Tim Buckley

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Tim Buckley
Tim Buckley in concerto al Fillmore East il 18 ottobre 1968
NazionalitàBandiera degli Stati Uniti Stati Uniti
GenereFolk rock[1][2]
Periodo di attività musicale1966 – 1975
Strumentochitarra, voce
EtichettaElektra Records
Straight Records
DiscReet Records
Rhino Records
Album pubblicati9 (13 postumi)
Studio9
Live(7 postumi)
Raccolte(6 postumi)
Sito ufficiale

Timothy Charles Buckley (Washington, 14 febbraio 1947[1]Santa Monica, 29 giugno 1975[1]) è stato un cantautore statunitense.

È considerato da buona parte della critica uno dei cantanti più geniali e innovativi dell'intera storia del rock.[3][4][5][6] Il critico Piero Scaruffi l'ha definito "il cantante più geniale della storia della musica rock, e forse dell'intera storia della musica".[7]

Biografia[modifica | modifica wikitesto]

Timothy Charles Buckley III nacque a Washington, figlio di Elaine Scalia, un'italoamericana, e di Tim Charles Buckley Jr., un pluridecorato della seconda guerra mondiale con origini irlandesi. Trascorse l'infanzia ad Amsterdam, cittadina industriale dello Stato di New York, dove ebbe i primi contatti con la musica: la madre era una fan di Miles Davis e il padre della musica country. Nel 1956 la famiglia si trasferì a Bell Gardens in California.[8]

A tredici anni imparò a suonare il banjo e con il compagno di scuola Dan Gordon formò un gruppo ispirato al The Kingston Trio. Entrò nella squadra di football americano della scuola, dove coprì il ruolo di quarterback. Durante uno scontro di gioco si ruppe le prime due dita della mano sinistra. Non riottenne mai l'uso completo delle dita, tanto che non poté più suonare il barré e ciò lo costrinse a usare accordi estesi. Durante il periodo delle scuole superiori conobbe Larry Beckett, autore della maggior parte dei testi dei suoi primi brani, e Jim Fiedler. Il 25 ottobre del 1965, a diciannove anni, sposò la compagna di scuola Mary Guibert, dalla quale, un anno più tardi, ebbe un figlio, Jeff Buckley, nato il 17 novembre 1966. Anch'egli, negli anni novanta, sarebbe divenuto un musicista.

Finita la scuola iniziò a esibirsi in diversi club di Los Angeles. In uno di questi spettacoli venne notato da Jac Holzman, proprietario della Elektra Records, che lo mise sotto contratto, permettendogli di pubblicare nel dicembre del 1966 il suo primo LP, l'omonimo Tim Buckley. In supporto al disco cominciò un lungo tour negli Stati Uniti, durante il quale partecipò anche allo show televisivo di Johnny Carson.[9]

Nel 1967, ancora per l'Elektra, pubblicò Goodbye and Hello, disco fortemente influenzato dal folk rock di Bob Dylan e dal rock psichedelico in auge in quegli anni. L'album è considerato dalla critica il primo dei suoi capolavori.[10] I brani I Never Asked to Be Your Mountain e Once I Was verranno reinterpretati dal figlio Jeff durante il concerto in memoria del padre, tenutosi a New York il 26 aprile del 1991. Un altro brano, Morning Glory, verrà reinterpretato dalla band britannica This Mortal Coil nell'album del 1986 Filigree & Shadow. Anche a questo disco fece seguito un lungo tour, che giunse anche in Europa, dove si esibì per lo show radiofonico di John Peel.

Nel 1969 uscì il terzo album, Happy Sad, influenzato questa volta più dal jazz, in particolare da Miles Davis, con brani più dilatati rispetto al disco precedente. Anche questo lavoro è ben valutato dalla critica, nonostante lo scarso successo di vendite.[11]

Nello stesso anno rescisse il contratto con l'Elektra, passando alla Straight Records di Frank Zappa e del produttore Herb Cohen. Per questa etichetta pubblicò Blue Afternoon (1969). Nel 1970 uscì per l'Elektra l'album Lorca, che venne registrato contemporaneamente a Blue Afternoon.[12] Proprio Lorca è generalmente considerato dalla critica come l'album di passaggio fra il "periodo folk" di Goodbye and Hello e Happy Sad a quello "psichedelico" del successivo Starsailor.[13]

Nel 1970 realizzò e diede alle stampe Starsailor, disco più vicino alla sperimentazione, considerato da molti critici il suo massimo capolavoro e indubbiamente uno dei più ardui esperimenti sul canto mai realizzati.[14] In questo album è presente il brano Song to the Siren, probabilmente il più famoso di Buckley. La reinterpretazione della band inglese This Mortal Coil nell'album It'll End in Tears (1984) riscuoterà notevole successo. Il brano sarà reinterpretato anche da Robert Plant nel suo album Dreamland (2002), da John Frusciante nell'album The Empyrean (2009), da Bryan Ferry nel suo Olympia (2010) e da Sinéad O'Connor.

In seguito allo scarso successo commerciale dei suoi dischi, dopo la pubblicazione di Starsailor Buckley sospese temporaneamente l'attività musicale, cadendo preda della depressione e sviluppando una dipendenza per l'alcool e le droghe. Inoltre, si dedica ad altre attività, come il cinema, scrivendo sceneggiature e recitando nel film mai uscito Why?, di Victor Stoloff.[15]

Nel 1972 vi fu il ritorno sulle scene con l'album Greetings from L.A., che virò il suono verso il funk,[16] a cui fecero seguito nel 1973 Sefronia e nel 1974 Look at the Fool, due album considerati dalla critica come il punto più basso della sua produzione.[17][18]

Tim Buckley morì la sera del 29 giugno 1975 a Santa Monica, in California, per overdose di eroina e alcool, all'età di 28 anni.[19]

Stile musicale[modifica | modifica wikitesto]

Celebre per la vocalità duttile e di grande estensione,[20] Tim Buckley ha pubblicato prevalentemente brani folk rock[1][2] dalle contaminazioni psichedeliche e barocche.[2] Nonostante il carattere malinconico e introspettivo della sua musica, il cantante statunitense viene correlato alla corrente "freak" dell'epoca per la sua tendenza a fondere fra loro molti stili diversi in modo da creare una musica "totale".[21] Secondo Lee Underwood, uno dei suoi collaboratori, "Buckley fu per il canto ciò che Hendrix fu per la chitarra, Cecil Taylor per il piano e John Coltrane per il sassofono."[22] Il sito Progarchives considera inoltre il cantante e cantautore esponente del folk progressivo.[23] Dopo un primo album omonimo di folk tradizionale (1966),[20][24] sono usciti i brani di Goodbye and Hello (1967) che segnano un'evoluzione stilistica in direzione del jazz, del folk e del pop,[20] e quelli di Happy Sad (1968), che vedono l'artista affinare la sua vocalità e privilegiare sonorità eteree in cui la voce diviene uno strumento a sé stante.[24] Dopo cinque anni di sperimentazioni, Buckley sarebbe approdato a Starsailor (1970), album estatico e tormentato in cui l'artista esprime al massimo le sue potenzialità vocali[20] e che risente significativamente l'influenza del free jazz.[24] Con i dischi successivi, che precedono di poco la sua morte, Buckley ha puntato verso un registro più commerciale e dalle sfumature R&B.[24]

Discografia[modifica | modifica wikitesto]

Album in studio[modifica | modifica wikitesto]

Raccolte[modifica | modifica wikitesto]

Album dal vivo[modifica | modifica wikitesto]

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ a b c d (EN) Richie Unterberger, Tim Buckley, su AllMusic, All Media Network. URL consultato il 14 gennaio 2014.
  2. ^ a b c (EN) Tom Moon, 1000 Recordings to Hear Before You Die, Workman, 2008, pp. 127-128.
  3. ^ Piero Scaruffi, The History of Rock Music. Tim Buckley: biography, discography, reviews, links, su scaruffi.com. URL consultato il 17 settembre 2013.
    «Tim Buckley è il cantante più geniale della storia della musica rock, e forse dell'intera storia della musica»
  4. ^ Carlo Nalli, Tim Buckley - Monografia, su storiadellamusica.it. URL consultato il 17 settembre 2013.
    «[...] fu senza dubbio il più innovativo dei cantanti del Novecento, forse l’unico in ambito rock a dare una dignità allo strumento-voce pari a quella di un qualsiasi altro strumento»
  5. ^ Giancarlo Nanni, Tim Buckley - biografia, recensioni, streaming, discografia, foto, su OndaRock. URL consultato il 31 agosto 2017.
    «Folksinger, compositore, genio incompreso, Tim Buckley è stato uno dei più grandi cantanti della storia del rock»
  6. ^ John Vignola, La voce di Tim (Buckley), in Radio1 Music Club, Rai Radio 1, 25 luglio 2017. URL consultato il 31 agosto 2017.
    «[...] noi non possiamo che ricordare la grandezza di Tim Buckley. Molti forse non sanno che Jeff Buckley è stato figlio di un artista dei più importanti della storia del rock [...]»
  7. ^ https://www.scaruffi.com/vol1/buckley.html
  8. ^ Moreno Lenzi, Tim Buckley biografia, su sezionemusica.it. URL consultato il 17 settembre 2013.
  9. ^ (EN) Robert Niemi, Tim Buckley -- A Chronology, 1967-1968, su timbuckley.net. URL consultato il 17 settembre 2013.
  10. ^ (EN) Matthew Greenwald, Goodbye and Hello, su AllMusic, All Media Network. URL consultato il 17 settembre 2013.
  11. ^ (EN) Matthew Greenwald, Happy Sad, su AllMusic, All Media Network. URL consultato il 17 settembre 2013.
  12. ^ (EN) Robert Niemi, Tim Buckley -- A Chronology, 1969-1970, su timbuckley.net. URL consultato il 17 settembre 2013.
  13. ^ (EN) Richie Unterberger, Lorca, su AllMusic, All Media Network. URL consultato il 17 settembre 2013.
  14. ^ (EN) Richie Unterberger, Starsailor, su AllMusic, All Media Network. URL consultato il 17 settembre 2013.
  15. ^ (EN) Robert Niemi, Tim Buckley -- A Chronology, 1971-1973, su timbuckley.net. URL consultato il 17 settembre 2013.
  16. ^ (EN) Ned Raggett, Greetings from L.A., su AllMusic, All Media Network. URL consultato il 17 settembre 2013.
  17. ^ (EN) Richie Unterberger, Look at the Fool, su AllMusic, All Media Network. URL consultato il 17 settembre 2013.
  18. ^ (EN) Richie Unterberger, Sefronia, su AllMusic, All Media Network. URL consultato il 17 settembre 2013.
  19. ^ (EN) Robert Niemi, Tim Buckley -- A Chronology, 1974-1979, su timbuckley.net. URL consultato il 17 settembre 2013.
  20. ^ a b c d Eddy Cilìa, Federico Guglielmi, Rock. 500 dischi fondamentali, Giunti, 2002, pp. 60-62.
  21. ^ Scaruffi: La musica totale, su scaruffi.com. URL consultato il 3 dicembre 2016.
  22. ^ Giancarlo Nanni, Tim Buckley Il navigatore delle stelle, su ondarock.it. URL consultato il 1º maggio 2017.
  23. ^ TIM BUCKLEY discography (top albums), MP3, videos and reviews
  24. ^ a b c d Eddy Cilìa, Enciclopedia Rock - '60 (secondo volume), Arcana, 2001, pp. 49-50.

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

Voci correlate[modifica | modifica wikitesto]

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Collegamenti esterni[modifica | modifica wikitesto]

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