Assalto alla sede del Movimento Sociale Italiano di Padova

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Assalto alla sede del MSI di Padova
attentato
Via Zabarella 24, dove il 17 giugno 1974 furono assassinati dalle BR i missini Mazzola e Giralucci
Tipoomicidio, tentativo di intimidazione, tentato furto
Data17 giugno 1974
LuogoPadova
StatoBandiera dell'Italia Italia
ObiettivoMovimento Sociale Italiano
ResponsabiliBrigate Rosse
Conseguenze
Morti2 (Giuseppe Mazzola, Graziano Giralucci)

L'assalto alla sede del Movimento Sociale Italiano di Padova fu un agguato terroristico avvenuto il 17 giugno 1974 a opera di un gruppo delle Brigate Rosse nell'edificio in cui si trovava la sede locale del Movimento Sociale Italiano, nel corso del quale vi furono due vittime, entrambe iscritte al partito, Giuseppe Mazzola[1], carabiniere in congedo, e Graziano Giralucci[2], agente di commercio. Furono i primi omicidi commessi e rivendicati dalle BR.

Storia[modifica | modifica wikitesto]

La settimana prima del fatto, il terrorista Roberto Ognibene, dando generalità false, si era presentato in visita di ricognizione alla porta della sede dichiarandosi simpatizzante del partito e promettendo che sarebbe tornato. Intorno alle 9:30 di mattina del 17 giugno un gruppo di cinque persone armate con pistole munite di silenziatore eseguì un'azione a carattere paramilitare nella sede del MSI di via Zabarella 24. Mentre un membro del commando rimase ad attendere fuori dall'edificio come "palo", altri due membri fecero un'incursione negli uffici; un quarto membro del commando attendeva sulle scale dell'edificio con una borsa, per prendere il materiale sottratto, ed un quinto era rimasto in auto pronto per la fuga. L'atto avrebbe dovuto avere lo scopo di prelevare alcuni documenti presenti nella sede del Movimento Sociale Italiano e scrivere sui muri slogan delle Brigate Rosse, a scopo intimidatorio e con la valenza simbolica della violazione di territorio[3]. Penetrati all'interno del locali i due terroristi vi trovarono Graziano Giralucci, militante dell'MSI, quasi trentenne, rugbista e fondatore del CUS Padova, e Giuseppe Mazzola, un ex carabiniere in pensione sessantenne che teneva la contabilità, i quali furono assassinati nel corso dell'attacco. Le armi del delitto furono due pistole, una P38 e una 7.65 con silenziatore. Conclusa l'azione il commando si dileguò.

Il giorno successivo l'azione venne rivendicata da una cellula brigatista tramite una telefonata alla sede di Padova de Il Gazzettino e due volantini vennero lasciati in cabine telefoniche di Milano e Padova. La decisione di rivendicare il fatto, a detta di Renato Curcio, fondatore delle BR, fu sofferta. Silvano Girotto, interrogato il 26 settembre 1974 da Giancarlo Caselli, a proposito del duplice omicidio di Padova riferì: «Curcio disse: bisognava anche sapere che, se necessario, le Br uccidevano». L'eventualità dell'uso delle armi per uccidere non era esclusa e questo rappresentava un principio chiaro dell'organizzazione; il problema sorse sull'opportunità, in particolare sull'omicidio di Mazzola e Giralucci, che lo stesso Curcio definì «un imbarazzante incidente di lavoro» nonché «un errore molto grave e un disastro politico». In una lunga intervista concessa a Mario Scialoja nel 1992 Curcio, proprio in relazione al delitto di Via Zabarella, dichiarò che all'epoca escludeva del tutto l'idea di uccidere consapevolmente per scopi politici, ritenendo questa pratica controproducente e negativa per la stessa organizzazione. Gli stessi responsabili della colonna veneta sollecitarono i vertici delle BR a rinunciare alla rivendicazione di paternità degli omicidi. Pur con molti dubbi le BR rivendicarono l'azione specificando nel volantino che, pur essendo responsabili degli omicidi, le BR seguivano un'altra linea e che i delitti non erano stati pianificati dall'organizzazione. Le Brigate Rosse avevano in precedenza commesso altre azioni violente armate, tra cui il rapimento del procuratore Mario Sossi, a Genova, il 18 aprile 1974, ma questo fu il primo omicidio effettuato e rivendicato a nome delle Brigate Rosse.

Le indagini[modifica | modifica wikitesto]

Negli anni ottanta, in seguito alle confessioni di vari terroristi pentiti e ad una più vasta indagine sulle Brigate Rosse, vennero riprese le indagini e individuati i responsabili. Venne aperto il procedimento procedurale per l'omicidio di Giralucci e Mazzola. In tale procedimento non fu coinvolto Pelli, morto di leucemia in carcere nel 1979.[4][5] Dopo il pentimento e la sua dissociazione dai movimenti terroristici, Susanna Ronconi rilasciò un'ampia e dettagliata confessione sui fatti e, secondo la deposizione, il commando era composto da:

La Ronconi sostenne la tesi degli omicidi per reazione. Secondo la sua ricostruzione dei fatti, a una reazione di Mazzola (che cercò di strappare la pistola a un aggressore) seguì un attacco di Giralucci che cercò di afferrare il collo di un terrorista e, in risposta, i due attaccanti avrebbero aperto il fuoco, uccidendo i due sul colpo.

Processo[modifica | modifica wikitesto]

L'11 maggio 1990 la Corte d'Assise confermò la colpevolezza degli imputati, condannando esecutori e mandanti. Tra i killer, Ognibene ricevette una condanna a 18 anni (omicidio volontario), la Ronconi e Semeria vennero condannati a nove anni e sei mesi, mentre Serafini ricevette sei anni, un mese e 10 giorni (concorso anomalo in omicidio volontario). Pelli era morto di leucemia l'8 agosto 1979 all'ospedale Niguarda di Milano.

Vennero riconosciuti come ispiratori dell'azione Renato Curcio, Mario Moretti ed Alberto Franceschini, condannati a dodici anni e otto mesi per concorso morale in omicidio.

Il processo di appello[modifica | modifica wikitesto]

Sia i condannati (i cui avvocati sostenevano la tesi secondo cui l'evento sarebbe maturato indipendentemente dai presunti ispiratori morali) che il pubblico ministero (per cercare di far riconoscere piena responsabilità anche per i mandanti) ricorsero in appello. Nel giugno 1991 l'appello programmato venne rinviato per questioni procedurali. Alla notizia del rinvio seguì la proposta di grazia avanzata dal Presidente della repubblica Francesco Cossiga a favore di Curcio, che suscitò un vespaio di polemiche nell'opinione pubblica. Il processo venne celebrato a Venezia a partire dal 20 novembre 1991. Durante il processo fu disposta una nuova perizia balistica, e la ricostruzione effettuata in base alla perizia giunse alla conclusione che si era trattato di una vera e propria esecuzione: i due sarebbero stati giustiziati con freddezza tramite un colpo alla testa. Il 9 dicembre il tribunale confermò la tesi secondo cui le cosiddette Brigate Rosse si erano già costituite con un nucleo centrale, di cui Curcio e Moretti erano i capi, e che questo nucleo fosse pienamente coinvolto nella vicenda. Le pene di Curcio e Moretti furono elevate a 16 anni e due mesi, mentre per Franceschini la sentenza salì a 18 anni, due mesi e sette giorni. Ronconi, Semeria e Serafini vennero riconosciuti pienamente colpevoli dell'omicidio, e la pena fu aumentata a 12 anni per i primi e a sette anni e sei mesi per l'ultimo. Per Ognibene furono confermati i 18 anni.

Sviluppi successivi[modifica | modifica wikitesto]

Graziano Giralucci lascia la moglie Bruna Vettorato e la figlia Silvia di 3 anni. Giuseppe Mazzola lascia la moglie Giuditta e 4 figli.

Nell'agosto 1991 il Presidente della repubblica Francesco Cossiga propose di concedere la grazia a Renato Curcio; a tale provvedimento si oppose la famiglia Mazzola che, per protesta, chiese la sospensione dallo status di cittadinanza italiana. Sempre a tal riguardo, Silvia Giralucci, figlia di una delle due vittime e ventenne al momento della lettera, scrisse a Cossiga:

«La grazia è un'ingiustizia che ci offende, sia come familiari delle vittime del terrorismo, che come privati cittadini. Mia madre ed io avevamo già espresso parere negativo alla grazia... La nostra vita è stata profondamente segnata da quell'episodio, è una vita non completa, non normale. Perché dobbiamo concedere una vita normale a chi non ha permesso che la nostra fosse tale? Hanno stroncato e segnato irreversibilmente troppe vite per avere il diritto di godersi la loro. Constatatone il fallimento, vorrebbero, e lei con loro, considerare la loro esperienza storicamente sorpassata, ma il dolore mio e della mia famiglia non è ancora storia, è vita".»

Nel luglio 1992 Serafini chiese la grazia, mentre Ronconi e Semeria usufruirono della semilibertà e Ognibene, grazie ai benefici della legge sui dissociati, fu impiegato presso il comune di Bologna. Il 1º agosto 1992 Serafini venne arrestato per scontare due anni e mezzo di pena residui.

Il 12 novembre 1992 il Comune di Padova ha deciso dedicare due vie a Graziano Giralucci e Giuseppe Mazzola. Nel giugno del 2008 il Comune di Padova ha affisso al muro dell'edificio di via Zabarella una targa di commemorazione del duplice omicidio. La targa era stata precedentemente appesa a un palo perché i condomini che attualmente abitano lo stabile avevano rifiutato di concedere l'uso del muro.

Giuseppe Mazzola, che per molti anni aveva prestato servizio come carabiniere in Calabria con encomi e decorazioni, ricevette anche la cittadinanza onoraria di Montebello Ionico (RC). All'assassinio di Giralucci e Mazzola fu dedicata la canzone Padova 17 giugno del gruppo musicale legato all'estrema destra La Compagnia dell'Anello.

Note[modifica | modifica wikitesto]

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

  • Silvia Giralucci, L'inferno sono gli altri: cercando mio padre, vittima delle Br, nella memoria divisa degli anni Settanta, Mondadori, Milano, 2011, ISBN 978-88-04-61002-1.
  • Mario Scialoja - Renato Curcio, A viso aperto, Mondadori, Milano, 1993.
  • Luca Telese, Cuori Neri. Dal rogo di Primavalle alla morte di Ramelli, Sperling & Kupfer, Milano, ISBN 88-200-3615-0.
  • Giovanni Fasanella - Grippo Antonella, I silenzi degli innocenti, Rizzoli, Milano.
  • AA. VV., Sedie vuote. Gli anni di piombo dalla parte delle vittime, a cura di Alberto Conci, Paolo Grigolli, Natalina Mosna, Il margine, Trento, 2008.
  • Fabio Ragno - Francesco Bisaro, ‘’Brigate rosso sangue. Mazzola e Giralucci, il primo omicidio delle BR’’, a cura di Mario Bortoluzzi, Ferrogallico, collana Anni ‘70, 2019.

Voci correlate[modifica | modifica wikitesto]

Collegamenti esterni[modifica | modifica wikitesto]

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