Discussione:Bahrein

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Asia
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TRADUZIONE DALLO SPAGNOLO[modifica wikitesto]

Vi piacerebbe se traducessi la stessa voce dallo spagnolo in italiano. Faccio riferiemnto alla voce BAHRAIN in Spagnolo presente su wikipedia. Mi pare sia possibile e regolare tradurre voci da altre lingue, i cui contenuti sono presenti su wikipedia. Attendo suggerimenti. Grazie

Perché Bahrain e non Bahrein?[modifica wikitesto]

La pronuncia è pacifico che sia con la "e" in italiano, non capisco perché si debba scrivere con la "a". È una wiki italiana, non inglese!

Aspetto una risposta poi procedo a modificare,
--Mikelo Gulhi (msg) 21:38, 6 nov 2012 (CET)[rispondi]

P.S. Anche alcuni atlanti riportano Bahrein.

Ho spostato e modificato su wData. Lo segnalo subito al prg:geografia. Lascio temporaneamente alcuni redirect doppi, in attesa che lo spostamento venga ratificato, anche perché alcuni di essi mi lasciano un po' perplesso. --pequod ..Ħƕ 22:44, 5 feb 2013 (CET)[rispondi]
C'è poi da cambiare "Bahrain" con "Bahrein" in tutta la voce. -- Gi87 (msg) 14:29, 6 feb 2013 (CET)[rispondi]
Oserei dire in tutte lE vocI! Sia nei titoli (esempio 1 esempio 2 esempio 3) che nelle pagine in cui è contenuta la dicitura Bahrain. O sbaglio? (Sono 980 pagine!) --Teoamez (msg) 12:48, 7 feb 2013 (CET)[rispondi]
Non sono molto d'accordo sullo spostamento che è stato effettuato, anche la Treccani, che è piuttosto autorevole come fonte, lo riporta come Bahrain. In ogni caso, se venisse mantenuto il nome attuale Bahrein, segnalo che dovrebbe essere spostata la Categoria:Bahrain e molte delle sue sottocategorie, nonché ovviamente un gran numero di voci. --Dre Rock (msg) 20:04, 14 feb 2013 (CET)[rispondi]

Sono abbastanza d'accordo con Dre Rock, questo comporta non poche rogne. Non sono esperto, ma una votazione non sarebbe una buona cosa? Inoltre penso che la dicitura con la "a" sia d'uso comune ed è risaputo che si pronunci "Barein". --Teoamez (msg) 21:28, 14 feb 2013 (CET)[rispondi]

Concordo con lo spostamento a Bahrein in quanto la Treccani non è sempre indice di correttezza, infatti nessuno di noi si sognerebbe di spostare la Malesia alla sua versione di derivazione anglofona Malaysia ...eppure: [1]!!! --Nicola Romani (msg) 18:29, 24 mar 2013 (CET)[rispondi]
Forse è il caso di prendere una decisione definitiva per il titolo della voce, dati i continui spostamenti di voce in poco tempo. Ritengo che il consenso da ottenere sia quello per lo spostamento da Bahrain (titolo originario della voce) a Bahrein, e non viceversa. Anche perchè come già detto su wikipedia tutte le altre voci, categorie ed eventuali tmp riportano Bahrain e ci sarebbe da fare un gran lavoro di adeguamento. A margine, rispondendo a Nicola, direi che il paragone con la Malesia non lo trovo pertinente. In italiano è nettamente più utilizzato il termine Malesia che non Malaysia (e infatti nessuno si sognerebbe di spostare la voce), mentre l'utilizzo dei termini Bahrain e Bahrein si equivale. O.T.: C'è un motivo se la Treccani riporta Malaysia. Se si cerca Malesia viene spiegato che il termine ha 2 accezioni, il primo che individua nel termine uno spazio geografico più ampio dell'Asia sud-orientale ed il secondo con il nome dello stato. --Dre Rock (msg) 19:20, 4 apr 2013 (CEST)[rispondi]
Mi ricorda la definizione attribuita in modo storpiato a Metternich sull'Italia ("altro non è che una espressione geografica...")
Al lavoro sporco ci pensano i bot come fanno ogni giorno, ho dovuto inoltre correggere persino il nome degli abitanti, cosa che dovrebbe gridare vergogna per chi scrive enciclopedie. --Nicola Romani (msg) 19:45, 4 apr 2013 (CEST)[rispondi]
Ai bot vanno date precise istruzioni, non è che voci, tmp e categorie si spostano da sole. Ad ogni modo quando si sposta una voce sarebbe meglio correggere il link su wikidata. --Dre Rock (msg) 20:13, 4 apr 2013 (CEST)[rispondi]
Ho notato le richieste di spostamento delle categorie. C'è consenso per spostarle? --Horcrux92. (contattami) 20:20, 8 apr 2013 (CEST)[rispondi]
Si, inoltre si vedano le fonti in voce. Grazie in anticipo. --Nicola Romani (msg) 20:46, 8 apr 2013 (CEST)[rispondi]
✔ Fatto, la prossima volta però ti prego di fare più attenzione: circa metà delle pagine da spostare non erano segnalate. --Horcrux92. (contattami) 00:14, 12 apr 2013 (CEST)[rispondi]

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Situazione politica attuale[modifica wikitesto]

Sotto la maschera, la repressione

Bahrain/Reportage. Il piccolo arcipelago del Golfo vuole mostrarsi un modello di coesistenza tra fedi ed etnie ma quasi otto anni dopo le proteste di piazza della Perla represse nel sangue, re Hamad bin Isa al Khalifa ha imposto un duro regime che mette a tacere qualsiasi dissenso.

Sfogliare i giornali bahraniti è così rassicurante. Tutto va alla grande, scrivono, nel ‎regno di ‎re Hamad bin Isa al Khalifa. Le donne raggiungono traguardi importanti, ‎gli incontri dei ‎membri della famiglia reale in giro per il mondo sono coronati ‎sempre da successi. Il Bahrain ‎è un modello di coesistenza di fedi ed etnie. Ah, ‎anche l’economia va bene, malgrado il ‎deficit pubblico che i “fratelli” più ricchi ‎sauditi ed emiratini ogni tanto sono chiamati a ‎tamponare con miliardi di dollari. ‎E poi a primavera c’è il Gran Premio di F1 a mettere in ‎vetrina questo minuscolo ‎arcipelago del Golfo, con una superfice di appena 765 kmq. E ‎invece sotto questa ‎maschera di bellezza si nasconde un regime che si è fatto spietato, ‎senza ‎misericordia per gli oppositori, che negli ultimi anni ha attuato una ‎repressione ‎feroce, per spegnere con il pretesto della lotta al terrorismo e alle ‎‎”interferenze” del ‎nemico iraniano qualsiasi espressione di dissenso. Un clima che ‎abbiamo ‎registrato questa settimana durante la nostra breve permanenza nel paese. ‎In ‎Bahrain parlare con i giornalisti stranieri è estremamente pericoloso, chi lo fa ‎rischia ‎l’arresto. Nel “regno delle meraviglie” dipinto dalla stampa ufficiale anche ‎un tweet poco ‎rispettoso del regime imposto dai regnanti al Khalifa può costare ‎una condanna ad anni di ‎carcere. Per questa ragione siamo tenuti a mantenere ‎rigidamente anomime tutte le ‎nostre fonti e a non identificare in alcun modo le ‎persone che hanno accettato di ‎raccontarci come stanno le cose. Chi scrive ha ‎operato nell’ombra e senza l’accredito ‎giornalistico ufficiale che avrebbe ‎fortemente limitato la possibilità di svolgere un lavoro ‎d’inchiesta.‎

‎ «La stampa libera non esiste, l’unico giornale indipendente, al Wasat, è stato ‎chiuso dalle ‎autorità, i partiti politici d’opposizione, come il socialista Waad e lo ‎sciita al Wefaq, sono stati ‎sciolti e i loro leader incarcerati o costretti a vivere come ‎reclusi nelle loro abitazioni. Uno di ‎questi è Ebrahim Sharif (Waad). I difensori ‎dei diritti umani hanno subito la stessa sorte. ‎Uno di loro Nabeel Rajab, noti anche ‎all’estero, è stato condannato (a inizio anno, ndr) a ‎cinque anni di carcere perché ‎nei suoi tweet aveva criticato la monarchia e perché, secondo ‎la corte, aveva ‎diffamato il Bahrain denunciando detenzioni arbitrarie, torture e altri gravi ‎abusi. ‎E si viene arrestati anche se si criticano l’Arabia saudita e altri paesi arabi», ci ‎riferisce ‎un dirigente politico che ha pagato con la prigione la “colpa” di aver ‎avviato in passato una ‎campagna, assieme ai suoi compagni di partito, per ‎trasformare la monarchia assoluta in ‎costituzionale e per l’istituzione di un ‎parlamento vero, al posto di quello esistente in cui la ‎Camera bassa eletta non ha ‎alcun potere ed è soggetta al consiglio consultivo con membri ‎nominati dal re. «In ‎questo paese – aggiunge il nostro interlocutore – una minoranza, quella ‎sunnita ‎alla quale appartiene la famiglia reale, ha il controllo di quasi tutto in politica ‎ed ‎economia, mentre gli sciiti, la maggioranza della popolazione, sono dei cittadini ‎di ‎secondo livello». Tuttavia, precisa il dirigente politico, «in Bahrain non è in corso ‎un ‎conflitto di natura religiosa come afferma il regime. Gli sciiti lottano insieme a ‎non pochi ‎sunniti per l’uguaglianza e la democrazia sin dagli anni ’90 e l’hanno ‎sempre fatto sempre in ‎modo pacifico, prima e dopo piazza della Perla». ‎

‎ In quella piazza, che non esiste più perché distrutta per ordine di re Hamad, il 17 ‎febbraio ‎del 2011, seguendo l’esempio degli egiziani accampati in piazza Tahrir, i ‎bahraniti issarono ‎una campo di tende. La prima reazione del regime fu dura: 4 ‎morti e diversi feriti. Poi per ‎un mese la situazione restò relativamente tranquilla ‎con qualche scontro e tafferuglio solo ‎nei centri abitati più popolari. Piazza della ‎Perla divenne un laboratorio di idee e il motore di ‎manifestazioni pacifiche con ‎migliaia di persone. Il re, dopo aver dato qualche timido ‎segnale di disponibilità, ‎chiese improvvisamente l’intervento dello “Scudo del Golfo”, ‎l’alleanza difensiva ‎delle petromonarchie, e i soldati inviati dall’Arabia saudita e dagli Emirati ‎diedero ‎alle forze di sicurezza bahranite l’appoggio necessario per spegnere nel sangue ‎il ‎momento più alto di una possibile costruzione di un Bahrain, diverso e ‎democratico. I ‎morti furono decine, gli arrestati centinaia. I militari entrarono ‎anche negli ospedali per ‎catturare i manifestanti feriti. Negli anni successivi si ‎sono avviati tavoli di trattative, veri e ‎presunti, ma il re ha poi eliminato ogni ‎spazio al dialogo e aggravato la repressione al punto ‎da dichiarare illegale ‎qualsiasi forma di opposizione, sia che fosse un partito, un mezzo ‎d’informazione ‎o una semplice associazione. Il semplice dissenso è stato fatto passare ‎come «una ‎espressione dei tentativi dell’Iran di destabilizzare il regno». ‎

‎ Chi ci aiuta si dice «che almeno 800 oppositori, tutti sciiti, si sono visti ‎revocare la ‎cittadinanza e oggi vivono una condizione estremamente difficile ‎assieme alle loro famiglie, ‎perché privati di qualsiasi diritto». Al contrario le ‎autorità hanno concesso la cittadinanza a ‎migliaia di stranieri – quasi tutti arabi e ‎pakistani, tra i quali non pochi mercenari entrati ‎nelle forze di sicurezza – per ‎favorire l’aumento del numero dei sunniti. Decine di ‎oppositori sono in esilio, tra i ‎quali Zeinab al Khawaja, figlia del direttore del centro per i ‎diritti umani del Golfo ‎Abdel Hadi al Khawaja, detenuto da anni. Una donna ci ha raccontato ‎di essere ‎stata torturata. «Hanno usato contro di me torture fisiche e psicologiche, mi ‎hanno ‎umiliata, sbeffeggiata, minacciata di violenza carnale. Mi chiamavano ‘cagna’. Ma ‎agli ‎uomini incarcerati va persino peggio». Un giornalista ci descrive un clima di ‎terrore ‎nell’informazione. «Siamo nel panico, si possono riferire solo le notizie ‎ufficiali, quelle ‎contro l’Iran, di sport e di costume. Tutto il resto è vietato, chi ‎sgarra come minimo perde ‎l’accredito stampa e il posto di lavoro». Dopo i laici il ‎regime ha incarcerato anche i leader ‎religiosi, incluso il leader spirituale degli ‎sciiti, lo sceicco Ali Qassem, arrestato circa due anni ‎fa al termine di un assedio ‎delle forze di sicurezza al suo villaggio, Diraz, costato la vita a ‎cinque giovani ‎manifestanti. «Le elezioni, legislative e municipali, previste il 24 ‎novembre, ‎saranno una farsa – aggiunge il giornalista – solo con candidati in linea con ‎la ‎monarchia». Re Hamad, oltre alla “protezione” dell’Arabia saudita, ha dalla sua ‎parte ‎l’Amministrazione Trump – il Bahrain ospita nella località di Juffair, la V ‎Flotta americana – ‎che garantisce un appoggio pieno alle sue politiche «contro le ‎pericolose ingerenze ‎dell’Iran». E la recente apertura nell’isola di una nuova base ‎britannica fa tacere anche ‎Londra.‎

‎ I centri abitati periferici, quelli sciiti, sembrano città fantasma. Pochi girano in ‎strada, la ‎tensione è palpabile. Sui muri ci sono slogan contro la monarchia e chi li ‎scrive rischia pene ‎severe. In queste aree scoppiano ancora proteste con lanci di ‎sassi contro la polizia. Ma le ‎forze di sicurezza hanno schiantato la resistenza ‎pacifica, aprendo probabilmente la strada ‎ad altre forme di lotta. I giovani ‎bahraniti ormai guardano con crescente scetticismo ‎all’opposizione tradizionale ‎che per anni ha creduto, fallendo, di poter strappare un ‎accordo a un re che non ‎vuole concedere nulla. Nella notte di lunedì scorso, esercito e ‎polizia hanno ‎condotto una maxi operazione – 169 arresti – contro una presunta ‎organizzazione ‎simile al movimento sciita libanese Hezbollah. Si sono vissute ore di panico ‎tra gli ‎oppositori ancora in libertà. In quel clima di tensione e paura la presenza di ‎un ‎giornalista italiano non accreditato ufficialmente ha accresciuto i rischi per le ‎persone ‎che avevano accettato di rispondere alle nostre domande. Per ‎salvaguardarle, su loro ‎richiesta, abbiamo lasciato subito il Bahrain (il Manifesto, 28/09/2018)Christian Allasino (msg) 13:31, 29 set 2018 (CEST)[rispondi]

Il Manama night club Golfo. Prostitute asiatiche in semi schiavitù, quartieri a luci rosse e alcol: per i soldati occidentali e i ricchi sauditi il Bahrain è il paese dei balocchi. La sola cosa davvero proibita è la democrazia

Rami sorride mentre mostra gli smartphone più costosi ai clienti sauditi entrati nel suo negozio. Parla un buon inglese e ci sa fare. Con un piccolo sconto e una spiegazione tecnica particolareggiata convince senza fatica i due ad acquistare il telefono di una nota marca che ha tra le mani.

«SONO DEL KERALA, la maggior parte degli indiani che vivono e lavorano qui sono del Kerala», ci dice riferendoci che le recenti inondazioni non hanno toccato il suo villaggio. Rami è uno dei 300mila lavoratori stranieri in Bahrain, circa un terzo della popolazione totale del minuscolo arcipelago del Golfo. Quasi tutti orientali. È raro incontrare i bahraniti arabi in via al Khalifa e a Bab Bahrain e il centro di Manama appare un piccola India con qualche spruzzo di Pakistan, Sri Lanka e Filippine.

Il profumo delle spezie è penetrante. Tessuti, oggetti e alimenti arrivati dall’Oriente sono il tema dominante nelle strette viuzze della zona. E asiatici sono i commercianti di perle, anche se quella che un tempo lontano era l’orgoglio dei pescatori bahraniti oggi è solo un’attività marginale in un paese che pretende di essere un hub finanziario e che nelle sue costruzioni più recenti imita i più ricchi Emirati e l’alleata Arabia saudita.

«SI GUADAGNA BENE. Di solito si resta qui 3-4 anni poi si torna a casa. I sauditi sono i nostri migliori clienti, spendono parecchio e questo ci aiuta a mettere da parte quanto serve per comprare una piccola casa una volta rientrati in patria», ci spiega Rami. Ma non è oro tutto quello che luccica.

«Purtroppo – aggiunge – tante ragazze orientali finiscono nel giro della prostituzione, il motivo principale per cui tanti maschi sauditi e di altri paesi del Golfo arrivano qui il giovedì sera è quello di bere alcol e cercarsi una prostituta». Parole che trovano conferma negli hotel del centro di Manama. Uomini in abiti tradizionali, spesso anziani, giunti in gran parte dell’Arabia saudita – grazie al ponte che collega in due paesi – si accompagnano a ragazze asiatiche con le quali, quasi sempre, finiscono in una stanza di hotel per sesso a pagamento. E bevono tanto.

«Se non vuoi correre rischi allora non guidare a Manama la domenica e il lunedì sulle tangenziali – ci avverte una conoscente – perché tanti sauditi ancora alle prese con gli effetti della sbornia si mettono al volante per tornare a casa». Il Bahrain, aggiunge accennando un sorriso «è ormai da anni il luna park dei sauditi, quello che i sauditi non possono fare a casa loro vengono a farlo qui, ciò che è proibito nel loro paese è consentito qui».

L’accesso facile all’alcol e alla prostituzione contrastano con le severe leggi in vigore nel paese. In Bahrain la minoranza sunnita, che fa capo a re Hamad bin Isa al Khalifa, è wahhabita, corrente tra le più rigide dell’Islam. Non meno severe sono le regole sociali che segue la maggioranza sciita.

LA PROSTITUZIONE è vietata e i server locali di internet, come ain altri Stati della regione, negano l’accesso a siti porno. Nel 2008 è stata approvata una legge contro il traffico di esseri umani, che prevede pene da tre a 15 anni di reclusione, e l’articolo 325 prescrive la reclusione da due a sette anni per la prostituzione forzata e da tre a dieci anni se la vittima è un bambino. Ma nella vita reale le cose sono ben diverse e negli hotel che si affacciano sulle strade percorse da donne avvolte nell’abaya nero, tante giovani orientali sono costrette a prostituirsi.

Sarebbero circa 15mila e in aumento le prostitute presenti a Manama e in altre località, secondo i dati diffusi qualche anno fa dal Bahrain Youth Society for Human Rights. Un numero elevato se si tiene conto della popolazione totale. Per questo non impressionano le notizie, peraltro rare, di operazioni della polizia che portano alla «liberazione» di donne tenute in stato di schiavitù e costrette a prostituirsi.

IL DIPARTIMENTO di Stato americano nei suoi rapporti annuali indica il Bahrain come uno dei paesi dove si aggrava il fenomeno del traffico di donne destinate alla prostituzione forzata. E gli Usa chiedono alle autorità locali di agire con fermezza per interromperlo. Eppure ad alimentarlo sono proprio i militari statunitensi che entrano nel paese.

Se di giorno Jufair – area residenziale dove ha sede il comando della V Flotta americana e della Combined Maritime Forces composta da unità navali di 29 paesi, inclusa l’Italia, che ufficialmente combattono la pirateria nel Golfo, nel Mar Rosso e nell’Oceano Indiano – è nota per i suoi caffè e i costosi ristoranti alla moda, di notte si trasforma in un quartiere a luci rosse.

Nelle discoteche e nei club affollati di marinai e ufficiali americani lavorano centinaia di prostitute cinesi e russe. Tutti lo sanno, nessuno lo denuncia o agisce. Le autorità bahranite chiudono un occhio, anzi tutti e due, su quanto accade perché nulla deve turbare il divertimento dei militari Usa.

L’amministrazione Trump si è impegnata ancora più di quelle precedenti a «proteggere» il regno dalle presunte interferenze dell’Iran e a dare copertura politica alla feroce repressione in corso da anni contro l’opposizione che chiede riforme democratiche e l’uguaglianza tra cittadini sunniti e sciiti.

Ai soldati americani si aggiungono quelli britannici. Nel porto di Salman, sull’isola piccola del Bahrain, qualche mese fa è stata inaugurata una base navale britannica di supporto che può ospitare fino a 500 marinai e aviatori di Sua Maestà.

D’ALTRONDE fu proprio il colonialismo britannico a creare nel 1935 la base di Jufair di cui gli Stati uniti presero il controllo nel 1971, in seguito all’indipendenza del Bahrain. Londra continua a dare appoggio alla monarchia bahranita invitata a tutte le occasioni che contano dei reali britannici. «Nel nostro paese – commenta con amarezza la nostra conoscente – tante cose sono permesse e gli occidentali sono i benvenuti. Le uniche cose davvero proibite in Bahrain sono la libertà e la democrazia» (il Manifesto, 09/10/2018) Christian Allasino (msg) 10:42, 10 ott 2018 (CEST)[rispondi]

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