Alessandro I (re dell'Epiro)

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Alessandro I
Re dell'Epiro
In carica350 a.C. –
331 a.C.
PredecessoreAribba
SuccessoreEacide
Nascita362 a.C. circa
MortePandosia, 330 a.C. circa
PadreNeottolemo I
ReligionePaganesimo
Alessandro I d'Epiro raffigurato su una moneta dell'Antica Grecia

Alessandro I d'Epiro, detto il Molosso (362 a.C. circa – Pandosia, 330 a.C. circa), è stato re d'Epiro, della dinastia degli Eacidi e zio materno di Alessandro Magno.

Figlio di Neottolemo I e fratello di Olimpiade, Alessandro I era zio e cognato di Alessandro Magno. Era anche zio di Pirro d'Epiro (Eacide d'Epiro era cugino di Alessandro I e padre di Pirro).

Biografia[modifica | modifica wikitesto]

Neottolemo I governò insieme al fratello Aribba. Quando Neottolemo morì, nel 357 a.C. circa, suo figlio Alessandro era solo un bambino e Aribba divenne l'unico re. Nel 350 a.C. circa, Alessandro fu portato alla corte di Filippo II di Macedonia per proteggerlo. Nel 343/2, poco più che ventenne, Filippo lo nominò re dell'Epiro, dopo aver detronizzato lo zio Aribba. Quando Olimpiade fu ripudiata dal marito nel 337 a.C., si recò dal fratello e cercò di indurlo a muovere guerra a Filippo. Alessandro, tuttavia, rifiutò la contesa e strinse una seconda alleanza con Filippo accettando di sposare la figlia Cleopatra. Durante le nozze, nel 336 a.C., di Alessandro I d'Epiro con la nipote Cleopatra, venne ucciso Filippo II, ed il trono di Macedonia fu assegnato al figlio di quest'ultimo, Alessandro Magno, con il nome di Alessandro III.

Venuto in Italia nel 334 a.C. per soccorrere la città magno-greca di Taranto, Alessandro I, entrò in conflitto con i Lucani, i Bruzi, gli Iapigi e i Sanniti, nel tentativo di creare uno stato unitario nel Meridione d'Italia. Pur riuscendo a conquistare con i Tarentini le città di Brentesion, Siponto, Heraclea, Cosentia e Paestum, tuttavia il suo progetto non si realizzò, venendo sconfitto in battaglia e ucciso a tradimento da un lucano a Pandosia (Lucania)[1] o a Pandosia Bruzia nel 330 a.C.[2]

Leggiamo di seguito quanto ci narra Tito Livio[3][4]:

«Trovandosi il re non molto discosto dalla città di Pandosia, vicino ai confini dei Bruzi e dei Lucani, si pose su tre monticelli alquanto, l'uno dall'altro divisi e lontani, per scorrere quindi in qual parte volesse delle terre dei nemici; aveva intorno a sé per sua guardia un duecento lucani sbanditi, come persone fedelissime, ma di quella sorte di uomini, che hanno, come avviene, la fede insieme con la fortuna mutabile. Avendo le continue piogge, allagato tutto il piano, diviso l'esercito posto in tre parti, in guisa che l'una all'altra non poteva porgere aiuto, due di quelle bande poste sopra i colli, le quali erano senza la persona del re, furono oppresse e rotte dalla subita venuta ad assalto dei nemici, i quali poi tutti si volsero all'assedio del re, e mandarono alcuni messaggi ai lucani loro sbanditi, i quali avendo pattuito di essere restituiti alla patria, promisero di dar loro nelle mani il re vivo o morto. Ma egli con una compagnia di uomini scelti fece un'ardita impresa che urtando si mise a passare, combattendo, fra mezzo dei nemici; ed ammazzò il capitano dei lucani, che d'appresso lo aveva assaltato; ed avendo raccolto i suoi dalla fuga, tra essi ristretto, giunse al fiume, il quale mostrava qual fosse il cammino con le fresche ruine del ponte, che la furia delle acque aveva menato via. Il qual fiume, passandolo la gente senza sapere il certo guado, un soldato stanco ed affamato, quasi rimbrottandolo e rimproverandogli il suo abominevole nome, disse: Dirittamente sei chiamato Acheronte. La qual parola, posciacché pervenne alle orecchie del re, incontamente lo fece ricordare del suo destino, e stare alquanto sospeso e dubbio, se si doveva mettere a passare. Allora, Sotimo, un ministro dei paggi del re, lo domandò che stesse a badare e l'ammonì che i lucani cercavano d'ingannarlo; i quali poiché il re vide da lungi venire alla sua volta, in uno stuolo trasse fuori la spada ed urtando il cavallo, si mise arditamente per mezzo del fiume per passare; è già uscito dalle profondità delle acque, era giunto nel guado sicuro, quando uno sbandito lucano lo passò dell'un canto all'altro con un dardo. Onde essendo caduto, fu poi trasportato il corpo esanime dalle onde, con la medesima asta insino alle poste dei nemici, ove ei fu crudelmente lacerato, perché tagliato pel mezzo, ne andarono una parte a Cosenza, e l'altra serbarono per straziarla; la quale mentre era percossa da sassi e dardi per scherno, una donna mescolandosi con la turba, che fuori di ogni modo della umana rabbia incrudeliva, pregò che alquanto si fermassero, e piangendo disse: Che aveva il marito ed i figliuoli nelle mani dei nemici e che sperava con quel corpo del re, così straziato come gli era, poterli ricomprare. Questa fu la fine dello strazio; e quel tanto che vi avanzò dei membri fu seppellito in Cosenza, per cura di una sola donna, e le ossa furono rimandate a Metaponto ai nemici; e quindi poi riportate nell'Epiro a Cleopatra sua donna, e ad Olimpiade sua sorella; delle quali l'una fu madre e l'altra sorella di Alessandro Magno»

Secondo l'archeologa Giuseppina Canosa, la sua ricca tomba sarebbe stata rinvenuta a Timmari, presso Matera.[5]

Inoltre, secondo una certa critica storiografica moderna[6] il Molosso sarebbe venuto in Italia con l'intendo di conquistare l'Italia stessa, la Sicilia e l'Africa. Questo obbiettivo avrebbe completato il progetto del nipote e cognato, Alessandro Magno, che in quello stesso anno era intento a conquistare l'Asia. Questa interpretazione trova appoggio anche in antichi autori, come ad esempio Giustino,[7][8] che scrive:

«Inoltre Alessandro, re di Epiro, invitato in Italia dai Tarantini che invocavano il suo auto contro i Bruzzi, era partito con così grandi ambizioni, come se nella spartizione del mondo, ad Alessandro, figlio di sua sorella Olimpiade, fosse toccato in sorte l'oriente e a sé l'occidente; era convinto, infatti, che avrebbe avuto occasione non minore di imprese, in Italia e in Africa e in Sicilia, di quanto la sorte ne riservava a suo nipote in Asia e in Persia.»

Emulo di Alessandro il Molosso, si può ritenere Pirro, re d'Epiro, che accorse in Italia in aiuto dei Tarantini contro i Romani per poi cercare di creare un proprio regno.

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ Plinio il Vecchio, nel suo Naturalis Historia, III, 98, fa riferimento alla Pandosia di Lucania, come luogo in cui perse la vita Alessandro I d'Epiro detto il Molosso: «et Pandosiam Lucanorum urbem fuisse Theopompus, in qua Alexander Epirotes occubuerit».
  2. ^ E. Pastorio, pag. 178.
  3. ^ Tito Livio, Ab Urbe Condita, VIII, 24.
  4. ^ G. Racioppi, pp. 235-236.
  5. ^ Una tomba principesca da Timmari, su ninniradicini.it. URL consultato il 13 novembre 2017.
  6. ^ L.Braccasi 2020, pp. 94-96.
  7. ^ Marco Giuniano Giustino, Epitoma Historiarum Philippicarum Pompei Trogi, XII, 21.
  8. ^ L.Braccesi, pp. 81-83.

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

Fonti primarie
Fonti secondarie
  • Alessandro il Molosso e i condottieri in Magna Grecia, Atti del quarantatreesimo Convegno di studi sulla Magna Grecia, Taranto-Cosenza 26-30 settembre 2003, 2 voll., Taranto, Istituto per la storia e l'archeologia della Magna Grecia, 2004.
  • Lorenzo Braccesi, Roma e Alessandro il Molosso nella tradizione liviana, Milano, Istituto lombardo di scienze e lettere, 1974 (estr.).
  • Lorenzo Braccesi, Alessandro al bivio: I Macedoni tra Europa, Asia e Cartagine, Napoli, Salerno Editrice, 2020.
  • Peter Robert Franke, Alt-Epirus und das Königtum der Molosser, Kallmütz, M. Lassleben, 1955.
  • (DE) Julius Kaerst, Alexandros 6), in Paulys Realencyclopädie der Classischen Altertumswissenschaft, vol. I,1, Stoccarda, 1893, col. 1409–1410.
  • Manfredo Liberanome, Alessandro il Molosso e i Sanniti, Torino, Accademia delle scienze, 1970 (estr.).
  • Ettore Pais, La spedizione di Alessandro il Molosso in Italia. Nota, Napoli, Stab. Tip. della R. Università, 1902.
  • Giacomo Racioppi, Storia dei popoli della Lucania e della Basilicata, Torino, Ermanno Loescher, 1889.
  • Alberto Rochira, La spedizione di Alessandro il Molosso in Italia, Taranto, Pappacena, 1948.

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