Vittorio Emanuele II di Savoia

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Vai alla navigazione Vai alla ricerca
Vittorio Emanuele II
[[File:File:Vittorio Emanuele II.jpg|frameless|center|260x300px]]
Re d'Italia
In carica17 marzo 1861 - 9 gennaio 1878
PredecessoreCarlo Alberto (Re di Sardegna)
SuccessoreUmberto I
Nome completoVittorio Emanuele Maria Alberto Eugenio Ferdinando Tommaso di Savoia
Altri titoliPrincipe di Piemonte, duca di Savoia, re di Sardegna
NascitaTorino, 14 marzo 1820
MorteRoma, 9 gennaio 1878
Casa realeSavoia
PadreCarlo Alberto
MadreMaria Teresa di Toscana
FigliMaria Clotilde
Umberto I
Amedeo
Oddone Eugenio Maria
Maria Pia
Carlo Alberto
Vittorio Emanuele
Vittoria di Mirafiori
Emanuele di Mirafiori

«Il nostro paese, piccolo per territorio, acquistò credito nei Consigli d'Europa perché grande per le idee che rappresenta, per le simpatie che esso ispira. Questa condizione non è scevra di pericoli, giacché, nel mentre rispettiamo i trattati, non siamo insensibili al grido di dolore che da tante parti d'Italia si leva verso di noi!»

Vittorio Emanuele II di Savoia (nome di battesimo: Vittorio Emanuele Maria Alberto Eugenio Ferdinando Tommaso di Savoia; Torino, 14 marzo 1820Roma, 9 gennaio 1878) è stato un sovrano e politico italiano. Fu principe di Piemonte, duca di Savoia e re di Sardegna dal 1849 al 1861 e re d'Italia dal 1861 al 1878. Il compimento dell'unificazione italiana gli procurò l'appellativo di "Padre della Patria" Come Re di Sardegna venne affiancato da validi ministri quali Massimo d'Azeglio e Camillo Benso conte di Cavour che modernizzarono il regno.

Biografia

Infanzia

Palazzo Carignano, progettato da Guarino Guarini: una targa sulla sommità della facciata ricorda che qui nacque Vittorio Emanuele II

Vittorio Emanuele era il primogenito di Carlo Alberto di Savoia-Carignano e di Maria Teresa d'Asburgo Lorena.

Nacque a Torino nel palazzo della famiglia paterna e trascorse i primi anni di vita a Firenze, essendosi il padre rifugiato presso il suocero, per sfuggire all'ira dello zio, dopo i gravi disordini politici del marzo 1821. Nel capoluogo toscano venne affidato al precettore Giuseppe Dabormida, che educò i figli di Carlo Alberto ad una disciplina militaresca.

In ragione dell'enorme differenza somatica con il padre, già visibile in tenera età, cominciarono a circolare voci sul fatto che il Vittorio Emanuele non fosse figlio della coppia reale, ma si trattasse di un bimbo d'origine popolana, preso per sostituire il vero figlio di Carlo Alberto, morto ancora in fasce a causa di un incendio.

In effetti, è difficile credere che il primo Re d'Italia, di bassa statura, tracagnotto e sanguigno, abbia qualche riscontro genetico nella figura magra e longilinea (oltre 2 mt) del padre.

Alcuni storici moderni hanno dato particolare credito a questa ipotesi, negata per oltre un secolo, basando le loro deduzioni, oltre che sulle evidenti disparità somatiche, anche sull'analisi del reticente verbale, redatto dal caporale Galluzzo per rendere rapporto ai superiori, circa l'incendio sviluppatosi nella stanza del palazzo fiorentino, ove si trovava il neonato Vittorio Emanuele con la nutrice. Gli analisti rilevano come sia poco credibile che un incendio abbia potuto uccidere la nutrice, lasciando illeso l'infante.

Quanto al presunto vero padre di Vittorio Emanuele, già nell'800, circolava il nome di tale "Tanaca", un macellaio della campagna toscana.

Giovinezza

Quando, nel 1831, il padre Carlo Alberto fu chiamato a succedere a Carlo Felice di Savoia, Vittorio Emanuele lo seguì a Torino, ove fu affidato al conte Cesare di Saluzzo, affiancato da uno stuolo di precettori, tra cui il generale Ettore De Sonnaz, il teologo Andrea Charvaz, lo storico Lorenzo Isnardi ed il giurista Giuseppe Manno.

Gli sforzi dei dotti precettori ebbero, però, scarso effetto sulla refrattarietà agli studi di Vittorio Emanuele che, di gran lunga, preferiva dedicarsi ai cavalli, alla caccia ed alla sciabola, rifuggendo la grammatica, la matematica, la storia e qualunque altra materia che richiedesse lo studio o anche la semplice lettura.

Ottenne il grado di generale e sposò la cugina Maria Adelaide di Ranieri (1842).

Ebbe un'intensa relazione, con Laura Bon dalla quale ebbe una figlia Emanuela (1853) che fu creata dallo stesso Re, contessa di Roverbella.

Carlo Alberto, acclamato come sovrano riformatore, concesso lo statuto nel 1848 e dichiarata guerra all'Austria, apriva intanto il lungo periodo noto come Risorgimento Italiano entrando in Lombardia con truppe piemontesi e italiane accorse in suo aiuto. Gli esiti della prima guerra d'indipendenza andarono però assai male per il Regno di Sardegna, abbandonato dai sostenitori: il 23 marzo 1849, dopo una violenta battaglia nella zona presso la Bicocca, Carlo Alberto inviò il generale Luigi Fecia di Cossato per trattare la resa con l'Austria. Le condizioni furono durissime e prevedevano la presenza di una guarnigione austriaca nelle piazzeforti di Alessandria e di Novara. Carlo Alberto, al cospetto di Wojciech Chrzanowski, Carlo Emanuele La Marmora, Alessandro La Marmora, Luigi Cadorna, di Vittorio Emanuele e del figlio Ferdinando Alberto Amedeo di Savoia, firmò la sua abdicazione e, con un falso passaporto, riparò a Nizza, da dove partì per l'esilio in Portogallo.

La notte stessa, poco prima della mezzanotte, Vittorio Emanuele II si recò presso una cascina di Vignale, dove l'attendeva il generale Radetzky, per nuovamente trattare la resa con gli austriaci, ovvero per la sua prima azione da sovrano. Oltre ad accettare le condizioni dei vincitori, Vittorio Emanuele II diede ferma assicurazione di voler agire con la massima determinazione contro il partito democratico, al quale il padre aveva consentito tanta libertà e che l'aveva condotto verso la guerra d'indipendenza contro l'Austria, sconfessando pienamente l'operato del padre.



Proclama di Moncalieri

Gli incontri ufficiali tra il Vittorio Emanuele e il maresciallo Radetsky si tennero dalla mattina al pomeriggio del 24 maggio, sempre a Vignale e l'accordo venne siglato il 26 marzo a Borgomanero. Vittorio Emanuele prometteva di sciogliere i corpi volontari dell'esercito e cedeva agli austriaci la fortezza di Alessandria ed i territori compresi tra il Po, il Sesia e il Ticino, oltre a rifondere i danni di guerra con l'astronomica cifra di 75 milioni di franchi francesi. Questi gli accordi dell'armistizio che, in ossequio all'articolo 5 dello Statuto Albertino, dovevano essere ratificati dalla Camera, al fine di poter siglare l'Atto di Pace.[2]

Il 29 marzo 1848 il nuovo Re si presentò davanti al Parlamento per pronunciare il giuramento di fedeltà e, il giorno dopo, lo sciolse indicendo le nuove elezioni.

I 30.000 elettori che si recarono alle urne il 15 luglio espressero un parlamento troppo "democratico" che si rifiutò di approvare la pace che il Re aveva già firmato con l'Austria. Vittorio Emanuele, dopo aver promulgato il proclama di Moncalieri, sciolse nuovamente il parlamento e si "adoperò" per fare in modo che i nuovi eletti fossero di idee meno liberali. Il nuovo Parlamento risultò composto per due terzi da moderati favorevoli al governo di Massimo d'Azeglio. Il 9 gennaio 1850 il trattato di pace con l'Austria venne, infine, ratificato.

Sacco di Genova

All'indomani dell'armistizio di Vignale, vista la brusca sterzata illiberale, la città di Genova si sollevò contro la monarchia sabauda, fors'anche spinta da antichi umori repubblicani e municipalisti, riuscendo a cacciare dalla città l'intera guarnigione regia.

Vittorio Emanuele II inviò subito un corpo di bersaglieri, appoggiati da numerosi pezzi d'artiglieria e guidati dal generale Alfonso La Marmora; in pochi giorni ottennero quella rapida vittoria che, due settimane prima, non erano riusciti ad imporre alle truppe austriache. Il pesante bombardamento e le successive odiose azioni di saccheggio e stupro perpetrate dai bersaglieri, portarono alla sottomissione del capoluogo ligure, al prezzo di 500 morti tra la popolazione.

Vittorio Emanuele, compiaciuto, scrisse una lettera d'elogio al La Marmora (aprile 1849), definendo il popolo genovese "vile et infecte race de canailles"; vile e infetta razza di canaglie.

Arrivo di Cavour

Lo stesso argomento in dettaglio: Camillo Benso conte di Cavour.

Già candidatosi al parlamento nell'aprile 1848, Cavour vi entrò in giugno dello stesso anno, mantenendo una linea politica indipendente, cosa che non lo escluse da critiche ma che lo mantenne in una situazione di anonimato fino alla proclamazione delle leggi Siccardi, che prevedevano l'abolizione di alcuni privilegi relativi alla Chiesa, già abrogati in molti stati europei. L'attiva partecipazione del Cavour alla discussione sulle leggi ne valse l'interesse pubblico, e alla morte di Santorre di Santarosa, egli divenne nuovo ministro dell'agricoltura, cui si aggiunse la carica, dal 1851, di ministro delle finanze del governo d'Azeglio.

Promotore del cosiddetto connubio, Cavour divenne il 4 novembre 1852 primo ministro del Regno, nonostante l'avversione che Vittorio Emanuele II nutriva nei suoi confronti.

La guerra in Crimea

Lo stesso argomento in dettaglio: Guerra di Crimea.

Deciso a manifestare il problema dell'Italia agli occhi dell'Europa, Cavour vide nella guerra russo-turca scoppiata nel giugno 1853 un'irripetibile opportunità: contro Nicola I di Russia, che aveva occupato la Valacchia e la Moldavia, allora terre turche, si mossero l'Inghilterra e la Francia, cui Cavour sperava di trovare alleati.

Vittorio Emanuele II sembrava favorevole ad un conflitto, se così s'espresse all'ambasciatore francese:

«Se noi fossimo battuti in Crimea, non avremmo altro da fare che ritirarci, ma se saremo vincitori, benissimo! questo varrà per i Lombardi assai meglio di tutti gli articoli che i ministri vogliono aggiungere al trattato [...] se essi non vorranno marciare, io sceglierò altri che marceranno...»

La battaglia di Sebastopoli.

Ottenuta l'approvazione di Vittorio Emanuele, Cavour iniziò le trattative con i paesi belligeranti, che andarono per le lunghe per i contrasti tra i ministri. Infine, il 7 gennaio 1855, i governi francesi ed inglesi imposero un ultimatum al Piemonte: entro due giorni approvare o no l'entrata in guerra. Vittorio Emanuele, letto il messaggio, meditò di approvare il piano che aveva da tempo: sciogliere nuovamente le camere e imporre un governo favorevole alla guerra. Non ne ebbe il tempo: Cavour convocò la notte stessa il Consiglio dei ministri e, alle nove di mattina del giorno dopo, dopo una nottata che comportò la dimissione del Dabormida, con soddisfazione poté affermare la partecipazione della Sardegna alla Guerra di Crimea.

Fu Alfonso La Marmora a capitanare la spedizione che, da Genova, salpò verso l'Oriente: i Piemontesi inviavano un contingente di 15.000 uomini. Costretto a rimanere relegato nelle retrovie sotto il comando inglese, La Marmora riuscì a far valere le sue ragioni capitanando egli stesso le truppe nella battaglia della Cernaia, che risultò un trionfo. L'eco della vittoria riabilitò l'esercito sardo, fornendo a Vittorio Emanuele II l'opportunità di un viaggio a Londra e a Parigi per sensibilizzare i regnanti locali alla questione piemontese. In particolare, premeva al Re di parlare con Napoleone III,[3] che sembrava avere maggiori interessi rispetto agli inglesi sulla Penisola.

Nell'ottobre 1855 iniziarono a circolare voci di pace, che la Russia sottoscrisse a Parigi (Congresso di Parigi). Il Piemonte, che aveva posto come condizione della sua partecipazione alla guerra una seduta straordinaria per trattare i temi dell'Italia, per voce di Cavour condannò il governo assolutistico di Ferdinando II di Napoli prevedendo gravi disordini se nessuno avesse risolto un problema ormai diffuso in quasi tutta la Penisola: l'oppressione sotto un governo straniero.

Ciò non piacque al governo austriaco, che si sentiva chiamato in causa, e Karl Buol, ministro degli esteri per Francesco Giuseppe d'Austria, s'espresse in questi termini:

«L'Austria non può ammettere il diritto che il Conte di Cavour ha attribuito alla corte di Sardegna di alzare la voce a nome dell'Italia.»

Camillo Benso, Conte di Cavour, Primo Ministro di Vittorio Emanuele II

In ogni caso, la partecipazione della Sardegna ai trattati di Parigi suscitò ovunque grande gioia. Screzi avvennero tra Torino e Vienna in seguito ad articoli propagandistici anti-sabaudi e anti-asburgici, mentre tra Buol e Cavour si chiedevano scuse ufficiali: alla fine, il 16 marzo, Buol ordinò ai suoi diplomatici di lasciare la capitale sarda, cosa che anche Cavour replicò il 23 marzo stesso. I rapporti diplomatici erano ormai rotti.

Accordi segreti

In un clima internazionale così teso, l'italiano Felice Orsini attentò alla vita di Napoleone III facendo esplodere tre bombe contro la carrozza imperiale, che rimase illesa, provocando otto morti e centinaia di feriti. Nonostante le aspettative dell'Austria, che sperava nell'avvicinamento di Napoleone III alla sua politica reazionaria, l'Imperatore francese venne convinto abilmente da Cavour che la situazione italiana era giunta ad un punto critico e necessitava di un intervento sabaudo.

Fu così che si gettarono le basi per il trattato di Plombières, nonostante le avversità di alcuni ministri francesi, specialmente di Alessandro Walewski. Grazie anche all'intercessione di Virginia Oldoini e di Costantino Nigra, entrambi istruiti adeguatamente da Cavour, i rapporti tra Napoleone e Vittorio Emanuele divennero sempre più prossimi.

Col pretesto di una vacanza in Svizzera, Cavour si diresse invece a Plombières, ove incontrò segretamente Napoleone III. Gli accordi stretti, prevedevano la cessione alla Francia della Savoia e di Nizza in cambio dell'aiuto militare francese, cosa che sarebbe avvenuta solo in caso di attacco austriaco. Napoleone concedeva la creazione di un Regno dell'Alta Italia, mentre voleva sotto la sua influenza l'Italia centrale e meridionale. Nello stesso incontro, Cavour e Napoleone stipulavano il matrimonio tra Girolamo Bonaparte e Maria Clotilde di Savoia.

Dipinto conservato a Palazzo Madama a Torino, raffigurante Vittorio Emanuele II nell'anno della sua incoronazione come Re di Sardegna

Un "grido di dolore"

La notizia dell'incontro di Plombières trapelò nonostante tutte le precauzioni. Napoleone III non contribuì a mantenere il segreto delle sue intenzioni, se esordì con questa frase all'ambasciatore austriaco:

«Sono spiacente che i nostri rapporti non siano più buoni come nel passato; tuttavia, vi prego di comunicare all'Imperatore che i miei personali sentimenti nei suoi confronti non sono mutati.»

Dieci giorni dopo, il 10 gennaio 1859, Vittorio Emanuele II si rivolse al parlamento piemontese con la celebre frase del «grido di dolore», il cui testo originale è conservato nel castello di Sommariva Perno. [4]

In Piemonte, immediatamente, accorsero i volontari, convinti che la guerra fosse imminente, e il Re iniziò ad ammassare le truppe sul confine lombardo, presso il Ticino. Ai primi di maggio 1859, Torino poteva disporre sotto le armi di 63.000 uomini. Vittorio Emanuele prese il comando dell'esercito e lasciò il controllo della cittadella di Torino al cugino Eugenio di Savoia-Carignano. Preoccupata dal riarmo sabaudo, l'Austria pose un ultimatum a Vittorio Emanuele II, su richiesta anche dei governi di Londra e Pietroburgo, che venne immediatamente respinto. Così giudicò, sembra, Massimo d'Azeglio, la notizia dell'ultimatum asburgico:

«l'Ultimatum è uno di quei terni al lotto che accadono una volta in un secolo»

Era la guerra. Francesco Giuseppe ordinò di varcare il Ticino e di puntare sulla capitale piemontese, prima che i francesi potessero accorrere in soccorso.

Italia e Vittorio Emanuele

Ritiratisi gli austriaci da Chivasso, i franco-piemontesi sbaragliarono il corpo d'armata nemico presso Palestro e Magenta, arrivando a Milano l'8 giugno 1859. I Cacciatori delle Alpi, capitanati da Giuseppe Garibaldi, rapidamente occuparono Como, Bergamo, Varese e Brescia: soltanto 3.500 uomini, male armati, che ormai stavano marciando verso il Trentino. Ormai le forze asburgiche si ritiravano da tutta la Lombardia.

Decisive le battaglie tra Solferino e San Martino: sembra che, poco prima dello scontro presso San Martino, Vittorio Emanuele II così parlò alle truppe, in lingua piemontese:

(PMS)

«Fioeui, o i piuma San Martin o i auti an fa fé San Martin a nui!»

(IT)

«Ragazzi, o prendiamo San Martino o gli altri fanno fare San Martino a noi!»

Moti insurrezionalisti scoppiarono allora un po' ovunque in Italia: Massa, Carrara, Modena, Reggio, Parma, Piacenza. Leopoldo II di Toscana, impaurito dalla piega che avevano preso gli avvenimenti, decise di fuggire verso il Nord Italia, nel campo dell'imperatore Francesco Giuseppe. Napoleone III, osservando una situazione che non seguiva i piani di Plombières e iniziando a dubitare che il suo alleato volesse fermarsi alla conquista dell'Alta Italia, dal 5 luglio iniziò a stipulare l'armistizio con l'Austria, che Vittorio Emanuele II dovette sottoscrivere, mentre i plebisciti in Emilia, Romagna e Toscana confermavano l'annessione al Piemonte: il 1° ottobre papa Pio IX ruppe i rapporti diplomatici con Vittorio Emanuele.

L'edificio che si era venuto a creare si trovò in difficoltà in occasione della pace di Zurigo firmata dal Regno di Sardegna solo il 10/11 novembre 1859, che, invece rimaneva fedele all'opposto principio del ritorno dei sovrani spodestati e alla costruzione di una federazione, con a capo il Papa, e che avrebbe compreso anche il Veneto austriaco, con tanto di esercito federale.

Ciò nonostante di lì a pochi mesi si venivano a creare le opportunità per l'unificazione intera della Penisola. Alla volontà di Garibaldi di partire con dei volontari alla volta della Sicilia, il governo pareva molto scettico, per non dire ostico. C'erano, è vero, segni di amicizia tra Vittorio Emanuele II e Garibaldi, che si stimavano a vicenda, ma Cavour in primo luogo considerava la spedizione siciliana come un'azione avventata e dannosa per la sopravvivenza stessa dello stato sardo.

Sembra che Garibaldi abbia più volte ribadito, per far acconsentire alla spedizione, che:

«In caso si faccia l'azione, sovvenitevi che il programma è: Italia e Vittorio Emanuele»

Nonostante l'appoggio del Re, ebbe la meglio Cavour, che privò in questo modo la campagna garibaldina dei mezzi necessari. Che il Re abbia, infine, approvato la spedizione, non si può sapere. Certo è che Garibaldi trovò a Talamone, quindi ancora nel Regno di Sardegna, i rifornimenti di cartucce. Dura fu la protesta diplomatica: Cavour e il Re dovettero assicurare all'Ambasciatore prussiano di non essere al corrente delle idee di Garibaldi.

Giunto in Sicilia, Garibaldi assicurava l'isola, dopo aver sconfitto il malridotto esercito borbonico, a «Vittorio Emanuele Re d'Italia». Già in quelle parole si prefigurava il disegno del Nizzardo, che non si sarebbe certo fermato al solo Regno delle Due Sicilie, ma avrebbe marciato su Roma. Tale prospettiva cozzava contro i progetti piemontesi, che adesso vedevano incombere il pericolo repubblicano e rivoluzionario e, soprattutto, temevano l'intervento di Napoleone III nel Lazio. Vittorio Emanuele, alla testa delle truppe piemontesi, invase lo Stato Pontificio, sconfiggendone l'esercito nella Battaglia di Castelfidardo. Napoleone III non poteva tollerare l'invasione delle terre papali, e più volte aveva cercato di dissuadere Vittorio Emanuele II dall'invasione delle Marche, comunicandogli, il 9 settembre, che:

Vittorio Emanuele incontra Garibaldi presso Teano.

«Se davvero le truppe di V.M. entrano negli stati del Santo Padre, sarò costretto ad oppormi ... Farini mi aveva spiegato ben diversamente la politica di V.M.»

L'incontro con Garibaldi, passato alla storia come "incontro di Teano" avvenne il 26 ottobre 1860: veniva riconosciuta la sovranità di Vittorio Emanuele II su tutti i territori dell'ex Regno delle Due Sicilie.L'incontro è passato alla storia come "incontro di Teano" o "storico incontro di Teano" e in passato si era tradizionalmente ritenuto che fosse avvenuto presso il ponte di San Nicola, nella frazione di Borgonuovo (Teano). I documenti storici tuttavia citano come luogo dell'incontro la Taverna della Catena, che si trova presso la frazione di Vairano Scalo nel comune di Vairano Patenora[5].

Viva V.E.R.D.I.

Viva Verdi. Questo era stato lo slogan delle insurrezioni anti-austriache nel nord Italia. Ma i patrioti non volevano solo esaltare la figura di un grande musicista, quando propagandare l'Unità nazionale sotto Vittorio Emanuele Re D'Italia. E, con l'entrata di Vittorio Emanuele a Napoli, sembrava ormai che la proclamazione del Regno fosse imminente, appena Francesco II avesse capitolato con la fortezza di Gaeta.

Fatto rinnovare il parlamento da Cavour, la prima seduta che comprendeva deputati di tutte le regioni annesse (tramite plebiscito), avvenne il 18 febbraio. Il 17 marzo il parlamento proclamò la nascita del Regno d'Italia, stipulata dall'articolo:

«Vittorio Emanuele II assume per sé e per i suoi successori il titolo di re d'Italia»

La formula venne però aspramente contestata dalla sinistra, che avrebbe preferito vincolare tale il titolo regio al popolo. Così, infatti, il deputato Brofferio propose di cambiare l'articolo:

«Vittorio Emanuele è proclamato dal popolo re d'Italia»

eliminando, quindi, il numerale II in favore del titolo "Vittorio Emanuele I d'Italia". La proposta non venne approvata, a sottolineare il carattere di estensione del dominio del Regno di Sardegna sul resto dell'Italia, piuttosto che la nascita di un nuovo stato. Quando, nel 1874, Vittorio Emanuele decise di celebrare il proprio giubileo (venticinquesimo dall'incoronazione), egli si attirò le critiche di chi non mancò di osservare come Giacomo VI di Scozia avesse deciso di intitolarsi Giacomo I d'Inghilterra divenendone il sovrano e lo stesso avesse fatto Enrico III di Navarra divenuto Enrico IV di Francia.

Roma capitale

Ritratto di Vittorio Emanuele II

All'unità d'Italia mancavano ancora importanti tasselli, tra cui il Veneto, il Trentino, il Friuli e il Lazio. Il progetto era quello di porre la sede reale a Roma, ma questo avrebbe significato, per Torino, la perdita di un primato in auge da quattrocento anni. Tra il 21 e il 22 settembre 1864 scoppiarono sanguinosi tumulti per le vie della città, che ebbero come risultato una trentina di morti e oltre duecento feriti, appena si seppe della decisione di trasferire la capitale a Firenze. Vittorio Emanuele avrebbe voluto preparare la cittadinanza alla notizia, al fine di evitare scontri, ma la notizia in qualche modo era trapelata. Il malcontento era generale, e così descrisse la situazione Olindo Guerrini:

«Oh, i presagi tristi per l'avvenire di Torino che si facevano al tempo del trasporto della capitale! E li facevano i Torinesi stessi, che per un momento perdettero la fiducia in sé medesimi.»

In seguito a nuovi fatti di cronaca, che comportarono il ferimento di alcuni delegati stranieri e violente sassaiuole, Vittorio Emanuele II mise la città davanti al fatto compiuto facendo pubblicare sulla Gazzetta questo annuncio:

«Questa mattina, alle ore 8.00, S.M. il Re è partito da Torino per Firenze, accompaganto da S.E. il presidente del Consiglio dei Ministri»

Vittorio Emanuele riceveva così gli onori dei Fiorentini, mentre oltre 30.000 funzionari di corte si trasferirono in città. La popolazione, abituata al modesto numero dei ministri granducali, si trovò spiazzata di fronte all'amministrazione del nuovo regno, che intanto aveva siglato l'alleanza con la Prussia contro l'Austria.

Il 21 giugno 1866 Vittorio Emanuele lasciava Palazzo Pitti diretto al fronte, per conquistare il Veneto. Sconfitto a Lissa e a Custoza, il Regno d'Italia ottenne comunque Venezia in seguito ai trattati di pace succeduti alla vittoria prussiana.

5 lire del 1874 raffiguranti Vittorio Emanuele II

Roma rimaneva l'ultimo territorio ancora non inglobato dal nuovo regno: Napoleone III manteneva l'impegno di difendere lo Stato Pontificio e le sue truppe erano stanziate nei territori pontifici. Vittorio Emanuele stesso non voleva prendere una decisione ufficiale: attaccare o no. Urbano Rattazzi, che era divenuto primo ministro, sperava in una sollevazione degli stessi Romani, cosa che non avvenne. La sconfitta riportata nella Battaglia di Mentana aveva gettato poi numerosi dubbi sull'effettiva riuscita dell'impresa, che poté avvenire solo con la caduta, nel 1870, di Napoleone III. L'8 settembre fallì l'ultimo tentativo di ottenere Roma con mezzi pacifici, e il 20 settembre il generale Cadorna aprì una breccia nelle mura romane. Vittorio Emanuele ebbe a dire:

«Con Roma capitale ho sciolto la mia promessa e coronato l'impresa che ventitré anni or sono veniva iniziata dal mio magnanimo genitore.»

Però, quando gli eccitati ministri Lanza e Sella gli presentarono il risultato del plebiscito di Roma e Lazio, il re gli disse in piemontese:

"Ca staga ciuto; am resta nen aut che tireme un culp d'revolver; per l'on c'am resta da vive ai sarà nen da pié." (Ma stai zitto; non mi resta altro che tirarmi un colpo di pistola; per il resto della mia vita non ci sarà niente più da prendere.)[6]

La questione romana

Con Roma capitale si chiudeva la pagina del Risorgimento, anche se mancavano ancora le cosiddette "terre irredente". Tra i vari problemi che bisognò affrontare, dall'analfabetismo al brigantaggio, dall'industrializzazione al diritto di voto, vi fu la "questione romana". Nonostante fossero stati riconosciuti al Pontefice speciali immunità, gli onori di Capo di Stato, una rendita annua e il controllo sul Vaticano e su Castel Gandolfo, Pio IX rifiutava di riconoscere lo stato italiano e impediva ai cattolici di partecipare alla vita civile del regno. Inoltre il Papa inflisse la scomunica a Casa Savoia, vale a dire sia a Vittorio Emanuele II sia ai suoi successori, e insieme con loro a chiunque partecipasse alla politica italiana. La scomunica venne ritirata solo in punto di morte del Sovrano.

Morte

La sera del 5 gennaio 1878, dopo aver inviato un telegramma alla famiglia di Alfonso La Marmora, da poco scomparso, Vittorio Emanuele II si sentì male. Nel corso dei giorni apparvero evidenti i segni di febbri malariche, e il 7 febbraio venne divulgata la notizia che il Re aveva i giorni contati.

Papa Pio IX, quando seppe della ormai imminente scomparsa del sovrano, volle inviare al Quirinale un ecclesiastico affinché, messi da parte i veti pontifici, accordasse al Re morente i sacramenti; fu invece il cappellano di corte che somministrò il viatico a Vittorio Emanuele, poiché si temeva che dietro la generosità di Pio IX si nascondessero degli scopi segreti.

Vittorio Emanuele II aveva espresso il desiderio che il suo feretro fosse tumulato in Piemonte, nella Basilica di Superga, ma Umberto I, accondiscendendo alle richieste del Comune di Roma, approvò che la salma rimanesse in città, nel Pantheon. Stendendo il proclama alla nazione, Umberto I (che adottò il numerale I in vece del IV, che avrebbe dovuto mantenere secondo la numerazione sabauda), così si espresse:

«Il vostro primo Re è morto; il suo successore vi proverà che le Istituzioni non muoiono!»

In ricordo del Re

Monumenti a Vittorio Emanuele
Torino
Milano
Verbania
Perugia
Firenze
Genova
Roma
Verona
Napoli

Il Vittoriano

Il Vittoriano
Lo stesso argomento in dettaglio: Vittoriano.

Per celebrare il «Padre della Patria», il Comune di Roma bandì un progetto, dal 1880, su volontà di Umberto I di Savoia. Ciò che venne costruito fu una delle più ardite opere architettoniche d'Italia nell'Ottocento: per erigerlo, venne distrutta una parte della città, ancora medioevale, e venne abbattuta anche la torre di papa Paolo III. L'edificio doveva ricordare il tempio di Atena Nike, ad Atene, ma le forme archittoniche ardite e complesse fecero sorgere dubbi sulla buona riuscita dell'opera. Oggi, al suo interno, è presente la tomba del Milite Ignoto.

La Galleria Vittorio Emanuele II a Milano

Lo stesso argomento in dettaglio: Galleria Vittorio Emanuele II di Milano.

Progettata da Giuseppe Mengoni (che vi morì), la Galleria Vittorio Emanuele II collega la Piazza della Scala al Duomo di Milano, e venne realizzata mentre il Re era ancora in vita, a partire dal 1865. Il progetto iniziale intendeva emulare le grandi opere di architettura erette in quegli anni in Europa, creando una galleria borghese nel cuore della città.

La vita privata

Il Re non amava la vita di corte preferendo dedicarsi alla caccia e al gioco del biliardo che ai salotti mondani. Per la propria amante, e poi moglie, Rosa Vercellana, acquistò i terreni ora noti come Parco regionale La Mandria e vi fece realizzare la residenza nota come Appartamenti Reali di Borgo Castello. Per i figli avuti da lei, Vittoria e Emanuele di Mirafiori costruì all'interno della Mandria le cascine per l'allevamento dei cavalli "Vittoria" ed "Emanuella", quest'ultima ora nota come Cascina Rubbianetta.

Discendenza

Sposò a Stupinigi il 12 aprile 1842 la cugina Maria Adelaide di Ranieri con la quale ebbe otto figli:

Rosa Teresa Vercellana Guerrieri (soprannominata La Rosina o la La bella Rosin) fu una delle amanti del Re, da cui discese la linea comitale di Mirafiori e Fontanafredda. Si sposarono morganaticamente a Roma il 7 novembre 1869 ed ebbero due figli Vittoria ed Emanuele di Mirafiori.

Morì a Roma il 9 gennaio del 1878, dopo 28 anni e 9 mesi di regno, sulla propria poltrona dopo aver ricevuto l'inviato di papa Pio IX, che era incaricato di revocargli la scomunica.

Venne sepolto al Pantheon, nella seconda cappella a destra di chi entra, adiacente cioè a quella con l'Annunciazione di Melozzo da Forlì.

Note

  1. ^ Ferma restando la genealogia dei Savoia, il tema della successione ad Umberto II come capo del casato è oggetto di controversia tra i sostenitori di opposte tesi rispetto all'attribuzione del titolo a Vittorio Emanuele piuttosto che a Amedeo: infatti il 7 luglio 2006 la Consulta dei senatori del Regno, con un comunicato, ha dichiarato decaduto da ogni diritto dinastico Vittorio Emanuele ed i suoi successori ed ha indicato duca di Savoia e capo della famiglia il duca d'Aosta, Amedeo di Savoia-Aosta, fatto contestato anche sotto il profilo della legittimità da parte dei sostenitori di Vittorio Emanuele. Per approfondimenti leggere qui.
  2. ^ Secondo il re aveva il potere di stringere alleanze e siglare la pace, ma ciò necessitava di un'approvazione della Camera se la decisione avesse intaccato le finanze dello Stato: l'Austria aveva infatti richiesto anche 75 milioni di franchi, una cifra enorme.
  3. ^ Vittorio Emanuele II e Luigi Napoleone già si conoscevano: il primo aveva consegnato al secondo, non ancora imperatore, il primo collare dell'Annunziata del proprio regno, il 13 luglio 1849.
  4. ^ Il testo fu redatto da Cavour, che ne inviò una copia a Napoleone III. Questi, ritenendolo poco energico, pensò di sostituire l'ultimo periodo con quello che poi entrò nella tradizione storica.
  5. ^ Il "Diario Storico dell'Archivio del Ministero della Difesa", nel rapporto giornaliero del 26 ottobre 1860, riferisce: "... A Taverna della Catena, S.M. il Re, che col suo quartier generale marcia colle truppe del quarto Corpo, è incontrato dal gen. Garibaldi..." (citato da Nino D'Ambra, Giuseppe Garibaldi cento vite in una, Ed. A.G.Grassi, Napoli 1983 n.p.160). Anche Alfonso Scirocco (Garibaldi. Battaglie, amori, ideali di un cittadino del mondo, Ed. Laterza, Roma 2001) descrive l'incontro come avvenuto "presso Teano, al bivio di Taverna Catena, presso una casa rustica e una dozzina di pioppi": Garibaldi si fermò al bivio, dove arrivarono la colonna delle truppe regie e il re stesso, che salutato Garibaldi, procedette a cavallo con lui verso Teano, dove si separarono. Riportano l'incontro come avvenuto a Taverna della Catena anche Giuseppe Cesare Abba, Da Quarto al Volturno, in Gaetano Trombatore (a cura di), Memorialisti dell'Ottocento, I, Riccardi Ricciadri Edit., Napoli, p. 889 e ss.; Indro Montanelli, Storia d'Italia, Ed. Fabbri, Roma 1994, vol.31 p.124.
  6. ^ F. Martini,Confessioni e Ricordi, pagg. 152-3, citato da Antonio Gramsci ne Il Risorgimento pagg. 171-2, in Edgard Holt,The Making of Italy 1815-1870, Atheneum, New York (1971) pag. 297.

Bibliografia

  • Mack Smith. Storia d'Italia. Roma-Bari, Editori Laterza, 2000. ISBN 88-420-6143-3
  • Silvio Bertoldi. Il re che fece l'Italia: vita di di Vittorio Emanuele II di Savoia. Milano, Rizzoli, 2002. pp. 317.
  • Lorenzo Del Boca. Maledetti Savoia. Casale Monferrato, Piemme, 1998. pp. 287.
  • Lorenzo Del Boca. Indietro Savoia!: storia controcorrente del Risorgimento . Casale Monferrato, Piemme. 2003, pp. 281.
  • Pier Francesco Gasparetto. Vittorio Emanuele II. Milano, Rusconi, 1984. pp. 241 (Le vite).
  • Denis Mack Smith. Vittorio Emanuele II. Milano, Mondadori, 1995. pp. XIII-329 (Oscar saggi; 436) (1ª ed. Bari, Laterza, 1972).
  • Paolo Pinto. Vittorio Emanuele II: il re avventuriero. Milano, Mondadori, 1997. pp. 513 (Oscar storia; 136).
  • Gianni Rocca. Avanti, Savoia!: miti e disfatte che fecero l'Italia, 1848-1866. Milano, Mondadori, 1993, pp. 334 (Le scie).
  • Aldo A. Mola. Storia della Monarchia in Italia. Milano, Bompiani, 2002.
  • Angelo Manna. Briganti furono loro, quegli assassini dei fratelli d'Italia, Napoli, Sun Books, 1996, pp. 186.

Voci correlate

Altri progetti

separatore

Predecessore: Re di Sardegna Successore: Savoia
Carlo Alberto 1849 - 1861 diventa re d'Italia
Predecessore Re d'Italia Successore
Napoleone (fino al 1814) 1861 - 1878 Umberto I