani, rimasero solo parte delle prime due righe, «CVRAT/ Q. MACVL», conservate dai monaci del plesso benedettino di Licodia e da essi portato nel monastero di San Nicolò l'Arena e in seguito incamerati al Museo Civico. Sull'origine di Malcunio si è supposta una provenienza da Preneste; cfr. Adolf Holm, Catania Antica, traduzione, cura e note di G. Libertini, Catania 1925, p. 66 n. 1.
  18. ^ A detta del Ferrara nella contrada del Corso, poco sotto, a man sinistra, dell'arrivo alle mura del grande acquedotto e ad esso collegato. Nella lapide, incisa su due lati, vi si fa menzione in caratteri e lingua greca alla dedica di una piccola opera e di un acquedotto alle ninfe da un lato, dall'altro in caratteri e lingua latina ad un restauro effettuato al Ninfeo da parte di Flavio Arsinio consolare della provincia di Sicilia e alla messa in posa dell'iscrizione per opera di Flavio Ambrosio, forse uno dei decurioni catanesi. La seconda iscrizione sarebbe databile al IV secolo; cfr. A. Holm, o.c., p. 30.
  19. ^ G. Gravina, Tre idilli / con varie, e diverse / Compositioni / Fatte in lode dell'opere et attioni, dell'Illustriss. Signor / Don Francesco / Lanario, er Aragona / Duca di Carpignano, Cavaliero dell'Habito di Calatrava, / E del Conseglio di Guerra di Sua Maestà Cattolica / né Stati di Fiandra / Mentre fu Vicario, Capitan a Guerra e Soprainten / dente Generale delle Fabbriche e fortificazioni del / la Città di Catania e suo costritto, e d'altri / luoghi in questo Regno // Raccolti da Don Giacomo Gravina / E dedicatari all'Illustriss. Eccellentiss. Sig. / Don Francesco di Castro / Duca di Taurisano, commenda / tore de Hornacchios / Viceré Luogotenente e Capitan / Generale per Sua Maestà in / questo Regno di / Sicilia // In Palermo, Per Decio Cirillo MDCXXI Con licenza de' Superiori. Dal Gravina si deduce anche un interesse privilegiato nei confronti della mitologia del fiume Amenano, di cui si inventò la favoletta della Gemma zita, fanciulla fidanzata di Amasenon (Amenano, appunto) e per gelosia mutata in sorgente d'acqua nei pressi dell'omonimo pozzo, per giustificare il nome del medesimo sito. La stessa passeggiata ricordava le vicende del giovane Amenano mutato anch'esso in acqua dagli dèi nei pressi della Fontana dei 36 Canali, in cui era una sorta di tribuna adornata con pitture che ne raffiguravano la storia.
  20. ^ Il Carrera fu molto critico nei confronti del de Vega e del Lanario, in quanto essi demolirono importanti monumenti passati per le loro realizzazioni; cfr. P. Carrera, o.c., p. 78.
  21. ^ A.Holm, o.c., pp. 67-68 figg. 20-21.
  22. ^ Come ad esempio ad uso di parete per masseria, portico, muraglione di contenimento per terrapieni.
  23. ^ Come ad esempio nel 1987 quando, durante i lavori per la realizzazione dello stok Scaringi S.p.A. nella contrada Mezzocampo di Misterbianco, venne demolito un tratto dell'acquedotto rinvenuto durante gli scavi per le fondamenta.
  24. ^ Nelle fonti le misure sono solitamente espresse in miglia e concordano tutte indicandone 16, il solo Principe di Biscari ne riporta 18. Tale cifra corrisponderebbe a circa 23 km. Tuttavia, nel recente studio condotto intorno all'acquedotto se ne è stabilita un'estensione di circa 24 km; cfr. Vincenzo Rasà, «Il tracciato», in AA.VV., Acquedotto Romano - Tratto ricadente nel territorio di Paternò (archiviato dall'url originale il 20 gennaio 2012)., Paternò 1997, p. 6 Tavola Acquedotto romano - indicazione del tracciato da Santa Maria di Licodia a Catania - Tratto di Paternò.
  25. ^ Oggi alimentano un lavatoio pubblico e la Fontana del Cherubino.
  26. ^ a b c d e f lo stralcio del manoscritto. non pubblicato e ritrovato nel XX secolo redatto da I. Paternò Castello, in Alfio Longo, Misterbianco nella Storia, Catania, 1971, p. 123.
  27. ^ Per il materiale usato nella costruzione, la datazione e la storia degli studi cfr. Gioconda Lamagna, «L'acquedotto romano di Catania», in AA.VV., Acquedotto romano..., p. 1.
  28. ^ Il tratto interessato dalla ricerca effettuata ha inizio al chilometro 24 della strada provinciale 292/2, Paternò-Santa Maria di Licodia, e termina in contrada Giacobbe verso Belpasso. Dei 4,3 km ricadenti sulla carta nel territorio comunale solo 1,3 km costituiscono l'acquedotto superstite e ancora visibile, i restanti 3 km sono andati irrimediabilmente perduti. Per la realizzazione della mappa del tracciato il gruppo di ricercatori e di volontari hanno seguito sei diverse tappe: un primo esame delle fonti antiche e della cartografia atto a identificare le mutazioni del terreno riscontrabili; una ricognizione sul campo per identificare e riportare su una mappa 1:2000 i punti strategici utili per la trilaterazione; una fase strumentale con l'uso del tacheometro ha permesso la misurazione di distanze, dislivelli, angoli del tracciato; il rilievo "a terra" effettuato con misurazioni dirette delle diverse parti dell'acquedotto (lunghezza, altezza, larghezza, particolari etc.) e con il rilievo fotografico; l'elaborazione elettronica dei dati messi a confronto con le cartografie e le aerofotogrammetrie dell'area di rilievo; infine la rappresentazione grafica del rilevato. Cfr. Vincenzo Rasà, «Il tracciato - Dati tecnici dell'acquedotto», in AA.VV., Acquedotto romano..., p. 7; per le fasi di rilievo Idem, «Il tracciato - Rilievo tecnico», in AA.VV., Acquedotto romano..., p. 5.
  29. ^ Vincenzo Rasà, o.c., p. 7.
  30. ^ Ignazio Paternò Castello, o.c., p. 36 nell'ed. Palermo 1801.
  31. ^ Teresa Magro, non pubblicato.
  32. ^ Vedi Concetta Giuseppina Palazzo, «Descrizione dei tratti», in AA.VV. Acquedotto romano..., p. 1 e segg.
  33. ^ Dalla parte occidentale della Città fuori dalla Porta Ferdinanda, nel Territorio chiamato di Sardo, in Ignazio Paternò Castello, o.c., p. 36 nell'ed. Palermo 1801.
  34. ^ Pippo Virgillito, «L'acquedotto romano tra realtà e leggenda», in AA.VV. Acquedotto romano..., p. 17.
  35. ^ G. Lamagna, o.c., p. 1.

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

  • Luciano Nicolosi, L'acquedotto antico di Catania, Catania, Tip. Nicolosi e Grasso, 1931.
  • Sebastiana Lagona, «L'acquedotto romano di Catania», in Cronache di archeologia, 1964, pp. 69–86.
  • AA. VV., Acquedotto romano - Tratto ricadente nel territorio di Paternò. URL consultato il 15 maggio 2019 (archiviato dall'url originale il 20 gennaio 2012)., Paternò 1997.

Voci correlate[modifica | modifica wikitesto]

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