Monte Echia

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Monte Echia
Il monte Echia visto da via Santa Lucia
StatoBandiera dell'Italia Italia
Regione  Campania
Provincia  Napoli
CatenaPizzofalcone
Coordinate40°50′02.76″N 14°14′48.48″E / 40.8341°N 14.2468°E40.8341; 14.2468
Mappa di localizzazione
Mappa di localizzazione: Italia
Monte Echia
Monte Echia

Monte Echia è uno spuntone roccioso, interamente in tufo giallo, ubicato nella zona di Pizzofalcone, nel quartiere San Ferdinando di Napoli.

Questo promontorio si staglia sul Golfo di Napoli fra il borgo di Santa Lucia ad est, la conca di Chiaia ad ovest e sovrasta l'isolotto di Megaride a sud.

Su di esso i Cumani fondarono Partenope alla fine dell'VIII secolo a.C.[1], anche se la più antica documentazione archeologica è risalente al II-III quarto dell'VIII, ossia tra il 750 e il 720 a.C.[2] , non lontana dalle fasi più antiche di Pithecusa e dell'abitato di Cuma.[3]

Etimologia[modifica | modifica wikitesto]

Il promontorio anticamente era chiamato Euple o Emple da Euplea di Stazio. In seguito il nome si trasformò lentamente in Epla, Hecle, Ecla, Echa, per poi divenire l'attuale Echia. Alcuni studiosi invece credono ad una derivazione da Hercli, da Ercole, altri dal nome di una ninfa Egle[4].

Storia[modifica | modifica wikitesto]

Veduta del Monte Echia visto dal borgo di Santa Lucia in una stampa di fine Ottocento

Partenope era collegata con la spiaggia e il porto da una sola via di accesso.

Inglobato nel castrum lucullanum (villa di Lucullo che si estendeva fino all'isolotto di Megaride) in Età Imperiale, ospitò i famosi giardini luculliani, pieni di piante esotiche e rare specie avicole. L'antico nome del monte, Platamon (sopravvissuto nel toponimo della via che corre alla sua base, via Chiatamone), significa "rupe scavata da grotte". All'interno di monte Echia si aprono infatti innumerevoli cavità, che la tradizione antiquaria napoletana riteneva fossero abitate sin dalla preistoria e fino all'età classica. Successivamente divennero sede di riti mitriaci, di cenobiti nel Medioevo e di orge nel XVI secolo. Queste ultime destarono enorme scandalo, spingendo il viceré Pedro de Toledo alla loro ostruzione[5].

Monumenti e luoghi d'interesse[modifica | modifica wikitesto]

Il belvedere di Monte Echia con il Gran Quartiere di Pizzofalcone a sinistra ed il Palazzo Carafa di Santa Severina sulla destra.

Il sito archeologico di Monte Echia è caratterizzato da alcuni resti della grande Villa di Licinio Lucullo. Accanto alla Villa sorge un pregevole belvedere che offre una delle vedute più belle e caratteristiche di Napoli e del suo Golfo. L'orizzonte spazia a 360° dalla collina di Capodimonte a nord, al Vesuvio ad est, alla Penisola sorrentina e Capri a sud, a Posillipo ad ovest. Il belvedere è stato in tempi recenti oggetto di ristrutturazione. Nell'ambito dei lavori si è inaugurato nel 2024 l'ascensore di Santa Lucia, che permette un rapido collegamento coi sottostanti Borgo Santa Lucia e Borgo Marinari. Il vecchio collegamento era costituito dalle rampe di Pizzofalcone, lungo le quali si può ammirare Villa Ebe, opera dell'architetto napoletano, di origine scozzese, Lamont Young.

Alle spalle del belvedere, nella parte orientale del Monte Echia, sorgono il Palazzo Carafa di Santa Severina e la Chiesa dell'Immacolatella a Pizzofalcone, primi insediamenti urbani della zona, risalenti all'inizio del Cinquecento. L'altro edificio, sul lato sud occidentale, è il Gran Quartiere di Pizzofalcone, oggi caserma della Polizia di Stato Ninio Bixio, costruito, in epoca spagnola, contestualmente alla militarizzazione della collina di Pizzofalcone.

Targa di Editto di dono al popolo della fonte d'acqua ferrata - 1731 - via Chiatamone

Da questo monte aveva origine la sorgente di un'acqua bicarbonato-alcalino-ferruginosa di origine vulcanica, nota ai napoletani di un tempo come acqua zuffregna o acqua ferrata.

Dal nome delle anforette (le mummarelle) utilizzate per raccogliere e vendere ai banchi della città, quest'acqua era anche detta acqua di mummare.

La sorgente venne chiusa agli inizi degli anni settanta a causa di timori di contaminazioni per l'epidemia di colera, per poi essere restituita ai napoletani, dopo 27 anni e numerosi controlli, da quattro apposite fontanelle site in via Riccardo Filangieri di Candida Gonzaga, l'antica via del parco del castello, nei pressi di Palazzo Reale. Nel 2003, dopo soli 3 anni, queste fontane sono state nuovamente chiuse[6] ed oggi versano in uno stato di totale degrado e abbandono[7]. Un'altra fontana della stessa fonte, donata nel 1731 al popolo del borgo di Santa Lucia, in via Chiatamone è ancora murata.

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ Parco archeologico urbano di Napoli (PDF), su naus-editoria.it, p. 9.
  2. ^ Professore Associato in Archeologia Classica (Università degli Studi di Napoli “L'Orientale") Matteo D'acunto, APPUNTI MAGNA GRECIA, Appunti di Archeologia, in docsity.com. URL consultato il 19 luglio 2022.
  3. ^ Daniela Giampaola, Emanuele Greco, Napoli prima di Napoli. Mito e fondazioni della città di Partenope, Roma, Salerno edit., 2022 p. 51
  4. ^ Gino Doria, Le strade di Napoli - Saggio di toponomastica storica, Cremona Ricciardi, novembre 1982 pag. 355
  5. ^ "In quel lito del mare giaceno le deliziose Grotte Platamonie fatte con artificio di mani per comune diletto di coloro che, per rinfrescare gl'immensi ardori dell'estate, passeggiavano quinci e si riparavano con spessi e sontuosi conviti, ricevendo dispogliati la grata aura e il desiderato fiato di ponente, e nudi tra le chiare onde a nuoto si difendeano dal noioso caldo". Benedetto di Falco, secolo XV. "Quivi, come narrasi, la gente allegra e spensierata accorreva a banchettare e a darsi spasso; finché i sollazzi mutati, poscia, in orgie scandalose, resero quei luoghi dei sozzi postriboli". Loise de Rosa, Cronache e Ricordi, 1452.
  6. ^ Chiuse le 4 fontane dell'acqua ferrata - la Repubblica.it, in Archivio - la Repubblica.it. URL consultato il 23 luglio 2017.
  7. ^ Un tempo sgorgava acqua «suffregna» Ora le 4 fontanine affogano tra i rifiuti - Corriere del Mezzogiorno, su corrieredelmezzogiorno.corriere.it. URL consultato il 23 luglio 2017.

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

  • Italo Ferraro, Napoli atlante della città storica, vol. VII, Napoli, Oikos, novembre 2010.

Voci correlate[modifica | modifica wikitesto]

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