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Disambiguazione – "Bailly" rimanda qui. Se stai cercando altri significati di Bailly, vedi Bailly (disambigua).
Jean Sylvain Bailly
Jean Sylvain Bailly.

Presidente dell'Assemblea Nazionale
Durata mandato17 giugno 1789 –
3 luglio 1789
PredecessoreCarica istituita
SuccessoreJean Georges Lefranc de Pompignan

Sindaco di Parigi
Durata mandato15 luglio 1789 –
18 novembre 1791
PredecessoreCarica istituita
SuccessoreJérôme Pétion de Villeneuve

Deputato dell'Assemblea Nazionale
Durata mandato17 giugno 1789 –
9 luglio 1789

Deputato degli Stati Generali
Durata mandato5 maggio 1789 –
16 giugno 1789
CoalizioneTerzo Stato
CircoscrizioneParigi

Dati generali
Partito politicoClub dei Foglianti (1791-1792)
Club dei Giacobini (1791)
Società del 1789
(1790-1791)
ProfessioneAstronomo
Matematico

Jean Sylvain Bailly (/ʒɑ̃ ˈsɪlvən bɑji/; Parigi, 15 settembre 1736Parigi, 12 novembre 1793) è stato un matematico, astronomo, politico e letterato francese.

Membro delle principali accademie francesi, come l'Académie française e l'Académie des sciences, quale astronomo e letterato Bailly si interessò soprattutto di paleoastronomia elaborando numerosi trattati sull'astronomia antica, moderna e orientale.[1] Di lui si ricordano anche le numerose osservazioni (tra le quali, particolarmente notevoli, quelle su due comete e sui satelliti di Giove).[1] Famosa è inoltre la sua corrispondenza epistolare con Voltaire. Bailly partecipò inoltre all'indagine sul fenomeno parascientifico del mesmerismo con altri eminenti scienziati quali Benjamin Franklin, Antoine Lavoisier e il medico Joseph-Ignace Guillotin.

Membro di alcune logge massoniche francesi,[2][3] Bailly ebbe una impressionante ma rapida carriera politica. Eletto come rappresentante del Terzo Stato agli Stati generali del 1789, fu uno dei politici più influenti durante la prima parte della Rivoluzione francese. Presiedette infatti il Giuramento della Pallacorda, fu il primo presidente dell'Assemblea Nazionale ed in seguito divenne il primo sindaco eletto di Parigi, rimanendo in carica dal luglio 1789 all'ottobre 1791. Amico e collaboratore del marchese La Fayette fondò assieme a lui il Club dei Foglianti nel tentativo di limitare la rivoluzione repubblicana in atto, provando a mantenere la costituzione del 1791. Costretto a dare le dimissioni da sindaco parigino nel novembre 1791, alcuni mesi dopo la tragedia del Campo di Marte, quando autorizzò la Guardia Nazionale a sparare sulla folla di manifestanti, Bailly si ritirò a vita privata a Nantes riprendendo gli studi scientifici. Però, malvisto dai giacobini per le sue tendenze moderate,[1] fu arrestato, e condannato a morte infine nel 1793, ghigliottinato durante il Regime del Terrore di Robespierre.

Biografia[modifica | modifica wikitesto]

Giovinezza[modifica | modifica wikitesto]

Nato a Parigi il 15 settembre 1736, Bailly era il figlio unico di Jacques Bailly, artista e supervisore del Louvre, come responsabile della protezione dei dipinti del re[4], e di Marie Cécile Guichon.[5] Il nonno paterno era Nicholas Bailly, anche lui artista e pittore di corte. Da oltre cento anni la famiglia Bailly si occupava della custodia dei dipinti reali.[5]

Bailly non si allontanò da casa durante l'infanzia per studiare in un istituto privato ma, probabilmente per un eccesso di «tenerezza» della madre, fu spinto a rimanere a casa studiando sotto la supervisione dei genitori.

Per quanto riguarda il rapporto con il padre Jacques, come ricorda Arago nella sua biografia di Bailly, bisogna dire che fu piacevole per il piccolo Sylvain. I due avevano delle personalità ben differenti: il padre aveva un carattere leggero e svogliato; invece il giovane Sylvain aveva mostrato precocemente un vivace intelletto e una forte passione per studio.[5] Così Jacques fu l'unico vero e proprio elemento di allegria «rumorosa» nell'infanzia del giovane Bailly che lo ricordardava perciò affettuosamente.[5] Per il padre, un eventuale isolamento sarebbe stato fatale; la sua vita, irrequieta, era piena di movimento, tra uscite, piacevoli conversazioni e facili feste gratuite. Invece il figlio riusciva a rimanere da solo anche per giorni interi, restando addirittura in assoluto silenzio, né Sylvain ebbe mai bisogno di cercare la compagnia dei coetanei.[5] Già nell'infanzia, scrive Arago, Bailly «era di una grande sobrietà sia nelle abitudini che nei gusti».

Arago riporta proprio alcune parole rivolte dal padre ai suoi domestici o a qualche suo amico, dopo aver commesso una qualche piccola impudenza:

(FR)

«Ne parlez pas à mon fils de cette peccadille. Sylvain vaut mieux que moi; sa morale est d'une grande sévérité. Sous les formes les plus respectueuses, j'apercevrais dans son maintien un blâme qui m'affligerait. Je désire éviter qu'il me gronde même tacitement, même sans mot dire.»

(IT)

«Non parlare con mio figlio di questo peccatuccio. Sylvain è migliore di me; la sua morale è molto severa. Sotto i modi più rispettosi, percepisco nel suo portamento una colpa che mi affligge. Vorrei evitare che mi rimproveri, anche silenziosamente, anche senza bisogno di parole.»

Respirando arte in casa, Bailly quasi naturalmente si interessò dei principi artistici e ne fece studio «profondo e fecondo», diventando anche «un artista teoretico di primo lignaggio», anche se in realtà, diversamente dal padre che invece «disegnava splendidamente», Bailly non aveva mai imparato né a disegnare né a dipingere se non mediocremente.[5]

Jacques e Sylvain avevano però entrambi un forte punto di contatto, un interesse comune: la poesia e il teatro. Jacques compose delle canzoni, degli intermezzi, e delle parades ossia delle scenette per i teatri itineranti utilizzati nella commedia dell'arte per attirare il pubblico. Sylvain invece debuttò a sedici anni con un lavoro serio e di lunga durata, una tragedia intitolata Clotaire. L'opera, tratta da una storia abbastanza antica, raccontava le torture che una barbara folla aveva fatto provare ad un sindaco di Parigi.

Il lavoro era stato presentato all'attore e commediografo francese La Noue, amico del padre di Bailly, il quale, pur dando a Bailly un lusinghiero incoraggiamento, aveva francamente esposto le sue perplessità a proposito di un'eventuale esecuzione pubblica dell'opera. Su indicazione di La Noue, Bailly comunque riprese il soggetto di Ifigenia in Tauride per comporre un'altra opera teatrale, sperando in un maggior successo. Tale fu l'ardore di Bailly, che in soli tre mesi aveva già terminato il quinto atto della nuova tragedia e, dopo averla conclusa e revisionata, corse a Passy, dove si trovava La Noue, per sollecitarlo a prendere una nuova decisione, fiducioso questa volta di un responso positivo. Ma La Noue - leggendo l'opera - si rese conto che Bailly non era destinato alla carriera del teatro, e glielo disse in faccia senza mezzi termini. Bailly allora, amareggiato, decise di bruciare entrambe le tragedie gettandole nel fuoco.[5]

Poi, casualmente, avvenne l'incontro di Bailly con la matematica. Infatti, il famoso matematico Moncarville si era offerto di insegnargli questa materia in cambio delle lezioni di disegno che il proprio figlio aveva ricevuto da Jacques Bailly. I genitori si misero d'accordo, e Bailly incominciò a studiare matematica e geometria sotto la supervisione di Moncarville. I progressi di Bailly in questi nuovi studi furono veloci e brillanti.[5]

Allievo di Lacaille[modifica | modifica wikitesto]

Nicolas-Louis de Lacaille

Eccellente giovane studente di matematica con una «memoria particolarmente estesa e un'inesauribile pazienza»[6], Bailly poco tempo dopo aveva avuto un incontro provvidenziale per la sua carriera futura: era stato a casa di un'artista, Mademoiselle Lejeuneux conosciuta in seguito come Madame La Chenaye, che Nicolas de Lacaille aveva incontrato per la prima volta Bailly. Il contegno attento, serio, e modesto dello studente incantò il famoso astronomo[7], che dimostrò in maniera inequivocabile la sua ammirazione verso il giovane offrendosi di diventare suo maestro e guida negli studi astronomici, e promettendogli di metterlo in contatto con Alexis Clairault.[7]

Si dice che sin dal suo primo incontro con Lacaille, Bailly mostrò una decisa vocazione per l'astronomia. In effetti al periodo della prima apparizione di Lacaille, troviamo associate alcune delle indagini di Bailly più laboriose e difficili.[7]

Il biennio 1758-1759 fu caratterizzato da un grande evento: la cometa di Halley, apparsa nell'ultima volta nel 1682, era tornata nel periodo predetto da Clairault, e quasi nella stessa regione che l'analisi matematica aveva predetto, dal momento che grazie al calcolo integrale (scoperto da Isaac Newton) si poteva prevedere scientificamente il passaggio della cometa.

Gli studi portati avanti dagli astronomi in quegli anni stabilirono che le comete erano corpi celesti distinti dalle meteore sublunari; non solo, le osservazioni dimostrarono definitivamente che molte di esse avevano, come orbite, delle curve chiuse, invece che parabole o mere e semplici linee rette; in altre parole, questi corpi avevano cessato per sempre di essere responsabili di superstizioni.

La stringenza, l'importanza di questi risultati, sarebbe naturalmente aumentata in proporzione alla somiglianza tra l'orbita preannunciata dai calcoli matematici e l'orbita reale. Proprio questo motivo determinò il fatto che moltissimi astronomi si diedero da fare, in tutta Europa, per calcolare l'orbita della cometa minuziosamente a partire dalle osservazioni fatte nel 1759. Bailly fu uno di quegli zelanti calcolatori.[7]

Bailly risiedeva al Louvre. Era determinato a svolgere contemporaneamente studi di teoria e pratica di astronomia avanzata, aveva un osservatorio istituito a partire dall'anno 1760, in una delle finestre del piano superiore della galleria sud che si affacciava sul Pont des Arts.[7] Grazie al suo modesto osservatorio Bailly poté comunque effettuare numerose osservazioni registrando accuratamente le minuzie dei movimenti celesti.[4] Le prime osservazioni fatte da lui sono datate agli inizi del 1760 quando il giovane alunno di Lacaille non aveva ancora 24 anni di età. Queste prime osservazioni si riferiscono a una opposizione del pianeta Marte. Nello stesso anno, Bailly determinò le opposizioni di Giove e di Saturno.[7]

L'anno successivo lo vediamo ancora con Lacaille, questa volta per osservare il transito di Venere sul disco del sole. Fu uno straordinario colpo di fortuna, per l'inizio della sua vita scientifica, per aver testimoniato in successione due degli eventi astronomici più interessanti dell'epoca: il ritorno predetto e ben definito di una cometa; e una delle eclissi parziali di Sole causate dalla congiunzione con Venere, che non si ripetono se non dopo un periodo di centodieci anni, e grazie alle quali la scienza ha dedotto un metodo indiretto ma preciso, grazie al quale è stato possibile calcolare la distanza media del sole della terra.

Bailly in giovane età.

Nel conteggio dei lavori astronomici di Bailly, che lui eseguì prima di diventare membro dell'Accademia delle Scienze, bisogna aggiungere vari altri risultati ottenuti: per quanto riguarda le osservazioni della cometa del 1762, il calcolo della sua orbita parabolica; una discussione su quarantadue osservazioni della luna di La Hire, un lavoro dettagliato destinato a fungere da punto di partenza per qualsiasi persona che si occupava di teoria lunare; infine, la descrizione di 515 stelle zodiacali nell'Observations sur 515 étoiles du Zodiaque (pubblicato nel 1763), osservate precedentemente da Lacaille tra il 1760 e il 1761.[7][8]

Le osservazioni e i primi successi scientifici guadagnarono a Bailly l'elezione all'Académie des Sciences nel 1763, alla giovane età di 26 anni.[4][6]

All'Accademia delle Scienze e ricerche sui satelliti di Giove[modifica | modifica wikitesto]

Bailly fu nominato membro dell'Accademia delle Scienze il 29 gennaio 1763.[9] Da quel momento il suo zelo astronomico non conobbe più alcun limite, grazie alla moltitudine di lavori letterari e scientifici che lui scrisse in pochissimi anni.[9]

Le prime ricerche di Bailly sui satelliti di Giove iniziarono nel 1763. Come scrive Arago: «avendoli studiati in tutte le loro generalità, [Bailly] si mostrò un calcolatore infaticabile, un geometra chiaroveggente, e un osservatore operoso e capace. Le ricerche di Bailly sui satelliti di Giove, saranno per sempre la sua prima e principale rivendicazione di gloria scientifica».[9]

Prima di lui, Giacomo Filippo Maraldi, James Bradley e Pehr Wargentin avevano scoperto empiricamente alcune delle principali perturbazioni che i satelliti di Giove subivano, nei loro movimenti di rotazione attorno al pianeta; ma fino ad allora non erano ancora stati scoperti i principi di attrazione universale. Bailly fu il primo a muoversi in questo senso comparando i precedenti dati sperimentali con le nuove teorie fisiche newtoniane.[9]

La conoscenza dei moti dei satelliti si basava quasi interamente sulla osservazione del preciso momento in cui ciascuno di essi scompariva, entrando nel ombra conica, che il grande globo opaco di Giove proiettava sul lato opposto al sole. Nel corso di una discussione su una moltitudine di queste eclissi, Bailly non tardò a percepire che la computazione delle tabelle sui satelliti lavorava su dati numerici che non erano affatto paragonabili gli uni con gli altri.[9] Questo sembrava di poca importanza nell'epoca antecedente alla nascita della teoria delle perturbazioni; ma, dopo la scoperta analitica delle perturbazioni, divenne opportuno stimare i possibili errori di osservazione, e di proporre mezzi per la loro, almeno parziale ma quantomeno significativa, eliminazione. Questo è stato l'oggetto del notevole lavoro che Bailly avrebbe presentato all'accademia nel 1771.[9]

Come Bailly stesso ricordava nelle sue Mémoires, sviluppò una serie di esperimenti, con l'aiuto dei quali ciascuna osservazione poteva dare l'istante preciso della scomparsa reale di un satellite, distinto dall'istante della scomparsa apparente, qualunque fossero la potenza del telescopio utilizzato e l'altezza del corpo eclissato sopra l'orizzonte, e di conseguenza, qualunque fossero la trasparenza degli strati atmosferici attraverso cui il fenomeno si osservava, la distanza di tale corpo dal sole, o dal pianeta ed infine qualunque fosse la sensibilità della vista dell'osservatore. Tutto queste condizioni influenzavano notevolmente il tempo di scomparsa apparente. La stessa serie di osservazioni ingegnose e delicate portarono l'insigne astronomo, molto curiosamente, alla determinazione dei veri diametri dei satelliti, vale a dire, il diametro di piccoli puntini luminosi che, con i telescopi allora in uso, non mostravano un diametro effettivamente percepibile. Bisogna osservare, in effetti, che i diaframmi utilizzati da Bailly non erano destinati solo a diminuire la quantità di luce che contribuiva alla formazione delle immagini, ma aumentavano considerevolmente il diametro almeno nel caso di stelle.[9]

Bailly pubblicò i suoi risultati, all'inizio del 1766, in un lavoro separato con il titolo di Essai sur la théorie des satellites de Jupiter in cui l'autore, prima di esporre le conclusioni a cui era giunto, incominciava a parlare della storia degli studi astronomici sui satelliti di Giove. La storia conteneva un'analisi quasi completa delle scoperte di Maraldi, Bradley e Wargentin mentre invece descriveva le fatiche di Galileo e dei suoi contemporanei con meno dettagli e precisione.[9]

Le opere letterarie: gli éloges[modifica | modifica wikitesto]

Jean Baptiste Le Rond d'Alembert

Quando Bailly entrò nell'Accademia delle Scienze, il Segretario Perpetuo era Grandjean de Fouchy. La pessima salute del segretario aveva portato tutti a pensare ad una morte imminente e perciò ad un posto vacante che si sarebbe presto liberato. Il famoso matematico ed enciclopedista D'Alembert vide in Bailly il probabile successore di Fouchy, e gli propose di scrivere alcune biografie di insigni personaggi (necessarie per l'avanzamento nelle accademie[4]), in modo tale da prepararsi a diventarlo.[10] Bailly seguì il consiglio dell'illustre matematico, e scelse come oggetto dei suoi studi, gli éloges proposti in numerose accademie, principalmente dall'Accademia di Francia.[10]

Dall'anno 1671 fino all'anno 1758, il prix d'eloquence proposto dalla Accademia di Francia era relazionato a questioni religiose e morali. L'eloquenza dei candidati avrebbe dunque dovuto esercitarsi sulla conoscenza dei temi religiosi più importanti: la salvezza, il merito, la dignità del martirio, la purezza dell'anima e del corpo, il pericolo esistente in taluni percorsi di vita che invece appaiono sicuri e così via. Addirittura i candidati dovevano parafrasare l'Ave Maria. Secondo le intenzioni letterali del fondatore (Jean-Louis Guez de Balzac), ogni scritto doveva essere concluso da una breve preghiera. Charles Pinot Duclos pensò, nel 1758, che ormai prediche simili tra di loro avevano esaurito completamente la questione religiosa, e su sua proposta l'Accademia stabilì che, in futuro, come premio per l'eloquenza si sarebbero presi in considerazione gli elogi dei grandi uomini del nazione. Nella lista dei questi patrioti nazionali figuravano all'inizio personaggi quali il Maresciallo de Saxe, René Duguay-Trouin, il Duca di Sully, D'Aguesseau e Cartesio. Più tardi, l'Accademia si sentì autorizzata a proporre éloges per i re stessi, richiedendo all'inizio del 1767, l'Éloge di Carlo V.[10]

Bailly era entrato nelle liste dei candidati, scrivendo un éloge a Carlo V, ma il suo saggio ottenne solo una menzione d'onore.[10]

Commentando l'éloge a Carlo V Arago scrive: «niente è più istruttivo che fare ricerche riguardanti le epoche nelle quali si erano originati i principi e le opinioni di quelle persone che poi agirono ruoli importanti sulla scena politica, e su come tali opinioni si fossero poi sviluppate. Con una fatalità molto deplorevole, gli elementi di queste indagini sono poco numerosi e raramente fedeli. Noi non dobbiamo esprimere questi rimpianti relativamente a Bailly: ogni composizione ci mostra la serena, candida, e virtuosa mente dell'insigne scrittore, attraverso un nuovo e vero punto di vista. L'Eloge di Carlo V è stato il suo punto di partenza, seguito poi da una lunga serie di altri lavori».[10]

Gli scritti approvati dall'Accademia di Francia, non raggiungevano però gli occhi del pubblico se non dopo essere stati sottoposti alla severa censura di quattro Dottori in Teologia. Se siamo sicuri di possedere integralmente l'éloge di Bailly a Carlo V lo possiamo intuire dalla penna dello stesso autore; se non abbiamo motivo di temere che nessun suo pensiero subì una qualche mutilazione, lo dobbiamo ad un breve discorso che Bailly pronunciò durante una seduta dell'Accademia delle scienze nel 1767. Questi pensieri, però, avrebbero sfidato, come scrive Arago «le menti più schizzinose, la suscettibilità più oscure».[10] «Il panegirista [Bailly] — continua Arago — srotola con emozione le disgrazie terribili che assalivano la Francia durante il regno di re Giovanni. La temerarietà, l'imprevidenza di quel monarca; le passioni vergognose del re di Navarra; i suoi tradimenti; l'avidità barbara della nobiltà; la sediziosa disposizione del popolo; i saccheggi sanguinosi delle grandi imprese; l'insolenza ricorrente dell'Inghilterra; esprimendo tutto questo senza veli, ma con estrema moderazione. Nessun tratto rivela, nessun fatto narrato prefigura l'autore come futuro presidente dell'Assemblea nazionale costituente, né tanto meno come sindaco di Parigi nel corso di una effervescenza rivoluzionaria».[10]

Nel 1767, l'Accademia di Berlino premiò Bailly per l'Éloge a Leibnitz.[10] Il pubblico ne fu sorpreso: l'elogio a Leibnitz di Bernard le Bovier de Fontenelle era stato così forte, completo e dettagliato che nessuno pensava potesse essere addirittura eguagliato. Ma quando il saggio di Bailly, incoronato in Prussia, fu pubblicato, le vecchie impressioni erano abbastanza cambiate. Molti critici affermarono che l'elogio di Bailly a Leibnitz poteva essere letto con piacere e beneficio anche dopo quello di Fontenelle.[10]

Bailly così scrisse nell'Éloge de Leibnitz:

(FR)

«La nature est juste; elle distribue également tout ce qui est nécessaire à l'individu, jetté sur la terre pour vivre, travailler, et mourir; ellé réserve à un petit nombre d'hommes le droit d'éclairer le monde, et en leur confiant les lumières qu'ils doivent répandre sur leur siècle, elle dit à l'un: tu observeras mes phénomènes; à l'autre: tu seras géomètre; elle appèle celui-ci à la connaissance des lois; elle destine celui-là à peindre les mœurs des peuples et les révolutions des empires. Ces génies passent en perfectionnant la raison humaine, et laissent une grande mémoire après eux. Mais tous se sont partagés des routes différentes: un homme s'est élevé qui osa être universel, un homme dont la tête forte réunit l'esprit d'invention à l'esprit de méthode et qui sembla né pour dire au genre humain: regarde et connois la dignté de ton espèce! A ces traíts l'Europe reconnoit Leibnitz.»

(IT)

«La natura è giusta, distribuisce equamente tutto ciò che è necessario all'individuo, catapultato sulla terra, per vivere, lavorare e morire; tuttavia riserva solo a un piccolo numero di esseri umani il diritto di illuminare il mondo, e affidando a loro le luci che questi dovranno diffondere durante tutto il loro secolo, dice a uno «osserva i miei fenomeni» e all'altro «tu sarai un geometra»; designa quest'uno alla conoscenza delle leggi e quest'altro a dipingere la morale delle persone, le rivoluzioni degli imperi. Questi geni vanno via dopo aver perfezionato la ragione umana, e lasciano dietro di loro una grande memoria. Ma tutti loro hanno viaggiato per vie diverse: un solo uomo si elevò, ed ebbe il coraggio di diventare universale, un uomo la cui forza di volontà ha riunito il suo spirito d'invenzione col suo spirito metodico, e che sembrava essere nato per dire al genere umano «guarda e conosci la dignità della tua specie»! Con questi tratti l'Europa ha riconosciuto Leibniz.»

Nel 1768, Bailly ottenne il prix d'eloquence proposto dall'Accademia di Rouen con il suo Éloge a Pierre Corneille. «Leggendo questo lavoro [di Bailly] — scrive Arago — possiamo rimanere un po' sorpresi dalla distanza immensa che il modesto, timido e sensibile Bailly pone tra il grande Corneille, il suo prediletto autore teatrale, e Jean Racine».[10]

Quando l'Accademia di Francia, nel 1768, propose una competizione per gli éloges a Molière, Bailly si piazzò al secondo posto, venendo sconfitto solo da Chamfort.[10] «Tuttavia — come scrive Arago — [...] forse mi permetto di affermare che, nonostante una certa inferiorità di stile, il discorso di Bailly ha offerto un più ordinato, più vero e più filosofico apprezzamento dei pezzi principali di quel poeta immortale [rispetto a quello di Chamfort]».[10]

Non solo, Bailly scrisse anche un éloge al suo maestro Lacaille, scomparso nel 1762. Nell'éloge Bailly scrisse: «Non voglio aggiungere nulla agli onori che lui ha ricevuto; ma avrò onorato me stesso nel fare un suo elogio; quest'ultimo tributo mancava tra i doveri che mi sarebbe piaciuto fargli. [...] È stato grazie alla gentilezza di M. Lacaille che io ho potuto avere le mie prime conoscenze dell'astronomia; perciò permettetemi di elogiare il mio maestro. Non voglio essere incolpato ripetendo le lodi di un uomo illustre e virtuoso. Ma non si possono non aumentare troppo i doveri dell'amicizia e della riconoscenza, e gli uomini utili non hanno mai abbastanza lodi».[11]

Le elezioni a Segretario Perpetuo: la sconfitta contro Condorcet[modifica | modifica wikitesto]

D'Alembert, fin dal 1763, aveva incoraggiato Bailly ad esercitarsi in uno stile di composizione letteraria molto apprezzato all'epoca, quello degli éloges, nella prospettiva, un giorno, di avere valide referenze letterarie per poter diventare Segretario Perpetuo dell'Accademia delle Scienze.[12] Sei anni dopo, però D'Alembert aveva dato lo stesso suggerimento, e forse aveva teso le stesse speranze, ad un giovane e promettente matematico, il marchese Nicolas de Condorcet. Condorcet, seguendo il consiglio del suo protettore, rapidamente scrisse e pubblicò degli éloges sui primi fondatori dell'Accademia: Huyghens, Mariotte e Rømer.[12]

Nicolas de Condorcet

All'inizio del 1773, l'allora Segretario Perpetuo, Grandjean de Fouchy, chiese che Condorcet venisse nominato suo successore alla sua morte a condizione, ovviamente, che gli sopravvivesse. D'Alembert sostenne con forza questa candidatura. L'insigne naturalista Buffon sostenne invece, con uguale energia, Bailly; Arago riferisce che l'Accademia «per alcune settimane presentò l'aspetto di due campi nemici».[12] Ci fu infine una battaglia elettorale fortemente contestata: il risultato fu la nomina di Condorcet a successore di de Fouchy.[12]

La rabbia di Bailly e dei suoi sostenitori trovò sfogo con accuse e termini «di asprezza imperdonabile».[12] Si disse che D'Alembert aveva «bassamente tradito i valori dell'amicizia, dell'onore, e i principali principi di probità» alludendo alla promessa di protezione, sostegno, e cooperazione fatta con Bailly che risaliva a dieci anni prima.[12]

In realtà era più che naturale che D'Alembert nel dover pronunciare il suo sostegno ad uno tra Bailly e Condorcet, diede la sua preferenza al candidato che più dell'altro si occupava di alta matematica, e dunque a Condorcet.[12] Gli éloges di Condorcet erano, inoltre, per il loro stile, molto più in sintonia con quelli che l'Accademia aveva approvato nel corso dei tre quarti di secolo precedenti.

Prima della dichiarazione di Grandjean de Fouchy su Condorcet, D'Alembert aveva scritto a Voltaire il 27 febbraio 1773, rispetto alla raccolta di opere di Condorcet: «Qualcuno mi ha chiesto l'altro giorno quello che pensavo di quel lavoro. Ho risposto scrivendo sul frontespizio: "giustizia, correttezza, conoscenza, chiarezza, precisione, gusto, eleganza, e nobiltà"».[12] E Voltaire gli rispose, il 1º marzo: «Ho letto il piccolo libro di Condorcet: è buono nei suoi capitoli come gli éloges di Fontenelle. C'è una filosofia nobile e modesta in questo libro, anche se audace».[12]

In realtà, tra gli éloges di Bailly, ve ne era uno, già nominato precedentemente, quello dedicato all' abate de Lacaille, che non essendo stato scritto per una accademia letteraria, non mostrava alcuna traccia declamatoria, e poteva, secondo Arago, addirittura «competere con alcuni dei migliori éloges di Condorcet».[12] Tuttavia, curiosamente, la biografia elogiativa su Lacaille contribuì, forse tanto quanto l'opposizione di D'Alembert, a frantumare le aspirazioni accademiche di Bailly: infatti il segretario de Fouchy aveva già scritto un éloge a Lacaille prima di lui. Bailly nell'esordio del suo elogio aveva chiesto di non essere colpevolizzato per questa ragione, esprimendo anzi la speranza di non aver scontentato de Fouchy nell'aver voluto in qualche modo proseguire le sue orme decidendo anche lui di elogiare Lacaille.[12]

Bailly, in effetti, non fu incolpato "a voce alta"; ma de Fouchy, quando iniziò a meditare sul suo ritiro, senza tante storie, senza mostrarsi offeso nel suo amor proprio, apparentemente modesto, nello scegliere un assistente che fosse anche il suo successore, selezionò qualcuno che non si era impegnato a ripetere i suoi éloges; qualcuno che non aveva trovato «insufficiente» la sua biografia. E come scrive Arago «Questa preferenza non fu ininfluente nel risultato della competizione».[12]

A Chaillot: le opere famose[modifica | modifica wikitesto]

Bailly, anche se membro della Sezione Astronomica dell'Accademia delle Scienze non era obbligato a risiedere sempre a Parigi. Anzi, se voleva poteva ritirarsi in campagna, per sfuggire dai ladri che abbondavano soprattutto nella metropoli.[12] Bailly sì stabilì a Chaillot nella metà degli anni 70, forse anche perché amareggiato dalla sconfitta all'accademia. E fu proprio a Chaillot che Bailly compose le sue opere più importanti.[12]

Ogni mattina Bailly si alzava presto dalla sua «umile dimora»[12] a Chaillot; si recava al Bois de Boulogne, e lì, a piedi, per molte ore ogni volta, elaborava le idee destinate ai suoi libri.[12] Bailly non iniziava a scrivere i suoi saggi fino a quando non li aveva completati nella sua mente. Come riferisce Arago: «La sua prima copia era sempre una bella copia.»[12]

Mentre risiedeva a Chaillot inoltre Bailly fu un frequente visitatore della casa del ceroplasta e fisico svizzero Philippe Curtius dove alcuni dei più importanti scienziati della città si riunivano regolarmente.[13]

La pentalogia sulla storia dell'astronomia e le Lettres a Voltaire[modifica | modifica wikitesto]

(FR)

«Il est intéressant, de se transporter aux temps où l’astronomie a commencé; de voir comment les découvertes se sont enchaînées, comment les erreurs se sont mêlées aux vérités, en ont retardé la connaissance et les progrès; et après avoir suivi tous les temps, parcouru tous les climats, de contempler, enfin, l’édifice fondé sur les travaux de tous les siècles et de tous les peuples.»

(IT)

«È interessante rivivere il tempo in cui l'astronomia era iniziata, vedere come le scoperte si sono susseguite, come gli errori si sono mescolati alle verità, e come questi hanno ritardato la conoscenza e il progresso; e dopo aver seguito tutte le epoche, percorso tutte le zone geografiche, [sarà interessante] contemplare finalmente quel grande edificio [di conoscenze] basato sul lavoro di tutti i secoli e di tutti i popoli.»

Nel 1775, Bailly aveva pubblicato un volume in quarto, dal titolo Histoire de l'astronomie ancienne, depuis son origine jusqu'à l'établissement de l'école d'Alexandrie, in cui si descriveva l'evoluzione dell'astronomia antica, dalla sua origine fino alla fondazione della scuola di Alessandria. Un lavoro analogo per il lasso di tempo successivo, compreso tra la fondazione della scuola di Alessandria e il 1730, apparve nel 1779, in due volumi nell'Histoire de l'astronomie moderne, depuis la fondation de l'école d'Alexandrie jusqu'àl'époque de 1730. Un ulteriore volume fu pubblicato tre anni più tardi, nel 1782 con il titolo Histoire de l'astronomie moderne, jusqu'àl'époque de 1782. La quinta parte di questa immensa composizione, il Traité de l'astronomie indienne et orientale, fu infine pubblicato nel 1787.

Quando Bailly aveva incominciato a progettare un'opera completa di tutta la storia dell'astronomia, non esisteva ancora niente del genere. C'erano stati degli scritti o su qualche spunto storico particolare, o sulla descrizione di alcuni episodi specifici, ma nessuno si era mai preoccupato di illustrare in modo integrale tutta la storia dell'astronomia. Un libro di Weidler, pubblicato nel 1741, che si avvicinava a questo proposito, era però in realtà una semplice nomenclatura dei principali astronomi di ogni paese ed epoca in cui erano specificate in maniera abbastanza schematica le date di nascita e di morte e i titoli delle opere più importanti e non una vera e propria descrizione dettagliata di tutta la storia dell'astronomia.

Bailly aveva in mente il contrario: una descrizione dettagliata del progresso storico dell'astronomia a partire dalle prime osservazioni fino all'epoca a lui contemporanea, per culminare in qualche modo con l'ammirazione di quell'«edificio basato sul lavoro di tutti i secoli e di tutti i popoli». Questo programma completo essenzialmente coinvolgeva nell'opera due punti nodali: una discussione attenta e abbastanza tecnica delle varie scoperte e numerosi confronti di una vasta quantità di antiche e moderne osservazioni. Se l'autore avesse completamente mescolato queste discussioni con l'intero corpo dell'opera, allora il libro sarebbe stato troppo tecnico e quindi comprensibile esclusivamente per gli astronomi. Se invece avesse soppresso tutte le discussioni, il libro avrebbe catturato l'attenzione soltanto di qualche dilettante interessato, e non dei professionisti del mestiere. Per evitare questo doppio pericolo, Bailly aveva deciso di scrivere un racconto sì allacciato in tutte le sue parti, ma narrando soprattutto la quintessenza dei fatti, scegliendo altresì di posizionare le prove e le discussioni delle parti meramente congetturali in capitoli separati sotto la denominazione di éclaircissements.

All'inizio dell'Histoire de l'astronomie ancienne, dopo aver dichiarato che sarebbe partito dalle primissime origini dell'astronomia, Bailly incomincia una pura speculazione storica - e spesso mitica - nel primo capitolo, sull'Astronomia Antidiluviana. La conclusione principale alla quale giunge, dopo un attento esame di tutte le idee positive che l'antichità aveva lasciato è che più che elementi veri e propri, ciò che abbiamo sono solo frammenti di una scienza astronomica delle antiche culture come quella caldea, quella indiana, e quella cinese.

Dopo aver trattato alcune idee di Pluche, Bailly scrive: «Il campo delle possibilità è immenso, e anche se la verità vi è contenuta, spesso non è facile distinguerla.»

Le opere di Bailly, essendo accessibili ad un pubblico variegato, pur senza perdere il carattere di lavori seri e colti, contribuirono a diffondere delle nozioni precise di astronomia sia tra letterati sia nella società in generale. Nel 1775, Bailly inviò il primo volume della sua storia a Voltaire. Per ringraziarlo del regalo, Voltaire indirizzò all'autore una lettera molto lusinghiera, in cui scrisse: «Devo dirle molte grazie, perché nello stesso giorno ho ricevuto sia un grande libro sulla medicina sia il suo e, quando ero ancora malato, il primo non l'ho aperto, mentre il secondo l'ho letto invece quasi interamente, e devo dirle che mi adesso mi sento molto meglio.» Voltaire, infatti, aveva letto l'opera di Bailly con grande interesse, e gli aveva proposto anche alcune questioni, non convenendo su alcune opinioni dell'astronomo parigino. Bailly sulla base delle domande propostegli da Voltaire sentì in seguito la necessità di sviluppare nei libri successivi alcune idee che nell'Histoire de l'astronomie ancienne, erano solo state accennate. Queste sono state l'oggetto del volume che Bailly aveva pubblicato nel 1777 sotto il titolo di Lettres sur l'origine des sciences, et sur celle des Peuples de l'Asie, indirizzata a Voltaire e basata proprio sulla corrispondenza epistolare tra i due(Bailly infatti gli aveva scritto ben 24 lettere). Lo svolgimento dell'opera infatti si dispiegava attraverso le lettere che Voltaire gli aveva mandato e i problemi che aveva sollevato riguardanti non soltanto le origini delle scienze astronomiche ma anche le origini delle civiltà. Bailly qui, come nelle opere precedenti, tralascia l'interesse puramente scientifico e si preoccupa di trovare una spiegazione storico/mitica su come si sia sviluppata la scienza ai suoi albori elaborando una teoria tutta sua che coinvolgeva il mito di Atlantide e del Diluvio Universale.

Nelle Lettres Voltaire e Bailly hanno posizioni opposte: se il filosofo di Ferney riteneva che i bramini fossero il popolo più antico del mondo Bailly, al contrario, pensava che lo fossero gli sciti, e che fossero al contempo i padri delle scienze asiatiche.[15]

«Se vedesse, Mons. [Voltaire] – scrive Bailly nella sua seconda lettera – la casa di un contadino costruita da sassi mescolati a frammenti di colonne, in un bellissimo stile architetturale, non concludereste che erano i resti di un palazzo, costruito da un architetto più affidabile e antico degli abitanti di quella casa? I popoli dell'Asia, eredi di un popolo pre-esistente, che aveva generato le scienze, o almeno l'astronomia, erano depositari e non inventori. Questo ritengo sia vero anche nei confronti degli Indiani; e mi sforzerò di dimostrarlo più dettagliatamente. Aggiungo che alcuni fatti astronomici possono essere sperimentati solo ad una latitudine considerevolmente elevata in Asia: e questo è perfettamente vero. Considerando che questi fatti sono estremamente antichi, ho pensato che potrebbero servire per individuare il paese di un popolo primitivo. Ho congetturato che le scienze, prima crescendo a queste alte latitudini, sono poi scese verso l'equatore, "illuminando" gli Indiani e Cinesi; e che, contrariamente all'opinione accettata, la luce viaggiò da Nord a Sud. Io ho fatto questa conclusione, non come una verità dimostrata, ma come un'opinione altamente probabile; e ho finito con una sorta di romanzo filosofico. La miglior parte delle favole antiche, considerate da un punto di vista fisico, sembrano appartenere alle regioni settentrionali del globo: si potrebbe pensare che le loro interpretazione unificate segnino le successive fasi del genere umano, e il loro percorso dal Polo verso l'Equatore, in cerca di calore, e giorni di lunghezza più uguale».[15][16]

Le quattro più grandi civiltà dell'Asia erano quella Cinese, quella Persiana, quella Assiro-caldea e quella Indiana; Bailly trova presso queste civiltà solo frammenti sparpagliati delle arti e delle scienze, e nega le notizie che ne attribuiscono a loro la paternità. Le sue argomentazioni sono principalmente tratte da considerazioni di tipo astronomico.[15]

Relativamente ai Cinesi, sempre nella seconda lettera, afferma «Ogni cosa cospira per portarci a quella antica astronomia che si è perduta, soprattutto gli sforzi fatti dai Cinesi per il suo recupero. Loro si sono persuasi che i loro primi imperatori, Fu Xi, Hoangti e Yao fossero perfettamente a conoscenza di tale scienza e che alcuni suoi principi siano nascosti in vari monumenti e in particolare anche nel Lǐjì. Fu Xi[17], secondo loro, era il padre di questa astronomia ed è per questa ragione che loro cercano i veri principi astronomici nelle misteriose Koua, che sono le produzioni di questo imperatore. Loro li ricercano anche nei tubi di bambù che generavano la musica di Hoangti. I numeri del Paradiso e della Terra, combinati da Confucio, e tanti altri sono ugualmente dello stesso periodo. E cercare l'astronomia in uno strumento musicale è ridicolo come cercare il segreto della pietra filosofale nei versi di Omero. [...] Ma per quanto assurdo sia questo pregiudizio dei Cinesi, e per quanto stravagante potremmo ritenere questa fastidiosa sorta d'indagine, il forte credo da parte dei cinesi che i monumenti di Fu Xi contenessero un'antica astronomia fondata da questo imperatore, è una prova non solo della sua esistenza presso di loro ma anche del fatto che fu introdotta in Cina da Fu Xi. Troviamo nello Shujing, un libro sacro e molto antico presso i Cinesi, che questa astronomia conteneva dottrine di considerevole raffinatezza. Fu Xi, dicono, costruì delle tavole astronomiche, assegnando delle figure ai corpi celesti, e pensava alla scienza dei loro movimenti. Il punto solstiziale e quello equinoziale poi furono scoperti; e, poco dopo, troviamo l'invenzione della sfera, la scoperta della durata di un anno, consistente in 365 giorni e 6 ore, con l'anno bisestile, così come le fasi lunari conciliate col moto del Sole. Ho buone ragioni per essere dell'opinione che tutti questi rami scientifici appartengono al periodo di Fu Xi. Anche perché, altrimenti, i Cinesi che sono un popolo particolarmente statico,[18] dovrebbero aver fatto grandi progressi in astronomia in pochissimo tempo e per di più, agli inizi, il periodo in cui ogni livello di progresso è particolarmente lento e difficile.[19] Qui, comunque, devo insistere solo sulla conoscenza del moto solare, accertata dal fatto che conoscessero gli equinozi e i solstizi. Mi appello, per la veridicità di ciò che avanzo, all'astronomo, il filosofo e, soprattutto, a lei, Signore [Voltaire], cha avete ben osservato i tardivi e dolorosi progressi della mente umana. Quante epoche non avremmo dovuto dedicare allo studio del cielo, prima solo di sospettare la falsità del moto del sole? E quante epoche sarebbero dovute trascorrere, prima che potessero accertarsi dei quattro intervalli del suo periodo? Così, Signore [Voltaire], dovremmo fare la conclusione che ho già fatto: ossia che l'invenzione della sfera, quelle dottrine che vengono scoperte solo attraverso lo studio lo studio e la riflessione, e un lungo insieme di osservazioni, appartengono ad una scienza già esistente e da tempo in uno stato di progressivo perfezionamento. Questo non è né il lavoro di un uomo, ne quello di un'epoca; né può essere un lavoro dovuto ai Cinesi prima dell'avvento di Fu Xi: epoca in cui erano ancora rudi e barbari; è stato lui a civilizzarli. Non sarebbe poi così strano se Fu Xi avesse imparato l'astronomia da loro; lui che ha insegnato al suo popolo l'uso delle prime necessità della vita. Non siamo in grado di accettare in un attimo una supposizione così assurda: eppure siamo giunti necessariamente a questa conclusione, ovvero che la loro prima conoscenza di astronomia era di origine straniera, e che Fu Xi, straniero anche lui, l'ha introdotta in Cina.»[15][16]

Riguardo ai progressi dei Persiani nelle scienze astronomiche, e con la prova che anche loro non potessero esserne gli inventori, Bailly fa le seguenti osservazioni: «Tra il Mar Caspio e il golfo Persico, troviamo una civiltà che, in termini di l'antichità, è al pari di quella Cinese. Parlo dei Persiani, gli adoratori del fuoco e del sole. Questa modalità di adorazione è il sigillo della loro antichità: è il più razionale, e allo stesso tempo il più antico, tra i popoli che hanno frainteso la Causa creatrice e intelligente. Penso di aver dimostrato che l'Impero Persiano, e la fondazione di Persepoli, risalgono al 3209 a.C.[20] Diemschid,[21] che costruì questa città, vi entrò e lì fondò il suo impero, nello stesso giorno in cui il Sole passava nella costellazione dell'Ariete. Questo giorno fu scelto per far iniziare l'anno; e divenne l'epoca di un periodo che includeva la conoscenza dell'anno solare di 365 giorni e sei ore. Qui, poi, troviamo ancora un'astronomia coeva con l'origine di questo impero. La circostanza astronomica che accompagna la fondazione di Persepoli, è una prova per me dell'antichità di questa astronomia. E' la prerogativa del cielo ad influenzare la terra. Lei lo sa, Signore, è qui che troviamo gli elementi e la perfezione della geografia. La storia può ugualmente trovare delle illustrazioni. Queste antiche e durevoli testimonianze del passato preservano alcuni fatti e possono servire a supplire alle manchevolezze della tradizione e a connettere delle serie di eventi. Le osservazioni e le conclusioni astronomiche sono allo stesso tempo i più autentici e i più antichi monumenti della residenza dell'uomo sulla Terra. Non c'è mai stato un popolo infantile che consacrò la fondazione della propria prima città con una osservazione dei fenomeni celesti. Io la prego di ammonirmi, se abuso: ma non percepisce come me, una colonia che ha migrato da un paese troppo popolato, o una nazione già istruita e civilizzata, scesa verso un paese più temperato, più fertile, per poi aver acquisito un insediamento con tutte le loro arti e le loro conquiste conoscitive? Non possiamo dubitare che emigrazioni come queste fossero più frequenti in quel periodo in cui la Terra era meno popolosa, e in cui il genere umano era diviso in famiglie: un certa porzione della comunità, separando sé stessa dal resto, potente per il numero e l'unione, partita e guidata da lui [Diemschid] in piccole orde senza forza e incapaci di opporre resistenza. Dunque Diemschid e il suo popolo appaiono essere stati stranieri in Persia, come Fu Xi in Cina.»[15][16]

I Caldei sono i prossimi nell'ordine dei popoli asiatici. Dopo aver declamato il fatto che, all'epoca, esisteva ancora un'incertezza complessiva che coinvolgeva l'inizio di quell'impero, nonostante si sapesse che attuarono e conservarono le loro osservazioni per un lungo periodo di tempo (dalla fondazione del tempio di Babilonia[22] fino al tempo di Alessandro Magno), Bailly procede a constatare le sue obiezioni contro la possibilità che furono loro ad inventare l'astronomia. «Ma, Signore [Voltaire] – scrive Bailly – questo non è tutto: il loro ciclo di seicento anni,[23] questo periodo custodito e frainteso, a Babilonia, mi fornirà un altro argomento di egual peso. È evidente che i Babilonesi l'hanno preservato, dal momento che ciò è citato da Berosso, uno dei loro storici; ed è allo stesso modo evidente che non l'hanno capito, dal momento che non hanno fatto alcun uso di esso per la regolazione del tempo. Dovrebbe sembrare che i Caldei non abbiano mai preso nota di astronomia nei loro libri, poiché Ipparco, che ha esaminato i periodi dei moti delle stelle secondo i Caldei, non ne parla. Quindi dobbiamo necessariamente concludere, che questi non erano risultati del lavoro dei Caldei, ma che sono stati trasportati a loro; e questi due fatti - la conoscenza del periodo dei seicento anni e il ritorno di una cometa - appartenevano a astronomia in un ottimo stato, antecedente e straniera ai Caldei».[15]

Sull'astronomia degli indiani, Bailly era entrato molto nei dettagli nella sua celebre Histoire de l'astronomie ancienne, così le sue osservazioni in quest'opera sull'argomento sono state conseguentemente più concise; tuttavia egli nega anche a loro come prima ai cinesi, ai persiani e ai caldei, l'onore di aver inventato l'astronomia. «Non ripeterò qui ciò che ho già constatato sull'astronomia degli indiani: osserverò solamente in poche parole che Monsieur Le Gentil trovò presso di loro un'ottima comprensione di metodi e calcoli astronomici. Ho trovato io stesso, tra le carte di Monsieur Delisle, due manoscritti indiani mandati da alcuni missionari che contengono delle tavole astronomiche differenti da quelle di Le Gentil. Questa varietà dei metodi indica la ricchezza della loro scienza. Ma era pur sempre un popolo che pensava che la Terra fosse piatta, con una montagna in mezzo che intercettava la luce del sole durante la notte; un popolo che immaginava l'esistenza di due draghi, uno rosso e l'altro nero che eclissavano il sole e la luna; un popolo che pensava che la luna fosse più distante del sole dalla Terra e che pensava che la Terra stessa poggiasse su una montagna d'oro. Un popolo che inventò queste assurdità non poteva essere l'autore dei metodi dotti che ammiriamo così tanto. Un popolo in possesso di così tanti bei sistemi concettuali di fisica, che avrebbe potuto essere fondato solo sulla sperimentazione e sulla riflessione; un popolo la cui teologia implicava alcune tra le nozioni più pure di Dio, si è però mostrato incapace di aver scoperto queste idee attraverso le loro favole accumulate. E' chiaro, non avrebbero potuto mai raggiungere punti così elevati. [...] Un popolo presso il quale troviamo una lingua ricca e abbondante ma limitata a pochi individui; una lingua in cui sono depositati i tesori della filosofia e della scienza; un estraneo a questa lingua è l'autore delle ricchezze in esso contenute: gli indiani le hanno conservate, ma anche ricevute. Le ho riservato, Monsieur Voltaire, in ultima analisi, una prova che mi si è presentata per un po' di tempo: mi sembra una prova schiacciante. Oso credere, infatti, che i bramini non siano originari dell'India... e che possano aver portato lì una lingua e dei "lumi culturali" stranieri con loro. Senza essere inventori della scienza, i bramini erano comunque superiori in termini culturali a tutte le nazioni del mondo, e per questo sono giustamente celebri. E' con la ragione che i saggi della Grecia hanno sfruttato la vera filosofia. I bramini, depositari di questa antica filosofia, l'hanno comunicata alle generazioni future e hanno così fondato tutta la nostra conoscenza. Loro sono i nostri maestri ma non ne sono, tuttavia, gli inventori».

A quale fonte allora, a quale razza antica si possono far risalire le grandi scoperte dell'antichità per Bailly? Dopo aver descritto dettagliatamente il rapporto di Platone nel Timeo, e dopo aver considerato quanto è stato detto su questo argomento da Sancuniatone e Diodoro Siculo, per quanto riguarda la storia fenicia con il primo, e per storia greca con il secondo, Bailly procedette nella sua indagine per dimostrare che questo antico popolo fondatore delle scienze non abitava né un'isola immersa nell'Oceano Atlantico opposta alle colonne d'Ercole (di cui le isole Madeira si supponeva fossero i resti) — come voleva la tradizione — né le Canarie e nemmeno il continente Americano. Abitava invece nelle regioni brulle e ghiacciate della Siberia, all'epoca moderatamente temperate e fertilizzate, mentre un caldo torrido rendeva il resto del globo inabitabile secondo le ipotesi paleoclimatiche di Mairan e Buffon, secondo cui in passato il clima era globalmente più caldo. Secondo questa ipotesi la Terra possedeva anticamente una sua "incandescenza primitiva", che poi è diminuita nel corso del tempo causando un lento e globale raffreddamento del pianeta. Bailly accetta questa teoria che, a suo giudzio, gli permette di avere una prova infallibile delle su ipotesi. La Siberia infatti anticamente doveva essere ben più calda e quindi abitabile, mentre le zone equatoriali dovevano essere praticamente ardenti, inabitabili e inabitate. Perciò non poteva che ricercarsi a Nord l'origine dell'umanità e dunque delle scienze.

Le remote regioni tartariche, o quelle artiche furono di conseguenza la sede primitiva della scienza, la dimora della più antica razza umana, i celebri Atlantidei che, nei secoli successivi, discendendo a sud dalle pianure della Scizia, attraversarono le steppe caucasiche e portarono con loro nell'Asia meridionale i rudimenti delle arti e delle scienze e il culto del sole e del fuoco, che, come asseriva Bailly, poteva essersi originato soltanto in una zona dal clima freddo, e dunque nel «freddo impero della notte polare». Si capisce dunque perché Bailly individuava gli Atlandidei come la popolazione degli Sciti che abitava le zone settentrionali dell'Asia. Supporre altre possibilità, concepire ad esempio che questi culti si fossero originati in Persia, in India, o in altri regni orientali — dove il sole «bruciava le foglie e consumava i vegetali» e dove il sole stesso era raffigurato mentre «cavalcava un leone che nella sua furia divorava tutto ciò che gli capitava a tiro» — nell'opinione di Bailly era letteralmente «assurdo».

Anche le festività astronomiche più celebri dell'antichità, pensava Bailly, dovevano aver avuto la loro origine alle alte latitudini del nord; quella, per esempio, di Adone (che alludeva evidentemente al sole) che passò sei mesi sulla Terra con Venere e sei mesi nell'Ade con Proserpina, poteva essere inventata solo da una "razza iperborea", poiché in Siria, nelle terre fenicie gli inverni erano insolitamente brevi e miti; ed è solo al polo che l'assenza, ovvero la "morte", del sole ha una continuità di sei mesi. Ancora, la festività di Osiride in Egitto, che durava quaranta giorni, durante i quali la divinità veniva persa e poi ritrovata, era esclusivamente appropriata — secondo Bailly — alla mitologia nordica, poiché solo nei pressi della latitudine di 68° nord alone il sole era, come Osiride, perso per quaranta giorni.[24]

Come ulteriore testimonianza alla propria asserzione, Bailly addusse una favola della fenice raccontata dagli Egizi secondo la quale un giorno arrivò un essere tutto ammantato di pennacchi d'oro e cremisi, giunto da un "paese delle tenebre" «per morire in Egitto, e per risorgere di nuovo dalle sue ceneri nella città del Sole, presso l'altare di quella divinità».[25] Attraverso la fenice. pensava Bailly, fu evidentemente designata la rivoluzione solare, una famosa tecnica astrologica; e l'età assegnata alla fenice lo provava, in quanto secondo il mito ammontava a 1461 anni. «Bisogna dire che è lo stesso periodo di tempo di un ciclo sotiaco, ovvero il tempo corrispondente ad un "grande anno solare" egizio». Per Bailly comunque la leggenda non poteva essere nata lì: infatti il sole non scompariva mai per periodi lunghi in Egitto, anzi era sempre molto «vigoroso», «una circostanza derivante dalla sua altezza rispetto alla linea dell'orizzonte». Questo invece non era il caso dei climi nordici, dove «il sole scompariva più o meno per un anno», ovvero un tempo considerabilmente lungo. Lì la partenza e il ritorno della luce poteva suggerire l'idea di una morte reale e di una reale rinascita; da qui la vicissitudo alternata tra lutto e gioia». Bailly pensava dunque che il mito della fenice fosse dunque nato a nord.

Anzi, Bailly va molto più avanti: per lui il "paese delle tenebre" a cui il mito faceva riferimento era la Siberia, e lì molto probabilmente la favola si sarebbe originata; infatti nell'Edda, insieme di libri mitologici norreni, era presente una storia molto simile. Parlava di un uccello, la cui testa e il cui torace erano del colore del fuoco, mentre la coda e le ali erano di un celeste chiaro; esso visse per trecento giorni, e seguendo tutti gli uccelli di passaggio, volò in Etiopia, là fece il suo nido, e bruciò con le sue uova; la cenere però produsse un piccolo essere rosso, che, dopo aver recuperato le ali e la forma da uccello, riprese il suo volo per il nord.

Le circostanze vitali della fenice, secondo Bailly, attraverso la specificazione dei giorni di vita della fenice, precisavano la zona geografica in cui la fiaba fu prodotta. «Sicuramente — scrive Bailly — al di sotto della latitudine dei 71°, dove il sole è assente per sessantacinque giorni all'anno».[26] La leggenda della fenice doveva dunque provenire, per Bailly, dal Golfo dell'Ob', una regione in cui era lecito supporre che il sole fosse assente proprio per sessantacinque giorni all'anno.

Nel 1779, Bailly pubblicò una seconda raccolta, come seguito alla precedente, intitolata Lettres sur l'Atlantide de Platon et sur l'ancienne histoire de l'Asie anch'essa organizzata sulla base della accesa corrispondenza tra Voltaire e Bailly. Voltaire era comunque morto prima che le lettere venissero pubblicate, ma Bailly continuò a rivolgersi a lui e anzi, scrisse nella prefazione: «Queste lettere non hanno intenzione di convincere M. De Voltaire; non è all'età di 85 anni che si possono cambiare le proprie opinioni per quelle opposte. [...] La morte di M. De Voltaire non ha in alcun modo cambiato la forma del dialogo utilizzata nelle prime lettere; da autore, sento ancora l'onore di parlare con M. de Voltaire. [...] Una persona è sospettata di adulazione solo lodando i vivi: ebbene io da autore, invece, mi congratulo per aver dato omaggio alle ceneri di un grande uomo.»

Nelle lettere Bailly pensa che sia strano che non ci sia alcuna informazione su questa antica civiltà fondatrice delle scienze e che, secondo lui, aveva istruito i Cinesi, così come gli Indiani, i Persiani e tutti gli altri popoli. Per rispondere a queste difficoltà ipotizza dunque che alcune civiltà del passato sono scomparse senza lasciar traccia della propria esistenza: ne cita cinque diverse e tra queste vi è quella di Atlantide. Bailly non accettava lo scetticismo di Aristotele, secondo il quale Atlantide fosse esclusivamente una finzione creata dal maestro Platone. Secondo l'astronomo francese, Platone invece parlava seriamente degli Atlantidei come di una popolazione istruita e sofisticata, ma distrutta e dimenticata. Però rifiutava l'idea che le Canarie fossero le rovine sommerse di Atlantide, anzi posizionava Atlantide a Spitsbergen, in Groenlandia, una zona ben più vivibile anticamente in base alle teorie paleoclimatiche di Buffon.

Sempre alle alte latitudini del Polo Nord secondo Bailly avevano origine numerose leggende della mitologia greca: per lui, ad esempio, era plausibile che il Giardino delle Esperidi si trovasse anch'esso vicino al Polo Nord: in effetti, ed è lo stesso Bailly a farlo notare, Esiodo definiva le Esperidi proprio "ninfe della notte", il che potrebbe presupporre una loro origine in zone della Terra a lungo ottenebrate, proprio come il Polo Nord. Inoltre, come Bailly affermava nella ventunesima lettera, lì aveva avuto origine ed era ambientata la leggenda mitica di Fetonte: sempre a Nord infatti si trovava l'ambra in cui si finsero convertite le lacrime delle sorelle di Fetonte; e anche il fiume Eridano, nelle cui acque Fetonte precipitò dopo essere stato fulminato, doveva essere collocato alle stesse latitudini e, prendendo a testimonianza Erodoto, Bailly affermava che le foci del fiume dovevano sicuramente scaricarsi nei mari del Nord.

Anche le tradizioni religiose sugli Angeli potrebbero aver tratto origine, secondo Bailly, dalla mitologia nordica. La Genesi biblica cominciava dalla formazione del globo, ma nulla lasciava trasparire la creazione degli Angeli; anche se nella Lettera di Giuda veniva insegnato che gli Angeli esistessero anche prima della creazione dell'uomo e che alcuni di essi si ribellarono e furono condannati all'inferno. Presso i Bramini si tramandava invece l'antico libro Shasta di Brama, in cui si narrava della creazione de i Debtah-Logue, cioè del "popolo degli angeli" e, anche in questo caso, si faceva riferimento alla loro ribellione, alla loro guerra e alla loro punizione: come si poteva leggere in alcuni frammenti della Shasta riportati dal medico John Zephaniah Holwell, impiegato della Compagnia inglese delle Indie orientali, che aveva studiato gli antichi linguaggi indiani, anche gli angeli furono creati molto prima della creazione del globo. Inoltre nello Shasta, come fa osservare Bailly, era presente anche la dottrina della metempsicosi (nel passaggio in cui si fa riferimento agli angeli ribelli in penitenza da un corpo all'altro e da un mondo all'altro). Questa dottrina della metempsicosi fu comune in certa guisa anche ai Persiani, che ovviamente non usavano il termine Debtah per indicare gli Angeli, che loro chiamavano Divi e Peri.

Tutta questa tradizione angelica la si ritrovava pressappoco uniforme nell'Edda islandese e quindi anche in questo caso, secondo Bailly, da essa poteva aver avuto origine tutta la mitologia sugli angeli buoni e cattivi. E dunque dalla mitologia nordica avevano tratto ispirazione sia le favole dei persiani sui Divi e i Peri, sia quelle dei bramini sui Debtah ed eventualmente i miti dei giganti che si ribellarono a Giove.

Oltre a tutto ciò Bailly, riprendendo un argomento già trattato nelle Lettres sur l'origine des sciences, continua riflettendo intorno all'adorazione e al culto del fuoco giunto, secondo lui, in Persia dal Nord, e quindi fosse passato anche in Europa. Intanto infatti Socrate nel Cratilo di Cratilo assicurava che il termine pir, ovvero "fuoco", fosse un fonema acquisito dai Frigi; e non era impossibile credere che vi fosse un'analogia con fyr o fur della lingua celtica, che nell'Edda è definito fuoco.[27] La stessa parola piramide, con la sua radice pir- per Bailly non aveva origine egizia. Lo stesso Plinio il Vecchio nel discutere degli obelischi scriveva che l'etimologia del termine fosse egizia; ma quando disquisiva delle piramidi non ne considera l'origine, né vi è traccia alcuna in Erodoto, nè in Diodoro, nè in Strabone né in qualunque altro degli antichi scritti allora conosciuti.

Era lecito supporre, per Bailly, che queste due parole, fyr e fur, avessero evidentemente lo stesso significato e si riferissero allo stesso oggetto: il fuoco. A quanto pareva inoltre, i greci pronunciavano pyr come "pur" (\pyʁ\). Questi due nomi, pyr e fyr, erano eccessivamente simili, dovevano perciò derivare dalla stessa parola, una parola che un popolo (quello nordico) aveva comunicato agli altri (quello greco e quello egizio). A Bailly infatti sembrò lecito domandarsi in quale luogo era più probabile che il fuoco fosse stato scoperto. La risposta gli sembrava chiara: dove se non nelle zone climatiche in cui il suo utilizzo sarebbe stato più utile? Così, penso Bailly, fu la gente del nord che trasportò il fuoco, assieme alla sua denominazione fonetica, in Frigia, dove poi è stato trasmesso in Egitto e in Grecia. Il fuoco fu raccolto, conservato, addirittura adorato e venerato nelle zone climatiche dove il suo uso era necessario e benefico; il suo culto arrivò quindi nei paesi meridionali, «come le acque che prima scorrono dalle montagne e poi si depositano e si accumulano a valle». E quindi questo culto, che è diventato anche culto del Sole, raggiungendo le regioni calde della Terra, arrivò in luoghi dove in verità era inutile.

Quando i persiani ampliarono il loro impero fino ai piedi del Caucaso, non si sono spinti più a nord, sono invece ritornati a sud. Jamshid lasciò le montagne del nord per scendere verso le pianure meridionali, dove fondò Persepoli. Tutto ciò porta Bailly ad alcune conclusioni che a lui paiono evidenti: riprendendo alcune informazioni da Herbelot, si è potuti venire a conoscenza del fatto che i primi "Templi del fuoco" (Bailly li chiama Pyrées) furono trovati in Azerbaigian, che era la zona più settentrionale delle terre abitate dai Medi, una zona principalmente montuosa.

Bailly fa notare che Zoroastro, che fu il «restauratore di questo culto» del fuoco, aveva inserito nelle sue narrazioni anche delle descrizioni che portavano «l'impronta del clima ad una latitudine di 49°», un clima più settentrionale di quello caucasico; Jamshid aveva, probabilmente, attraversato questa catena montuosa, chiudendo poi il passaggio con delle porte. Senza alcun dubbio lui vi abitò; anche uno dei suoi antenati, Caiumarath, che si diceva essere l'autore del culto del fuoco, probabilmente visse lì. Tutte le guerre contro i Divi ebbero teatro proprio vicino alle montagne di Caf, che altro non sono che proprio il Caucaso.[28]

Bailly aveva studiato tutta la mitologia persiana: nella storiografia islamica classica, Gayômard (anche chiamato Soliman Haki) era spesso associato con Adamo, il primo uomo.[29] C'era una tradizione secondo cui Adamo scelse dalla sua numerosa prole, due figli, Šîth (o Seth) e Kayûmard (ovvero quello che Bailly chiama Caiumarath), e conferì loro quaranta scritture canoniche (sahîfa) su come comportarsi. A Seth fu affidato il controllo della religione, mentre a Caiumarath il controllo del regno e degli affari terreni. Anche l'autore del Borhân-e qâte´ riconosce Caiumarath come figlio di Adamo.[29]

Prima della creazione di Adamo però, nella mitologia persiana, Dio creò proprio i Divi. Essi erano dei giganti che regnarono, secondo le antiche tradizioni, per 7000 anni. Divennero però cattivi e furono conquistati dai Peri, angeli benefattori, che regnarono altri 2000 anni sotto il loro re Gian-ben-gian. Anche loro però divennero corrotti; e per conto dei loro crimini Dio mandò Eblis, o il diavolo, per espellerli e confinarli negli angoli più remoti della terra. Dopo la loro dispersione Adamo, Soliman-Haki, fu creato e divenne re, e ben nove generazioni di uomini regnarono dopo di lui. Caiamurath, suo figlio e antico antenato di Giamschid, fu il primo vero e proprio re della Persia. Egli supportò i Peri sopravvissuti nella loro lotta contro i Divi, che vivevano aldilà delle montagne di Damavand, di Caf, e quelle dove abitavano le leggendarie popolazioni di Gog e Magog.

Siameck, figlio di Caiamurath fu però ucciso dai giganti. Il suo omicidio portò il padre Caiamurath a bruciare il suo corpo, e a questo episodio si faceva risalire l'inizio del culto del fuoco nella tradizione persiana. Anche Bailly parla infatti di Caiumarath come «l'autore del culto del fuoco».

Nella tradizione religiosa persiana si fa riferimento anche a Surkage (o Surkhraje), gigante del tempo di Adamo, che fu re dei Divi che abitavano sulle montagne di Caf. Egli obbedì agli ordini di Dio, si sottomise ad Adamo e proibì ai suoi sottoposti di molestare i discendenti di Seth il quale, per sdebitarsi, mandò un suo fratello più giovane, Rocail (a cui la tradizione fa riferimento come Rocail ben Adam, ovvero "Rocail, figlio di Adamo"). Secondo la tradizione Rocail grazie alla sua lungimiranza e poiché possedeva la conoscenza delle «scienze più occulte», e aiutò Surkage a governare le sue terre diventandone suo visir per numerosi anni.[30][31] Fu anche in quel momento che Caiamurath iniziò a regnare. I re della prima dinastia furono chiamati Piscadiani, e dopo la loro estinzione, un tale chiamato Caicobad, che comunque discendeva da essi, fondò una nuova dinastia.[32]

Da tutte queste premesse Bailly conclude che i Divi e i Peri dovevano vivere a Nord, ben oltre il Caucaso, su una montagna i cui prolungamenti montuosi, sotto i nomi di Damavand e di Caf, delimitavano, assieme ai «bastioni di Gog e Magog» (ovvero la grande muraglia cinese) e alle Porte del Caspio, tutta la Tartaria dal Mar Caspio alla Baia di Corea. Tutti questi baluardi, naturali o artificiali, eretti a protezione delle popolazioni meridionali, sono per Bailly testimonianze indubbie che le nazioni del sud da un certo momento in poi si sono impiegate per respingere gli sforzi di quei popoli potenti e numerosi che abitavano il nord. In realtà molto probabilmente tutto ciò stava a significare che le popolazioni agricole del sud erano obbligate a mettersi in guardia dai predatori e dalle popolazioni nomadi e barbare che vivevano a nord, rappresentate nelle testimonianze leggendarie per l'appunto dai popoli selvaggi (in alcuni casi anche cannibali) di Gog e Magog. Bailly, rifiutando questa interpretazione, ritiene invece che a nord vivessero popolazioni potenti e scientificamente sviluppate. Non solo, secondo Bailly, sebbene tutto ciò non potesse avere serie motivazioni filologiche, tutti e due i popoli provenivano dal nord di queste montagne, ma nei vari conflitti una di queste fu quasi interamente distrutta. Dai resti, tuttavia, di questo antico ceppo si sono originate tutti i popoli dell'Asia Orientale. Persia, India e Cina da essa impararono le scienze che essi già possedevano. L'ultimo sito di questo popolo colto e scientificizzato, eppure perduto nelle memorie storiche, Bailly lo fissò sui rami laterali del Caucaso meridionale.

I lama del Tibet e della Siberia, fino alla città di Selinginskoi[33], erano dei veri bramini, i soli discendenti puri e in linea diretta di quella venerabile razza nordica. Quelli ancora sparsi in India, secondo le informazioni di Bailly, ancora nel Settecento attuavano pellegrinaggi di devozione ai loro antichi progenitori sulle rive del Jenisej. La lingua sanscrita, straniera — secondo Bailly — in India, mostrava che i bramini non provenivano da quel paese. Il linguaggio sacerdotale in Egitto, proprio come in India, era differente dal comune parlato: questa era la prova schiacciante, per Bailly, che in entrambi questi paesi, i sacerdoti preservavano, immutato, il linguaggio atavico dei loro progenitori nordici, che veniva usato nei rituali, mentre il volgare parlato dal popolo gradualmente si alterava.

Il culto del fuoco in Persia e in altri luoghi indicava, per Bailly, un'origine nordica. Queste dunque furono le prove che Bailly portava sull'estrazione nordica dei Persiani e degli Indiani; e tentò di fare lo stesso con i Cinesi prendendo come prova un'altra storia leggendaria: una principessa chiamata Nanca, che proveniva dal nord — precisamente dai 61° di latitudine — fondò la città di Nanchino. Anche i nomi di Gog e Magog, di Gin e Maggin e quelli di Tchin e Matchin, erano sinonimi nei linguaggi orientali, secondo quanto diceva Harbelot. E Tchin era la parola orientale da cui era nato proprio il termine Cina, e anche se i Cinesi non avevano dato quel nome al loro impero, sembrava comunque evidente a Bailly che questa denominazione orientale supponesse una qualche discendenza, o un qualche legame proprio con i popoli di Gog e Magog.

«La provincia di Chansi,[34] una provincia separata dalla Tartaria solo attraverso la grande muraglia, fu la prima ad essere abitata. I nuovi venuti vi si stabilirono, dopo aver riconosciuto che il clima lì era piacevole e sano. [...] Di conseguenza gli abitanti Cinesi venivano dal nord». «Così vediamo — dice Bailly — che i Cinesi, gli Indiani e i Persiani si incamminarono da quella linea di circonvallazione tracciata in tutta l'Asia che è il Caucaso» e da lì si stabilirono definitivamente nelle terre in cui, poi, le loro civiltà sono prosperate.

Le tradizioni greche, poi, invertite o comunque lette diversamente come aveva fatto l'astronomo francese, portavano a pensare che la posizione di Atlantide fosse anch'essa lì, nei pressi del Caucaso. Insomma, questa catena montuosa, per Bailly, non fu solo un baluardo difensivo, ma anche un origine comune per i popoli del mondo.

Questa lunga catena montuosa, mostrava dunque, per Bailly, una separazione totale delle nazioni dell'Asia a nord e popoli meridionali; e mentre i primi cercavano di attaccare, i secondi continuamente si difendevano. «Questa divisione è sancita sia dalla storia che dalla carta geografica, ovvero dai monti caucasici», scrive Bailly. Infatti, in generale, si parlava degli Sciti come dei popoli al di là e di Imaüs, al di sotto. Nel menzionare il popolo di Gog e Magog, Bailly assicura che la particella "ma" (di ma-gog) esprimeva la posizione, e significava "al di sotto" delle montagne. Questo voleva dire che i Gog abitavano al di sopra. Si vedeva altresì che i Peri, trincerati dietro le montagne, cercavano di respingere costantemente i Divi loro nemici che cercavano di sorpassarle. Questo parallelismo porta Bailly a sovrapporre i Gog con i Divi e i Magog con i Peri. «Tutti i popoli meridionali dell'Asia sono scesi da lì, da queste montagne; ma in realtà avevano raggiunto anche quelle montagne: la loro origine era al di là di esse, nelle pianure abitate dai loro nemici». «Questa gente rude del Nord doveva essere un antico ramo del genere umano, che si era infiltrato in tutta l'Asia.» Per giustificare la rudezza di alcuni popoli del Nord, che doveva essere il luogo da cui la scienza era partita, Bailly fa l'esempio dei «discendenti di una famiglia ricca, gentile e che si è corrotta nel tempo, e che perciò non assomiglino più agli antenati saggi e equi». E allora, prosegue Bailly, «Tenendo conto di questi nuovi popoli settentrionali, dal punto di vista dello spirito e della conoscenza, essi erano la feccia del genere umano, come il deposito dei rifiuti di una sostanza purificata; ma se li consideriamo dal lato della forza, era la loro caratteristica intrinseca; non hanno mai perso, sono nati per essere padroni della terra».

Questa sete di conuista era, per Bailly, «nella loro natura». «Questi Tartari erranti — continua Bailly — che occupano un territorio vasto con pochi uomini, che portano in questi deserti il loro bestiame e le loro tende, hanno un orgoglio pari alla loro miseria; nutrono il desiderio e la speranza di asservire il mondo».

«Ma i popoli di Gog e Magog — prosegue Bailly — abitavano entrambi i lati della montagna, perché la parBut the people of Gog and Magog, pursues Mr. Bailly, inhabited both sides of these mountains, for the particle ma signifies on this side. It denotes the Peris retrenched behind these ramparts constantly employed in repelling the Dives endeavouring to pass them.

«E può vedere ancora una volta, Monsieur Voltaire — scrive Bailly — dalle tradizioni orientali, che Surkage, gigante e Divo del tempo di Adamo, regnò sulle montagne di Caf. Egli obbedì al comando di Dio, si sottomise al padre degli uomini; vietò ai suoi sudditi di molestare i figli di Seth; e quest'ultimo, a sua richiesta, gli diede Rucail, suo fratello e figlio di Adamo, esperto in tutte le scienze, per illuminare e governare i suoi stati. E' da questo momento, dicono le stesse tradizioni, che Caiumarath ha cominciato a regnare. Non mi interessa, Monsieur, di adottare queste tradizioni tutte insieme, vedo bene che sono mescolate con le favole. Non sono in grado di capire se sono ambientate in un tempo precedente o successivo al diluvio; però vedo che parlano sempre delle montagne Caf o del Caucaso. E da qui vedo quali sono gli inizi della storia della Persia: e la critica filologica mi costringe a stabilire che il culto del fuoco è un culto nato nel nord, penso che questo culto ha attraversato montagne verso sud, e non posso che concludere che è a nord del Caucaso che bisogna cercare l'origine dei Persiani, ed è da lì che hanno portato questo culto. Voi potete ricordare, Monsieur Voltaire, la storia di Prometeo, che rubò il fuoco dal cielo, e, secondo Esiodo, lo conservò nel fusto della pianta chiamata ghiera il cui midollo bruciava lentamente, cosicché il fuoco covasse senza danneggiare la corteccia. Prometeo regnava intorno al Caucaso; è su questa montagna che l'aquila gli divorava il fegato. La favola, o meglio la tradizione greca, così si unisce alla tradizione orientale. Sarete d'accordo che, sulla base di queste testimonianze di popoli diversi, è difficile che mi stia sbagliando».

[PENSIERO NON DI BAILLY] Potrebbe comunque essere, che il nome "fuoco" glielo avessero dato i Greci e non gli Egizi, quando per editto del faraone Psammetico furono ammessi in Egitto; adattando a tali moli il nome che forse avranno essi dato a i Fari posti ne' porti , i quali con le lanterne e col fuoco servivano di segno a i naviganti per entrare sicuri, di che parla Plinio (i). La medesima etimologia dedotta da Pir fuoco si riconosce da Diodoro Siculo nel nome dei Pirenei. Anche secondo Herbelot, infatti, i Persiani non davano al fuoco il nome di pir come i Greci; anzi con tale parola si indicavano i signori, gli anziani, ed è divenuta poi titolo onorifico. E quello infatti, in Persia, era il titolo del capo dei Dervis, che risiedeva a Mashhad. [PENSIERO NON DI BAILLY]

Le constatazioni con cui Bailly tenta di provare la sua ipotesi sull'origine etimologica del fuoco sembrano alquanto ingegnose, anche la storia dei popoli di Gog e Magog sembrò «poetica» ai commentatori dll'epoca, perché nessuno fono ad allora aveva mai compreso bene chi fossero questi popoli leggendari, né si sapeva bene chi fossero i Divi e i Peri.

I Persiani, al riferire di Herbellot , dicono Jugiuge , Magiuge, e i Chinesi Gin e Magia ed anche Tehin e Mathein .

Sotto il nome di Gin si intendevano però i Peri. Quindi Gin e Maggin corrispondevano ai Peri e ai Divi, cioè agli spiriti che precedettero la creazione dell' uomo. Di Gog e Magog parla invece il profeta Ezechiele: nel capitolo 38 minaccia la rovina d'Israele causata dai popoli del settentrione uniti ai Persiani, agli Etiopi e ai Libanesi; mentre nel 39° capitolo profetizza la disfatta di Gog e Magog, e di tutti quelli "qui habitant confidenter in insulis" ("che abitano al sicuro nelle isole)", lì dunque i popoli di Magog sono indicati come abitanti di isole.

''''''''''''Bailly, sapendo che tutte le tradizioni riportavano che gli Atlantidei'''' fossero abitanti di isole, supponendo che tutte le memorie e tutte le tradizioni degli antichi dimostravano l'Atlantide e gli Atlantidi all'occidente dell' Africa nell' oceano Atlantico, ma siccome egli s'impegnò di dimostrare, che le sciente e l'astronomia passarono all'India e alla Cina dalle montagne dell' Asia; così s'indusse a far credere che gli Atlantidi, i quali furono i primi astronomi, fossero pure dell' Asia. E perchè vennero essi da un'isola , così non potevasi ritrovar tal isola che nel mar glaciale.

Dopo aver considerato i popoli che vivevano al di sotto del Caucaso, Bailly si appresta a discutere «dei loro nemici», le persone che vivevano al di là di queste montagne. Uno di questi era il popolo che Bailly definisce Turck, e i suoi due rami, i Tartari e i Mongoli. «Questo popolo fu solo distruttivo — scrive Bailly — e fu conosciuto solo perché si presentarono come sciami barbarici giunti nel Sud dell'Asia. Difficilmente poteva essere il popolo «istruttore di scienza» che Bailly andava ricercando. La parentela tra Tartari e Mongoli (popoli tra loro nemici) discendeva miticamente dai fratelli Mongol e Tartar, figli di Alauza. Nipote di Mongol fu Oguf che visse nel 2824 anni prima dell'epoca di Bailly. Questi Mongoli erano feroci e barbari, ma non occuparono né la Cina né l'India, perché furono distrutti dai Tartari. Bailly mostra di credere che questi Mongoli altro non fossero che i Divi di cui si parlava nelle antiche leggende persiane, poiché due figli del principe Mongol (ammazzato dal fratello Tartar) si ritirarono proprio oltre le montagne caucasiche, come i Divi della tradizione mitica.

La Tartaria e la Siberia furono paesi molto esaminati dall'orientalista Peter Simon Pallas, e Bailly fa uso delle notizie che lo studioso diede intorno alle antiche scoperte su popolo perduto nelle pianure e nelle montagne bagnate dall'Irtyš presso Krasnojarsk, e dal fiume Enisej. In primo luogo, dice Bailly, che questo era «un popolo distrutto», precedentemente denominato Tschouden o Tschoudaki (costituito dagli antenati dei popoli finnici). Questo popolo non era stato ancora ben riconosciuto, se non per «i lavori che essi svolsero sotto terra» e per «i resti delle tombe»: gli strumenti di lavoro erano infatti rimasti nelle loro miniere; le ceneri dei morti invece non apparivano più, ma gli ornamenti in metallo e le armi, nascoste e protette dalla terra, avevano «resistito all'usura del tempo». Non si conosceva bene quali fossero le caratteristiche di tale popolo; perciò Bailly si permise ipotizzare, in modo un po' scorretto, che esso fosse un popolo pacifico più antico dei Mongoli e dei Tartari.

Il popolo Tschouden sembrava a Bailly molto più interessante. Innanzitutto si estese molto, «gettò ramoscelli dai Monti Altaj fino a novecento leghe di distanza» scrive Bailly, e arrivò fino in Finlandia. «Il suo nome — dice Bailly — lo si ritrova anche in Svizzera».

Nonostante l'estensione dei possedimenti, che dimostravano per Bailly «sia una popolazione numerosa sia il potere che da essa segue», questo popolo «è stato dimenticato» proprio come quello che Bailly intravedeva nell'antichità. «Questo popolo aumenta la lista dei popoli perduti. — scrive Bailly — Lo è stato infatti fino al viaggio di Pallas, le cui scoperte sono recenti. Allora, qual è il destino dei popoli? Perché alcuni lasciano una lunga memoria, mentre altri vengono cancellati dalla storia? Non è forse vero che vengono ricordati più i popoli che hanno fatto guerre e lotte piuttosto che popoli pacifici? Sarei tentato di concludere che questo popolo non abbia fatto del male nel mondo, non ha attuato né guerre né conquiste. Alessandro Magno ad esempio non è ancora stato dimenticato in India, benché il suo flagello sia stato solo di passaggio. Vedo che i Divi e i Giganti sono ancora temuti in Asia. Ritengo invece che questo popolo sia vissuto in pace e in silenzio; si diffuse attraverso delle colonie, senza fare conquiste in territori già abitati ma conquistando solo territori disabitati; ha trasformato in zone abitate dei luoghi deserti; tutto questo può essere dimenticato, perché non c'era nessuno a testimoniarlo e perché non conquistarono i territori di nessuno, e quindi nessuno si lamentò. Visto che non si impadronirono delle terre di nessuno, allora eccitarono né l'odio né le grida di altri popoli che invece si perpetuano e risuonano negli echi della storia, quando vengono sottomessi, come i tuoni sulle montagne. Questa conclusione non onorerà l'umanità, ma non per questo è meno vera». Da qui Bailly chiosa: «Penserei che se questo popolo è vissuto in pace, se non ha commesso ingiustizie, è perché le circostanze e la sua antichità l'hanno permesso, infatti quando anticamente la Terra era scarsamente abitata, è plausibile che i popoli potessero espandersi senza conflitti violenti. La specie umana è sempre stata la stessa: l'uomo è dolce quando è soddisfatto; sono la necessità e i desideri compressi dagli ostacoli che lo rendono violento e ingiusto. Se ho concluso che i Tschouden non hanno fatto del male, ciò che hanno lasciato senza memoria, si potrebbe concludere che non avevano ancora fatto del male soltanto perché non trovarono su chi farlo, in quanto erano isolati, o perché vivevano in una età molto antica quando la Terra era scarsamente popolata, e quindi non avevano popoli vicini, o almeno li avevano, ma erano lontani. Insomma, la terra apparteneva solo a loro. Forse furono le loro colonie, con altri nomi, che si rapportarono ad altri popoli divenendo conquistatori e usurpatori».

La scoperta di questo popolo è infinitamente curiosa per Bailly. Non aveva ancora la certezza per dire se questo popolo fosse quello che lui cercava, ovvero il popolo "istruttore" che «aveva coltivato l'astronomia e la scienza nell'antica Asia» eppure era molto fiducioso. Infatti non solo questi Tschouden erano un popolo molto antico, ma vissero anche nei dintorni della latitudine che Bailly sospettava fosse quella esatta; non avevano ricevuto nessun insegnamento da altri, dal momento che erano isolati e già possedevano le arti e le scienze, in quanto costruirono miniere, e lavorarono sotto delle grandi montagne. Infine, questi Tschouden non lasciarono alcuna traccia: insomma, avevano fin troppe somiglianze con quel polo che Bailly vide come «progenitore della scienza» e che lasciò detriti di scienza nel resto del mondo.

Già prima Bailly aveva diviso l'Asia in due parti secondo la catena montuosa del Caucaso, che andava da ovest ad est. Ora comincia (a p. 301) a sviluppare il suo sistema dicendo che, quando si ritrovò sulle grandi altezze della Tartaria, dove i fiumi discendevano su mari opposti, sia a nord che a sud, una parte di quel popolo primitivo, che abitava in quei luoghi, discese verso sud, e un'altra salì verso il nord; e quindi era plausibile che vari etimi delle lingue del nord avessero delle similitudini con gli idiomi a dei popoli meridionali. E' felice la riflessione che Bailly fa sui popoli della Finlandia, ovvero per l'appunto appunto Tschouden, da cui si può desumere l' origine e si può confermare l'opinione del pastore finlandese Nils Idman sulle analogie e sulle conformità tra la lingua finlandese e il greco antico. Secondo Idman, e Bailly accetta totalmente questa teoria, i popoli finnici erano antichi discendenti degli Sciti, e furono i primi abitanti del Nord di cui si ebbe traccia. La loro lingua, rimasta praticamente inalterata per secoli, poteva dunque essere vista anche come lingua degli Sciti. In ogni caso il fatto che il popolo finlandese si fosse poi mischiato con altre popolazioni aveva alterato successivamente il linguaggio: quindi per Idman le tracce delle loro origini, dei loro antichi governi e non si potevano che conservare, scrive Bailly commentando Idman «nelle leggende mitologiche, nella lingua e negli antichi usi e costumi». Infatti, ad esempio, i popoli finnici celebravano una festa abbastanza singolare, molto simile ad una festa greca: essa veniva celebrata nel mese di Dicembre, e si chiamava Ioulu, e durante questo periodo festivo solitamente le persone erano solite abbuffarsi e darsi totalmente ai piaceri della tavola. L'enciclopedia Suda parlava di una festa greca, chiamata Ioleia (dedicata a Iolao, nipote di Eracle, antico eroe celebrato dagli ateniesi). Queste feste, fece notare Idman, si assomigliavano non poco, sia per il nome che per l'oggetto. «Possiamo credere — si chiede Bailly — che siano stati i greci ad aver portato questa istituzione, questa festività, così lontano dai loro territori, oppure che i popoli finnici siano andati a cercarla in Grecia per poi riportarla a Nord? Né l'uno né l'altra possibilità sembrano reggere». «C'è bisogno — dice Bailly — di cedere dai nostri vecchi pregiudizi. I greci ci hanno istruito, i loro scritti hanno perfezionato l'eloquenza e la poesia, i loro storici, i loro oratori e i loro poeti sono i nostri piaceri e il nostro studio, ma non sono stati loro i "precettori del mondo"; essi non hanno istruito l'Asia, dove anzi a volte sono andati alla ricerca di "lumi"; non hanno portato la loro lingua nel nord; è il nord che ha popolato l'Europa e l'Asia. La conformità negli usi, nelle istituzioni e nella lingua si sono diffusi da un ramo all'altro, e derivano da questa origine settentrionale comune. Così come non è il padre che si assomiglia al figlio, ma sono i figli che hanno somiglianze col padre: la somiglianza va giù e segue la natura. I Greci hanno viaggiato, ma in paesi ricchi e soleggiati; hanno stabilito delle colonie, ma in Asia Minore, nel Mediterraneo, e in altri luoghi con climi preferiti, o almeno simili al loro clima. Anche se qualche esploratore greco particolare, come Pitea, si avvicinò al nord, il viaggio comunque fu fatto una volta; e se fu sporadicamente ripetuto, è comunque difficile pensare che fosse servito a modificare qualcosa nelle istituzioni o nel linguaggio dei popoli lontani e stranieri del nord. Solo la conquista o il commercio quotidiano, e continuato nel tempo, potrebbero amalgamare le persone di popoli diversi, confondere i loro usi e combinare i loro linguaggi con parole d'adozione. I greci non hanno fatto queste conquiste a nord, e commercio di questo tipo non ha alcun esempio se non nell'Europa moderna e civile».

Ma a Bailly non basta aver trovato questa presunta verità. Vuole dar nuova lena al suo ingegno per riprendere il gran salto da lui meditato, trasportando al nord tutte le tradizioni dei popoli meridionali. «Ercole — dice Bailly — fu un eroe del nord». Anche qui dà una motivazione etimologica: Her-full ed Her-cull significavano «soldato» in lingua svedese, e — per Bailly — i Greci «lo avevano copiato».

Alla fine Bailly conclude che gli Atlantidei non potevano che essere i Divi, ovvero gli abitanti delle terre al di là del Caucaso, esseri anteriori alla creazione dell'uomo secondo secondo le tradizioni mitologiche persiane, partiti dall'isola di Spitsbergen, un «paese abitato prima di tutti gli altri», e paese in cui la vita degli uomini «era più dolce e più felice che nei bei climi». Se quelle terre non erano più abitabili, dice l'autore, in quanto troppo fredde e rigide, era a causa della successiva perdita del "calore primordiale" del globo, secondo le teorie paleoclimatiche di Buffon. Le premier de ces résultats est qu'ilya un ancien état des choses, qui a précédé les peuples connus de la Chine, de l'Inde et de la Perse, que ces peuples sont descen dus du Caucase, et que cet ancien état des choses a existé au - delà des montagnes. «Vi fu un'antico stato delle cose che esistette al di là del Caucaso». Questo "stato delle cose" «ha preceduto i popoli conosciuti della Cina, dell’ India, e della Persia». Questi popoli erano «fratelli» e condividevano «un'origine comune». Essi erano «discesi dal Caucaso».

«I Persiani collocano i Divi e i Peri al di là del Caucaso» riconferma Bailly che prosegue dicendo che «le prove storiche fanno provenire gli Atlantidei e i loro nemici dalle isole e dalle sponde del mar glaciale. Pallas, trovò le vestigie del popolo Tschouden nei campi della Tartaria. I cinque popoli più antichi appartengono dunque al Nord. Questi cinque popoli sono: gli Atlantidei; l'altro popolo nominato da Platone che combatté gli Atlantidei; i Divi (ovvero i giganti) e i Peri; e i Tschouden della Tartaria».

«I giganti, i Divi e gli Atlantidei potevano anche essere lo stesso popolo, conosciuto con nomi diversi a causa, eventualmente, di più migrazioni. Le popoli che hanno combattuto gli Atlantidei presso le colonne d'Ercole, potrebbero anche essere solo i Peri, che sono stati così a lungo tormentati dai Divi. I cinque popoli possono dunque essere ridotti a tre, gli Atlantidei o Divi, i Peri e i Tschouden. Gli Atlantidi, ed i Tsc/zoudcni siano pureî della. medesima antichità. Vi saranno degli altri popoli . . Amsnrcane. Paura QUAR. t7n ancora . Ma i primi, cioè gli Atlantidi, sa-‘ ranno in possesso di farsi credere popoli; occidentali ; ed i secondi saranno Sciti este» si sino nella Finlandia. Seguita a conchiu dere, che gli Atlantidi sono gl' Iperóorei :. portarono nell’ Egitto tutte le Storie di Sa III/720 , di Giove, di Ercole cc. ed aveva no il ciclo [unisolare d’anni x:x, che Me"ì Ione portò nella Grecia , c/z’ è il frutto d’ nn’ astronomia avan{ata. Gli Atlantidi andarono in Egitto; ma non furono mai Iperborei. Non conobbero mai il cielo d’anni XIX, mentre le cognizioni astro' nomiche si restringevano a riconoscere il corso del Sole annuale in giorni sola mente 360, e quello della Luna in gior ni 28; il nascere e tramontar delle Ple jadi, delle Jadi , e la loro concorrenza con gli equinozj: formarono quindi la Sfera; alcune altre costellazioni segnarono e nulla più, per quanto sappiamo. Icicli a mio parere si formarono ne’ tempi po steriori a gli Atlantidi , .cioè dopo il dikt ! 17a LETTERAIV. via di Ogige; e quello di Metone, che si pubblicò anni 432 prima della nostra era, non venne , per quanto dimostrano le conghietture, nè pur dall’ Asia, ove Merone non fu giammai. Anzi sembra po sitivamente nato in Atene in seguito de gli antecedenti tentativi fatti da gli astro nomi Greci per ritrovare un ciclo che de terminasse il ritorno del sole e della luna al medesimo giorno di prima per la co stante celebrazione delle feste. Facciamone un esame . inL’tercalazione di un mese nella Dieteride, cioè ogni due anni, fu il primo tentativo de’ Greci pel ritrovamen to di questo costante periodo; ma ben presto si accorsero, che cresceva di gior. ni 7 e mezzo circa. Pensarono di raddop piarlo, facendolo di quattr’ anni, aggiun gendovi ugualmente un. mese; lo appella rono Tetraeteride o Olimpiade , ma esso si ritrovò al contrario mancante .‘ di giorni 14. Si corresse di nuovo con la Ofioteride, cioè ott’ anni, e questa si accostò di più? \ ÀMBnmANEI PARTE QU'AR. 173‘ mentre in 0tt° anni non v’ era fra la rivo‘ luzione della luna e quella del sole, che la differenza di giorni I ore 14 min. 9. Si tentò in oltre di raddoppiar l’otteate ride, con la giunta di tre giorni; ma ne risultò un errore corrispondente. Merone corresse finalmente anche questa differenza col ciclo d’ anni X\X , desumendo il cal colo dallo solstizio estivo. Egli dunque lo osservò, e segnò il medio come Tolo meo assicura (I) il giorno 21 del mese Famerzorlz, cioè a’ 27 di Giugno ore 10 43‘ dopo mezza notte; a che si riferiscono i versi di Fesro Avieno: Sed primwva Metorz exordia sumpsit ab anno Torrerer rurilo cam Phoeóas sidere Can cram. Quindi cominciò l’anno dal novilunio, che precedeva tal giorno , e costruì il mi rabile ciclo , che dall’ Autore il nome di Metonico prese. Questo ciclo aveva sette - l (I) Mago. Constr. Lib. III cap. 2.. ex Hipparchî libro 8tc.

17_4‘ LETTIRA IV. «intercalazioni di un mese lunare l’una, in sette anni differenti in esso ciclo com presi; e così si alterò la disposizione pre cedente de i mesi, e s’ ottenne il grande intento, a cui gli astronomi Greci per un secolo e mezzo avevano sin allora dirette le loro applicazioni; cioè alla giusta for mazione del calendario. Censorino ne trat ta con qualche esattezza (I), e ci dà il nome degli astronomi, che ànno fatte le antecedenti correzioni, cioè Eudosso, Cleo strato, Arpalo, Nautele , Mucstrato, Do siteo; poi venendo a Merone, soggiunge, ch’ egli l’anno magno ex annis undevi ginti constituit. Se questo fosse stato il ciclo de’ Caldei , Censorino lo avrebbe accennato: anzi una prova di più, ch’ esso realmente fosse opera di Merone, e non de’ Caldei , si desume dal medesimo Cen sorino , ove poche linee più sopra uo mina la dodecaeteride , o sia periodo

(1) De die natali cap. XVIII ed. Lurer. 158;. 8. ‘ AMERICANE» Pane Qua. 175 11' anni dodici, e dice che quell’ anno o ciclo si appellava caldaico , lzuic armo c/zal daico n0men est. Se però fosse stato cal daico anche quello d’anni xrx, Censorino non avrebbe ommesso di dirlo. Dopo cen -to anni s’accorsero che anche tale ciclo di Metone aveva preceduto di più di ore 6 , onde Calippo nell’ anno 330 prima di Cristo unendo quattro cicli di Metone fece un periodo d’anni 76 meno un gior no. La serie de i tentativi fatti ;da gli Ateniesi per regolare i mesi lunari , .de’ quali facevano uso coll’ anno solare, e di fissare i novilunj, plenilunj, e tutte le loro feste a’ dati giorni fissi, come l’Ora colo di Delfo prescrisse , dimostra che Merone fu passo passo condotto a stabi lire il ciclo d' anni XIX, senza bisogno degli Asiatici; come Calippo di Cizico dall’ errore scoperto dopo cent’ anni nel ciclo di Metone pubblicò il periodo d’anni Lxxvr meno un giorno: del qual periodo gli Asiatici non ebbero mai alcuna norizia, r76 Lnrrnn"a IV.‘ Se tale ciclo fosse stato o\riginario dell’ Asia, i Macedoni non farebbero stati per tanto tempo incerti nella fissazione dell’ anno; ed allorché Seleuco conquistò sopra Antigono gran parte d’Asia da Babilonia sino all’ Indo, avrebbe da gli Asiatici appreso il calendario; ma in vece egli lo diede a loro; e siccome della di lui epo ca , detta de’ Seleacz'dz' , tutti si servirono, inclusivamente gli Ebrei, che la chiama vano epoca de i contrarzz' ; così ugualmente uso si fece in Asia de i mesi, e nomi Macedoni, di che trattò il cardinal Noris tanto eruditamente. Gli Atlantidi dunque non conobbero il ciclo di Merone, nè il peribdo di Calippo. Oserei anzi dubitare, se iCaldei , Persi, Cinesi ec. ne abbia no realmente fatt’ uso. Il periodo di mesi 223 non corrisponde a gli anni xxx, ma solamente ad anni 18, giorni Il , ore 7 e minuti 43; nè risguardava 1’ oggetto a cui fu diretto quello di Merone, mentre gli Asiatici ebbero in veduta di ritrovare il AMERICANE. PARTE Quan. 177 il ritorno dell’ ecclissi della lurm: defec7ns lance , dice Plinio (I) , post 223 mense: in suos orbes redire cerrum est; e Merone al contrario, correggendo gli anteriori cicli formati in Atene per accertare le feste de’ plenilunj e novilunj al medesimo gior no del mese e al medesimo punto del sole, ritrovò il suo d’anni XIX con gl’ in tercalari indicati di sopra. Questo ciclo con gl’ intercalari diretto a tal‘fine, io non credo possa ritrovarsi in nessuna par te dell’ Asia; meno poi in Inghilterra, come il nostro Autore sembra persiandersi nell’ opera dell’ astronomia antica (p. 308); mentre Diodoro , che ivi si cita, dice sol tanto che si favoleggiava , che la Luna. era di tal isola poco lontana , e che il dio. Apollo ogni mx anni 1’ andava a visita re E’ vero che Diodoro soggiunge, che un tal periodo dÎ anni è da’ Greci ap pellato il Grande Anno, e che colla de: (1) Lib. II c. r;. ' ‘ (a) Lib. II p. 97.. Tomo XIV- M

r78 LETTERAIV. nominazione di anno grande egli altrove (lib. XII p. 305) chiama il ciclo di Me tone; ma è altresi vero, ch’ ein al detto Metonc dà il merito d’ averlo ritrovato, e non già a gli Asxatici, o a gl’lperborei. Si assicura nonostante, che i Cinesi nel tempo dell’ imperadore Hoang-zi, anni 2,611 prima della nostr’ era, si accor gessero, che l’anno lunare , con cui s’ era no sin allora regolati, non corrispondeva al solare; ma che conveniva intercalaré sette lune nello spazio d’anni xxx. Tale osservazione, s’è vera , à preceduto cer tamente Metoue; ma è da dubitarsi mol to sulla certezza di tale asserzione, non essendovi che una semplice deduzione con ghietturale del Cassini. Sembra che più famigliare a gli Asiatici fbsse il periodo di 60 anni; onde fecero i cicli d'anni 60, 6’ anni 3,600, d’ anni 24,000, e di 36,000. Merone siccome grande astrono 'mo era a' suoi tempi, così non si sareb be mai usurpato la gloria d’essere ritro Ammcsnm Pur: Qun.‘ 179 vatore d’un ciclo, se questo fosse stato in Asia comune a tante nazioni. Egli vari luoghi scorse per osservare le apparen{e delle costellazioni, come abbiamo da To lomeo; alla fine del di cui libro si mora, che Merong dette osservazioni fece per [e Cicladi in Macedonia ed in Tracia; ma in Asia non mai. Il mordace Ariszofime nella commedia degli uccelli à V0lut0 far ride re anche sulla scienza di Mezone, come à fatto di Socrate; e dopo avergli posto in bocca queste parole , io sono Melone noto alla Grecia ed alle Colonie , lo fil giudice nell’ assegnare i confini delle ris pettiVe giurisdizioni degli uccelli nell' aria . Se avesse potuto Aristofane ’attaccarlo co me plagiario , crediamo noi, che lo avreb be risparmiato? In seguito Mr- Bailly conchiude in que sta forma: I Peri sono gli antenati de i Persiani, de’Cbinesi cc. , e questi sono que’ popoli, che inno perfqionam 1’ astro nomia.. Mij ‘130 L'arrana‘1V.’ , Per compimento di tutto passa a dise gnare i viaggi e le vicende degli Atlan tid| da Spitzberg in Egitto; ma debbo farmi carico delle proteste , con le quali previene Mr. di Voltaire, e con lui tutti quelli che leggono tale opera . Si 1101:: (dic’ '9in p.‘ 464) m’ ordonrzq de cominuer [es 'faizs que je vous ai rapportés, de concilier Plalorz avec Platarqrze G‘ de vous faìre un Roma/z. je puis vous obéir. Io non ripeto , che Plutarco è perfettamente d’ac cordo con Platone, se è vero che quello dimostri l’ isole Atlantidi nel preciso luogo, ove questo dimostrò essere stata un tempo situata l’ Atlantide. Mi restringe soltanto a farvi riflettere essersi da Mr. Bailly me desimo confessato ciò che io ebbi l'onore di dirvi nelle Lettere antecedenti, cioè che l’illustre Autore à Voluto prendersi gioco e dimostrare al mondo quanto sull’ intelletto degli uomini egli abbia di po tere e di superiorità, con una eloquenza mirabile, con una grazia singolare e con AMERICANE. Pan-n: QUAR. 181' un’ erudizione scelta e poco' comune. Questo, ch’ei chiama Romaa{o, è il risultato di tuttigli antecedenti ragiona menti diretti a far 'uscire_gli Atlantidi da Spitzberg e farli fermar in Asia tra l’I Oby e il Jenisea , dove ’moltiplicati si avanza tono verso le sorgenti de i detti fiu’mi‘.‘ Ma siccome Spitzberg era , -Secondo lui, paese, in cui la spezie umana si moltipli. cava prodig-iosamente; così altre Colonie sortirono; e quindi nacquero delle guerre con i primi, e questi si sono ritirati in Krasnojart , ove Mr. Pallas ritrovò de’ ve stigj: ma di nuovo molestati da’ vicini si ritirar0n0 parte fra le montagne del Cau‘ caso verso il Caspio, popolando quelle di -Astracan, e altra parte d’essi il paese di Tangut. Allora la latidudine di gradi 49 fu popolata; ed ecco il regno de’ Peri succeduto a quello de i Divi e ’1 tempo Gian-bea-Giarz re delle Fate, e detto and che lo Spirito buono. Allora mgolte lingue nacquero, e l’astronomia fu coltivata c le ‘Miij ‘181 LnrrxnalV. tavole astronomiche perfezionate. M; que. sti popoli moltiplicati inno assalite le mon tagne . Ecco la guerra de' Divi e de' Peri. Compatisco Mr. Bailly, se a questo passo ein dice (p. 469) essersi ridotto d l’ embarras des Autears de Romans, qui aprés avoir conduit lear Prince , on lear Heros jusq’ au dernicr volubxe , ne savenc plus comment s' en defizire , 5’ finissent par le faire assassiner. Fa dunque, che gli Atlantidi combattino e distruggano le fortificazioni di Gag e Magog. I popoli Vinti scapparono, e questi sono i Brami da una parte , alle montagne del Tibet; dall’altra i Cinesi con Fo-hi , che por tarono i primi lumi in ammendue le re gioni. All’ incontro gli Atlantidi passo passo penetrarono sino in Egitto; e i Tar tari , cioè i discendenti di Tartar, che abi tavano i paesi de i Divi, fondarono l’im perio de’ Persi sotto la condotta di Ciani. schid . Voila, conchiude (p. 474), l’epo 4”‘ 01‘ Camme/tee 1’ 0'A’dt moderne canna AMERICANE. Parma Quan. 183 de l’Asie. E come gli Atlantidi porta rono in Egitto le scienze; così in sa stanza quelle, che sono state portate al mezzodì dell’ Asia , possmo esser derivate dal popolo distrutto de’Tschoudenh Qui termina l’opera di Mr. Bailly compro“... dente pag. 477. 8 con l’ aggiunta d’ una carta geografica . Ma cos’ è questo? voi mi richiedete. Sono dunque tutto le nazioni colte ed in colte d’ Egitto, di Grecia, della Cina, della Indie, i Persiani, i Caldei cc. venute da Spitzberg e dalle isole del non? Cos’ eran quest' isole? Quale la loro storia? Quale può essere l’analogia, la scrittura , i costu mi fra popoli cosi distanti? Quante cose, scusatemi, mi richiedete ad un, tratto? Voi potete meglio di me sviluppare quesiti ed altri quesiti, che possono farsi nell’esame dell’ opinioni di Rudbeck e di Mr. Bailly ; come avete fatto con la vostra Lettera de’ 6 agosto scaduto , oppugnando quelle di Mr. BougainYille e di Mr. Greonioî M iv 134 LETTERAIV. il primo de‘ quali volle ritrova: l‘ Atlan...‘ ride o in Madagascar, 0 nel me2zo del Mediterraneo; e il secondo nella Palestina. Tutti questi sistemi nacquero dal non ri trovarsi ora _nell’ oceano quella grand’ isola descritta da‘Platone dirimpetto alle colonne di Ercole, fra 1’ uno e l'altro Continente; e dal non potere o non volere persua dersi, ch’essa poteva esistere, prima che fosse assorbita dal mare, Voi però avete maggior ozio\per farlo; ed io da voi sto attendendone la soluzione. Una sola os servazione voglio aggiungere alle molte antecedentemente fatte sopra le Lettere del nostro Autore . Gli Atlantidi vusarono la scrittura rap presentativa , detta poi geroglz' ca . Se dallf estremo Notte fossero andati in Asia, e pas« so passo fossero arrivati sino in Egitto; con la scienza astronomica avrebbero la sciato anche la loro scrittura. Ora per quale|fatalità sarebbe rimasta in Asia la loro scienza, senza indizio alcuno di tale AMERICANE. PARTE QUAR. 18; Scrittura? In qual maniera, senza lasciarvi vesrigio nel paese originario, saltò essa scrittura in Egitto’ed in Etiopia? E per qual arte magica passò ugualmente al Mes sico fra popoli divisi da tanto mare? Nell’ Asia contigua tanto 'all’ Egitto, non si sono usati mai geroglifici, esi sono usati nel Messico; e gli Autori di essi saranno in Egitto pervenuti dall’Asia? ‘Dunque si dovrebbe conchiudere , che nè pure- la scienza degli Asiatici debba riconoscere la sua origine dagli Atlantidi; come Sembra dimostrato, che questi popoli non siano mai venuti dal nort, ma dall’ occidente e dall’oceano, che conservò in tutti i tempi la denominazione d’ Atlantico . Addio . Prim_ó Settembre I 7 7 9.

Riprendendo le teorie dello scienziato svedese Olaus Rudbeck, affermava inoltre che Ulisse si era spinto anche verso Nord nel corso delle sue peregrinazioni: Bailly andando più a fondo ipotizzava che la sconosciuta città di Lamo, abitata dai Lestrigoni - di cui Omero narra nel X libro dell'Odissea - si trovasse non nel Sud Italia (presso Terracina, come pensavano gli studiosi di allora) ma in realtà nelle regioni settentrionali d'Europa. Nella ventiduesima lettera infatti, dopo aver disquisito dell'ingresso di Ulisse negli Inferi e dei Campi Elisi, Bailly si sofferma sul fatto che queste leggende religiose non potevano essere state inventate in Italia, una terra abitata da popolazioni civilizzate ben più tardi rispetto ala Grecia, e che per questo tali luoghi mitici (gli Inferi, l'Isola di Circe, la stessa città di Lamo ecc...) non potevano essere stati localizzati lì dalla tradizione. Dovevano trovarsi altrove. Basandosi dunque su ragioni etimologiche e sulle ipotesi di Rudbeck, Bailly cerca di smontare la presunta "italianità" di tutti quei luoghi omerici che la tradizione aveva lì localizzato. Bailly parte da alcune constatazioni sulle terre dei Cimmeri, che secondo Omero dovevano stare vicino alla città di Lamo e all'isola di Circe (in quanto Ulisse li aveva raggiunti nello stesso giorno in cui era partito da Circe): Bailly, interpretando in chiave più squisitamente scientifica i riferimenti omerici alla «notte perpetua» in cui viveva la popolazione dei Cimmeri, ovvero in luoghi in cui il cielo era sempre coperto di nebbia e mai illuminato dal sole, rivide in queste espressioni poetiche delle allusioni alla notte polare. Il fatto che poi si sapesse per certo che i Cimmeri fossero abitati in Meozia, una terra certamente non polare, ma ben più a Nord rispetto al Meridione italiano, non poteva che implicare che anche gli altri luoghi della tradizione omerica, trovandosi nelle vicinanze, dovessero essere localizzati in terre settentrionali.

Omero riferisce inoltre che dalla terra dei Cimmeri si apriva la porta che conduceva all'Averno, l'Ade, il regno delle anime greche e romane in cui governava Plutone e che era attraversato da cinque fiumi: Stige, Cocito, Acheronte, Flegetonte e Lete. Ed è qui che si aprono le elucubrazioni etimologiche di Bailly, suffragate dalle tesi di Rudbeck: le radici di tutte queste parole si trovano nelle lingue nordiche. Ad esempio: la parola Averno prenderebbe il suo nome da aa werna ovvero "acqua chiusa" (un luogo acquoso e stagnante); Plutone invece deriverebbe da blota ovvero "scannare vittime"; Acheronte da grondt fondo cioè "fiume senza fondo"; Cocito da kota ovvero "sorgente d'acqua". Similmente ogni cosa spiacevole o fastidiosa nei linguaggi scandinavi era stegg o stigg, e da qui il nome Stige.

A partire da queste etimologie Bailly in qualche modo trasporta tanti luoghi importanti della mitologia greca in Scandinavia e in altre zone settentrionali. E' evidente, in molti passaggi delle Lettres, che Bailly stesso appare sorpreso dalla singolarità delle sue stesse conclusioni, e ha timore che i suoi possano vederli come degli «scherzi». Lui stesso dunque esclama: «La mia penna non troverebbe espressione per pensieri che non crederei veri». Bailly si aiuta nel suo processo dimostrativo grazie alla sua profonda conoscenza di astronomia, storia, e grazie alla sua vasta erudizione anche in altri campi, come la filologia. Inoltre fa spesso riferimento a Mairan e Buffon, relativamente alle teorie sul calore terrestre. Lui stesso però non dimentica, usando le sue stesse parole, che «nella specie umana, ancora più sensibile che curiosa, più ansiosa di piacere che di istruzione, nulla piace generalmente, o per un tempo maggiore, se lo stile non è piacevole; perché così la secca verità verrebbe uccisa dalla noia!».

Bailly ebbe comunque pochi proseliti. Lo stesso D'Alembert tacciò le sue idee di «povertà» intellettuale, fino a parlare di «idee vuote» e di «vani e ridicoli sforzi». Arriverà addirittura ad appellare Bailly, relativamente a tali lettere, come «frère illuminé» sottintendendo le sue evidenti, e ben poco scientifiche, simpatie metafisiche e mitiche. Voltaire fu, al contrario, ben più gentile e molto accademico nelle sue comunicazioni con Bailly. Il richiamo agli Indiani gli fu caro; ma questo non impedì una discussione proficua sulle prove e le argomentazioni dell'astronomo francese, non sempre soddisfacenti per Voltaire.

Ad oggi si può facilmente dire che in realtà le ipotesi e le congetture di Bailly relative ad Atlantide e al suo antico popolo sconosciuto, creatore di tutte le prime scienze, poggiavano in realtà su fondamenta prive di solidità: all'epoca la comprensione storica e filologica sulle conoscenze astronomiche e scientifiche dei popoli antichi, come gli Indiani e i Cinesi, erano ancora oscure e ben poco esaurienti per poter congetturare ipotesi valide.

Benjamin Franklin

L'incontro con Benjamin Franklin[modifica | modifica wikitesto]

Bailly diventò amico intimo di Franklin al termine del 1777.

Il primo incontro tra i due fu abbastanza strano, almeno secondo i commentatori dell'epoca. Franklin arrivò nel 1777 come ambasciatore americano in Francia: molto probabilmente arrivò con alcuni pregiudizi stereotipati sui francesi (sul loro essere loquaci, pettegoli e chiacchieroni). Franklin alloggiava proprio a Chaillot. Poiché abitava nello stesso comune, Bailly sentì il dovere di visitare un uomo tanto importante. Bailly gli fu annunciato e Franklin, conoscendo la sua reputazione, gli diede cordialmente il benvenuto. Dopo essersi scambiati alcune parole occasionali Bailly si sedette vicino a lui e, con discrezione, iniziò ad aspettare che gli venisse posta una qualche domanda; era passata circa mezz'ora ma Franklin non aveva ancora aperto bocca. Bailly allora prese la sua tabacchiera, e la porse al vicino senza una parola; Franklin con un cenno della mano fece segno di non voler fumare. L'incontro silenzioso continuò un'altra mezz'ora, dopodiché Bailly finalmente si alzò. E mentre l'astronomo francese era sul punto di salutare, Franklin, deliziato di aver finalmente trovato un francese che potesse rimanere in silenzio così a lungo, gli diede la mano e gliela strinse con molto affetto esclamando: «Molto bene, Monsr. Bailly, molto bene!».

L'amicizia perdurò a lungo per tutta la permanenza di Franklin in Francia, fino al 1785. I due continuarono a scriversi lettere, ad incontrarsi, disquisendo di questioni scientifiche e collaborarondo in seguito insieme all'indagine sul mesmerismo.

L'ingresso nell'Accademia Francese[modifica | modifica wikitesto]

In realtà l'ammissione di Bailly all'Accademia Francese fu alquanto problematica. Bailly non vi riuscì per tre volte, prima di essere finalmente ammesso. Egli sapeva per certo che questi risultati a lui sfavorevoli erano effetto dell'aperta ostilità da parte dell'influente D'Alembert. In una delle votazioni per l'ammissione all'Accademia Francese ottenne 15 voti contro, ancora una volta, Condorcet che fu eletto con 16 voti grazie ad una manovra con cui D'Alembert fece avere a quest'ultimo il voto del conte De Tressan, fisico e scienziato. L'opposizione di D'Alembert vessò solamente con la morte di quest'ultimo. Scoraggiato e indispettito, in una situazione avvelenata come questa, Bailly trovò comunque il cordiale supporto dell'amico Buffon.

L' 11 dicembre del 1873 Bailly riuscì d essere però eletto, e fu così nominato membro dell'Académie française al posto proprio di De Tressan, morto nell'ottobre dello stesso anno. Nel medesimo giorno, ne entrò a far parte anche il diplomatico Choiseul-Gouffier che successe a D'Alembert (anch'egli morto nell'ottobre del 1873). Questa contemporanea doppia nomina permise in qualche modo a Bailly di fuggire dalle facili dicerie e dai sarcasmi vari che gli aspiranti accademici non mancavano mai di sfogare contro qualcuno che era riuscito ad ottenere l'ammissione ad entrambe le accademie più prestigiose di Francia (Bailly, già dal 1763 era infatti membro dell'Accademia delle Scienze).

Bailly pronunciò il suo discorso di accoglimento il 26 febbraio del 1784, in cui oltre a celebrare con cortesia i meriti del suo predecessore, De Tressan, disquisisce anche della bontà delle nuove tecnologie che hanno permesso all'uomo di realizzare cose prima considerate impossibili, come volare:

(FR)

«Ce que les sciences peuvent ajouter aux privilèges de l'espèce humaine, n'a jamais été plus marqué qu'au moment où je parle. Elles ont acquis de nouveaux domaines à l'homme. Les airs se spèce humaine, n'a jamais été plus marqué qu'au moment où je parle. Elles ont acquis de nouveaux domaines à l'homme. Les airs semblent lui devenir accessibles comme les mers, et l'audace de ses courses égale presque l'audace a de sa pensée. Le nom de Montgolfier, ceux des hardis navigateurs de ce nouvel élément, vivront dans les âges. Mais qui de nous, au spectacle de ces superbes expériences, n'a pas senti son âme s'élever, ses idées s'étendre, son esprit s'agrandir?»

(IT)

«Ciò che le scienze possono aggiungere ai privilegi della specie umana non è mai stato più marcato che in questo momento. Esse hanno acquisito nuovi domini per l'uomo. L'aria sembra diventare accessibile a lui come le acque, e l'audacia delle sue imprese equivale quasi l'audacia dei suoi pensieri. Il nome dei Montgolfier, i nomi di questi arditi navigatori del nuovo elemento, vivranno nel tempo. Ma chi di noi, nel vedere questi splendidi esperimenti, non ha sentito la sua anima elevarsi, le sue idee espandersi, la sua mente allargarsi?»

La rottura con Buffon[modifica | modifica wikitesto]

Georges-Louis Leclerc de Buffon

Un'intima relazione d'amicizia era nata tra il naturalista Buffon e Bailly. Anche se in realtà Jacques-André Naigeon, spesso critico e severo nei confronti di Bailly[35] fa riferimento al rapporto tra i due come ad una relazione di subordinazione piuttosto che una vera amicizia insistendo sulla spudorata adulazione di Bailly verso l'insigne naturalista.[36]

In ogni caso questa intima relazione fu rovinata definitivamente nel dicembre 1784 per una questione quantomeno futile: una nomina all'accademia. C'era un posto vacante, lasciato libero a seguito del decesso di Lefranc de Pompignan, e Buffon avrebbe voluto nominare l'abate Maury; Bailly invece avrebbe preferito votare il poeta comico Sedaine. Per Bailly l'abate era troppo giovane, mentre Sedaine aveva ormai compiuto sessantasei anni. Inoltre l'alto comportamento, e l'irreprensibile condotta di Sedaine difficilmente poteva essere messa in confronto con quel poco che si sapeva della vita pubblica e privata del futuro cardinale.

Da dove derivava tutto questo affetto da parte di Buffon verso Maury e questa violenta antipatia contro Sedaine non è mai stato ben compreso. Arago fa riferimento a possibili pregiudizi di classe: è plausibile cioè che il conte di Buffon, di ben nobili origini, fosse ripugnante all'idea che un uomo di umili origini come Sedaine, in precedenza tagliatore di pietre e per di più figlio di un architetto squattrinato, potesse entrare a far parte di un'accademia di simile caratura. Lo stesso Arago fa notare che Buffon citava continuamente un aforisma, di cui sembrava orgoglioso: «Lo stile fa l'uomo». Ebbene Sedaine, la pensava esattamente in maniera opposta: «Lo stile è nulla, o giù di lì».

Bailly resistette fermamente alle imperiose sollecitazioni del suo, ormai, ex-protettore, e rifiutò anche di assentarsi dall'accademia nel giorno della nomina. Bailly non esitò a sacrificare le attrazioni e i vantaggi di un'amicizia illustre per attuare quello che, secondo Arago, lui sentiva come un «dovere»: ovvero dare il suo voto a Sedaine. Si dice che Bailly abbia risposto all'esclamazione di Buffon «Non ci vedremo mai più, signore.» con queste parole: «Allora sarò libero!».

Al termine delle votazioni comunque l'abate Maury risultò eletto: fondamentale fu per lui proprio l'appoggio di Buffon e della corte nobiliare, che riuscirono a convogliare verso di lui la maggioranza dei voti. Certamente, quasi tutti i commentatori fanno notare come sia stato ben strano che, per una questione così mera, si fosse rotta una tale relazione di amicizia, non si sa quanto effettivamente sentita, eppure certamente vantaggiosa per Bailly (considerando l'ampia influenza culturale e accademica di Buffon). Ciò ha portato alcuni ad ipotizzare che dietro una rottura così forte e definitiva ci siano state ben altre ragioni, certamente più profonde ma finora sconosciute.

Indagine sul mesmerismo (magnetismo animale)[modifica | modifica wikitesto]

Franz Anton Mesmer

All'inizio del 1778, il medico e fisico tedesco Franz Mesmer si era stabilito a Parigi. Era considerato — scrive Arago — «una persona strana». Il suo governo lo aveva espulso: gli erano stati imputati atti di singolare ciarlataneria e eccessiva sfrontatezza.

Il suo successo, comunque, superò tutte le aspettative. Arago ironicamente scrive che addirittura «Gluckisti e Piccinniani si dimenticarono delle rispettive differenze per occuparsi esclusivamente del nuovo arrivato».[37]

Mesmer reputava di aver scoperto un agente fisico, un "fluido universale", comune a tutti i corpi animati, ancora totalmente sconosciuto alla scienza. Inizialmente chiamato "gravitazione animale", il fluido fu poi più precisamente definito magnetismo animale, quando Mesmer ne osservò le analogie con le caratteristiche del magnetismo delle calamite.

Affermava inoltre che le sue mani avessero uno speciale potere curativo e fossero paragonabili a dei magneti. Concluse che, non essendo egli un magnete, il suo magnetismo non poteva che essere provocato da questo "fluido universale", di cui lui doveva essere eccezionalmente dotato. Il fluido che diceva di possedere non gli proveniva comunque dalla manipolazione dei magneti ma era un suo potere personale: del resto, il suo valletto Anton, che manipolava i magneti quanto lui, non possedeva il medesimo potere curativo in quanto i malati non provavano sollievo dalla sua vicinanza.

Dopo anni di sperimentazione diretta Mesmer giunse, quindi, ad una conclusione: le malattie erano provocate nei malati, da una distribuzione caotica e discordante del "fluido universale" nel corpo. Curare non significava altro che ristabilire il flusso, “riarmonizzarlo” e la terapia, facendo leva sull'esistenza di persone eccezionalmente dotate di questo fluido (come Mesmer), ripristinava questo equilibrio attraverso una crisi violenta e convulsiva senza la quale non ci sarebbe stata alcuna guarigione (spesso i pazienti cadevano in vere e proprie trance ipnotiche).

Mesmer disse: «Il magnetismo animale può essere accumulato, concentrato, trasportato senza l'ausilio di un corpo intermedio. Si riflette come la luce; i suoni musicali lo propagano e lo aumentano».

Delle proprietà così distinte, così precise, dovevano comunque essere verificate sperimentalmente. Mesmer era preparato a eventuali insuccessi e non mancò di trascurare dei dettsgli fondamentali nella sua teoria per giustificarsi. Quanto segue fu — secondo Arago — un'altra sua dichiarazione: «Anche se il liquido è universale, tutti i corpi animati non lo assimilano in loro stessi in modo uguale. Anzi ci sono alcuni - pochi in realtà - che, per la loro stessa presenza distruggono gli effetti di questo fluido nei corpi circostanti». In pratica Mesmer, ammettendo la possibilità che esistessero corpi col potere di neutralizzare il fluido, poteva difendersi nel caso in cui le evidenze sperimentali appurassero l'invalidità delle sue teorie. Nulla, in effetti, gli impediva di annunciare, in piena sicurezza: «che il magnetismo animale può immediatamente curare le malattie nervose e, in parte, le altre malattie; anche che è consentito ai dottori possedere i mezzi per giudicare con certezza l'origine, la natura e il progresso della maggior parte delle più complicate malattie; e che la natura, in breve, offre nel magnetismo un mezzo universale per curare e preservare il genere umano».

Prima di uscire da Vienna, Mesmer aveva comunicato le sue nozioni sistematicamente a tutte le principali accademie scientifiche europee. L'Académie des sciences di Parigi, e la Royal Society di Londra, si dissero «incapaci di rispondere appropriatamente». L'Accademia di Berlino invece, esaminando il lavoro, scrisse a Mesmer che egli era «in errore».

Qualche tempo dopo il suo arrivo a Parigi, Mesmer provò ancora a mettersi in contatto con l'Académie des sciences. La società accettò un appuntamento. L'appuntamento si fece: Bailly e gli altri accademici, trovandosi di fronte a quelle che considerarono «semplici parole vuote», richiesero a Mesmer degli esperimenti seri per verificare la sua teoria. Come scrive Arago, Mesmer rispose loro che per lui sarebbe stato «un gioco da ragazzi». E la conferenza si chiuse.

L'infatuazione del popolo francese per le presunte cure di Mesmer intanto diventava estrema: tanti volevano essere magnetizzati. I collaboratori di Mesmer furono visti da un capo all'altro del regno. I magnetizzatori, ovvero coloro che possedevano il potere curativo, avevano avuto da Mesmer l'ordine di dire che le crisi mesmeriche non potevano manifestarsi in tutti, ma solo in persone abbastanza "sensibili" emotivamente. Da quel momento, per non essere inclusi tra gli "insensibili", molti uomini e molte donne, durante le sedute, racconta Arago «iniziarono a voler sembrare degli epilettici». Tra i grandi sostenitori delle teorie di Mesmer, che si rivolsero a lui per avere delle cure, ci furono lo scrittore ed esoterista Court de Gébelin (che morì proprio mentre era in cura), il monaco e bibliotecario Charles Hervier e il filosofo e avvocato Nicolas Bergasse.

In generale però la comunità scientifica e medica parigina era più che scettica sulle ipotesi di Mesmer. Irritato dal fatto che le sue teorie fossero state rifiutate dalle accademie francesi Mesmer abbandonò rabbiosamente la Francia, maledicendole un diluvio di malattie da cui solo lui l'avrebbe potuta salvare. Quando però, mentre risiedeva a Spa, Mesmer seppe che un suo discepolo, Deslon, stava continuando i trattamenti magnetici a Parigi, decise di tornare in tutta fretta. Molti suoi sostenitori lo accolsero con entusiasmo, e pagarono a testa 100 luigi d'oro in cambio dei suoi «segreti» curativi, che si impegnavano a non divulgare. Ciò permise a Mesmer di accumulare immediatamente 400'000 franchi. Tra questi sostenitori, troviamo anche Lafayette, de Ségur e d'Eprémesnil.

Mesmer abbandonò la Francia una seconda volta, in cerca comunque di un governo «più illuminato», che potesse apprezzare la sua «mente superiore». Lasciò comunque un gran numero di tenaci e ardenti adepti. Uno di questi fu proprio Deslon che invocò al ministro la nomina di una Commissione che finalmente accertasse il magnetismo animale, attraverso l'applicazione di quelle metodologie scientifiche che Mesmer aveva sempre disdegnato.[38]

Il 12 marzo 1784 si inseduò la Commissione Reale composta da quattro membri della Facoltà di Medicina della Sorbona, Jean François Borie, il professor Charles Louis Sallin, il chimico Jean d'Arcet e il medico Joseph-Ignace Guillotin (celebre inventore della ghigliottina) e cinque membri dell'Accademia delle Scienze, il fisico Jean-Baptiste Le Roy, Benjamin Franklin, lo scienziato e ufficiale della Marine royale Gabriel de Bory, il chimico Antoine-Laurent de Lavoisier e Bailly, che presiedette la Commissione.[38][39] Bailly fu chiamato alla comissione come esperto di astronomia, perché la teoria di Mesmer, per spiegare alcune particolari proprietà del fluido magnetico, prevedeva non meglio precisati influssi astrali.[40] A Bailly fu inoltre affidato il compito di redigere il rapporto finale della Commissione sugli esperimenti tenuti. Poiché Borie morì all'inizio dei lavori della Commissione, il re Luigi XVI scelse Majault, un altro dottore della Facoltà di medicina, per rimpiazzarlo.[41]

Il barone di Breteuil, allora secrétaire d'État, per ordine del Re, il 5 aprile dello stesso anno, nominò una seconda commissione composta da cinque membri della Société royale de médecine: Pierre-Isaac Poissonnier, professore del Collège royale e consulente medico del re; Charles-Louis-François Andry, medico-reggente della facoltà di Parigi; Pierre Jean Claude Mauduyt de La Varenne, medico e naturalista; il medico Caille; e il botanico Antoine-Laurent de Jussieu.[38] La relazione della commissione, scritta da Bailly e firmata da tutti i commissari, apparì nell'agosto del 1784.[38] Si trattava di un opuscolo di 74 pagine, che procedeva per paragrafi distinti in cui la commissione, dopo aver preso in considerazione sia gli aspetti teorici che quelli pratici del mesmerismo, arrivava ad una conclusione netta e definitiva, frutto non tanto di un giudizio aprioristico, ma anzi conseguenza diretta delle loro esperienze dirette, di numerose osservazioni e deduzioni.[38] Bailly, come redattore, descrisse con dovizia di dettagli tutti e 16 gli esperimenti tenuti con Deslon nel tentativo di confermare o smentire le tesi mesmeriche.[38]

La questione venne esaminata sotto tutti gli aspetti, cioè dal lato fisico, fisiologico, medico e morale. La Commissione recatasi nell'Istituto del signor Deslon, trovò alcuni malati tranquilli, mentre altri agitati e in preda alle convulsioni. Quando stando intorno al baquet qualcuno incominciava ad essere preso dalle convulsioni, anche gli altri ne soffrivano poco dopo, quasi volessero imitarli inconsapevolmente.[42] Ogni tanto qualcuno gridava e si agitava con dei moti precipitati ed involontari delle estremità.[42] Molti si lamentavano di uno stringimento alla gola, di vampe di calore, di sensazione di caldo o di freddo. I malati stavano legati in cerchio attorno al baquet, fino a che non scoppiava la crisi. Dopodiché, erano lasciati liberi. Quelli che per simpatia si sentivano più attratti si precipitavano nelle braccia l'uno dell'altro, nello stato di una esaltazione morbosa, piangendo e ridendo convulsi. E tutti erano soggetti alla volontà del magnetizzatore che con un cenno li separava o li faceva abbracciare.[38][42] Quando i fenomeni diventavano troppo gravi e tali che il magnetizzatore non poteva più dominarli, vi era una sala imbottita con dei materassi in terra e alle pareti, la così detta Salle des crises ("sala delle crisi").[42] I membri della Commissione si erano fatto preparare un baquet dal signor Deslon e provarono anch'essi a sperimentare la cura mesmerica stando per ore davanti alle spranghe di ferro senza però provare alcun effetto.[42] Per scrupolo, Bailly e gli altri vollero tenere sedute anche per tre giorni consecutivi, due ore e mezzo ogni giorno, ma nessuno di loro sentì un qualche fenomeno che potesse attribuirsi al magnetismo.[42] Tra l'altro parecchie sessioni furono tenute dalla Commissione nella casa di Franklin a Passy, dove venivano condotti gli ammalati, soprattutto quando Franklin stesso era malato. La parte più memorabile della relazione presentata al re Luigi XVI sul magnetismo, è quella nella quale venne confermato l'effetto placebo, dovuto alla elevata suggestionabilità dei pazienti e alla loro immaginazione: si stabilì che i gesti ed i segni, anche quelli più semplici, come degli sguardi particolari dei magnetizzatori, producessero qualche volta degli effetti potenti sulle persone dotate di una grande eccitabilità nervosa.[42] Un altro fatto importante messo in evidenza dalla Commissione, fu che le esperienze di crisi fatte col magnetismo sulle persone da sole in privato, quando queste riuscivano, non erano mai così intense come nelle sedute pubbliche.[42]

Non lasciando nulla al caso la commissione provò tutte le varianti differenti del mesmerismo.[38] Oltre al metodo di Deslon (identico a quello canonico di Mesmer e basato sulle «ventisette proposizioni con cui Mesmer presentò il suo metodo»[38] nel 1779) fu testato anche il metodo di Jumelin, un medico che applicava un magnetismo differente da quello di Deslon e di Mesmer, del quale non si riconosceva allievo. Anche secondo Jumelin esisteva un fluido che circolava nel corpo e che poteva essere trasmesso attraverso le dita o con delle bacchette di ferro, è che non era altro che il calore corporeo che nulla aveva a che fare con polarità magnetiche o influssi astrali.[38] Con il quarto esperimento la Commissione mostra come con il metodo di Jumelin si producessero gli stessi effetti del metodo canonico: otto uomini e due donne che non rispondevano al metodo di Deslon/Mesmer non rispondevano neanche a quello di Jumelin. Una sola donna dimostrava una qualche sensibilità al passaggio della mano del magnetizzatore vicino al volto. Su questa donna i Commissari decisero di dimostrare quanto essa fosse condizionata dalla propria immaginazione. Infatti, una volta bendata, ella non sentiva neanche più il calore in corrispondenza delle parti del corpo sulle quali venivano dirette le dita o le bacchette di ferro; e non solo: la donna bendata provava sensazioni di calore senza alcuna applicazione diretta da parte del medico, rispondendo solo all'idea di essere magnetizzata.[38] La suscettibilità all'immaginazione venne confermata anche dal caso di un bambino. I bambini, che non potevano avere preconcetti, difficilmente avrebbero avuto le stesse reazioni degli adulti proprio perché meno influenzabili, secondo i Commissari. Il bambino in questione, di sei anni, malato di scrofola, infatti si manifestava completamente esente da effetti dopo la seduta, il che non poteva far altro che confermare il fatto che il trattamento, almeno per "pretendere di funzionare" aveva bisogno di una mente sensibilizzata piuttosto che di una semplice e ingenua.[38]

Partendo dall'ipotesi che l'incidenza della immaginazione fosse fondamentale, i Commissari volevano però essere certi che la loro supposizione fosse vera.[38] Molti altri esperimenti infatti si proponevano di sperimentare gli effetti dell'immaginazione dei pazienti sui pazienti stessi.[38] Raccontando l'esperienza di una donna magnetizzata a cui veniva chiesto da dove sentisse provenire gli effetti magnetici, Bailly scrisse nel rapporto:

«Si può osservare che quando la donna vedeva, collocava le sue sensazioni nel punto magnetizzato; mentre quando non vedeva le collocava a caso, anche in punti distanti da quello dal quale veniva diretto il fluido magnetico. E' stato naturale concludere che l'immaginazione determinasse le sue sensazioni vere o false. La convinzione si è imposta quando si è visto che essendo ben riposata, non sentendo più niente, e avendo gli occhi bendati, questa donna provava tutti gli stessi effetti benché non la si magnetizzasse; ma la dimostrazione è stata completa, quando dopo una seduta di un quarto d'ora, essendosi la sua immaginazione senza dubbio ridotta e raffreddata, gli effetti - invece di aumentare - sono diminuiti al momento in cui la donna è stata realmente magnetizzata.»

Anche il sesto esperimento diede gli stessi risultati: il domestico di Jumelin, bendato con una maschera speciale che non lasciava entrare neanche la luce, convinto di ricevere il magnetismo, provava calore quando invece non veniva magnetizzato. Invece non provava nulla quando, ancora bendato, gli si passava davanti agli occhi senza dirglielo la bacchetta di ferro. La stessa bacchetta infine provocava in lui dei fremiti quando, sbendato, gli veniva avvicinata. Si arrivò dunque a constatare con una serie di altri esperimenti la quasi assoluta certezza del fatto che fosse l'immaginazione a provocare le crisi.[38]

«I Commissari, soprattutto i medici, hanno svolto infiniti esperimenti su diversi soggetti, che loro stessi hanno magnetizzato o ai quali è stato fatto credere che fossero magnetizzati. Essi hanno magnetizzato indifferentemente, a poli opposti, o a poli diretti o al contrario. e in tutti i casi hanno ottenuto gli stessi risultati: non vi è stata in tutte queste prove altra differenza che quella delle immaginazioni più o meno sensibili. Si sono dunque convinti che la sola immaginazione poteva produrre differenti sensazioni, e far provare dolore, calore in tutte le parti del corpo, e hanno concluso che essa ha necessariamente molta parte negli effetti attribuiti al magnetismo animale.»

Il settimo esperimento, quello dell'"albero magnetizzato" fu probabilmente il più stringente: fu sottosposto dallo stesso Deslon al vaglio di Benjamin Franklin e di Bailly.[38] Deslon condusse al cospetto dei commissari un giovane di dodici anni, da lui prescelto come soggetto particolarmente sensibile. Deslon magnetizzò uno dei quattro alberi presenti mantenendovi la bacchetta di ferro in contatto e il ragazzo, con gli occhi bendati, venne spinto ad abbracciare ciascuno degli alberi. La crisi - tale da avere addirittura una perdita di coscienza - però avvenne accanto ad uno tra gli alberi non magnetizzati.[38]

«Il risultato di questo esperimento è interamente contrario al magnetismo. [...] Se il ragazzo non avesse sentito nulla, anche sotto l'albero magnetizzato, si sarebbe potuta trovare la scusante che egli non era abbastanza sensibile, almeno quel giorno; ma il ragazzo è piombato in crisi sotto un albero che non era stato magnetizzato; ciò di conseguenza è un effetto che non ha alcuna causa fisica esterna, e che non ne può avere altra che l'immaginazione. L'esperimento dunque è del tutto conclusivo: il ragazzo sapeva che lo si conduceva ad uno tra gli alberi magnetizzati; la sua immaginazione si è attivata, successivamente esaltata, e al quarto albero essa è stata spinta al punto necessario per produrre una crisi.»

L'ottavo e il nono esperimento diedero lo stesso risultato, infatti: nell'ottavo, ad esempio, ad una donna bendata fu fatto credere da tre commissari che Deslon la stesse magnetizzando, così ella piombò progressivamente in crisi senza che però fosse stata magnetizzata.[38]

«Gli esperimenti riferiti sono uniformi e ugualmente decisivi: essi autorizzano a concludere che l'immaginazione è la vera causa degli effetti attribuiti al magnetismo. Ma i partigiani di questo nuovo agente rispondono che forse l'identità degli effetti non prova sempre l'identità delle cause. Essi concedono che l'immaginazione possa attivare queste impressioni senza il magnetismo; ma essi sostengono che il Magnetismo possa anche sollecitarle senza di essa. I Commissari sono in grado di distruggere facilmente questa asserzione con il ragionamento e attraverso i principi della fisica: il primo di tutti è non ammettere nuove cause senza una necessità assoluta. Poiché gli effetti osservati possono essere stati prodotti da una causa esistente, e che altri fenomeni hanno già manifestato, la sana fisica insegna che gli effetti osservati devono essere attribuiti ad essa; e qualora si dichiari di aver scoperto una causa fino ad allora sconosciuta, la sana fisica esige ugualmente che essa sia stabilita, dimostrata a partire da effetti che non appartengono ad alcuna causa conosciuta, e che non possano essere spiegati che attraverso una nuova causa. Toccherà dunque ai Partigiani del Magnetismo di presentare altre prove, e a cercare degli effetti che siano interamente privi delle illusioni dell'immaginazione.»

In generale tutti gli esperimenti erano coerenti e decisivi: provavano che l'immaginazione era sufficiente a produrre gli effetti attribuiti al magnetismo.[38] Anzi, provano addirittura che il Magnetismo non producesse nulla senza l'immaginazione: era il caso di una lavandaia che, come viene raccontato nel quattordicesimo esperimento, era già stata sottoposta a delle sedute magnetiche da Deslon, con manifestazioni eclatanti e crisi.[38] Ella fu collocata in una stanza comunicante - attraverso una porta - ad un'altra stanza nella quale un medico esperto di magnetismo, attraverso la porta chiusa con un foglio di carta prova a magnetizzarla, seguendo la tecnica di Deslon. La donna, in compagnia di altri commissari che cercavano di intrattenerla, domandandole della sua vita e delle precedenti esperienze col magnetismo.[38] Per una buona mezz'ora la donna, che in passato aveva avuto crisi nervose già pochi minuti dopo la vista di Deslon, venne dunque sottoposta al trattamento magnetico a sua insaputa e senza reagire per nulla al magnetismo sebbene ciò che la separasse dal fluido fosse un semplice foglio di carta, ostacolo facilmente superabile secondo la dottrina di Mesmer.[38]

In realtà sono tre le cause principali che la commissione trova per spiegare gli effetti pseudoterapeutici del trattamento mesmerico, ovvero: la manipolazione, l'imitazione e l'immaginazione.[38] Per la commissione infatti, almeno da un punto di vista fisico, le crisi erano in parte collegate alle manipolazioni dei magnetizzatori, ovvero alla costante pressione esercitata per un tempo prolungato dalle mani dei magnetizzatori sugli ipocondri e le zone pelviche dei pazienti.[38] Comprimere per quasi due ore l'addome superiore e quello inferiore di soggetti ai quali veniva somministrato (tra l'altro in dosi abbondanti) anche un lassativo come il cremor tartaro - come imponevano i metodi mesmerici - per i Commissari aveva effetti non indifferenti sull'intestino e giustificava le conseguenti evacuazioni ripetute che invece erano suscitate, secondo i mesmeriani, dal magnetismo.[38] Si potrebbe dire che, anche in questo caso, il riduzionismo organicista dei Commissari, riuscì a togliere il velo dall'ennesima mistificazione gestita dai seguaci di Mesmer.[38] Oltre alla manipolazione, l'immaginazione poi distribuiva i suoi effetti più vistosi nei trattamenti pubblici, dove le impressioni e i movimenti venivano comunicati. Anche l'importanza dell'imitazione non sfuggiva ai commissari: l'effetto moltiplicativo delle crisi nelle sedute pubbliche presso i baquet era un aspetto fondamentale del mesmerismo. Esso infatti assieme alle condizioni ambientali, all'aria irrespirabile, alle musiche evocative, alla eccessiva chiusezza dei luoghi, non poteva che agitare l'immaginazione dei pazienti contribuendo significativamente allo scatenamento delle crisi collettive.[38] Addirittura gli effetti del "magnetismo corale" vengono paragonati da Bailly a quegli assembramenti di folle in cui l'esaltazione, come una reazione a catena, diventa collettiva a causa dei comportamenti imitativi e dei contagi trascinanti.[38]

«Si ritrova dunque il Magnetismo. o piuttosto l'immaginazione che agisce nello spettacolo, nell'esercito, nelle assemblee numerose, come intorno al baquet, dove agisce con dei mezzi differenti, ma produce effetti simili. Il baquet è circondato da una folla di malati; le sensazioni vengono continuamente espresse; i nervi, alla lunga si affaticano in questo esercizio e si irritano, e la donna più sensibile dà il segnale. Allora le corde, tese dappertutto nello stesso modo e all'unisono, si collegano e le crisi si moltiplicano; si rinforzano l'una con l'altra, diventano violente. Allo stesso tempo, gli uomini, testimoni di queste emoioni, le condividono proporzionalmente alla loro sensibilità nervosa; e coloro nei quali questa sensibilità è più grande e labile, piombano anch'essi in crisi.»

Senza più dubbi la Commissione potè dunque affermare che manipolazioni, immaginazione e imitazione fossero le «vere cause degli effetti» attribuiti al magnetismo animale.[38] Il fluido mesmerico, questo agente pseudofisico, per la Commissione semplicemente «non esisteva» anche se la stessa Commissione riconobbe che l'idea, per quanto «chimerica» non fosse nuova.[38] Il medico Thouret, del secolo precedente, predicava più o meno le stesse cose di Mesmer.[38] Il magnetismo animale dunque non fu altro che «un vecchio errore», presentato nuovamente con un «apparato più importante, necessario in un secolo più illuminato» eppure «non meno falso». Ai Commissari comunque l'immaginazione sembrava la causa più potente, «la principale delle tre», la «forza attiva e terribile» che operava i «grandi effetti» che si osservavano «con meraviglia» nei trattamenti pubblici. Dalle esperienze si vide che essa era «sufficiente a produrre crisi».[38] La manipolazione, ovvero la pressione, sembrava invece servire da «elemento preparatore»: era con la manipolazione infatti che i nervi incominciavano ad «eccitarsi». Ed infine l'imitazione comunicavano e diffondevano agli altri pazienti le «impressioni» che colpivano i sensi del singolo.[38]

A questo punto Deslon, messo alle strette dalle deduzioni stringenti della Commissione, non poté che riconoscerle e si distanziò – almeno parzialmente – dalle teorie Mesmer iniziando a riconoscere un ruolo primario all'immaginazione come cura terapeutica.[38] La Commissione, però non fu convinta da ciò: pur riconoscendo che l'immaginazione potesse avere effetti positivi, quando essa produceva invece effetti violenti e/o convulsivi era generalmente nociva.[38] I Commissari infatti contrapposero l'immaginazione accoppiata alla speranza di guarire, che determinava uno stato d'animo positivo che aiutava il superamento delle malattie, all'immaginazione attivata dal magnetismo, che invece produceva crisi convulsive «pericolose» e «difficili da controllare». Infatti la Commissione espose dubbi a proposito di un'eventuale diffusione di un utilizzo scriteriato delle crisi mesmeriche, che divenendo abituali, avrebbero potuto danneggiare la vita dei cittadini.[38]

Il rapporto poté essere dunque concluso:

«I Commissari, avendo riconosciuto che questo fluido magnetico animale non può essere percepito da nessuno dei nostri sensi, che esso non ha avuto nessuna azione, né su noi stessi né sui malati; essendosi assicurati che le pressioni e le manipolazioni causano dei cambiamenti raramente favorevoli nell'economia animale, e delle eccitazioni sempre infelici dell'immaginazione; avendo infine dimostrato, con esperimenti decisivi, che l'immaginazione produce convulsioni senza Magnetismo e che il Magnetismo invece, senza immaginazione non produce nulla; hanno concluso, unanimemente, sulla questione dell'esistenza e dell'utilità del Magnetismo, che nulla prova l'esistenza del fluido magnetico animale; che questo fluido senza esistenza è di conseguenza senza utilità; che i violenti effetti che si osservano nel trattamento pubblico, appartengono alla manipolazione, all'immaginazione messa in atto, e a questa imitazione meccanica che ci porta a ripetere ciò che colpisce e impressiona i nostri sensi. E nello stesso tempo i Commissari stessi si sentono l'obbligo di aggiungere, come un'osservazione importante che le manipolazioni, l'azione ripetuta dell'immaginazione, per produrre crisi, potrebbero essere nocive; che lo spettacolo di queste crisi è ugualmente dannoso, a causa di questa imitazione, di cui la Natura sembra averci imposto una legge; e che conseguentemente a ciò l'intero trattamento pubblico dove i metodi del Magnetismo saranno impiegati, non può avere alla lunga, che degli effetti funesti.»

Il rapporto, che si concluse con la firma dei nove commissari, recava poi, in fondo un'ultima postilla per contestare l'eventuale obiezione che qualche seguace di Mesmer avrebbe potuto condurre supponendo che la valutazione fosse stata tenuta più a carico di Deslon e del suo lavoro che non sulla teoria e sul metodo di Mesmer in generale. I Commissari negando ciò categoricamente, non lasciarono dubbi che invece la loro valutazione intendesse essere valida su tutto il metodo di Mesmer, in modo quanto più generale possibile.[38]

Inoltre il 4 settembre 1784, durante la seduta plenaria dell'Académie des sciences, Bailly, in qualità di presidente della I Commissione, lesse un resoconto espositivo - anche a nome di Franklin, Le Roy, de Bory e Lavoisier - sulle esperienze e le conclusioni fatte esaminando tutti i caratteri del mesmerismo.[38] Il resoconto altro non fu, in realtà, che una sintesi discorsiva del Rapporto redatto nell'agosto precedente e dimostrò, inequivocabilmente, quanto il magnetismo fosse stato un fenomeno meditato e approfondito dalla Commissione che non né trascurò affatto l'inquadramento in termini storici, sociali e antropologici.[38]

Un passaggio fondamentale del resoconto di Bailly è quello che prefigura l'avvento di una nuova disciplina scientifica, la psicologia, che lui chiama «scienza» dell'«influenza del morale sul fisico» e che troverà nell'imitazione e nella immaginazione — definite «due delle nostre facoltà più sorprendenti» — oggetti di uno studio scientifico futuro.[38] In effetti proprio il lavoro delle Commissioni è oggi considerato uno dei nuclei iniziale di una scienza psicologica e psichiatrica.[38]

Uno dei seguaci di Mesmer, Puységur, assai più lungimirante del suo maestro, anziché perseguire una battaglia di retroguardia contro la scienza ufficiale e contro i rapporti delle commissioni scientifiche ebbe abbastanza coraggio da riformulare la teoria.[40] Dopo il resoconto critico della commissione reale, Puysegur — accettandone i risultati — pervenne alla conclusione che le terapie magnetiche non si appoggiassero su fenomeni fisici, come fluidi inesistenti, ma avevano natura psicologica come la stessa Commissione aveva evidenziato.[40] Puységur investigò a lungo lo stato psicologico dei soggetti sottoposti alla magnetizzazione e finì per definirlo "sonnambulismo": ormai la teoria di Mesmer era stata completamente sostituita ed ogni legame con il fenomeno pseudo-fisico del magnetismo animale era stato reciso.[40] Nel 1842 il chirurgo inglese James Braid coniò il termine di ipnotismo; così i magnetizzatori divennero ipnotizzatori ed il sonnambulismo divenne ipnosi.[40]

Elezione all'Académie des inscriptions[modifica | modifica wikitesto]

L'Académie des inscriptions et belles-lettres, elesse Bailly come membro nel 1785. Fino ad allora il solo Fontenelle aveva avuto l'onore di appartenere alle tre principali accademie francesi. Bailly si mostrò sempre molto onorato di una tale distinzione, che associava il suo nome a quello dell'illustre scrittore.[43]

Indipendentemente da questo speciale riconoscimento, Bailly comunque, come membro dell'Académie française, potè apprezzare la forte e inspiegabile rivalità che esisteva tra le due società. Questa era iniziata da molto tempo, sin da quando, con una solenne deliberazione, l'Académie des inscriptions decise che chiunque dei suoi membri avesse anche solo cercato di essere accolto all'Académie française, sarebbe stato irrevocabilmente espulso. Quando il re annullò questa deliberazione, comunque quindici accademici vincolarono loro stessi giurando di osservare tutte le precedenti disposizioni dell'accademia; inoltre nel 1783, Choiseul Gouffier, che si insinuava avesse aderito ai principi dei quindici confederati, poiché aveva comunque fatto in modo di essere nominato all'accademia rivale, fu citato in giudizio dall'orientalista Anquetil-Duperron con l'ordine di apparire davanti al Tribunale dei Maréchals de France per non aver rispettato la parola d'onore data.[43]

Fu proprio grazie al regio decreto che Bailly, già membro dell'accademia francese poté entrare, comunque bene accetto, nell'Académie des inscriptions.[43]

I rapporti sull'Hôtel-Dieu e sui mattatoi parigini[modifica | modifica wikitesto]

La relazione sul mesmerismo, non fu l'unica alla quale partecipò Bailly: tra il 1786 e il 1788 l'Académie des sciences costituì due nuove commissioni d'indagine alle quali Bailly partecipò, ovvero quella sull'Hôtel-Dieu e quella sui mattatoi parigini.

In questo caso le relazioni si occupavano di temi sociali molto forti: quella dell'Hôtel-Dieu, ad esempio criticava la gestione sanitaria del più famoso ospedale parigino dell'epoca mentre quella sui mattatoi

La tragica condizione dell'Hôtel-Dieu[modifica | modifica wikitesto]

L'antica facciata meridionale dell'Hotel-Dieu nel 1860 circa.

Nel 1772 l'ennesimo incendio aveva distrutto quasi del tutto l'Hôtel-Dieu, il più antico ospedale cittadino di Parigi, ormai fatiscente. Molti ne furono contenti: la struttura a quel punto o finiva per sempre o andava ricostruito e prima ancora ripensato nelle sue funzioni. Il dibattito sull’assistenza pubblica e su quella ospedaliera era da tempo all’attenzione del Re. Il 17 agosto 1777 un apposito decreto reale sollecitava tutti coloro che si ritenessero portatori di idee nuove ed interessanti a sottoporle al parere di una commissione di esperti; oltre centocinquanta progetti furono presentati ma nessuno di questi fu reso pubblico e le conclusioni furono quelle che l’Hôtel-Dieu rimanesse dove stava ampliandone le dimensioni.[44]

Bernard Poyet, architetto e ispettore edile parigino, presentò al governo nel 1785 un documento in cui si sforzò di stabilire la necessità di rimuovere, per poi costruirne uno nuovo in un'altra zona della città. Questo documento, sottoposto per ordine del re al giudizio dell'Académie des sciences, diede origine, direttamente o indirettamente, a tre deliberazioni. I commissari scelti dall'accademia furono: il medico Joseph-Marie-François de Lassone, Tillet, Darcet, il chirurgo alla Salpêtrière Tenon, il naturalista Louis Jean-Marie Daubenton, Bailly, il fisico Charles Augustin de Coulomb, il matematico Pierre Simon Laplace e il chimico Antoine Lavoisier. Fu Bailly, assieme a Tenon comunque, a scrivere il rapporto.[44][45]

«L'interesse che Bailly mostra nei confronti dei poveri e dei malati fu profondo — scrive Arago — eppure le sue parole sono comunque moderate, piene di gentilezza, anche laddove i sentimenti di rabbia precipitosa e di indignazione sarebbero stati più che legittimi. Ebbene sì, proprio così: rabbia ed indignazione!».[45]

L’inchiesta della Commissione si avvalse innanzitutto di un questionario inviato ai vari ospedali per consentire di rilevare tutta una serie di dati strutturali e statistici: superficie generale, cubatura, lay-out distributivo, numero dei letti, superficie e cubatura delle stanze, funzioni delle stesse, casistiche delle patologie ricoverate, indici di mortalità, costo delle cure erogate, numero degli addetti, tipo di organizzazione in atto, sistemi anti incendio e modalità di selezione del personale.[44][46] Ma il questionario non bastava, ad esso si aggiunsero le ispezioni. E qui scoppiò il conflitto: gli amministratori dell’Hôtel-Dieu non solo non fornirono alcun dato ma rifiutarono l’accesso ai membri della commissione. «Abbiamo richiesto — scrive Bailly — al Consiglio di Amministrazione dell'Ospedale sia di permetterci di esaminare accuratamente la struttura sia di poter usufruire dell'accompagnamento di una guida che avrebbe potuto istruirci e accompagnarci... era per noi fondamentale conoscere tutti i dettagli; l'abbiamo richiesto, ma non abbiamo ottenuto nulla».[45] L'autorità a cui i Commissari si erano rivolti e che colpevolmente non diede alcuna risposta, consisteva in numerosi amministratori che consideravano, come scrive Arago, «i poveri come il proprio patrimonio, che dedicarono ad essi una disinteressata ma improduttiva attività; che erano impazienti di qualunque miglioramento, il germe del quale però non si era che sviluppato solo nella loro mente, o in quella di qualche filantropo». Questi filantropi erano però forse un po' troppo suscettibili, e respingevano qualunque forma di controllo sul loro operato che poteva sembrare un'offesa al loro zelo, al loro buon senso e alla loro capacità di autogestirsi.[45]

Allora toccò al medico Tenon recuperare i suoi antichi studi sull’ospedale dove aveva lavorato in precedenza richiamando alla memoria le sue dirette esperienze.[44] Il quadro che ne venne fuori fu desolante: poca o nulla ventilazione, area mefitica, sale sovraffollate all’inverosimile, tre quattro pazienti in media per letto, in una totale drammatica confusione di patologie e di organizzazione.[44]

Dalla relazione emerse che, nel 1786, all'Hotel-Dieu erano trattate infermità di ogni sorta: malattie chirurgiche, malattie croniche o contagiose, patologie femminili ed infantili ecc... vi erano infermi di tutti i tipi, perciò tutto presentava un'inevitabile confusione. Il paziente che arrivava era spesso lasciato sul letto e sotto le lenzuola infette di un malato appena morto. Inoltre, il reparto riservato ai pazzi era molto piccolo: Bailly racconta che due pazienti malati di mente erano stati messi a dormire insieme. Per i Commissari tutto ciò era disdicevole sia da un punto di vista morale che medico.[45]

Nel reparto di San Francesco, riservato esclusivamente ai malati di vaiolo, c'erano stati a volte, per mancanza di altro spazio, fino a sei adulti o otto bambini disposti anche in un singolo letto largo all'incirca un metro e mezzo.[45] Le donne isteriche erano miste nel reparto di Santa Monica con altre che avevano semplicemente la febbre, e molto spesso queste ultime ne erano inevitabilmente contagiate, nello stesso luogo in cui, paradossalmente, avevano sperato di rimettersi in salute.[45] Le donne con i bambini o quelle confinate, erano ugualmente affollate in letti stretti e infetti. Nel loro stato usuale, i letti dell'Hotel-Dieu, che erano larghi anche meno di un metro e mezzo, contenevano quattro e spesso anche sei pazienti; e le persone erano disposte alternativamente con i piedi di uno che toccavano le spalle del successivo; ognuno aveva in media uno spazio di 25 cm. Bailly e i Commissari fanno a questo punto una serie di calcoli: un uomo di medie dimensioni, sdraiato con le braccia vicine al corpo, occuperebbe in media 48 cm al massimo considerando le spalle. I pazienti poveri quindi non solo non potevano stare comodi all'interno dei letti, eppure erano costretti a sdraiarsi da un lato e a rimanere immobili; nessuno poteva girarsi senza spingere, senza svegliare i suoi vicini. Addirittura i malati erano soliti mettersi d'accordo, almeno finché la loro malattia lo permetteva: alcuni di loro, alternandosi, rimanevano per una parte della notte nello spazio tra i letti, lasciando gli altri a riposare in attesa del loro turno; e succedeva in alcuni casi che queste persone morivano o agonizzavano, per il riacutizzarsi delle loro malattie anche in queste posizioni scomodissime che non facevano altro che rendere ancora più dolorosa la loro agonia.[45]

Ritratto postumo di Bailly.

Ma, come descrive Bailly, non erano solo i letti l'unica fonte di disagio per i pazienti; molti fattori in realtà impedivano loro di poter riposare tranquillamente: l'insopportabile calore ad esempio, facendo sudare notevolmente gli infermi, aveva fatto propagare violente malattie della pelle e spaventosi parassiti; i pazienti febbricitanti, sudando, contagiarono anche i loro vicini. Addirittura ci furono effetti ancor più seri (e ancora più imbarazzanti) a causa della presenza di più malati nello stesso letto: il cibo, le medicine, destinate ad una persona, spesso andavano a finire ad altre persone che non solo non ne avevano bisogno, ma che, così facendo, precludevano ogni possibilità di sopravvivenza a chi invece, di quelle medicine, aveva bisogno. Così nei letti spesso giacevano i morti, anche per ore o giorni interi, mescolati con i vivi. «Questo — scrive Bailly — era il normale stato del fatiscente Hotel-Dieu».[45]

Il rapporto di Bailly descrive anche in che modo e in quali condizioni si tenevano le operazioni chirurgiche. Innanzitutto, i Commissari videro che il reparto chirurgico era pieno di pazienti. Alcune operazioni furono svolte in loro presenza. Bailly scrive: «Lì abbiamo visto la preparazione al tormento; lì si sentivano le urla dei malati. Chiunque avrebbe dovuto operarsi il giorno successivo, aveva di fronte a sé l'immagine delle sue future sofferenze; e intanto chiunque fosse riuscito a passare indenne l'intervento, costretto a rimanere in quel luogo non poteva che spaventarsi nel sentire delle grida così vicine alle proprie. E questo terrore, queste emozioni, lui le sperimentava nel bel mezzo del processo infiammatorio o durante la suppurazione, ritardando così il suo recupero, e mettendo a rischio la sua vita...».[45] «A quale scopo — si chiede con sdegno Bailly — vorreste far soffrire un uomo già sfortunato, se non vi è nessuna possibilità di salvarlo, e se non si aumenta tale probabilità prendendo tutte le precauzioni possibili?».[45]

Anche il confronto con le altre strutture caritatevoli parigine era sfavorevole: «Le malattie si protraevano per il doppio del tempo all'Hôtel-Dieu, se confrontate a quelle del Charité: anche la mortalità era circa doppia! Anche chi subiva la trapanazione del cranio nell'ospedale muore; sebbene questa operazione ha discretamente successo a Parigi, e anche di più a Versailles».[45][47] Anche le donne, in proporzione, morivano molto di più.[45]

Bailly e i Commissari, scandalizzati dalla situazione, si lamentano così nel rapporto, richiamando periodicamente tutte le sinistre constatazioni sull'elevata mortalità dei malati dell'Hôtel Dieu; eppure, anche dopo il rapporto della Commissione, nulla fu alterato nell'amministrazione dell'ospedale. «L'Hotel-Dieu — spiega Bailly — è esistito dal VII secolo e se questo ospedale è il più carente di tutti è proprio perché è il più vecchio. Sin dalla sua nascita, c'è stata la volontà di fare del bene, vi è stato il desiderio di contribuire ad aiutare i malati, e l'essere costanti in ciò è apparso un dovere. Per questo motivo, tutte le utili innovazioni hanno avuto notevole difficoltà ad esservi ammesse. Ogni riforma è difficile: c'è una numerosa amministrazione da convincere; c'è un'immensa massa da smuovere».[45]

L'«immensità della massa», tuttavia, non scoraggiò la Commissione accademica.[45] Le conclusioni della Commissione a questo punto erano scontate ma esse andarono al di là della semplice proposta per la ricostruzione di un nuovo Hôtel Dieu. Quest’ultimo andava chiuso ed al suo posto si sarebbero realizzati quattro nuovi ospedali ma la grande novità stava proprio nella formulazione, in maniera chiara e motivata, dei criteri progettuali sui cui basare la nuova edilizia ospedaliera; criteri che rispecchiavano la serietà e professionalità dei componenti la commissione. Ne derivò così un progetto ideale, in cui ogni scelta che riguardava cubature, superfici, percorsi, servizi, venne analiticamente giustificata alla luce delle esigenze igieniche e funzionali.[44] In sintesi, quello che la Commissione richiedeva era:

  • limitazione dei posti letto per ogni complesso ospedaliero ad un massimo di 1200-1500;
  • scelta edilizia del sistema a padiglioni separati con una distanza minima tra gli edifici doppia rispetto all’altezza dei piani;
  • reparti distinti per uomini e donne garantendo ad ogni malato il proprio letto;
  • disposizione dei letti, nelle corsie, su due file, con un numero massimo di 36 malati per stanza;
  • presenza in ogni infermeria di autonomi servizi (latrine, lavatoi, cucinette, locali per le suore e le infermerie);
  • finestre delle infermerie estese fino al soffitto;
  • scale aperte e ventilate dall’esterno.

Ad onor del vero va ricordato che la proposta dei padiglioni avanzata dalla Commissione dell’Accademia delle Scienze non era originale. Già nel 1754, a Londra, era stato costruito proprio con quei criteri l’Ospedale di Stonehouse.[44] Le esperienze inglesi rimasero però episodi isolati, mentre ben più ampia risonanza ebbero le conclusioni dell’Accademia grazie al crisma di ufficialità scientifica che le caratterizzava. L’Europa intera, tranne qualche eccezione, recepì le novità parigine e la tendenza generale fu quella di costruire nuovi ospedali, ispirati ai moderni criteri, piuttosto che ristrutturare quelli esistenti.[44]

Un altro aspetto non trascurabile che riguarda l’organizzazione assistenziale merita di essere ricordato: la commissione di Bailly volle infatti indagare su come i medici e, in generale, il personale di assistenza garantissero una sorveglianza continua dei malati. Dal 1760 in avanti vi era stata una fioritura di regolamenti ospedalieri che prevedevano, all’interno di una gerarchia medica estremamente articolata, una disciplina severissima.[44] Tale approccio faceva chiaramente riferimento al modello militare che prevedeva una precisa responsabilità dei superiori sui subordinati. In questo inquadramento disciplinare i medici erano obbligati ad una presenza regolare ed assidua nei confronti dei pazienti; dal regolamento generale dei medici operanti presso l’Hotel-Dieu — datato 18 novembre 1771 — all’art. 2 si legge che sarebbe toccato alla direzione ospedaliera scegliere tra i medici «[...] qualcuno che deve risiedere all’interno dell’Hôtel Dieu, dedicandosi completamente alla cura dei pazienti, e che oltre alla normale attività deve assistere i malati sia di giorno che di notte, e negli intervalli in cui mancano gli altri medici»[48] In questo contesto si inseriscono inoltre le infermiere, obbligate a seguire fedelmente le indicazioni dei medici.[44]

Al termine del rapporto Bailly, rivendicando i meriti della sua commissione, scrive: «Ogni pover'uomo può stare adesso in un solo letto, e lo deve principalmente agli sforzi talentuosi, perseveranti e coraggiosi dell'Accademia delle Scienze. Il povero lo dovrebbe sapere, e il povero non lo dimenticherà».[45]

I mattatoi parigini[modifica | modifica wikitesto]

Nonostante i numerosi atti del parlamento, e nonostante i positivi regolamenti della polizia, risalenti a Carlo IX, a Enrico III e ad Enrico IV i mattatoi esistevano ancora all'interno della capitale nel 1788.[49] Per esempio, a l'Apport-Paris, la Croix-Rouge, nelle vie delle macellerie, a Montmartre, a Saint-Martin ecc... Di conseguenza, i buoi e i vitelli spesso venivano spinti in massa anche nelle zone frequentate della città; gli animali spesso cercavano di fuggire, inquietati dal rumore delle carrozze, dai bambini, dagli attacchi o dall'abbaiare dei cani randagi, entravano nelle case o nei vicoli, spaventando le persone, talvolta incornandole, e commettevano gravi danni. Non solo, dei gas fetidi erano emessi dai mattatoi (che si trovavano, tra l'altro in edifici troppo piccoli e mal ventilati); gli avanzi che dovevano essere portati fuori generavano un odore insopportabile; il sangue scorreva attraverso le grondaie del quartiere, con gli altri resti degli animali, e lì avveniva la loro putrefazione. La fusione del sego bovino, un'inevitabile mansione in tutti i mattatoi, diffondeva delle emanazioni disgustose nei dintorni, e provocava un costante pericolo di incendio.[49]

Tutti questi inconvenienti, questo stato repellente delle cose, ridestò nel 1788 la sollecitudine della pubblica amministrazione; il problema fu sottoposto anche questa volta all'Académie des sciences che ricostituì la stessa commissione per l'Hôtel-Dieu: Tillet, Darcet, Daubenton, Coulomb, Lavoisier, Laplace e Bailly. E fu Bailly, come al solito, a scrivere il rapporto della Commissione.[49]

Quando Napoleone, sperando di liberare Parigi dai pericolosi e insalubri mattatoi, decretò la costruzione di più igienici e raffinati mattatoi, trovò che l'argomento era già stato bene esaminato, sotto tutti i punti di vista, nella relazione di Bailly. «Noi chiediamo — scrive Bailly nella relazione — che i macelli siano rimossi e spostati a una certa distanza dal centro di Parigi» ed in effetti essi scomparvero, ma solo con l'avvento di Napoleone e a ben quindici anni di distanza.[49]

Cancellierato all'Accademia Francese e matrimonio[modifica | modifica wikitesto]

Bailly continuò a partecipare agli incontri dell'Accademia Francese e nel 1786 servì un mandato come Cancelliere dell'Accademia. Nel novembre del 1787 sposò una vedova, Jeanne le Seigneur, un'intima amica di sua madre, solo due anni più giovane di lui. Ella era vedova di Raymond Gaye, amico di Bailly.[50]

Madame Bailly, lontana parente di Claude Joseph Rouget de Lisle, autore della Marseillaise, aveva un attaccamento per il marito che sconfinava quasi, scrive Arago, nell'«adorazione».[51]

Lei profuse verso Bailly la più «tenera e affettuosa attenzione». Il successo che la donna avrebbe potuto avere nel mondo della moda dell'epoca grazie alla sua grazia e alla sua bellezza, non la tentavano. Visse in modo quasi del tutto ritirato anche quando il marito iniziò a proiettarsi in politica.[51] Quando Bailly divenne sindaco di Parigi, come moglie del primo cittadino apparve soltanto in un'unica cerimonia pubblica: il giorno della benedizione dei colori dei sessanta battaglioni della Guardia Nazionale da parte dell'arcivescovo di Parigi, dove accompagnò in cattedrale Madame de Lafayette. In quella occasione, come racconta Arago, lei disse: «Il dovere di mio marito è quello di mostrarsi in pubblico, ovunque ci sia qualcosa di buono da fare o ovunque ci sia qualche buon consiglio da dare; il mio dovere è invece rimanere a casa».[51] Questo condotta di vita da parte di Madame Bailly, così rara nell'alta società dell'epoca, non disarmò comunque le satire di alcuni libellisti parigini. Molti testi sarcastici l'attaccavano continuamente, minandone la tranquillità. Quella che pareva infatti una donna bella ed elegante, che evitava la società, non poteva che essere presa di mira come «ignorante e stupida». Da qui sorsero un migliaio di storie immaginarie, in parte anche ridicole, date in pasto quotidianamente al pubblico.[51]

La Rivoluzione[modifica | modifica wikitesto]

Agli inizi della Rivoluzione Francese, era nato il Musée des monuments français (oggi Musée national des Monuments Français), aperto dal medievalista francese Alexandre Lenoir. Grazie al sostegno di Bailly, Lenoir poté richiedere con successo che tutte le opere artistiche di proprietà dello Stato venissero riunite nel museo per la loro salvaguardia. Molte opere allora furono confiscate a diverse case religiose e conservate in quel solo luogo per evitare la loro dispersione e la eventuale distruzione.

Fino ad allora comunque l'unica partecipazione ufficiale di Bailly negli affari politici prima del 1789 di cui si ha traccia è la sua firma collegata a un mémoire à consulter, redatto nel dicembre 1788, e che aveva posto il problema di come ridare a Parigi una giusta rappresentanza negli Stati Generali.[52] Il mémoire fu sottoposto a un gruppo di eminenti avvocati parigini che esaminò il background storico dei metodi elettorali della città. Il loro parere fu scritto in un memoriale al re chiedendo la restituzione degli antichi diritti elettivi della città per una libera elezione dei deputati parigini.[53] Nei mesi che seguirono l'annuncio di Necker della convocazione degli Stati generali, Parigi era sospesa in uno stato di animazione, interrotto a tratti da esplosioni di disordine. Un fiume di opuscoli e pamphlet inghiottì la città, infiammando gli animi frastagliati della popolazione semi-affamata. Il governo e il parlamento erano ugualmente inefficaci nel sopprimere le pubblicazioni illegali. La città fu resa ancora più inquieta dalla politica apparentemente deliberata, eppure notevolmente ottusa, del governo di rinviare qualsiasi azione sulle modalità elettive dei deputati all'interno della città.[54] In assenza di un qualsiasi pronunciamento definitivo da parte del governo, si verificarono mesi di amari litigi legati a questioni di competenza e di giurisdizione tra il prevosto dei mercanti, che rappresentava il governo municipale, e il prevosto di Parigi, che era invece l'organo del ministero. Il metodo di elezione nelle province era stato decretato già alla fine di gennaio, ma Parigi continuò a restare nell'incertezza fino a due regi decreti nel marzo e aprile 1789, in cui fu finalmente stabilito il metodo di elezione all'interno della città stessa. Avendo ricevuto gli ordini del governo, a Parigi si incominciò in fretta ad organizzarsi per le elezioni. La città fu divisa in distretti dai quali si selezionavano i delegati per l'assemblea elettorale del Terzo Stato di Parigi. La mattina del 21 aprile 1789, Bailly entrò nel convento della congregazione cistercense dei Foglianti in Rue Saint-Honoré, il principale luogo d'incontro del suo quartiere, e lì inaugurò la sua carriera politica.

«Quando mi sono trovato in mezzo dell'assemblea distrettuale, ho sentito che stavo respirando aria nuova. E' stato qualcosa di completamente nuovo il far parte dell'ordine politico... con gli Stati Generali finalmente ogni singolo francese poteva avere un'influenza, certamente remota, ma comunque un'influenza, ottenuta per la prima volta dopo un secolo e mezzo.»[55]

Bailly fu uno dei candidati scelti per rappresentare il suo distretto nell'assemblea dei delegati, che avrebbe dovuto scegliere, tra i suoi appartenenti, i deputati parigini per il Terzo Stato presso gli Stati Generali.

Bailly entrò nell'assemblea dei delegati parigini con trepidazione ma anche con un forte senso di insignificanza: «Mi consideravo quasi del tutto sconosciuto in questa Assemblea, dove conoscevo poco più di otto o dieci persone».[56] Durante il primo confronto su una questione, Bailly, per sua stessa ammissione, attese timidamente «di conoscere l'opinione della maggioranza e degli spiriti moderati...»[57] Bailly notò una certa antipatia nell'assemblea verso gli uomini di lettere e gli accademici. Qualunque fossero i rancori o i pregiudizi sentiti dai membri dell'assemblea verso degli scienziati in generale, comunque, di sicuro scomparvero nei confronti di Bailly. Infatti, nel ballottaggio per eleggere i funzionari dell'assemblea, Bailly arrivò secondo dietro al solo Gui-Jean-Baptiste Target per il ruolo di presidente e fu scelto segretario con un margine schiacciante.[58]

Bailly fu quindi incaricato di scrivere il procès-verbal dell'assemblea, un dovere che eseguì fino alla sua partenza per Versailles il 21 maggio, dove - eletto deputato - avrebbe iniziato anche lui a partecipare le sedute degli Stati Generali. Infatti, quando l'assemblea dei delegati scelse la sua rappresentazione per gli Stati Generali, Bailly fu nominato come primo deputato per il Terzo Stato di Parigi. Gli altri diciannove membri della delegazione furono rapidamente nominati, e si presentarono frettolosamente a Vesailles. Curiosamente, fu attraverso un involontario errore di Bailly, allora segretario, che omettendo un decreto dell'assemblea dal rapporto che stava scrivendo, permise all'abate Emmanuel Joseph Sieyès di avere i requisiti necessari per essere scelto come ultimo deputato a rappresentare il Terzo Stato per Parigi (sebbene fosse un esponente del clero), e ciò permise poi a Siéyès di giocare il suo ruolo nell'Assemblea Nazionale.[59][60]

Fu eletto deputato parigino nelle file del Terzo Stato alle elezioni per Assemblea costituente il 12 maggio 1789, il 3 giugno presidente del Terzo Stato e il 17 giugno presidente dell'Assemblea nazionale.

Il 20 giugno fu il primo a prestare giuramento nella Sala della Pallacorda e tre giorni dopo rifiutò la pretesa di Luigi XVI di sciogliere l'Assemblea.

Il 15 luglio 1789 fu eletto sindaco di Parigi e ricevette critiche di conservatorismo rivoltegli da Camille Desmoulins e Jean-Paul Marat.

Dopo la fallita fuga del re del 21 giugno 1791, si oppose alla richiesta di decadenza del re e, a richiesta dell'Assemblea, represse sanguinosamente le agitazioni popolari del 17 luglio 1791. Crollata la sua popolarità, si dimise il 12 novembre da tutte le cariche e si ritirò a Nantes.

Arrestato a Melun nel luglio 1793 e chiamato a testimoniare nel processo contro Maria Antonietta, difese la regina.

Il processo contro Bailly si concluse l'11 novembre 1793 con la sentenza di morte e la ghigliottina fu innalzata il giorno dopo sul Campo di Marte, dove i soldati avevano sparato, su suo ordine, sulla folla. In quel giorno di pioggia e di freddo, si dice che alla domanda del boia: «Tremi, Bailly?» rispondesse: «Sì, ma di freddo».

La sua Histoire de l'Astronomie, opera letteraria più che scientifica, gli aprì le porte dell'Académie française grazie alla raccomandazione, nel 1783, dell'amico Buffon, e malgrado l'opposizione di d'Alembert. Non fu rimpiazzato subito dopo la sua morte, ma solo nel 1803, da Emmanuel Joseph Sieyès. Arago pronunciò il suo elogio all'Accademia delle scienze nel 1844.

Bailly venne sepolto in una fossa comune del vecchio Cimitero della Madeleine.

Posizioni politiche[modifica | modifica wikitesto]

Grazie al materiale contenuto nelle sue Mémoires, abbiamo alcune informationi sulle visioni politiche di Bailly alla vigilia della Rivoluzione francese. Egli fu di sicuro profondamente influenzato dalle teorie politiche dell'Illuminismo. André Morellet elenca Bailly come uno dei membri più fortemente rivoluzionari dell'Accademia di Francia (anche se va detto che le dichiarazioni di Morellet erano comunque influenzate dalle sue tendenze ultramonarchiche).[61]

Bailly era certamente insoddisfatto dell'autocratica ed irresponsabile monarchia francese. Oltre ad essere estremamente critico nei confronti del ministro delle Finanze Brienne e del controllore generale Calonne, Bailly rimproverò l'Assemblée des notables che si era riunita nel 1787 per il fatto che si era preoccupata solo dei propri privilegi ed interessi.

Bailly esaltò solo successivamente Necker e il re, Luigi XVI, come gli uomini responsabili per aver chiamato gli Stati Generali, e, quindi, per aver fornito alla nazione francese i mezzi per recuperare i propri diritti. Il suo ideale politico, che continuò ad avere durante tutto il periodo rivoluzionario, era la monarchia costituzionale, con un'autorità divisa tra il re e un'assemblea rappresentativa.

Anche se Bailly continuava a pronunciarsi sulla necessità di una riforma del sistema politico, egli era intimo con molti uomini influenti negli ambienti di corte e con i membri degli Stati privilegiati che favorirono il perpetuarsi dell'ancient régime.Il re stesso, Luigi XVI, lo conosceva e quando fu informato della sua elezione agli Stati Generali, espresse la sua soddisfazione per la scelta di un uomo così onesto.[62] L'abate Maury, membro ultraconservatore dell'Assemblea nazionale, era in buoni rapporti con Bailly e gli suggerì di unire le forze quando entrambi furono eletti agli Stati Generali.[62] Villedeuil, ministro di stato, e Breteuil, che sostituì Necker per alcuni giorni durante la presa della Bastiglia, erano entrambi inclusi nel cerchio delle amicizie di Bailly.[62]

Una visione più approfondita della carriera di Bailly nel periodo prerivoluzionario rivela comunque un uomo fortemente legato alla monarchia e ben poco incline a demolirla. Ad esempio, quando gli fu chiesto di contribuire ad alcune voci della Encyclopédie, rifiutò per il fatto che il governo si oppose al progetto.[63] Nei suoi scritti egli era sempre molto circospetto e fu accusato a più riprese di debolezza e di servilismo verso l'autorità.[63] Quando la sua Histoire de l'astronomie fu attaccata come un lavoro anti-cristiano, il governo francese balzò in difesa di Bailly e ordinò al giornalista di ritirare la sua accusa.[63] Il favore del governo permise a Bailly di ottenere una posizione minore nel governo municipale di Parigi nel 1777.[64] Ci sono state indicazioni di pressione da parte della corte nella sua elezione all'Académie française, ed ottenne l'appartenenza alla Académie des inscriptions et belles-lettres attraverso decreto reale.[63] Inoltre Bailly ereditò dal padre la carica di custode della collezione d'arte reale, e quando quell'ufficio fu soppresso nel 1783, Bailly comunque continuò a ricevere una pensione annua di 1600 lire, che rappresentava l'ammontare dei ricavi dall'ufficio. Ha anche ricevuto un'altra rendita pari a 2400 lire all'anno per i suoi "meriti scientifici".[65] Dal 1787, Bailly fu ufficialmente accolto nella corte, col titolo di segretario della Contessa di Provenza.[66]

Posizioni filosofiche[modifica | modifica wikitesto]

Bailly e il concetto di "rivoluzione scientifica"[modifica | modifica wikitesto]

Il concetto di "rivoluzione scientifica" che si svolge per un periodo prolungato emerse nel XVIII secolo proprio nei lavori di Bailly, che lo interpretò come un processo a due fasi: una prima, ovvero spazzare via il vecchio; una seconda, ovvero fondare il nuovo.[67]

Gli scritti di Bailly pubblicati nel decennio antecedente alla Rivoluzione francese mostrano il grado che il concetto di "rivoluzione" aveva raggiunto nelle scienze, ovvero quella forma in cui, con delle variazioni, continuò ad essere percepito anche nel XIX secolo.[67] Nella sua Histoire de l'astronomie moderne Bailly descrive rivoluzioni scientifiche di ogni sorta e grandezza. Queste variano dall'ambito delle innovazioni rivoluzionarie nella progettazione e nell'uso dei telescopi, fino all'elaborazione del sistema copernicano e alla filosofia naturale di Newton.[67] A proposito degli ammodernamenti tecnici dei telescopi Bailly aveva in mente i miglioramenti dovuti all'aggiunta del mirino e, soprattutto, l'uso di calibri ad alta precisione come i micrometri, risalenti agli inizi del XVII secolo.[67]

A proposito di ciò Bailly scrive:

(FR)

«Cette perfection ajoutée aux instrumens, cette exactitude dans la pratique, influa sur toutes les observations, et d'une manière assez marquée pour produire une révolution. [...] Cette révolution, l'idée de cette application heureuse, fut, selon les uns, le bienfait de Picard et d'Auzout.»

(IT)

«Questa perfezione raggiunta dagli strumenti, questa precisione nella pratica, influenzò tutte le osservazioni in maniera abbastanza marcata da produrre una rivoluzione. [...] Questa rivoluzione, l'idea di questa applicazione felice, fu dovuta, secondo alcuni, alla bravura di Picard e d'Auzout.»

Nel passaggio Bailly loda gli astronomi Jean-Felix Picard, per l'invenzione del micrometro, e Adrien Auzout per i miglioramenti ad esso apportati.[67]

Bailly discute delle rivoluzioni del passato e della sua epoca, prefigurando anche rivoluzioni future.[67] In realtà Bailly non predisse alcuna rivoluzione in larga scala ma solo piccole rivoluzioni: in primo luogo l'introduzione di nuovi strumenti e di nuovi metodi computazionali (che riducessero al minimo le approssimazioni) — riprendendo quello che era già stato il sogno di Leibniz per i calcolatori — e l'invenzione di nuovi metodi di integrazione.[67] Non solo, Bailly predisse che prima o poi si sarebbe costruito un moderno rimpiazzo per l'orologio a pendolo.[67]

Nel lavoro di Bailly c'è un concetto, chiaramente elaborato, di una rivoluzione a "due fasi", applicabile alle rivoluzioni scientifiche in larga scala, in cui c'è prima la distruzione di un sistema concettuale accettato, seguita poi dalla costruzione di un nuovo sistema.[67]

Già durante il Basso Medioevo, il termine "rivoluzione" incominciò ad acquisire particolari significati.[67] Non solo denotava il movimento dei corpi celesti attraverso orbite chiuse (o il tempo con cui il circuito dell'orbita veniva completato) ma anche una qualunque rotazione o un qualunque girare attorno o all'indietro rispetto a qualcosa, dalla rotazione circolare della ruota fino al senso figurativo del "ripensare", "riconsiderare", "ricordare".[67]

Al tempo del Rinascimento, la parola "rivoluzione" acquisì un significato più ampio. Incominciò ad includere anche il riferimento ad ogni ricorrenza periodica (o semiperiodica) ed eventualmente ad ogni gruppo di fenomeni che accadono in una serie ordinata di stadi ciclici. Anche l'ascesa e la caduta delle civiltà, o delle cultura, come i flussi e i riflussi della marea, iniziarono ad essere definiti "rivoluzioni". Tutti questi usi del termine erano ovviamente collegati al senso primario che la parola possedeva in astronomia e in geometria.[67]

Niccolò Copernico.

Inoltre gli autori che, alla fine del XVII secolo parlavano di "rivoluzione" negli affari politici, economici e sociali, molto spesso avevano in mente una qualche forma di restauro, una sorta di "ritorno" ad una situazione d'origine, antecedente o, al più, il completamento di un ciclo. Locke, ad esempio, usò il termine "rivoluzione" solo due volte, ed in entrambi i casi riferendosi ad un ciclo politico che culminava con il ritorno ad uno stato precedente, almeno in riguardo ad alcuni punti della costituzione.[67]

Anche nei lavori di Bailly è presente il vecchio concetto di rivoluzione ciclica, visto in ambito scientifico, assieme però ad un uso completamente nuovo del termine per indicare un cambiamento radicale e drammatico in campo scientifico, il più delle volte effetto del lavoro e dei pensieri di una singola persona, o di un piccolo gruppo di individui.[67]

Anche se Bailly non usa la vera e propria espressione di "rivoluzione copernicana", non lascia alcun dubbio sul fatto che una delle più grandi rivoluzioni nel campo scientifico fu inaugurata (se non, addirittura, compiuta) da Copernico. Copernico, secondo Bailly, è il responsabile dell'introduzione di un nuovo, «esatto» sistema universale, proprio come Ipparco doveva essere accreditato come il fondatore di un «vero» sistema dell'astronomia. Bailly infatti definisce Copernico come «il rivoluzionario dell'astronomia fisica e l'autore del vero sistema del mondo»[69] e Ipparco come «il fondatore dell'astronomia vera [...] o almeno il suo restauratore» facendo intendere che le conoscenze astronomiche sarebbero potute anche appartenere ad un popolo antichissimo, la cui cultura, anche in ambito scientifico ed astronomico, andò perduta e che Ipparco, con i suoi studi, poté però far rinascere, almeno parzialmente.[67][70]

Bailly disse che un passo radicale fu fatto all'epoca di Copernico: si rese necessario, per l'uomo, dimenticare i moti che potevano effettivamente essere visti all'apparenza, al fine di essere in grado di credere in quei movimenti che invece in quei moti che non possono essere percepiti dall'uomo direttamente attraverso i sensi.[67]

(FR)

«Il faut oublier le mouvement que nous voyons, pour croire à celui que nous ne sentons pas. C'est un homme seul qui ose le proposer... ce n'est pas tout: il falloit détruire un systême reçu... et renverser le trône de Ptolémeé. Un esprit séditieux donne le signal et la révolution s'opère. Copernic avoit apperçu la vrai semblance du systême, il osa secouer le joug de l'autorité, et il debarrassa l'humanité d'un long préjugé qui avoit retardé tous les progrès.»

(IT)

«Dobbiamo dimenticare il movimento che vediamo, a credere in ciò che non percepiamo. C'è stato un uomo solo che ha osato proporlo... e non è tutto: è stato necessario distruggere il sistema precedente... e rovesciare il trono di Tolomeo. Uno spirito sedizioso dà il segnale e la rivoluzione si verifica. Copernico aveva raggiunto la vera sembianza del sistema, aveva osato spezzare il gioco dell'autorità tolemaica, e liberò così l'umanità da un lungo pregiudizio che aveva ritardato ogni progresso.»

Copernico quindi aveva adempiuto alle due funzioni necessarie che, secondo le norme implicite di Bailly, qualificavano il suo lavoro come una rivoluzione.[67] Egli minò l'autorità del vecchio (e accettato) sistema, istituendone uno migliore al suo posto. Per Bailly faceva poca differenza il fatto che il sistema copernicano non fosse altro che il ripristino del vecchio sistema di Aristarco («il sistema di Copernico non fu una creazione, ma un'adozione»[72] precisa Bailly nell'Histoire, puntualizzando che «l'opinione secondo cui è il sole che riposa al centro del mondo con la Terra in movimento attorno ad esso [...] è un'idea trasmessa da Filolao e adottata da Aristarco»[73]); quello che contava era solo il fatto che Copernico avesse rovesciato il giogo dell'autorità tolemaico-aristotelica istituendo un sistema dell'universo diverso da quello che «aveva ricevuto gli omaggi per quattordici secoli».[74]

Il concetto di Bailly di una rivoluzione a due stadi è ancora più evidente in un'altra delle sue presentazioni del lavoro di Copernico. Infatti, nel descrivere brevemente il passaggio dell'astronomia dai greci agli arabi, e dagli arabi agli europei, che avevano cominciato per primi a coltivare veramente questa scienza, Bailly scrive:

(FR)

«Waltherus, Regiomontanus, an Allemagne, construisirent des instrumens et renouvelèrent les observations. A chaque nouveau domicile, la science étoit assujettie à un nouvel examen; les connoissances transmises étoient vérifiées: mais à cette époque il se fit une grande révolution qui changea tout. Le génie de l'Europe se fit connoître et s'annonça dans Copernic.»

(IT)

«Bernard Walther e Regiomontano, in Germania, costruirono nuovi strumenti e rinnovarono le osservazioni. Ogni qualvolta cambia sede, la scienza è soggetta ad un nuovo esame; le conoscenze trasmesse in altri paesi devono essere verificate: ma a quel tempo ci fu una rivoluzione che cambiò tutto. Il genio d'Europa si fece conoscere e si annunciò in Copernico.»

Nell'annunciare, per di più, che «Copernico aveva fatto un grande passo verso la verità» Bailly indica che «la distruzione del sistema tolemaico è stato un preliminare indispensabile, e questa prima rivoluzione ha preceduto tutte le altre».[76] Anche se Bailly non scrive espressamente che Copernico creò o iniziò una rivoluzione, non vi è alcun dubbio - dal testo, e soprattutto dalla frase precedente - che questa era la spina dorsale del suo discorso.[67] Non solo, è molto probabile che quella di Bailly è stata una delle prime volte in cui, in un testo scritto, si è fatto riferimento ad una rivoluzione scientifica associata a Copernico.[67]

In più di un capitolo della sua storia, inoltre, Bailly fa riferimento alla filosofia naturale di Newton in termini rivoluzionari. Così, dopo aver elogiato Newton per la sua modestia (a proposito della prefazione alla prima edizione dei Principia), Bailly scrive:

(FR)

«Newton, plus qu'aucun homme, eut besoin de se faire pardonner son élévation; il avoit pris un vol si extraordinaire, il redescendoit avec des vérités si nouvelles, qu'il falloit ménager les esprits, qui auroient pu repousser ces vérités. Newton renversoit ou changeoit toutes les idées. Aristote et Descartes partageoient encore l'empire, ils étoient les précepteurs de l'Europe: le philosophe Anglois détruisit presque tous leurs enseignemens, proposa une nouvelle philosophie; cette philosophie a opéré une révolution. Newton a fait, mais par des voies plus douces et plus justes, ce qu'ont tenté quelquefois en Asie les conquérans qui ont usurpé le trône; ils ont voulu effacer le souvenir des règnes précedens, pour que leur règne servît d'époque, pour que tout commençât avec eux. Mais ces entreprises de l'orgueil et de la tyrannie ont été le plus souvent sans fruit; elles ne réussissent qu'à la raison et à la vérité, qui obtiennent cet avantage sans y prétendre.»

(IT)

«Newton, più di ogni altro uomo, ha bisogno di essere perdonare la sua elevazione; ha preso un volo così straordinario, è ridisceso con delle verità così nuove, che gli fu necessario accompagnare gli spiriti, che altrimenti avrebbero potuto respingere queste verità. Newton inverti o modificò tutte le idee della sua epoca. Aristotele e Cartesio condividevano ancora il dominio [scientifico e culturale], erano i precettori d'Europa: il filosofo inglese distrusse quasi tutti i loro insegnamenti proponendo una nuova filosofia; questa filosofia ha generato una rivoluzione. Newton ha fatto, ma in un modo più morbido e giusto, ciò che hanno tentato qualche volta in Asia i conquistatori che hanno usurpato il trono; volevano cancellare la memoria dei regni precedenti, affinché il loro regno fosse epocale, affinché tutto ricominciasse con loro. Ma queste imprese d'orgoglio e di tirannia sono state generalmente infruttuose; esse non possono che riuscire se spinte dalla ragione e dalla verità, che ottengono questi vantaggi senza pretenderli.»

L'uso, in questo passaggio, di un'ampia panoplia assortita di una metafora politica è ben evidente nell'immagine dei conquistatori che usurpano e spazzano via con violenza ogni traccia dei loro predecessori, un'immagine che contrasta invece la ragione e la verità con le quali si è mosso Newton. Ma, ancora, è da notare che anche in questo caso, con Newton, per Bailly la rivoluzione scientifica agisce in due stadi.[67]

Sir Isaac Newton

Bailly avverte i suoi lettori, però, che anche se «il libro dei Principia di Newton erano destinati a generare una rivoluzione nell'astronomia» era tuttavia vero che «questa rivoluzione non avvenne improvvisamente».[67][78]

Bailly però, apparentemente, non sembra aver applicato consistentemente i suoi "standard" nell'attribuire la dignità di "rivoluzione" ad altre radicali innovazioni in astronomia. Due esempi lampanti di innovatori geniali dell'astronomia che, per Bailly, comunque non meritavano il titolo di "rivoluzionari", furono Keplero e Galileo che comunque Bailly elogia come grandissimi «benefattori dello spirito umano».[67]

Anzi, il concetto di "rivoluzione scientifica a due fasi" non viene sempre adottato da Bailly. Le due fasi sono presenti nell'illustrazione di Bailly delle grandi rivoluzioni associate a Copernico e Newton, ma non alle rivoluzioni associate all'invenzione del micrometro, né per le altre innovazioni tecniche, anche quelle predette da Bailly.[67] Potrebbe sembrare che il concetto di "rivoluzione scientifica a due stadi" fosse un requisito solo per le rivoluzioni in larga scala, come l'introduzione di un nuovo sistema universale (Copernico), o di una nuova filosofia naturale, e di una nuova dinamica e meccanica celeste (Newton).[67] Ma Bailly non attribuisce la qualifica di "rivoluzione" — expressis verbis — al lavoro di Ipparco, di Galileo o di Keplero.[67] Per descrivere Keplero e Galileo Bailly continua ad usare metafore e immagini storico-politiche. Dopo una vivida descrizione dei risultati di Keplero, Bailly si rivolge a Galileo, e riferendosi ad entrambi scrive: «Tutti e due onorati da scoperte fondamentali, tutti e due ugualmente benefattori dello spirito umano, si elevarono alla stessa altezza e condivisero la stessa ammirazione degli uomini, come in precedenza i Cesari di Roma, seduti su due troni simili, hanno condiviso l'impero del mondo».[79]

Keplero per Bailly ha soddisfatto la qualifica della "doppia fase" rivoluzionaria, dal momento che aveva prima «distrutto tutti gli epicicli che Copernico aveva lasciato sussistere» prima di introdurre i propri concetti di orbite ellittiche e di moto secondo le tre leggi di Keplero.[67] Bailly si esprime sulla sua importanza, scrivendo «il privilegio dei grandi uomini è quello di cambiare le idee, e di annunciare le verità, e diffondono la loro influenza ai restanti secoli. Per questi due titoli Keplero merita di essere guardato come uno dei grandi uomini che sono apparsi sulla terra».[80] In effetti Keplero è, per Bailly, «il vero fondatore dell'astronomia moderna».[80] Nonostante tutto ciò Bailly comunque, inspiegabilmente, non considera che il lavoro di Bailly avesse costituito una "rivoluzione". E lo stesso vale per Galileo Galilei, che prima dovette distruggere le nozioni aristoteliche universalmente accettate sul moto (includendo anche la distinzione tra il moto naturale e violento e la «ridicola», secondo Bailly, distinzione tra i corpi "naturalmente" pesanti e quelli "naturalmente" leggeri) prima di introdurre le sue leggi del moto accelerato e dei gravi, la risoluzione e la composizione del moto (ad esempio come trovare la traiettoria parabolica dei proiettili).[81] Ma tutto ciò apparentemente, anche in questo caso, non meritava per Bailly, la designazione di "rivoluzione".[67]

La stessa sorte è toccata a Cartesio. E' degno di nota il fatto che, anche se Bailly apprezzava pienamente i notevoli contributi scientifici di Cartesio, non ha comunque trovato le innovazioni cartesiane degne di essere considerate rivoluzionarie.[67] Bailly infatti riteneva che le osservazioni astronomiche fatte ponessero naturalmente la questione delle cause: «E' stata un'idea sublime l'aver osato applicare le leggi del movimento generale dell'universo alle leggi del movimento dei corpi terrestri. Questa idea appartiene esclusivamente ai secoli moderni ed è dovuta principalmente a Cartesio».[67] Naturalmente, per Bailly, la teoria dei vortici di Cartesio era una cattiva spiegazione del peso e, in generale, del sistema del mondo, ma Bailly insistì sul merito di questa teoria perché voleva fornire, almeno, una spiegazione meccanica del mondo.[67] Inoltre, Bailly scrive che «ha scoperto che lo stesso meccanismo fa muovere corpi nel cielo e sulla superficie della terra; sebbene non abbia compreso questo meccanismo, non dobbiamo dimenticare che questo nuovo e grande pensiero è il frutto del suo genio. Quello che Cartesio ha proposto, Newton lo ha rispettato. Non bisogna rubare nulla alla gloria di questo grande uomo anzi, bisogna rendergli giustizia».[67][82] Per Bailly in ogni caso «se Cartesio ha aperto la strada ad altre scoperte grazie sue invenzioni geometriche, Keplero ha comunque ha lasciato più verità fisiche di lui. Cartesio ha osato di più, e la sua audacia è la misura della sua forza, lui non ha mai mancato di essere sempre più saggio; infatti sembrava ignorare i finti fatti accettati del suo tempo».[67][83]

In alcune occasioni, Bailly palesa anche la sua convinzione in un processo ciclico nello sviluppo dell'astronomia. Così una rivoluzione, anche per Bailly, potrebbe significare, in alcune occasioni, il ritorno ad una vecchia idea o un vecchio concetto o addirittura ad un vecchio principio.[67]

Bailly astutamente osserva che non si può assumere sempre che una qualche idea non sia "rivoluzionaria" soltanto perché la stessa idea era stata ipotizzata in precedenza e poi abbandonata. L'esempio che dà è abbastanza curioso: «La terra è uno sferoide, e la sua figura assomiglia a quella di un uovo. Varrone aveva già fatto una comparazione, senza dubbio in conseguenza di qualche idea superstiziosa degli antichi. La teologia pagana supponeva che il mondo avesse la forma di un uovo; questa non è la prima volta che la superstizione e il profondo sapere, pur per cammini opposti, siano giunti alle stesse conclusioni».[84]

Un'espressione più completa di cambiamento attraverso una rivoluzione ciclica è presentata da Bailly all'inizio del secondo volume della sua Histoire:

(FR)

«...En écrivant cette histoire, nous appercevons d'un côté que les hommes, persuadés de la simplicité du mécanisme de l'univers, tendent constamment à cette idée, même en s'en écartant: nous voyons de l'autre [côté] que cette idée est une des plus antiques qui nous ait été conservée. La conclusion naturelle est que nous retournons au terme d'où nous sommes partis: telle est notre marche, nous parcourons toujours un cercle. Mais ce terme, ce premier commencement des travaux connus, devoit être lui-même la fin d'une révolution. La simplicité n'est pas essentiellement un principe, un axiôme, c'est le résultat des travaux; ce n'est pas une idée de l'enfance du monde, elle appartient à la maturité des hommes; c'est la plus grande des vérités que l'observation constante arrache à l'illusion des effets: ce ne peut être qu'un reste de la science primitive.»

(IT)

«Nello scrivere questa Histoire, vediamo da un lato che gli uomini di scienza, convinti della semplicità del meccanismo dell'universo, tendono costantemente a questa idea [di semplicità], anche scartando altre idee più complesse: vediamo dall'altro lato che questa idea è una delle più antiche che abbiamo conservato. La conclusione naturale è che alla fine torniamo dove siamo partiti: questa è la nostra attività, attraversiamo sempre un cerchio. Ma questo termine, questo primo inizio delle opere conosciute, doveva essere sé stesso la fine di una rivoluzione. La semplicità non è essenzialmente un principio, né un assioma, è il risultato di un lavoro; non è un'idea dell'infanzia del mondo, appartiene alla maturità degli uomini; è la più grande delle verità che l'osservazione costante strappa all'illusione degli effetti: questo non può essere che il resto di una scienza primitiva»

Il fatto che Bailly fosse a conoscenza del possibile processo di sviluppo ciclico nelle rivoluzioni scientifiche, così evidente a chiunque praticasse astronomia, non diminuisce comunque la convinzione con cui egli usa il termine "rivoluzione" anche in questi casi.[67] Così il concetto di rivoluzione come fenomeno caratterizzato da un cambiamento a due stadi piuttosto che ciclico non è così netto e anzi, entrambe le definizioni - secondo Bailly - possono coesistere, purchè però il cambiamento generato sia di notevole entità.[67] Poi, dal momento che l'astronomo francese utilizza questa parola nella sua Histoire de l'astronomie moderne, si può concludere che da quel momento in poi la parola "rivoluzione" e il suo nuovo, più ampio, significato divennero pienamente accettati nell'ambito della storia della scienza e dell'analisi della crescita dei concetti scientifici, dei metodi scientifici, e dei sistemi di idee.[67]

Nel passaggio, inoltre, Bailly lascia intendere uno dei concetti più importanti della sua analisi storica della scienza: Bailly credeva che l'antica astronomia dei Caldei, degli Indiani, e dei Cinesi non fosse altro che un insieme di «macerie» della scienza di un «popolo anteriore» di cui si erano perse quasi completamente le tracce nel corso della storia. Questo popolo, per Bailly, «era stato distrutto da una grande rivoluzione».[86] La perdita delle idee astronomiche di questa antica civiltà poteva essere avvenuta, per Bailly, «solo a causa di una grande rivoluzione che ne distrusse gli uomini, le città, le conoscenze, non lasciando che detriti». Secondo Bailly, «tutto concorda nel provare che questa rivoluzione ha avuto luogo sulla Terra...».[87] Nella Table generale des matieres, ovvero l'indice, che copre sia i tre volumi della sua Histoire de l'astronomie moderne sia il singolo volume della Histoire de l'astronomie ancienne, i riferimenti a questa "rivoluzione" antichissima precedono addirittura i riferimenti alle rivoluzioni scientifiche dell'astronomia.[67]

Interesse storico e mitologico[modifica | modifica wikitesto]

Durante la sua vita Bailly riuscì ad incarnare in sé sia l'establishment scientifico illuminista sia il processo rivoluzionario francese: insieme a Nicolas de Condorcet, suo grande rivale presso l'Accademia delle Scienze, Bailly era uno dei pochi rivoluzionari ad avere prima acquisito notorietà come philosophe e poi in campo politico. Ma la carriera di Bailly da intellettuale percorsa sia in ambito scientifico-astronomico, sia in ambito politico, mostra anche un nutrito interesse verso la storia e soprattutto illustra anche il tentativo da parte sua di trovare punti di convergenza tra la ricerca empirica e la speculazione mitologica. Condorcet infatti faceva riferimento al suo collega come «frère illuminé», alludendo alle presunte simpatie massoniche e metafisiche di Bailly, l'astronomo era ugualmente interessato sia di scienza sia di antiche tradizioni mitiche. Questo lato degli interessi di Bailly, sembrerebbe effettivamente in contraddizione con i suoi studi scientifici e fu per questo criticato dai suoi detrattori.[4][88]

Jacques Augustin Catherine Pajou, Voltaire che legge, olio su tela, 1811

Bailly era affascinato dal mondo preistorico, dal mondo mitico, soprattutto dalla tradizione di Atlantide. Questa sua attività di ricerca parallela fu, molto probabilmente, ispirata dall'opera a nove volumi di Court de Gébelin, Monde primitif, che pretendeva di descrivere in maniera dettagliata ed enciclopedica un mondo antico, preistorico ma abitato da una civiltà sofisticata e tecnologicamente avanzata.[4][88] Il progetto di de Gébelin si era anche legato al mondo semi-segreto della massoneria francese: molte delle caratteristiche e delle usanze che lui attribuiva all'antica civiltà descritta nella sua opera sembravano progettate più che altro per fornire una secolare e venerabile genealogia ai vari rituali massonici. Questa influenza massonica è un po' meno evidente nel caso di Bailly, anche se ci sono prove che testimoniano la sua presenza nella prestigiosa Loge des Neuf Sœurs, a cui erano appartenuti Benjamin Franklin, lo stesso de Gébelin, l'astronomo Jérôme Lalande, e anche (sebbene solo per qualche settimana prima di morire) Voltaire. La loggia in effetti univa vari rappresentanti dell'empirismo settecentesco e degli storici versati nella speculazione mitologica.[4][88]

Fu sotto questo duplice egida di scienza e speculazione mitologica che Bailly decise di abbandonare in parte l'osservazione astronomica al fine di concentrarsi sugli studi di storia e di mitologia e di scavare a fondo alle radici mitiche gli inizi della scienza, del progresso tecnologico ed anche delle conoscenze astronomiche.[4][88] Il suo primo lavoro di questo tipo, vagamente ispirato all'Essai sur les mœurs et l'esprit des nations di Voltaire, fu l'Histoire de l'astronomie ancienne, depuis son origine jusqu'à l'établissement de l'école d'Alexandrie del 1775. Un altro libro, simile, fu anche l'Histoire de l'astronomie moderne, depuis la fondation de l'école d'Alexandrie jusqu'àl'époque de 1730, apparso invece - come già ricordato - in due volumi nel 1779. In questi scritti Bailly formulò la tesi per la quale sarebbe diventato famoso: pre-datando alcuni casi e studi astronomici documentati dalle civiltà del passato, sostenne l'ipotesi che dovesse esistere una civiltà preesistente, "antidiluviana", che prima delle altre aveva eccelso in campo astronomico. Solo l'esistenza di questa civiltà precedente avrebbe infatti potuto spiegare come mai gli indiani, i caldei, i persiani e addirittura i cinesi avevano potuto sviluppare conoscenze e pratiche astronomiche intorno allo stesso periodo (3000 a.C.).[4] La tesi di una grande inondazione globale (l'episodio biblico del "diluvio universale") era ancora largamente accettata dalla comunità scientifica nel XVIII secolo: ad esempio Nicolas Boulanger, nella sua Antiquité dévoilée (1756), aveva tentato addirittura di dimostrarlo scientificamente adducendo varie prove geologiche; anche lui, come Bailly, aveva ipotizzato l'esistenza di una sofisticata civiltà antidiluviana. Bailly unì questa tradizione biblica con un altro classico mito legato all'oceano, il mito di Atlantide. Basandosi in gran parte sugli scritti di Platone, Bailly sostenne che la storia raccontata da Crizia nell'omonimo dialogo platonico, doveva essere presa alla lettera.[4]

Ma Bailly aveva introdotto un elemento importante in questa storia: invece di situare Atlantide nel suo omonimo mare, l'oceano Atlantico, oppure in Estremo Oriente, dove lo stesso Voltaire l'aveva posizionata, Bailly reputò più consistente l'ipotesi che Atlantide si trovasse oltre il lontano nord, al di sopra del circolo polare artico. Del resto a Bailly le osservazioni di alcuni eventi astronomici, che si trovavano negli annali e nei documenti dei vari popoli meridionali dell'Asia, sembravano invece più legati a delle indagini svolte a latitudini più elevate. Così aveva ipotizzato luogo sul globo in cui vissero i popoli primitivi di Atlantide, ovvero il Polo Nord, diversamente dall'ipotesi di Voltaire In passato, inoltre, secondo la tesi baillyiana, questa zona avrebbe conosciuto un clima molto più permissivo e perciò sarebbe stata più facilmente abitabile; e in più solo questo sito settentrionale avrebbe potuto spiegare i costanti ritornelli mitologici e le usanze comuni a tutte le tradizioni religiose delle civiltà antiche: spiegabili perché in realtà tutte le civiltà deriverebbero dall'unico ceppo comune atlantideo. Da questo luogo infatti, gli Atlantidei migrati a Sud, si stabilirono in India, per poi trasferirsi ad Ovest, oltrepassando e colonizzando dopo l'India, anche l'Egitto, la Grecia, per arrivare, infine, in Europa. Prefigurando Hegel, Bailly affermò che: «lo scettro della scienza deve essere stato tramandato da un popolo all'altro» (Histoire, 3). Il movimento di queste conoscenze scientifiche però, diversamente da come Hegel riterrà, non era avvenuto da est a ovest, ma, per Bailly, da nord a sud.[4][88]

Secondo Bailly, perciò, le popolazioni dell'Asia non erano state che eredi delle conoscenze di questo popolo antlantideo settentrionale, che aveva già sviluppato un'astronomia molto precisa. I cinesi e gli indiani, tanto rinomati per il loro apprendimento scientifico, non sarebbero stati per lui che semplici depositari.

Uno dei primi destinatari del lavoro di Bailly fu Voltaire stesso, che riconobbe la plausibilità delle sue tesi con una lettera incoraggiante (anche se leggermente sarcastica), che Bailly pubblicò assieme alla loro conseguente corrispondenza epistolare nella prefazione del libro del 1777, Lettres sur l'origine des sciences, et sur celle des Peuples de l'Asie, destinato proprio a Voltaire.[4][88] In questo testo, Bailly cercò di confutare la convinzione di Voltaire sul fatto che i brahmani fossero il più antico popolo del mondo e che, come Voltaire sosteneva, c'era ancora un grande paese, vicino a Benares, dove l'età dell'oro di Atlantide continuava ad esistere (Voltaire aveva sviluppato questa idea nella sua breve storia La princesse de Babylone). Bailly invece insistette per individuare Atlantide molto più a nord, localizzandola nella mitica terra di Iperborea, la cui capitale era Thule.[4][88] Questa terra doveva essere quella che aveva ospitato l'età dell'oro di cui poeti e storici antichi, come Erodoto o Esiodo, avevano narrato.[4][88]

Anche se intanto Voltaire era morto prima che potesse rispondergli dopo la pubblicazione, Bailly comunque pubblicò un ulteriore libro per difendere la sua tesi, le Lettres sur l'Atlantide de Platon et sur l'histoire de l'ancienne Asie (1779).[4][88]

Successive speculazioni sulle tesi di Bailly[modifica | modifica wikitesto]

Alfred Rosenberg

L'eredità lasciata da Bailly continuò a vivere anche dopo la sua morte. La sua tesi di una "Atlantide Iperborea" era stata sonoramente respinta in un primo momento. Ad esempio Jules Verne in qualche modo voleva anche prendere in giro Bailly in 20.000 leghe sotto i mari (1869), quando i suoi personaggi scoprirono la "vera" Atlantide nell'Oceano Atlantico. Ma una donna, Helena Blavatsky, prese molto sul serio le idee di Bailly. Blavatsky fu una delle teorizzatrici della teosofia, una dottrina mistico-filosofica, il cui credo fu precisato nel suo libro La dottrina segreta (1888). In questo lavoro ermetico, Blavatsky rispolverò la teoria di Bailly (citandolo addirittura ventidue volte[4]), e incorporò l'ipotesi di un "Atlantide Iperborea" all'interno di una storia fantastica che coinvolgeva i vari continenti e varie razze umane e semiumane. Atlantide era rappresentata come un continente polare che si estendeva dall'attuale Groenlandia fino alla Kamčatka e il suo destino si legò a quello di una razza particolarmente controversa: gli ariani, una razza superiore, seconda in ordine di tempo, costituita da giganti androgini dalle fattezze mostruose. Quando gli ariani migrarono a sud verso l'India, scaturì da loro una "sub-razza", quella dei semiti. Il mito di un "Atlantide Iperborea" fece così ingresso all'interno delle ideologie ariane ed antisemite della fine del XIX secolo.[4][88]

La teoria di Bailly-Blavatsky trovò sostegno tra alcuni degli ideologi ariani viennesi più fantasiosi.[89] Furono proprio questi circoli, come la società "Thule" (che prendeva il nome della mitica capitale di Iperborea), che fecero derivare molte teorie antisemite e ariane dal lavoro mitologico di Blavatsky, e indirettamente da Bailly. I membri della società Thule, in particolare, sono stati fondamentali nell'aiutare Adolf Hitler (che probabilmente aveva letto alcuni libri dei teosofi ariani viennesi quando viveva in Austria) nel fondare il NSDAP, il partito nazista. Uno di loro, Alfred Rosenberg, compagno vicino a Hitler durante gli anni in cui questi stette a Monaco di Baviera, aveva posto il mito di un Atlantide Iperborea al cuore di un suo voluminoso tomo dottrinale, Der Mythus des 20. Jahrhunderts (Il mito del XX secolo) del 1930.[89] Rosenberg iniziò questo lavoro assumendo come vera la passata esistenza di Atlantide nel lontano nord, riproponendo la tesi baillyiana:

(EN)

«All in all, the old legends of Atlantis may appear in new light. It seems far from impossible that in areas over which the Atlantic waves roll and giant icebergs float, a flourishing continent once rose above the waters and upon it a creative race produced a far-reaching culture and sent its children out into the world as seafarers and warriors. But even if this Atlantis hypothesis should prove untenable, a prehistoric Nordic cultural center must still be assumed.»

(IT)

«Tutto sommato, le antiche leggende su Atlantide possono apparire in una nuova luce. Sembra tutt'altro che impossibile che nelle zone in cui scorrono le onde dell'Atlantico e in cui fluttuano iceberg giganti, un continente fiorente sia salito una volta al di sopra delle acque e su di esso, una razza creativa abbia prodotto una cultura lungimirante e abbia inviato i suoi figli nel mondo, come marinai e guerrieri. Ma se anche questa ipotesi di Atlantide dovesse rivelarsi insostenibile, un preistorico centro culturale nordico comunque dovrebbe essere ancora supposto.»

Il mito di un "centro culturale nordico" ha permesso poi a Rosenberg, a partire da questa ipotesi, di accreditare la razza ariana come artefice tutte le grandi conquiste culturali nella storia umana: in momenti diversi nel tempo (in coincidenza con le più grandi fioriture della civiltà), gli ariani discesero dalla loro madrepatria nordica per realizzare le loro prospettive di vita nei climi meridionali.[89] La "prova" della superiorità ariana così poggiava su questa situazione geografica chiave: solo se posizionati nel Circolo Polare Artico gli Ariani avrebbero potuto reclamare plausibilmente ogni responsabilità sia per le realizzazioni orientali sia per quelle occidentali.[4][88][89]

Vi sono notevoli differenze tra Bailly e le interpretazioni di Rosenberg del mito di Atlantide Iperborea, e chiaramente Bailly non deve essere considerato come un precursore del nazismo. Va però detto che Bailly non fu nemmeno totalmente innocente, pur muovendosi in un'ottica tipicamente illuministica.[4][88] Senza razionalizzare con esattezza la sua teoria, egli ha comunque cercato di dare il merito del progresso culturale orientale, all'Europa. Costruendo l'ipotesi di un popolo nordico responsabile per i successi culturali e tecnici dell'India e dell'Oriente, ha con ultimo fine onorato il progresso e la superiorità occidentale, pur lodando i brahamani. L'Europa e soprattutto quella illuminata, insomma, è stata - per Bailly - il vero successore di Atlantide.[88][89] Con queste teorie, pur con tutte le successive differenze e i travisamenti, Bailly ha comunque fornito ai movimenti nazionalisti più tardi, una potente narrazione e un valido materiale teorico che autorizzò in qualche modo un certo numero di ideologie razziste.[4][88][89]

Cultura di massa[modifica | modifica wikitesto]

Jean Sylvain Bailly è stato interpretato dall'attore Michel Duchaussoy nella miniserie televisiva La rivoluzione francese (1989).

Opere[modifica | modifica wikitesto]

  • 1766: Essai sur la théorie des satellites de Jupiter
  • 1771: Sur les inégalités de la lumière des satellites de Jupiter
  • 1775: Histoire de l'astronomie ancienne
  • 1777: Lettres sur l'origine des sciences
  • 1779: Lettres sur l'Atlantide de Platon
  • 1778-1783: Histoire de l'astronomie moderne
  • 1787: Histoire de l'astronomie indienne et orientale.
  • 1798: Essai sur les fables (publié après sa mort)
  • 1804: Mémoires d'un témoin de la Révolution
  • 1810: Recueil de pièces intéressantes sur les sciences
  • 2004: Mémoires

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ a b c Jean-Sylvain Bailly Treccani.it
  2. ^ (FR) Monique Cara, Jean-Marc Cara e Marc Jode, Dictionnaire universel de la Franc-Maçonnerie, Larousse, 2011, ISBN 978-2-03-586136-8.
  3. ^ (FR) Emmanuel Pierrat e Laurent Kupferman, Le Paris des Francs-Maçons, Le Cherche Midi, 2013, ISBN 978-2-7491-3142-9.
  4. ^ a b c d e f g h i j k l m n o p q r s t u Jean-Sylvain Bailly (1736-1793) by Dan Edelstein
  5. ^ a b c d e f g h Biographie de Jean-Sylvain Bailly di François Arago
  6. ^ a b Henry Morse Stephens, A History of the French Revolution (1886) p. 51.
  7. ^ a b c d e f g Biography of Jean-Sylvain Bailly by François Arago (english translation) - Chapter III
  8. ^ Jean-Sylvain Bailly, Encyclopædia Britannica
  9. ^ a b c d e f g h Biography of Jean-Sylvain Bailly by François Arago (english translation) - Chapter IV
  10. ^ a b c d e f g h i j k l Biography of Jean-Sylvain Bailly by François Arago (english translation) - Chapter V
  11. ^ a b Éloges de Bailly
  12. ^ a b c d e f g h i j k l m n o p q Biography of Jean-Sylvain Bailly by François Arago (english translation) - Chapter VI
  13. ^ Marie Tussaud, Memoirs and Reminiscences of France (London, 1838), p. 101
  14. ^ Arago: Biographie de Bailly
  15. ^ a b c d e f The British Critic - Art. XIV: Letters upon the Atlantis of Plato and the Ancient History of Asia
  16. ^ a b c Traduzione della II lettera di Bailly a Voltaire nelle Lettres sur l'origine des sciences, et sur celle des Peuples de l'Asie
  17. ^ Secondo la tradizione cinese fu lui a fondare l’astronomia, sintetizzando tutte le conoscenze ereditate e accumulate dalle generazioni precedenti. Sotto la sua direzione, e assieme a lui, lavoravano un gran numero di collaboratori che si occupavano di ricerche scientifiche e filosofiche. Le ricerche erano rivolte a scoprire in primo luogo le cause dei vari fenomeni fisici, ed in seguito si cercava di indirizzare tutte queste cause ad una causa prima; questa causa prima fu ricercata ad ogni livello per anni ed anni. Fu un periodo di analisi, critiche ed esami minuziosi di tutte le conseguenze ottenute. I metodi impiegati si servivano di una sperimentazione induttiva primitiva.
  18. ^ Qui Bailly sembra fare riferimento a quello che è un atavico pregiudizio nei confronti dei Cinesi, legato alla loro arretratezza, staticità e lentezza.
  19. ^ Bailly, dando per vero il pregiudizio sulla staticità cinese e tenendo in considerazione che spesso quando una scienza è agli inizi fa fatica a svilupparsi, giustifica l'impossibilità che i Cinesi abbiano potuto progredire così tanto in campo astronomico in così poco tempo. E perciò più probabile, secondo il suo ragionamento, che questa cultura astronomica fosse arrivata a loro a partire da un'altra popolazione, probabilmente durante il regno di Fu Xi.
  20. ^ Le evidenze archeologiche successive hanno chiarificato che la città risale al VI secolo avanti Cristo.
  21. ^ Probabilmente Bailly qui voleva riferirsi a Jamshid, figura persiana leggendaria.
  22. ^ Non si capisce a quale tempio Bailly faccia riferimento.
  23. ^ Era il ciclo Naros, utilizzato nel calendario Caldeo, che consisteva in seicento anni.
  24. ^ Lettres sur l'origine des sciences Volume II, p. 89
  25. ^ Lettres sur l'origine des sciences Volume II, p. 214
  26. ^ Lettres sur l'origine des sciences Volume II, p. 219
  27. ^ Il Ciabattino patinista. Dialoghi di Veranzio Istina Dalmatino con Andrea Moretto detto Memoria intorno al libro: Osservazioni critiche sull'opusculo del Sig. Canonico Stancovich intitolato Trieste - Venezia, tipografia di Alvisopoli, 1833
  28. ^ Bailly probabilmente si riferiva al Monte Qaf, chiamato anche Cafcuh o Kafkuh (in persiano قاف‌کوه /qaafkuh/). Esso era un monte mitico di cui si fa spesso riferimento nelle tradizioni mitiche persiane. Storicamente infatti l'Impero persiano non si estese mai oltre il Caucaso settentrionale, perciò le antiche leggende persiane avvolsero queste montagne di un alone di mistero. Essa doveva essere la «montagna più alta del mondo», e nelle vicinanze dovevano abitare i Divi e i Peri, ovvero gli angeli caduti della tradizione religiosa persiana. A causa della sua mitica lontananza, tradizionalmente la montagna fu identificata con il polo Nord, come anche pensava lo stesso Bailly.
  29. ^ a b Iranian Mythology "Gayômart" (Q-Mars) - The Protoplast of Man di Mansour Shaki
  30. ^ A Specimen of Persian Poetry; or Odes of Hafez di Hafez (autore) & John Richardson (traduttore), 1802
  31. ^ Dizionario enciclopedico delle scienze, lettere ed arti - Antonio Bazzarini, 1835
  32. ^ Nella tradizione persiana egli era un personaggio complementare a quello di Noè secondo Bailly.
  33. ^ Bailly si riferiva quasi certamente agli insediamenti umani di Selenginskij
  34. ^ Bailly forse si riferiva alla provincia di Shanxi, nella regione settentrionale della Cina.
  35. ^ [1]
  36. ^ Mémoire de Bailly
  37. ^ Una sciocca e concitata rivalità nacque a Parigi (nel periodo tra 1774 e il 1780) tra gli ammiratori del compositore tedesco Glück e quelli del musicista italiano Piccinni. Maria Antonietta era una Gluckista, e di conseguenza molti francesi - polemici con la regina - preferirono il rivale italiano. Nelle strade, nelle caffetterie, nelle case private e anche le scuole, si tessevano le lodi di Glück e Piccinni; e tutta l'alta società di Parigi si divise da una parte o dall'altra.
  38. ^ a b c d e f g h i j k l m n o p q r s t u v w x y z aa ab ac ad ae af ag ah ai aj ak al am an ao L'illusione di Mesmer: Carisma e pseudoscienza nell'epoca dei Lumi di Giuseppe Lago
  39. ^ Brain, Mind and Medicine:: Essays in Eighteenth-Century Neuroscience a cura di Harry Whitaker, C.U.M. Smith, Stanley Finger
  40. ^ a b c d e Il magnetismo animale uniroma1.it
  41. ^ Exposition of the Doctrine of Animal Magnetism
  42. ^ a b c d e f g h Mesmer e il magnetismo di Angelo Mosso
  43. ^ a b c Gene A. Brucker, Jean-Sylvain Bailly - Revolutionary Mayor of Paris - UNIVERSITY OF ILLINOIS PRESS URBANA, 1950.
  44. ^ a b c d e f g h i j Cesare Catananti - Nascita ed evoluzione dell'ospedale: dall'ospitalità alla organizzazione scientifica
  45. ^ a b c d e f g h i j k l m n o p Biography of Jean-Sylvain Bailly di François Arago (english translation) - CAPITOLO XI
  46. ^ Demande relative aux hôpitaux avec la réponse donnée par l’hôpital de Bordeaux, Papiers de Tenon, Biblioteque Nationale, Dèpartement des manuscript, nouvelles acquisitions.
  47. ^ La trapanazione del cranio era ancora una pratica diffusa all'epoca, e sulla quale si riconducevano le speranze di molti medici sia nel caso di pazienti gravemente malati sia per quelli con malattie allora sconosciute.
  48. ^ Ripreso da Foucault M. e altri, Les machines à guérir, P. Mardaga editeur, Bruxelles, 1979, p. 33.
  49. ^ a b c d Biography of Jean-Sylvain Bailly di François Arago (english translation) - CAPITOLO XII
  50. ^ The Monthly Magazine, Volume 6, 283
  51. ^ a b c d Biography of Jean-Sylvain Bailly di François Arago (english translation)
  52. ^ Charles-Louis Chassin, Les élections et les cahiers de Paris en 1789 (Paris, 1888-89), I, 79-83.
  53. ^ Charles-Louis Chassin, Les élections et les cahiers de Paris en 1789 (Paris, 1888-89), I, 83-99.
  54. ^ Bailly menzionò i rinvii governativi nelle sue Mémoires, ma non credeva che questo modo di fare del governo fosse deliberato. Mémoires, I, 16.
  55. ^ Mémoires, I, 9-10.
  56. ^ Bailly, Mémoires, I, 21.
  57. ^ Bailly, Mémoires, I, 17.
  58. ^ Chassin, Les élections et les cahiers de Paris, III, 13
  59. ^ Chassin, Les élections et les cahiers de Paris, III, 250-51
  60. ^ Bailly, Mémoires, I, 59-63
  61. ^ Abbé Morellet, Mémoires inédits de l'Abbé Morellet sur le dix-huitème siècle et sur la Révolution, précédés de l'éloge de l'Abbé Morellet par M. Lemontey ( Paris, 1822), I, 424.
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