Utente:Francesco Ippolito/Libri/Italia

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Preistoria e protostoria[modifica | modifica wikitesto]

Preistoria[modifica | modifica wikitesto]

Il popolamento del territorio italiano risale alla preistoria, epoca di cui sono state ritrovate importanti testimonianze archeologiche. L'Italia è stata abitata almeno a partire dal Paleolitico. Tra i più interessanti siti archeologici italiani risalenti al Paleolitico, si ricorda quello di Arene Candide, presso Albenga, di Monte Poggiolo, presso Forlì, di Isernia La Pineta presso Isernia, uno dei più antichi siti dove l'uomo ha usato il fuoco, e la Grotta dell'Addaura, presso Palermo, nella quale si trova un vasto e ricco complesso d'incisioni, databili fra l'Epigravettiano finale e il Mesolitico, raffiguranti uomini ed animali. Tra i popoli insediatisi nel Neolitico, quando l'uomo da cacciatore divenne anche pastore e agricoltore, si ricordano i Camuni (in Val Camonica).

Cartina con i maggiori centri etruschi ed "espansione" della civiltà etrusca nel corso dei secoli

Etruschi e genti italiche[modifica | modifica wikitesto]

Le informazioni sulle genti abitanti la Penisola in epoca preromana sono, in taluni casi, incomplete e soggette a revisione continua. Popolazioni di ceppo indoeuropeo, trasferitesi in Italia dall'Europa Orientale e Centrale in varie ondate migratorie (Veneti, Osco-umbri, Latini, ecc.), si sovrapposero ad etnie pre-indoeuropee già presenti nell'attuale territorio italiano, o assorbendole, oppure stabilendo una forma di convivenza pacifica con esse. Presumibilmente, queste migrazioni ebbero inizio in età del bronzo medio (e cioè attorno alla metà del II millennio a.C.) e si protrassero fino al IV secolo a.C. con la discesa dei Celti nella pianura padana.

Fra i popoli di età preromana, meritano una particolare menzione gli Etruschi che, a partire dall'VIII secolo a.C., iniziarono a sviluppare una civiltà raffinata ed evoluta che influenzò notevolmente Roma e il mondo latino. Le origini di questo popolo non indoeuropeo, stabilitosi sul versante tirrenico dell'Italia centrale, sono incerte. Secondo alcune fonti, la loro provenienza andrebbe ricercata in Asia Minore, secondo altre, avrebbero costituito un'etnia autoctona. Certo è che, già attorno alla metà del VI secolo a.C., riuscirono a creare una forte ed evoluta federazione di città-stato che andava dalla Pianura Padana alla Campania e che comprendeva anche Roma ed il suo territorio.

In Italia settentrionale, accanto ai Celti (comunemente chiamati Galli) e ai Leponzi, anch'essi Celti, vi erano i Liguri (originariamente non indoeuropei poi fusisi con i Celti[1]) stanziati in Liguria e parte del Piemonte mentre nell'Italia nord-orientale vivevano i Veneti (paleoveneti) di probabile origine illirica[2] o provenienti dall'Asia Minore ma molto più probabilmente, secondo la moderna ricerca[3], centro-europei[4]. Nell'Italia più propriamente peninsulare accanto agli Etruschi, convivevano tutta una serie di popoli, in massima parte di origine indoeuropea, fra cui: Umbri in Umbria; Latini, Sabini, Falisci, Volsci ed Equi nel Lazio; Piceni nelle Marche ed in Abruzzo Settentrionale; Sanniti nell'Abruzzo Meridionale, Molise e Campania; Apuli, Messapi e Iapigi in Puglia; Lucani e Bruttii nell'estremo Sud; Siculi, Elimi e Sicani (non indoeuropei, probabilmente autoctoni) in Sicilia. La Sardegna era abitata, fin dal II millennio a.C., dai nuragici, risultato di un probabile connubio tra le preesistenti popolazioni megalitiche presenti nell'isola e i controversi Shardana. Alcune di queste popolazioni, stanziate nell'Italia meridionale e nelle isole, si troveranno a convivere, dall'VIII fino al III secolo a.C., con le colonie greche e fenicie (puniche) successivamente assorbite dallo Stato romano.

Fra le popolazioni citate, oltre ai già citati Etruschi, ebbero un ruolo importante in epoca preromana e romana i Sanniti, che riuscirono a costituire un'importante federazione in una vasta area dell'Italia appenninica e che contrastarono a lungo l'espansione romana verso l'Italia meridionale. Nell'area laziale, invece, un posto a sé stante meritano i Latini protagonisti, insieme ai Sabini, della primitiva espansione dell'Urbe e forgiatori, insieme agli Etruschi ed ai popoli italici più progrediti (Umbri, Falisci, ecc.), della futura civiltà romana.

Storia antica[modifica | modifica wikitesto]

Dislocazione di alcuni insediamenti Cartaginesi e Greci nel 580 a.C.

Fenici e Cartaginesi[modifica | modifica wikitesto]

I primi stanziamenti fenici in Italia sono datati attorno all'VIII secolo a.C. quando, dopo un iniziale fase di precolonizzazione del Mediterraneo occidentale e di fondazione di città come Utica e Cartagine, si insediarono sulle coste della Sardegna e nella Sicilia occidentale. Nacquero Mozia (da cui più tardi Lilibeo), Palermo, Solunto in Sicilia e Sulci, Nora, Tharros, Bithia, Kalaris in Sardegna[5].

Mentre in Sicilia lo stanziamento fenicio non incontrò grandi reazioni da parte degli autoctoni (a Monte Erice, per esempio, un tempio fu dedicato ad Astarte, dea-madre dell'area cananea, che veniva frequentato dai Fenici e dagli Elimi[6]), in Sardegna per la strenua resistenza opposta dai Sardo nuragici, non riuscirono a controllare territori molto ampi lontano dalle loro città. La visione dei Fenici colonizzatori è stata ridimensionata dalle scoperte archeologiche di fine XX secolo che evidenziano come in realtà i mercanti levantini frequentavano approdi già abitati dagli autoctoni con i quali avevano un pacifico rapporto di reciproci scambi commerciali. Il notevole flusso di merci favorì l'ampliarsi di questi approdi che vennero dotati di migliori strutture portuali e di un'edilizia mutuata proprio dai Fenici i quali, tramite matrimoni misti, si integrarono perfettamente con gli autoctoni apportando nuove conoscenze e nuovi stili di vita[7].

Solo con l'arrivo dei Punici, a metà del VI secolo a.C., con la spedizione del semileggendario Malco, iniziò il tentativo di conquista vera e propria delle isole maggiori. Cartagine, a tre secoli dalla fondazione, era diventata potenza egemone dell'Africa settentrionale fermando in Libia la colonizzazione greca vincendo Cirene. In Sicilia invece la colonizzazione greca aveva relegato la presenza punica nell'estrema punta occidentale dell'isola. I Cartaginesi allora, spinti da interessi di carattere demografico e economico, tentarono di conquistare l'intera Sicilia, cacciando da essa i Greci. Ciò avrebbe consentito il totale controllo dei due passaggi dal Mediterraneo Orientale a quello Occidentale. Le guerre greco-puniche (550 a.C.-275 a.C.) non portarono a grandi risultati, allargando a fasi alterne la sfera di influenza cartaginese o greca in Sicilia senza che nessuno dei due popoli riuscisse a prevalere nettamente sull'altro.

Lo scontro tra le due civiltà si concluse con lo scoppio della prima guerra punica che tolse ai Cartaginesi le aree siciliane e pose una pesante ipoteca su Siracusa, unico regno siceliota importante. Cartagine riuscì comunque a bloccare quasi completamente l'espansione greca nel Mediterraneo occidentale. In Sardegna invece i Cartaginesi conquistarono la parte meridionale dell'isola, pur incontrando maggiori difficoltà a causa della resistenza opposta dalle popolazioni autoctone. Nel corso del tempo i Cartaginesi chiusero le coste dell'isola in un vero e proprio cerchio di fortezze e colonie[8]. La conquista della Sardegna permise il controllo della produzione mineraria e agricola in relazione alle necessità puniche e non solo autoctone. L'agricoltura sarda si basava principalmente sulla produzione di grano tanto che già nel 480 a.C. Amilcare, impegnato nella battaglia di Imera, fece venire dalla Sardegna i rifornimenti di grano per le sue truppe, che si trovavano in Sicilia. Lo pseudo-aristotelico De mirabilibus auscultationibus riporta che Cartagine proibiva la coltivazione di piante da frutto per incentivare la monocultura del grano[9]. Anche l'artigianato sardo subì profonde influenze puniche.

Cartagine entrò anche nella storia d'Italia peninsulare alleandosi con gli Etruschi per combattere i pirati greci di Alalia, in Corsica. Le Lamine di Pyrgi testimoniano quanto fosse sentito l'influsso cartaginese sulle coste toscane e laziali. Nel 509 a.C., infine, la neonata Repubblica romana e i cartaginesi siglarono il primo dei Trattati Roma-Cartagine, che segnò l'inizio di relazioni diplomatiche stabili fra le due città. Successivamente vennero conclusi altri trattati, in cui vennero concesse ulteriori concessioni all'Urbe fino alla caduta definitiva di Cartagine.

Tetradracma di Siracusa
Testa di Aretusa Auriga alla guida di una quadriga
Argento ca. 415-405 a.C.

Civiltà greca[modifica | modifica wikitesto]

Colonie greche (in rosso) e fenicie (in giallo) in Italia nel IV secolo a.C.

Tra l'VIII ed il VII secolo a.C., coloni provenienti dalla Grecia iniziarono a stabilirsi sulle coste dell'Italia meridionale e in Sicilia. Le prime colonie ad essere costituite furono quelle ioniche e peloponnesiache: gli Eubei e i Rodii fondarono Cuma, Reggio Calabria, Napoli, Naxos e Messina, i Corinzi Siracusa (i cui abitanti a loro volta fonderanno l'odierna Ancona), i Megaresi Leontinoi, gli Spartani Taranto, mentre coloni provenienti dall'Acaia furono all'origine della nascita di Sibari e di Crotone. Altre importanti colonie furono Metaponto, fondata anch'essa da coloni Achei, Heraclea e Locri Epizefiri.

Con la colonizzazione greca i popoli italici entrarono in contatto con una civiltà raffinata, caratterizzata da espressioni artistiche e culturali elevate che diedero origine nel Sud Italia e in Sicilia alla fioritura di filosofi, letterati, artisti e scienziati sia di origine greca (Pitagora) che autoctona (Teocrito, Parmenide, Archimede, ecc.). I Greci furono anche portatori di istituzioni politiche sconosciute all'epoca che prefiguravano forme di democrazia diretta. Tra le principali città greche in Italia vi fu Napoli, il cui porto, specialmente a partire dal 420 a.C., in concomitanza col calo dell'influenza ateniese, si impose tra i più importanti del Mediterraneo[10].

Anche Siracusa, fra il V ed il IV secolo a.C. conobbe un notevole sviluppo demografico ed economico. I contrasti fra le colonie greche e le popolazioni autoctone furono frequenti, nonostante i Greci cercassero di instaurare rapporti pacifici favorendo, in molti casi, un loro lento assorbimento. La ricchezza e lo splendore delle colonie furono tali da far identificare l'Italia meridionale peninsulare dagli storici romani con l'appellativo di Magna Grecia. Nel III secolo a.C. tutte le colonie italiote della Magna Grecia e quelle siciliane furono assorbite nello Stato romano. Per molte di esse iniziò un fatale declino.

La scultura rappresenta la Lupa capitolina che allatta i gemelli Romolo e Remo che furono aggiunti, probabilmente da Antonio del Pollaiolo, nel tardo XV secolo.

Roma (753 a.C. - 476 d.C.)[modifica | modifica wikitesto]

Secondo la tradizione, la città di Roma fu fondata il 21 aprile del 753 a.C. da Romolo sul colle palatino. In realtà, già in precedenza erano sorti villaggi in quella posizione, fondamentale per la via di commercio del sale, ma solo alla metà dell'VIII secolo a.C. questi si unirono in una sola città. La zona era dotata, inoltre, di un buon potenziale agricolo, e la presenza dell'isola Tiberina rendeva facile l'attraversamento del vicino fiume Tevere.

Età regia (753 - 509 a.C.)[modifica | modifica wikitesto]

Romolo instaurò nella città il regime monarchico: fino al 509 a.C., Roma fu retta, secondo la tradizione, da sette re,[11] che apportarono notevoli contributi allo sviluppo della società. Ognuno dei primi quattro, infatti, operò in un diverso ambito dell'amministrazione statale: il fondatore eponimo Romolo diede il via alla prima guerra di espansione contro i Sabini, originatasi dall'episodio del ratto delle Sabine, e associò al trono il re nemico Tito Tazio, allargando per primo le basi del neonato Stato romano. Suddivise poi la popolazione in tre tribù e pose le basi per la ripartizione tra patrizi e plebei. Il suo successore Numa Pompilio istituì i primi collegi sacerdotali, come quello delle Vestali, e riformò il calendario. Il terzo re, Tullo Ostilio, riprese le ostilità contro i popoli vicini e sconfisse la città di Alba Longa, mentre il successore Anco Marzio costruì il primo ponte di legno sul Tevere, fortificò il Gianicolo e fondò il porto di Ostia.

Ai primi quattro re, di origine latina, fecero seguito altri tre di origine etrusca: verso la fine del VII secolo a.C., infatti, gli Etruschi, all'apogeo della loro potenza, estesero la loro influenza anche su Roma, che stava divenendo sempre più grande e la cui importanza a livello economico iniziava a farsi considerevole. Era dunque fondamentale per gli Etruschi assicurarsi il controllo su una zona che assicurava il passaggio delle rotte commerciali; comunque non si ebbe mai un reale controllo militare etrusco su Roma. Il primo re etrusco, Tarquinio Prisco, combatté contro i popoli confinanti, ordinò la realizzazione di numerose opere pubbliche, tra cui il Circo Massimo, la Cloaca Massima e il tempio di Giove Capitolino sul Campidoglio e apportò, infine, anche alcuni cambiamenti in campo culturale. Il suo successore, Servio Tullio, fu, secondo la leggenda, l'ideatore dell'ordinamento centuriato, sostituendolo alla precedente ripartizione della popolazione e combatté anch'egli contro alcune delle principali città etrusche e latine limitrofe a Roma. Ultimo monarca a governare Roma fu Tarquinio il Superbo, espulso dall'Urbe nel 510 a.C., secondo la leggenda con l'accusa di aver violentato la giovane Lucrezia; il patriziato romano, comunque, non era più disposto a sottostare al potere centralizzato del re, ma desiderava acquisire un'influenza, in campo politico, pari a quella che già rivestiva negli altri ambiti della vita civile.

Età repubblicana (509-27 a.C.)[modifica | modifica wikitesto]

La conquista dell'Italia peninsulare[modifica | modifica wikitesto]

Dopo la cacciata di Tarquinio il Superbo ed il fallimento (determinato, secondo la leggenda, dalle eroiche azioni di Muzio Scevola, Orazio Coclite e Clelia) del suo tentativo di recuperare il trono con l'aiuto degli Etruschi condotti dal lucumone di Chiusi, Porsenna, fu instaurata, ad opera di Lucio Giunio Bruto, organizzatore della rivolta antimonarchica, la Repubblica. Essa prevedeva la spartizione tra più cariche dei poteri precedentemente appartenuti a un uomo solo, il re: il potere legislativo fu assegnato alle assemblee dei comizi centuriati e del senato, e furono create numerose magistrature, consolato, censura, pretura, questura, edilità, che gestissero i vari ambiti dell'amministrazione. Tutte le cariche, tra le quali il consolato e il pretorato erano cum imperio, erano collegiali, in modo tale che si evitasse l'affermazione di singoli uomini che potessero accentrare il potere nelle loro mani.

Roma si trovò subito a lottare contro le popolazioni latine delle zone limitrofe, sconfiggendole nel 499 a.C. (o, secondo altre fonti, nel 496 a.C.) nella battaglia del Lago Regillo, e federandole a sé nella Lega Latina mediante la firma del foedus Cassianum, nel 493 a.C.[12] Combatté poi contro gli Equi e i Volsci, e, una volta sconfitti, si scontrò con la città etrusca di Veio, espugnata da Marco Furio Camillo nel 396 a.C.

I primi anni di vita della Repubblica Romana furono notevolmente travagliati anche nell'ambito della politica interna, in quanto le gravi disuguaglianze sociali che avevano portato alla caduta del regno non erano state cancellate. I plebei avviarono così una serie di proteste contro la classe dominante dei patrizi: nel 494 a.C., infine, si ritirarono in secessione sul Monte Sacro (Secessio plebis). La situazione si risolse con l'istituzione della magistratura del tribunato della plebe e con il riconoscimento del valore legale delle assemblee popolari. Importanti acquisizioni furono anche la redazione, nel 450 a.C. da parte dei decemviri, delle leggi delle XII tavole, che garantivano una maggiore equità in ambito giudiziario, e l'approvazione della lex Canuleia, nel 445 a.C. Nel 386 a.C. l'esercito romano fu sconfitto dai Galli guidati da Brenno, che sottoposero l'Urbe ad un rovinoso saccheggio. Vent'anni dopo, nel 367 a.C., furono promulgate le leges Liciniae Sextiae, che ampliarono ulteriormente i diritti della plebe.

Consolidata la propria egemonia nell'Italia centrale, Roma volse le proprie mire espansionistiche verso sud attaccando i Sanniti, contro i quali combatté tre difficili guerre (nel 343-341 a.C., nel 327-304 a.C. e nel 298-290 a.C.), che, nonostante alcune umilianti disfatte inflitte dai Sanniti a Roma (celebre quella delle Forche Caudine nel corso della seconda guerra sannitica), si conclusero dopo alterne vicende con la vittoria romana e la sottomissione totale dei Sanniti.

Consolidata la propria egemonia sull'Italia centro-meridionale, Roma arrivò a scontrarsi con le città della Magna Grecia e con la potente Taranto, che invocarono allora l'aiuto del re d'Epiro Pirro, che sbarcò in Italia con un potente esercito comprendente anche elefanti da guerra; nonostante alcune sofferte vittorie (con grandissime perdite) contro i Romani a Heraclea e ad Ascoli, Pirro fu duramente sconfitto a Maleventum nel 275 a.C. e costretto a tornare oltre l'Adriatico. Taranto, dunque, fu nuovamente assediata e costretta alla resa nel 272 a.C.: Roma era così potenza egemone nell'Italia peninsulare, a sud dell'Appennino Ligure e Tosco-Emiliano.


Le Guerre Puniche e i conflitti in Oriente[modifica | modifica wikitesto]

La conquista dell'Italia portò Roma a scontrarsi con l'altra grande potenza del Mediterraneo Occidentale: Cartagine. Le guerre che si scatenarono furono di inaudita ferocia e di notevole durata, ma videro infine il trionfo totale di Roma. La prima guerra punica scoppiò nel 264 a.C. allorché Roma inviò un piccolo contingente in soccorso di Messina, con l'intento di assicurarsi il controllo dello stretto di Messina, ambito però anche dai Cartaginesi, che decisero di reagire con la guerra. Dopo alcune vittorie negli scontri terrestri, Roma potenziò la flotta, dotandola di corvi, e riuscì ad ottenere alcune importanti vittorie navali, anche se il tentativo di Marco Attilio Regolo di portare la guerra sul suolo africano e imporre la resa a Cartagine fallì e il console, catturato, venne giustiziato facendolo rotolare dentro una botte. La guerra finì, dopo alterne vicende, con la vittoria di Roma (241 a.C.),[13] che poté così estendere il suo dominio annettendo Sicilia, Sardegna e Corsica; sconfisse inoltre i pirati illirici che, tacitamente supportati dalla regina Teuta, infestavano le coste adriatiche e, qualche anno più tardi, iniziò ad espandersi nella pianura padana a scapito dei Celti (battaglia di Clastidium, 222 a.C.).

Nel frattempo, preoccupato dalle mire espansionistiche puniche in Spagna, il Senato stipulò un nuovo patto con Cartagine; quando tuttavia nel 218 a.C. il generale punico Annibale Barca attaccò la città di Sagunto, alleata di Roma, si decise di dichiarare nuovamente guerra a Cartagine. Annibale valicò le Alpi con un potente esercito comprendente anche elefanti e inflisse varie sconfitte alle legioni romane. Dopo una fase di stallo, durante la quale Roma poté riorganizzarsi, grazie alla politica attuata dal dictator Quinto Fabio Massimo, detto il temporeggiatore, le legioni romane subirono una pesante sconfitta contro Annibale nella battaglia di Canne (216 a.C.). Mentre numerose città si alleavano con i Cartaginesi e anche la Macedonia di Filippo V scendeva in guerra contro Roma, Annibale si attardò nel Sud Italia (ozi di Capua), mentre i Romani, seppure provati, poterono lentamente ricostituire le proprie forze: il console Publio Cornelio Scipione ottenne diverse vittorie sui Cartaginesi in Spagna, mentre in Italia Roma riuscì ben presto a recuperare le città italiche che l'avevano tradita per allearsi con Annibale e sconfisse anche il fratello di Annibale, Asdrubale Barca, mentre tentava di portare rinforzi ad Annibale. Nel 203 a.C. Scipione, conquistata la Penisola iberica e ristabilita la situazione in Italia, sbarcò in Africa per tentare di ottenere una vittoria definitiva e sconfisse Annibale, nel frattempo tornato a Cartagine, nella battaglia di Zama, costringendo Cartagine a capitolare e ad accettare le dure condizioni di pace imposte da Roma.

Dopo la conclusione della guerra con Cartagine, Roma completò la sottomissione della Gallia Cisalpina, sconfiggendo sia i Celti o Galli, sollevatisi contro Roma durante la seconda guerra punica, che le popolazioni locali: attorno al 191 a.C. la Gallia Cisalpina fu ridotta a provincia, mentre nel 177 a.C. venne sottomessa anche l'Istria e, due anni dopo, i Liguri Cisalpini.
Ormai potenza egemone del Mediterraneo occidentale, Roma volse le sue mire espansionistiche a danno degli stati ellenistici dell'Oriente, sottomettendo nell'arco di un cinquantennio (200 a.C.-146 a.C.) la Grecia (per maggiori approfondimenti su queste campagne non riguardanti la storia d'Italia e che qui non vengono trattate per motivi di spazio, cfr. guerre macedoniche) e completando la sottomissione di Cartagine (terza guerra punica, 149-146 a.C.). Con la sconfitta dei nemici contro cui combatteva da anni su entrambi i fronti, Roma era diventata padrona del Mediterraneo.

Conseguenze delle conquiste[modifica | modifica wikitesto]

Le nuove conquiste, tuttavia, portarono anche notevoli cambiamenti nella società romana: i contatti con la cultura ellenistica, temuta e osteggiata da Marco Porcio Catone detto il Censore, modificarono profondamente gli usi che fino ad allora si rifacevano al mos maiorum, trasformando radicalmente la società dell'Urbe. L'introduzione di usanze e conoscenze provenienti dall'Oriente (filosofia, retorica, letteratura, scienza greca) fece sì effettivamente che il livello culturale dei Romani, almeno dei patrizi, crescesse significativamente, ma generò altresì una decadenza dei valori morali, testimoniata dalla diffusione di costumi e abitudini moralmente discutibili, che non poté non provocare l'opposizione da parte degli ambienti più conservatori, capeggiati da Catone il Censore, i quali si scagliarono contro le culture extra-romane, tacciate di corruzione dei costumi, e lottarono contro l'ellenizzazione dei costumi a favore del ripristino del mos maiorum, i valori che, secondo Catone, avevano reso grande Roma.

I problemi connessi ad un'espansione così grande e repentina che la Repubblica dovette affrontare furono enormi e di vario genere: le istituzioni romane, fino ad allora concepite per amministrare un piccolo Stato, non erano adatte per amministrare uno Stato che si estendeva dall'Hispania, all'Africa, alla Grecia, all'Asia. Le continue guerre in patria e all'estero, inoltre, immettendo sul mercato una quantità enorme di schiavi, usualmente impiegati nelle aziende agricole dei patrizi romani, portarono a ripercussioni tremende nel tessuto sociale romano: infatti la crisi della piccola proprietà terriera, provocata dalla maggior competitività dei latifondi schiavistici (che ovviamente producevano praticamente a costo zero), determinò da una parte la concentrazione dei terreni coltivabili in poche mani e una grande quantità di merci a buon mercato, dall'altra generò la nascita del cosiddetto sottoproletariato urbano. Parecchie famiglie costrette a lasciare le campagne si rifugiarono nell'urbe, dove non avevano un lavoro, una casa e di che sfamarsi dando origine a pericolose tensioni sociali abilmente sfruttate dai politici più scaltri.

A tentare una riforma che ponesse un rimedio alla crisi furono per primi i fratelli Gracchi, ovvero Tiberio e Gaio Sempronio Gracco, il cui progetto di riforma prevedeva la limitazione dell'occupazione delle terre dello Stato a 125 ettari e la riassegnazione delle terre eccedenti ai contadini in rovina, oltre alla limitazione delle terre che le famiglie nobili potevano possedere a non più di 1000 ettari; i terreni confiscati furono distribuiti in modo che ogni famiglia della plebe contadina avesse 30 iugeri (7,5 ettari). Un tale piano di riforma trovò però l'opposizione dei ceti aristocratici, i cui interessi furono duramente colpiti, che impedirono l'attuazione della riforma assassinando i due fratelli.

Le rivendicazioni di italici e schiavi: la guerra sociale e le guerre servili[modifica | modifica wikitesto]

Già dal tempo dei Gracchi a Roma si avanzavano proposte d'estensione dei diritti di cittadinanza anche ad altri popoli italici fino ad allora federati ma senza successo. La speranza degli alleati italici era che a Roma prevalesse il partito di coloro che volevano concedere agli alleati italici la cittadinanza romana. Ma quando nel 91 a.C. il tribuno Marco Livio Druso, che stava preparando una proposta per concedere la cittadinanza agli alleati fu ucciso, ai più apparve chiaro che Roma non avrebbe concesso spontaneamente la cittadinanza. Fu l'inizio della guerra che dal 91 a.C. all'88 a.C. vide combattersi gli eserciti Romani e quelli italici. Gli ultimi a cedere le armi ai Romani, capeggiati tra gli altri da Silla e Gneo Pompeo Strabone, padre del futuro Pompeo Magno, furono i Sanniti. Gli italici si videro comunque riconosciuta la cittadinanza romana. All'epoca, comunque, l'Italia comprendeva solo la parte peninsulare; la parte transpadana formava la provincia della Gallia Cisalpina i cui abitanti non erano ancora cittadini romani. Nel dicembre del 49 a.C. Cesare concesse la cittadinanza romana agli abitanti della provincia e nel 42 a.C. venne abolita la provincia, facendo della Gallia Cisalpina parte integrante dell'Italia romana.

Moneta raffigurante Augusto e Marco Vipsanio Agrippa, vincitori della battaglia di Azio

Il trattamento disumano degli schiavi, i quali, secondo la legge, non erano persone, ma strumenti dei quali il padrone poteva abusare, danneggiare o uccidere senza conseguenze legali[14][15], portò essi a rivoltarsi più volte a Roma nel tentativo di ottenere la libertà o un miglioramento delle loro condizioni. Le prime due ribellioni, o guerre servili (scoppiate rispettivamente nel 135 a.C. e nel 104 a.C.), pur necessitando di anni di interventi militari diretti per essere sedate, non minacciarono mai la penisola italiana né tanto meno la città di Roma direttamente.

La terza guerra servile, condotta dallo schiavo e gladiatore Spartaco e scoppiata a Capua nel 73 a.C., al contrario mise in forti difficoltà Roma, che sottovalutò la minaccia: nei primi tempi numerose legioni subirono non pronosticate sconfitte contro gli schiavi ribelli, il cui numero era rapidamente cresciuto fino a 70.000, ma, una volta che venne stabilito un comando unificato sotto Marco Licinio Crasso, al comando di sei legioni, la ribellione venne schiacciata nel 71 a.C. Circa 10.000 schiavi fuggirono dal campo di battaglia, mentre 6.000 di essi vennero crocifissi lungo la Via Appia, da Capua a Roma. La rivolta scosse il popolo romano, che «a causa della grande paura sembrò iniziare a trattare i propri schiavi meno duramente di prima».[16]

Anche la condizione legale e i diritti degli schiavi romani iniziarono a mutare: durante il principato di Claudio (41-54), fu promulgata una costituzione che puniva l'assassinio di uno schiavo anziano o ammalato, e che dava la libertà agli schiavi abbandonati dai loro padroni,[17] mentre, durante il regno di Antonino Pio (138-161), i diritti degli schiavi furono ulteriormente ampliati e tutelati, con la limitazione degli abusi che i padroni potevano commettere e l'istituzione di un'autorità teoricamente indipendente cui gli schiavi si potevano appellare.[18]

Mario, un generale romano che riformò drasticamente l'esercito romano

La crisi della Repubblica: da Mario ad Augusto[modifica | modifica wikitesto]

Negli anni successivi la politica romana fu caratterizzata sempre più dal radicalizzarsi della lotta tra il partito degli ottimati e quello dei popolari, che avevano visioni politiche completamente opposte: i primi avevano come principale esponente Lucio Cornelio Silla, valente generale, mentre i secondi erano capeggiati da Gaio Mario. Quest'ultimo si era distinto in varie imprese militari: più volte console, condusse la vittoriosa guerra contro Giugurta (108 a.C.-105 a.C.) e riuscì a respingere la minaccia germanica dei Cimbri e dei Teutoni, che avevano inflitto fino ad allora pesanti sconfitte a Roma incutendo profondo timore ai Romani, con due vittorie a Aquae Sextiae e a Vercelli. Sia contro Giugurta che contro i Germani, Mario ebbe come legato un giovane nobile, di cui apprezzava le capacità militari: Silla.

Presunto ritratto di Silla

Lo scontro tra Ottimati e Popolari, fino a che Gaio Mario rimase in vita, si risolse sempre nella lotta per l'ottenimento del consolato per i candidati della propria parte politica. Morto Mario, Silla, al ritorno dalla vittoriosa guerra in oriente contro Mitridate VI re del Ponto, ritenne che il momento fosse propizio per un colpo di stato e con l'esercito in armi marciò contro Roma, dove a Porta Collina ottenne la vittoria decisiva nella guerra civile contro i mariani (82 a.C.). Per consolidare la vittoria, Silla si fece eleggere dittatore a vita e iniziò una vasta e sistematica persecuzione nei confronti dell'opposizione (le liste di proscrizione sillane) da cui il giovane Cesare, nipote di Mario, riuscì a stento a sottrarsi. Fino a che morì, nel 78 a.C., l'unica seria opposizione contro Silla, fu quella condotta da Sertorio dalla Spagna. Nel 70 a.C. la costituzione sillana venne abolita da Pompeo e Crasso, della quale erano stati dieci anni prima fautori convinti.

Il mondo romano si avviava a divenire troppo vasto e complesso per le istituzioni della Repubblica; la debolezza di queste ultime, ed in particolare del senato divenne già evidente nelle circostanze del primo triumvirato, un accordo informale con cui i tre più potenti uomini di Roma, Cesare, Crasso e Pompeo, si spartivano le sfere d'influenza e si garantivano reciproco appoggio. Dei tre, la figura di Cesare era la più emblematica dei nuovi rapporti di potere che stavano emergendo: nipote di Mario, egli aveva anche per questo aderito sin da giovane alla fazione dei populares e costruì il suo potere con le conquiste militari ed il rapporto di fedeltà personale che lo legava al suo esercito. Fu per questo che quando, dopo la morte di Crasso (53 a.C.), le ambizioni personali di Cesare e Pompeo si scontrarono, il senato preferì schierarsi con quest'ultimo, in quanto più vicino agli Optimates e più rispettoso verso i privilegi senatoriali (per quanto non sfuggisse ai più attenti, come Cicerone, che qualunque dei due contendenti avesse prevalso il potere del senato sarebbe stato irrimediabilmente compromesso).

Lo scontro, sempre latente, si mantenne sempre entro i limiti delle tradizionali forme di governo romane, fino al 49 a.C., quando il senato intimò a Cesare di rimettere il suo comando delle legioni che aveva condotto alla conquista delle Gallie, e di tornare a Roma da privato cittadino. Il 10 gennaio, abbandonando gli ultimi dubbi (Alea iacta est), Cesare attraversò con le sue truppe il Rubicone dando inizio alla guerra civile contro la fazione opposta. La guerra civile fu combattuta vittoriosamente da Cesare su tre fronti: il fronte greco, dove Cesare sconfisse Pompeo nella battaglia di Farsalo, il fronte africano, dove Cesare riuscì ad avere la meglio sugli Optimates guidati da Catone Uticense con la decisiva battaglia di Utica (49 a.C.), ed il fronte spagnolo, dove la battaglia decisiva avvenne a Munda sull'esercito nemico guidato dai figli di Pompeo, Gneo e Sesto. Cesare, avuta la meglio sulla fazione avversa, assunse il titolo di dictator, assommando a sé molti poteri e prerogative, quasi un preludio della figura dell'imperatore, che però non assunse mai, ucciso alle idi di marzo nel 44 a.C.

La morte del dittatore, contrariamente alle dichiarate intenzioni dei congiurati, non portò alla restaurazione della Repubblica, ma ad nuovo periodo di guerre civili. Questa volta però i due contendenti, Augusto e Marco Antonio, non erano i campioni di due fazioni rivali, ma rappresentanti di due gruppi che combattevano per il predominio sulla parte avversa, senza avere alcuna velleità di restaurare la Repubblica, ormai superata come istituzione storica. La guerra civile tra Ottaviano e Marco Antonio terminò con la Battaglia di Azio nel 31 a.C., che decretò il trionfo di Ottaviano e diede inizio de facto al periodo imperiale della storia romana. Augusto mantenne in vita (formalmente) la Repubblica, di fatto trasformandola in una monarchia, pur nell'apparenza del Principato. Ufficialmente ebbe fine dopo il 235 d.C. In particolare, nel 284, l'imperatore Diocleziano, iniziò una nuova fase, il Dominato, cambiando radicalmente le antiche istituzioni romane.

Età imperiale (27 a.C.-476 d.C.)[modifica | modifica wikitesto]

Augusto, fondatore dell'impero romano.

L'Italia sotto Augusto: le undici regioni augustee[modifica | modifica wikitesto]

Ottaviano Augusto mantenne le antiche istituzioni repubblicane, seppur svuotandole di ogni potere effettivo. Sebbene la repubblica continuasse formalmente a esistere, in realtà era diventata un principato retta dal princeps o imperatore, che era l'assoluto padrone dell'Impero. Con i nuovi poteri che gli erano stati conferiti, Augusto organizzò l'amministrazione dell'Impero con molta padronanza. Stabilì moneta e tassazione standardizzata; creò una struttura di servizio civile formata da cavalieri e da uomini liberi (mentre in precedenza erano prevalentemente schiavi) e previde benefici per i soldati al momento del congedo. Suddivise le province in senatorie (controllate da proconsoli di nomina senatoria) ed in imperiali (governate da legati imperiali). Fu un maestro nell'arte della propaganda, favorendo il consenso dei cittadini alle sue riforme. La pacificazione delle guerre civili fu celebrata come una nuova età dell'oro dagli scrittori e poeti contemporanei, come Orazio, Livio e soprattutto Virgilio.

L'impero romano raggiunse la sua massima estensione nel 116

La celebrazione di giochi ed eventi speciali rafforzavano la sua popolarità. Augusto inoltre per primo creò un corpo di vigili, ed una forza di polizia per la città di Roma, che fu suddivisa amministrativamente in 14 regioni. Ottaviano completò la conquista dell'Italia, sottomettendo in un arco di tempo compreso tra il 25 a.C. e il 6 a.C. le popolazioni alpine tra cui Salassi, Reti e Vindelici. Per aver completato la sottomissione di tutte le 46 popolazioni della penisola italiana, i Romani eressero in onore dell'Augusto un monumento sulle falde meridionali delle Alpi, presso Monaco. Nel 7 d.C. divise l'Italia in undici regioni. L'Italia fu privilegiata da Augusto e i suoi successori che costruirono una fitta rete stradale e abbellirono le città dotandole di numerose strutture pubbliche (foro, templi, anfiteatro, teatro, terme..), fenomeno noto come evergetismo augusteo.

L'economia italiana era florida: agricoltura, artigianato e industria ebbero una notevole crescita che permise l'esportazione dei beni verso le province. L'incremento demografico fu rilevato da Augusto tramite tre censimenti: i cittadini maschi furono 4.063.000 nel 28 a.C., 4.233.000 nell'8 a.C. e 4.937.000 nel 14 d.C. Se si considerano anche le donne e i bambini la popolazione totale nell'Italia del I secolo d.C. può essere stimata sui 10 milioni di abitanti circa, di cui almeno 3 milioni erano schiavi[19]. In politica estera tentò di espandere l'impero. Oltre ad aver conquistato le regioni alpine dell'Italia (vedi sopra), fece anche alcune campagne in Etiopia[20], in Arabia Felix[20] e in Germania[20] ma ebbero poco successo, per la strenua resistenza dei barbari e per il clima avverso. Alla morte di Augusto il suo testamento venne fatto leggere in senato: l'Augusto raccomandava ai suoi successori di non intraprendere nessuna conquista, in quanto un ulteriore espansione avrebbe provocato solo problemi logistici ad un impero già troppo vasto.[20] I successori di Augusto rispettarono questa sua massima, e nei due secoli d'oro dell'impero furono solo due le conquiste durature di rilievo per l'Impero: la Britannia, conquista iniziata nel 43 dall'Imperatore Claudio e portata avanti dal generale Agricola sotto Domiziano, e la Dacia, conquistata da Traiano.

L'anfiteatro Flavio, simbolo di Roma e del potere imperiale ancora ai nostri giorni.

Dinastia Giulio-Claudia (14-68)[modifica | modifica wikitesto]

La prima dinastia fu quella Giulio-Claudia, che fu al potere dal 14 al 68; nel corso di mezzo secolo si succedettero Tiberio, Caligola, Claudio e Nerone. I primi anni del regno di Tiberio furono pacifici e relativamente tranquilli. Egli consolidò il potere di Roma e assicurò la ricchezza e la prosperità dello Stato romano. Dopo la morte di Germanico e di Druso, i suoi eredi, l'imperatore, convinto di aver perso i favori del popolo e di essere circondato da cospiratori, si ritirò nella propria villa di Capri (26), lasciando il potere nelle mani del comandante della guardia pretoriana, Seiano, che avviò le persecuzioni contro coloro accusati di tradimento. Alla sua morte (37) il trono venne affidato a Gaio (soprannominato Caligola, per la sua abitudine di portare particolari sandali chiamati caligae), il figlio di Germanico. Caligola iniziò il regno ponendo fine alle persecuzioni e bruciando gli archivi dello zio.

Tuttavia cadde presto malato: gli storici successivi riportano una serie di suoi atti insensati che avrebbero avuto luogo a partire dalla fine del 37. Nel 41, Caligola cadde vittima di una congiura ordita dal comandante dei pretoriani Cassio Cherea. L'unico membro rimasto della famiglia imperiale era un altro nipote di Tiberio, Claudio. Questi, pur essendo considerato dalla famiglia stupido, fu invece capace di amministrare con responsabile capacità: riorganizzò la burocrazia e conquistò la Britannia. Sul fronte familiare, Claudio ebbe meno successo: la moglie Messalina fu messa a morte per adulterio; successivamente sposò la nipote Agrippina, che probabilmente lo uccise nel 54. La morte di Claudio spianò la strada al figlio di Agrippina, Nerone. Questi inizialmente affidò il governo alla madre e ai suoi tutori, in particolare a Seneca. Tuttavia, maturando, il suo desiderio di potere aumentò: fece giustiziare la madre ed i tutori e regnò da despota. L'incapacità di Nerone di gestire le numerose ribellioni scoppiate nell'Impero durante il suo principato e la sua sostanziale incompetenza divennero rapidamente evidenti e nel 68 Nerone si suicidò.

Dinastia dei Flavi (69-96)[modifica | modifica wikitesto]

Alla morte di Nerone l'ingerenza dell'esercito nella nomina dell'imperatore fu la causa di una guerra per la successione: nel 68, noto come anno dei quattro imperatori, il trono fu conteso da quattro candidati, ognuno eletto imperatore dalla rispettiva legione: Galba, Otone, Vitellio e Vespasiano. La guerra civile si concluse con la vittoria di Vespasiano, che fondò la dinastia Flavia. Questo imperatore riuscì a liberare Roma dai problemi finanziari creati dagli eccessi di Nerone e dalle guerre civili. Aumentando le tasse in modo drammatico, egli riuscì a raggiungere un'eccedenza di bilancio ed a realizzare numerose opere pubbliche, come il Colosseo e un Foro il cui centro era il Tempio della Pace. Il regno del suo successore, il figlio Tito, durò soli due anni e fu segnato da due tragedie: nel 79 l'eruzione del Vesuvio distrusse Pompei ed Ercolano, e nell'80 un incendio distrusse gran parte di Roma. Tito morì nell'81 a 41 anni, forse assassinato dal fratello Domiziano impaziente di succedergli. Fu con Domiziano che i rapporti già tesi tra la dinastia flavia e il senato si deteriorarono a causa della divinizzazione dell'imperatore secondo modalità tipicamente ellenistiche e del divorzio dalla moglie Domizia, di estrazione senatoria. Nella parte finale del suo regno perseguitò filosofi e, nel 95, i Cristiani. Morì l'anno seguente, vittima di una congiura.

Crescita geografica dell'area denominata Italia nel periodo romano.

Dinastia degli Antonini: gli imperatori adottivi (96-192)[modifica | modifica wikitesto]

Con Nerva (96-98), successore di Domiziano, venne cambiato il sistema di successione degli imperatori con l'introduzione del cosiddetto principato adottivo: questa riforma prevedeva che l'imperatore in carica in quel momento dovesse decidere, prima della sua morte, il suo successore all'interno del senato, in modo da responsabilizzare i senatori. Con questo criterio vennero scelti Traiano, Adriano, Antonino Pio, Marco Aurelio e Commodo (quest'ultimo era anche figlio di Marco Aurelio). Tramite la politica di pace instaurata e la prosperità derivatane il governo imperiale attirò consensi unanimi, tanto che Nerva ed i suoi successori sono anche noti come i cinque buoni imperatori. In questo periodo, grazie alle conquiste ad opera di Traiano di Dacia, Armenia, Mesopotamia e Assiria, l'Impero raggiunse la sua massima estensione (117). Le conquiste orientali di Traiano furono, però, in gran parte abbandonate dal successore Adriano (118), anche se i territori perduti vennero successivamente riconquistati nelle guerre romano-partiche. Lo sviluppo economico e la coesione politica e ideale, raggiunta anche per l'adesione delle classi colte ellenistiche, che contraddistinsero il secondo secolo, non devono, comunque, trarre in inganno, in quanto da lì a poco l'impero cominciò a mostrare i primi sintomi della decadenza.

Quanto all'Italia, il suo posto nell'impero, nel secondo secolo, cominciò a perdere la sua preponderanza, a causa della romanizzazione delle province, e in parte dell'integrazione delle loro élite in seno agli ordini equestri e senatoriali. Il secondo secolo vide l'impero governato da imperatori provenienti dalle province e discendenti da antichi coloni italici: Traiano, Adriano e Marco Aurelio originari della Spagna, Antonino Pio della Gallia Narbonense. Fin dai primi anni del secolo, Traiano cercò di regolamentare la presenza dei senatori in Italia, obbligandoli a possedere un terzo delle loro terre in Italia; secondo Plinio il Giovane (VI, 19) certi senatori provinciali abitavano in Italia difatti come se fossero in vacanza, senza curarsi della penisola. La misura ebbe solamente un effetto limitato, di rialzare momentaneamente i prezzi delle proprietà, che stavano decadendo, e fu reiterata da Marco Aurelio ma in un'inferiore misura, un quarto delle terre.

Altri fattori che assicuravano la sua preminenza sull'impero subirono una flessione, cominciata nel I secolo, che durò tutto il secolo. Le legioni oramai stanziate stabilmente sul limes romano, nelle province lontane, regionalizzarono poco a poco il loro reclutamento, soprattutto a partire da Adriano. Per molto tempo queste osservazioni hanno fatto ritenere vari studiosi che l'Italia romana nel II secolo fosse in declino e in forte crisi economica, demografica e infine incapace di reggere la concorrenza delle province. Altri, invece, hanno interpretato le numerose importazioni di materie prime provenienti delle province non come il segno di un declino dell'Italia ma piuttosto come la conseguenza della misura sproporzionata del mercato romano-italico, foraggiato dalle imposte e dalle retribuzioni ai funzionari, o del fatto che certi trasporti marittimi a lunga distanza fossero più economici dei trasporti terrestri a media distanza. L'Italia da sola non poteva produrre abbastanza da nutrire Roma col suo milione di abitanti, tanto più che la coltivazione del grano era poco remunerativa rispetto all'olivo e alla vite, le importazioni massicce non bilanciate dalle esportazioni rendono conto di un declino.

Un passo in avanti verso la parificazione dell'Italia con le province venne compiuto da Adriano, quando assegnò l'Italia a quattro consolari portanti il titolo di legati propretori, titolo utilizzato per i governatori di provincia. Il moto di protesta sollevato nel senato, rappresentante dei vari municipi d'Italia, lesi nella loro autonomia fino ad allora garantita, fece sì che la misura fosse annullata dal suo successore. La soluzione di Adriano rispondeva tuttavia ad una reale esigenza: le regioni dell'Italia avevano bisogno di un'amministrazione più gerarchizzata, in particolare nel campo della giustizia civile. Tanto che Marco Aurelio creò egli stesso nel 165 i giuridici ( iuridici ) che esercitavano nei distretti. Il secondo secolo fu per l'Italia un secolo di transizione, di indietreggiamento della sua preminenza, ma non il declino che la storiografia ha letto fino agli anni settanta, appoggiandosi tra altri sulle tesi di M. Rostovtseff. Il vero declino avvenne in seguito. I prodromi della crisi che investì l'impero romano nel III secolo iniziarono a farsi sentire soprattutto con Commodo (180-192), che minò l'equilibrio istituzionale raggiunto e il cui atteggiamento dispotico favorì il malcontento delle province e dell'aristocrazia, portando al suo assassinio nel 192. Era l'ultimo degli Antonini.

Dinastia dei Severi (193-235)[modifica | modifica wikitesto]

Tra la fine del II e l'inizio del III secolo l'Italia romana, in coincidenza con l'inizio del declino dell'impero, perse man mano i suoi privilegi di territorio non provinciale fino a venire parificata alle province. L'assassinio di Commodo diede il via a una breve guerra civile fra tre pretendenti al trono (tutti nominati dall'esercito), che vide la vittoria di Settimio Severo, che diede inizio alla dinastia dei Severi.[21] Nel corso del suo regno, Settimio Severo (193-211) aumentò i poteri all'esercito e per questo viene visto da alcuni storici come uno degli artefici della rovina dell'impero.[21]
Alla sua morte (211) gli succedettero i figli Caracalla e Geta; l'ultimo dei due venne però fatto uccidere dal primo.[22] Nel 212 Caracalla concesse la cittadinanza, finora concessa salvo alcune eccezioni solo agli italici, a tutti gli abitanti dell'Impero, segnando un ulteriore passo in avanti verso la parificazione con le province. Il suo regno e quello dei suoi successori (Eliogabalo e Alessandro Severo) fu caratterizzato da lotte intestine[22], che nel 235 portarono, con l'uccisione di Alessandro Severo a opera del suo esercito, all'estinzione della dinastia dei Severi e all'inizio dell'anarchia militare.

L'Anarchia militare (235-284)[modifica | modifica wikitesto]

Il periodo cosiddetto dell'anarchia militare durò dal 235 al 284 e fu caratterizzato dagli assalti dei barbari che premevano sul limes, che costrinsero i Romani a evacuare la Dacia e gli Agri Decumati (in Germania), e dalla crescente importanza dell'esercito, che spesso era fonte di disordini interni, con numerose rivolte e nomine di usurpatori: molti imperatori nel corso del III secolo morirono di morte violenta, per mano dell'esercito.

Tardo Impero (284-395)[modifica | modifica wikitesto]

I quattro tetrarchi.

La crisi del III secolo venne frenata dall'imperatore Diocleziano istituendo la Tetrarchia, un regime collegiale di due Augusti e due Cesari che amministravano raggruppamenti distinti di province dell'Impero, accresciute in numero e riunite in diocesi; i Cesari alla morte o all'abdicazione degli Augusti sarebbero divenuti a loro volta Augusti, designando altri due Cesari. In questa circostanza l'Italia venne parificata alle altre province divenendo una diocesi a sua volta suddivisa in province, corrispondenti grossomodo alle regioni augustee. Diocleziano, inoltre, per contrastare meglio le invasioni, tolse a Roma il ruolo di sede imperiale preferendole città più vicine ai confini minacciati (Milano, Nicomedia, Treviri e Sirmio), ma le lasciò il titolo di capitale dell'Impero.

La riforma tetrarchica di Diocleziano non risolse però nei fatti il problema della successione, dato che alla sua abdicazione (305) scoppiò una guerra civile tra i vari Cesari e Augusti, che terminò solo nel 324 con la vittoria di Costantino I. Quest'ultimo (imperatore dal 306 al 337) continuò la politica di Diocleziano, fondando una seconda capitale nell'antico sito di Bisanzio, da lui ridenominata Costantinopoli (330). Sempre Costantino pose fine con l'Editto di Milano (313) alle persecuzioni contro i cristiani; il cristianesimo da qui in poi assunse sempre maggiore importanza per l'impero e, dopo un tentativo da parte dell'imperatore Giuliano (360-363) di restaurare il paganesimo, sotto il regno di Teodosio I (379-395) il cristianesimo divenne la religione ufficiale dell'Impero (380). L'Italia, pur perdendo sempre più importanza, rimaneva comunque una delle regioni più importanti dell'Occidente romano, perlomeno dal punto di vista religioso (il Papa risiedeva a Roma). Nel 395, alla morte di Teodosio, l'Impero si trovò definitivamente suddiviso in un Impero d'Occidente (capitale Milano, poi Ravenna) e in un Impero d'Oriente (capitale Costantinopoli).

Deposizione di Romolo Augusto.

L'Impero romano d'Occidente (395-476)[modifica | modifica wikitesto]

Mentre l'Impero romano d'Oriente riuscì a sopravvivere per un altro millennio, la parte occidentale crollò in poco meno di un secolo. Sono state proposte numerose teorie per spiegare come Roma cadde, non tutte concordi (v. caduta dell'Impero romano d'Occidente (storiografia)): si ritiene che furono le invasioni barbariche a cagionarne la rovina, anche se il successo dei barbari fu almeno in parte agevolato dai limiti interni dell'Impero (perdita del mos maiorum, separatismo provinciale, l'influsso del cristianesimo sulla combattività dei soldati e sulle discordie interne causate dalla lotta alle eresie, danni provocati dalle riforme di Costantino I ecc.).[23]

Nel corso del V secolo, a partire dal 406, Vandali, Alani, Svevi, Burgundi e Visigoti (spinti dalla migrazione verso occidente degli Unni) sfondarono il limes dell'Impero e dilagarono nelle province galliche e ispaniche, costringendo i Romani a riconoscerli come foederati (cioè alleati dell'Impero che, in cambio del loro sostegno bellico, ottenevano il permesso di stanziarsi in alcune province), che, tuttavia, si svincolarono man mano dall'autorità centrale, andando a costituire dei veri e propri regni romano-barbarici, solo nominalmente facenti parte dell'Impero. Neanche l'Italia era al sicuro dai Barbari: il sacco di Roma del 410 ad opera dei Visigoti di Alarico I venne vista dai contemporanei come il segno imminente della fine del mondo. Discordie interne peggiorarono la situazione: il comes d'Africa Bonifacio, nominato nemico pubblico da Galla Placidia, per difendersi invitò i Vandali in Africa, che nel giro di un decennio la strapparono all'Impero (429-439), con il sostegno dei Mauri e della setta eretica dei Donatisti. I Vandali costruirono una flotta e in breve tempo occuparono la Sicilia, la Sardegna, la Corsica e le Isole Baleari, riuscendo anche nell'impresa di saccheggiare Roma (455).

In breve, a parte una parte della Gallia e la Dalmazia, l'Impero si era ridotto alla penisola italica. Tuttavia anche là l'influenza dei barbari si fece sentire e minò la già traballante autorità degli Imperatori: nell'ultimo ventennio di vita dell'Impero esso era governato da imperatori fantoccio manovrati da dietro le quinte da generali di origini germaniche (Ricimero (461-472), Gundobaldo (472-474), Flavio Oreste (475-476)), ormai i veri padroni di Roma. L'ultimo di questi generali, Oreste, dopo aver costretto alla fuga l'imperatore Giulio Nepote, che si rifugiò in Dalmazia, dove continuò a regnare fino al 480, pose sul trono il figlio Romolo Augusto. Un anno dopo tuttavia il rifiuto da parte di Oreste di cedere alle truppe mercenarie barbariche un terzo dell'Italia causò la rivolta di quest'ultime, che, capeggiate da Odoacre, deposero l'ultimo imperatore Romolo Augusto, causando la caduta formale dell'Impero. Infatti Odoacre decise di non nominarsi Imperatore romano, ma semplicemente Re d'Italia.

L'Alto Medioevo[modifica | modifica wikitesto]

Giustiniano riuscì a riannettere l'Italia all'Impero romano grazie alle gesta militari di Belisario e Narsete.

Odoacre, Goti e Bizantini (476-568)[modifica | modifica wikitesto]

Deposto Romolo Augusto, Odoacre governò l'Italia per 17 anni come rex gentium – una formula del tutto nuova – teoricamente alle dipendenze di Zenone, imperatore d'Oriente. Si servì del personale amministrativo romano, lasciando libertà di culto ai cristiani e combatté con successo i Vandali strappando loro la Sicilia. Ma nel 489 Zenone allontanò gli Ostrogoti dal basso Danubio inviandoli in Italia affinché rovesciassero Odoacre e conquistassero l'Italia. Dopo cinque anni di guerra, il re goto Teodorico riuscì ad uccidere Odoacre e a impadronirsi del trono. Teodorico, che aveva vissuto a lungo a Bisanzio, garantì pace e prosperità all'Italia, affidando le magistrature civili ai Romani e l'esercito ai Goti; l'autorità dei magistrati romani era però limitata da funzionari goti detti comites. Nonostante fosse ariano, si mostrò tollerante con i Cattolici, anche se negli ultimi anni di regno reagì alla decisione dell'Imperatore Giustino di bandire dall'Impero l'arianesimo lanciando una serie di persecuzioni che ebbero tra le sue vittime il filosofo Severino Boezio, condannato a morte. Gli succedette Atalarico (526-534).

Nel 535 il nuovo e ambizioso imperatore d'Oriente Giustiniano (527-565) prese di mira la penisola nel suo tentativo di ricomporre l'unità dell'impero romano. Da lì iniziò la lunga guerra gotica, che si protrasse per oltre vent'anni, portando ulteriori devastazioni dopo le invasioni barbariche. Durante questa guerra i Bizantini, alla testa dei generali Belisario e Narsete, conquistarono la Dalmazia e l'Italia, nonostante la strenua resistenza del re goto Totila (541-552). L'Italia dopo la guerra era devastata: Roma dopo quattro assedi consecutivi era ridotta a non più di 30.000 abitanti e la situazione già grave fu peggiorata da una pestilenza. La Prammatica Sanzione promulgata da Giustiniano nel 554 (che tra le altre cose prometteva fondi per la ricostruzione) non riuscì a far tornare l'Italia una terra prospera e soli quattordici anni dopo una nuova invasione di un popolo germanico toccò l'Italia intera: i Longobardi.

L'Italia tra il 568 e il 774

I Longobardi, il Ducato romano e i Bizantini (568-774)[modifica | modifica wikitesto]

Nel 568 l'Italia settentrionale venne invasa dai Longobardi, una tribù germanica stanziata in Pannonia, ma che abbandonò la terra sotto la pressione degli Avari. In pochi anni i Longobardi sottomisero tutto il nord Italia (tranne le zone costiere del Veneto e della Liguria), la Toscana e buona parte del centro-sud (che costituì i ducati semi-indipendenti di Spoleto e Benevento). I Longobardi erano ariani e nei primi tempi esercitarono un brutale diritto di conquista sui Romanici sottomessi, apportando devastazioni non inferiori a quelle della guerra gotica.[24] La penisola era frazionata in due zone di influenza: longobarda (regno longobardo suddiviso in Langobardia Maior e Langobardia Minor) e bizantina (esarcato d'Italia, costituito intorno al 584), con il Ducato romano formalmente in mano bizantina ma governato con una certa autonomia (comunque non totale) dal Papa.

I primi due re, Alboino (? -572) e Clefi (572-574) morirono assassinati. Seguirono dieci anni di anarchia, con il regno longobardo senza un re e frammentato in 35 ducati indipendenti fra loro.[25] Tentò di approfittarne l'Imperatore bizantino Maurizio, alleato con i Franchi.[26] I Longobardi tuttavia, vista la minaccia dei Franchi, decisero di porre fine all'anarchia eleggendo re Autari (584-590), che riuscì a respingere le incursioni franche. I successori di Autari, Agilulfo (590-616) e Rotari (636-652), espansero ulteriormente il regno strappando ai Bizantini l'Emilia, la Liguria e il Veneto interno. In breve dovettero cercare anch'essi una forma di dominio più organizzata: arrivarono le leggi scritte (Editto di Rotari, 643), dei funzionari regi con compiti di giustizia e supervisione (gastaldi), e, nel 603, l'inizio della conversione al cattolicesimo per opera della regina Teodolinda dopo che un primo tentativo di conversione per opera del papa Gregorio Magno non aveva avuto successo.

Nel frattempo i papi entrarono in contrasto con Bisanzio per la questione del monotelismo, una formula teologica compromissoria ideata dagli Imperatori per accontentare sia i cattolici che i monofisiti. Con un editto del 648 (Typos) Costante II impose il monotelismo e fece deportare il papa Martino I in quanto questi non l'accettava.[27] Nel 680, per opera dell'Imperatore Costantino IV, il monotelismo venne condannato come eresia e i rapporti tra pontefici e imperatori migliorarono. Nel 726, tuttavia, iniziò l'iconoclastia, la lotta alle immagini, da parte dell'imperatore Leone III[28]. Di fronte all'opposizione del papa, Leone ordinò il suo assassinio ma il crimine fallì per l'opposizione delle truppe fedeli al Papa che si rivoltarono. Intanto il re longobardo Liutprando (713-744), approfittando dei dissensi tra Bisanzio e la Chiesa Romana, fece nuove conquiste che furono aumentate dal suo successore Astolfo (749-756) che allontanò i Bizantini da Ravenna (751) e si accinse ad unificare l'Italia conquistando il Lazio.[29] Ma papa Stefano II (752-757) chiamò in suo soccorso il re dei Franchi Pipino il Breve, che sconfisse Astolfo e donò le terre di Ravenna (l'esarcato) al papa. Nacque così lo Stato della Chiesa[30] e il potere temporale dei Papi, che venne legittimato tramite la falsa Donazione di Costantino. Nel 771 papa Stefano III invocò l'intervento del nuovo re dei Franchi, Carlo Magno, contro Desiderio. La guerra tra Franchi e Longobardi si concluse nel 774 con la vittoria di Carlo, che assunse il titolo di Rex Francorum et Langobardorum ("Re dei Franchi e dei Longobardi") e unificò la Langobardia Maior al suo Regno dei Franchi.

Carlo Magno in un dipinto di Albrecht Dürer.

L'Italia divisa tra Carolingi, Bizantini e Arabi (774-1002)[modifica | modifica wikitesto]

Dopo la definitiva sconfitta dei Longobardi, il papa riacquistò una piena autonomia, garantita da Carlo stesso, mentre a sud, nella Langobardia Minor, sopravvisse in piena indipendenza il longobardo Ducato di Benevento, presto elevato al rango di principato. Nel 781 Carlo affidò l'Italia, sotto la sua tutela, al figlio Pipino. Il giovane sovrano avviò varie campagne di espansione verso nord, ma morì nell'810. Il Papato, ormai distaccato dall'Impero d'Oriente, decise di incoronare Carlo Magno, suo benefattore, «Imperatore dei Romani» (800), considerando vacante il trono di Costantinopoli perché retto da una donna, Irene. Nacque così l'Impero carolingio.

Nello stesso periodo vari domini dell'Impero bizantino iniziarono ad acquisire sempre maggiore autonomia: Venezia,[31] la Sardegna e i ducati campani si emanciparono man mano da Bisanzio, eleggendo governatori locali e senza svolte violente.[32] Nel IX secolo gli Arabi iniziarono a sferrare varie incursioni nel Mediterraneo occidentale, conquistando gradualmente (tra 827 e 902) la Sicilia e attaccando più volte i territori bizantini nell'Italia meridionale.[33] Tuttavia, sotto la dinastia macedone (867-1056), il catapanato bizantino riuscì a recuperare terreno in Puglia, Basilicata e Calabria, raggiungendo il massimo della sua potenza sotto il governo di Basilio Boianne. Per quanto riguarda il regno d'Italia all'interno dell'Impero carolingio, il titolo di re d'Italia venne detenuto inizialmente dai sacri romani imperatori (Lotario I, Ludovico II, Carlo il Calvo, Carlo il Grosso), ma con la dissoluzione dell'Impero (887) i territori del Regnum Italiae finirono in una sorta di anarchia feudale: tra l'888 e il 924 il titolo di re, al quale tuttavia non corrispondevano reali poteri, fu conteso fra numerosi feudatari locali, sia di origine italiana sia provenienti da regioni limitrofe: Berengario del Friuli, Guido II di Spoleto, Lamberto II di Spoleto, Arnolfo di Carinzia, Ludovico il Cieco e Rodolfo II di Borgogna. Anche il papato fu coinvolto in queste lotte, mostrando spesso un atteggiamento poco coerente.

Un momento di maggior solidità del Regnum si ebbe con il governo di Ugo di Provenza (926-946), il quale, per risolvere il problema della successione, associò subito al trono suo figlio Lotario II. Questi però scomparve già nel 950, per cui gli successe il marchese d'Ivrea Berengario II, che, temendo intrighi, fece perseguire la vedova di Lotario II, Adelaide. Ella allora si rivolse all'imperatore tedesco Ottone I, chiedendogli di intervenire contro l'"usurpatore" Berengario. Ottone colse il pretesto e scese in Italia, dove sconfisse Berengario, entrò nella capitale Pavia, sposò Adelaide e si cinse della corona italiana nel 951, legandola a quella di Germania. Ottone I ristabilì la supremazia sul Papa, la cui elezione per essere valida doveva ricevere la ratifica imperiale, e tentò di strappare l'Italia meridionale ai Bizantini, riuscendo solo ad ottenere un matrimonio tra suo figlio e la principessa bizantina Teofano. Il successore Ottone II non riuscì a controllare l'elezione papale e perì di malaria dopo aver subito una sconfitta contro gli Arabi in Calabria. Gli succedette Ottone III che, per restaurare l'Impero, pose la sede imperiale a Roma ma, a causa dell'opposizione della nobiltà romana, fu da essa scacciato. Perì nel 1002.

Il Basso Medioevo (1000-1492)[modifica | modifica wikitesto]

L'Italia nell'anno 1000

La Chiesa riformata, la lotta per le investiture, la prima crociata (1000-1100)[modifica | modifica wikitesto]

Nell'XI secolo l'ufficio del papa era in piena decadenza, conteso fra le sanguinarie famiglie romane e i tentativi moderati dell'imperatore Enrico III, il quale tra il 1046 al 1057 pose sotto il suo controllo il papato nominando quattro papi, tutti tedeschi. Ma si rivelò altrettanto difficile governare le città italiane: Pavia si ribellò per ben due volte (1004 e 1024) a Enrico II (1002-1024), l'ultimo esponente della casa dei sassoni. Il suo successore, Corrado II di Franconia (1027-1039), ricevette la richiesta di aiuto dell'arcivescovo di Milano Ariberto da Intimiano, contro cui si erano rivoltati i valvassori della Lombardia (che dipendevano da Ariberto). Corrado però, per contrastare la grande feudalità, concesse anche ai feudatari minori quello che il Capitolare di Quierzy aveva concesso ai maggiori: l'ereditarietà (Constitutio de feudis, 1037).

In questo periodo si levò alta la protesta contro la corruzione e l'abiezione del papato. Se da una parte ci furono movimenti religiosi di stampo pauperistico ed eremita - come quello di San Romualdo - dall'altra ebbe molta fortuna il nuovo monachesimo cluniacense, che si nutriva solo delle donazioni dei feudatari, ma che proponeva uomini di grande autorità morale, di spessa cultura e abili capacità politiche e amministrative. Più tardi nacquero l'ordine dei monaci certosini e quello dei cistercensi, che puntavano l'attenzione alla vita solitaria e contemplativa, e che si diffusero a macchia d'olio. I riformatori (tra cui il movimento popolare dei Patari) desideravano una Chiesa non corrotta e più simile a quella delle origini e biasimavano in particolare la simonia (compravendita delle cariche) e il nicolaismo (Concubinato), che erano molto diffuse tra il clero. Nel 1058 divenne papa Niccolò II, che condannò con un concilio del 1059 nicolaisti e simoniaci, riuscendo anche a sottrarre il papato dal controllo dell'Imperatore. La lotta contro la corruzione continuò sotto i pontefici Alessandro II, Gregorio VII e Innocenzo III.

La posizione ambigua dei vescovi-conti, vassalli dell'imperatore che avevano anche cariche religiose, portò il papato e l'impero a scontrarsi su chi li avrebbe dovuti nominare (lotta per le investiture). Il Papato reclamava per sé il diritto di nominarli, in quanto vescovi, mentre l'impero reclamava lo stesso diritto, in quanto vassalli. Nel 1122 si arrivò al compromesso di Worms, fra il papa Callisto II ed Enrico V, in cui ognuna delle due parti rinunciava ad un pezzo del suo potere. Nel frattempo Papa Urbano II (1088-1099), di fronte anche alle richieste di aiuto dell'Imperatore bizantino Alessio I Comneno (il cui Impero era minacciato dai turchi, che avevano conquistato tutta l'Anatolia bizantina), stimolò i cavalieri occidentali affinché liberassero la Terra Santa dagli Infedeli islamici. I cavalieri crociati, dopo aver conquistato e consegnato all'Imperatore di Bisanzio parte dell'Anatolia, crearono vari regni crociati in Siria e in Palestina e infine conquistarono Gerusalemme (1099).

I Comuni, il Regno di Sicilia (1100-1250)[modifica | modifica wikitesto]

A causa dell'assenza del potere imperiale, già a metà del XI secolo le famiglie più potenti delle città italiane del nord e del centro estromisero i conti e i vescovi dall'esercizio del potere. Esse si riunivano in associazioni - communes - che governavano su ogni aspetto della vita pubblica cittadina usurpando prerogative dell'Imperatore. Il potere esecutivo era detenuto da magistrati detti consoli, scelti tra l'aristocrazia, il ceto più preminente. Ad essi si affiancavano delle assemblee ("consigli"). Per porre fine alle continue lotte interne, fu però necessario introdurre una nuova carica esecutiva, il podestà, scelto tra i forestieri affinché fosse un arbitro imparziale. Da ricordare fra queste città le repubbliche marinare, dedite ai commerci: Amalfi, Genova, Pisa, Venezia (le più note) e Ragusa, Gaeta, Ancona, Noli.

La crescente emancipazione dei comuni fu agevolata dalla debolezza dell'Impero, provocata dalle lotte per il trono imperiale tra le dinastie dei Welfen e Hohenstaufen, noti in Italia come Guelfi e Ghibellini. Questi ultimi erano fautori della totale indipendenza del potere imperiale dal papa, mentre i guelfi erano più possibilisti. Le lotte per il potere terminarono solo con l'ascesa dell'Imperatore Federico I Barbarossa (1155-1190), il quale combatté energicamente contro papato, feudatari e comuni per ripristinare su di essi la propria autorità: in ambito ecclesiastico oppose a Papa Alessandro III (1159-1181) un antipapa (e il Pontefice reagì scomunicandolo) mentre per contrastare l'autonomia dei comuni li attaccò, distruggendo Milano nel 1162. I comuni reagirono formando una Lega Lombarda, e grazie alla loro unione sconfissero l'Imperatore a Legnano (1176) costringendolo con la pace di Costanza (1183) a riconoscere l'autonomia dei comuni.

Contemporaneamente al sud si andava formando il Regno di Sicilia. I Normanni, popolo di avventurieri provenienti dalla Normandia, arrivarono nel XI secolo nel sud Italia. Nel 1059 papa Niccolò II riconobbe i territori normanni e nominò Roberto il Guiscardo duca di Puglia e di Sicilia, nonostante l'isola fosse allora ancora sotto il controllo degli Arabi. Tra il 1061 e il 1091 Ruggero d'Altavilla, fratello di Roberto, strappò la Sicilia agli Arabi. Nel 1071, infine, gli ultimi baluardi bizantini, Brindisi e Bari, caddero in mano normanna. Nel 1113 Ruggero II riuscì a riunire nelle sue mani tutti i possedimenti normanni creando uno Stato fortemente accentrato simile per molti versi ai moderni stati nazionali. Nel 1130 nacque il Regno di Sicilia, per volontà dell'antipapa Anacleto II espressa al concilio di Melfi.

Il potere dei Normanni nell'Italia meridionale ebbe termine tra il 1194 (morte di Tancredi di Lecce) e il 1198, quando Enrico VI di Svevia, Imperatore del Sacro Romano Impero (morto nel 1197), in virtù del suo matrimonio con Costanza d'Altavilla (morta nel 1198), unì alla corona imperiale quella di re di Sicilia. Il regno subì una svolta accentratrice sotto la direzione di Federico II (1211-1250), il quale fu scomunicato tre volte, partecipò alla sesta crociata (da lui stessa indetta e a lungo rimandata), conquistò Gerusalemme senza spargimenti di sangue ma attraverso trattative con il sultano d'Egitto al-Malik al-Kamil, e infine tentò nuovamente di estendere la sua egemonia sui comuni dell'Italia del nord, in una lunga guerra senza successo. In questo periodo si affacciano nel panorama religioso varie eresie, che infine vengono controllate dall'istituzione del tribunale dell'Inquisizione.
Nello stesso tempo in Sardegna nascono e muoiono regni, comuni e signorie, ciascuno con una differente storia e cultura, ma tutti ben inseriti nel contesto internazionale del Medioevo, con regnanti che parteciparono alle crociate, che presero parte alla lotta tra impero e papato e che furono fautori del monachesimo.

La rinascita culturale nei Comuni[modifica | modifica wikitesto]

«Dall'XI secolo i comuni italici erano giunti al fiore del benessere economico e civile [...] e quando, dopo la morte dell'imperatore Federico II e il tramonto della casa di Svevia, ebbe termine la terribile lotta fra Impero e Papato per l'egemonia politica universale, quando l'Italia si sentì libera dal dominio tedesco, il suo sentimento nazionale divampò in un grande incendio spirituale, politico-sociale, artistico. Questa fu la fonte spirituale del Rinascimento. L'antico pensiero di Roma, mai scomparso, vi fece affluire nuova e maggiore forza. Cola di Rienzo, ispirato all'idea politica di Dante, ma oltrepassandola, proclamò, profeta di un lontano avvenire, la grande esigenza nazionale della Rinascita di Roma. E su questa base l'esigenza dell'unità d'Italia.»

Sul piano culturale, sullo sfondo della rivalità tra Guelfi e Ghibellini, si era andato sempre più ridestando un sentimento nazionale di avversione alle ingerenze tedesche, animato dal ricordo dell'antica grandezza di Roma, e sostenuto dal fatto che i Comuni, la cui vita civile ruotava attorno all'edificio della Cattedrale, trovavano nell'identità spirituale rappresentata dalla Chiesa, idealmente erede delle istituzioni romane, un senso di comune appartenenza.[34]

Durante il XIII e il XIV secolo questa rinascita culturale, sorta parallelamente a una generale ripresa economica, portò alla formazione della lingua italiana volgare. Tra coloro che contribuirono a una tale rinascita ricordiamo Jacopone da Todi che scrisse delle famose Laude, e soprattutto Francesco Petrarca, che affiancò a varie opere scritte in latino alcune importanti composizioni in volgare italiano tra cui il Canzoniere. Petrarca in particolare fu promotore di una riscoperta del classicismo che sarà proseguita dagli intellettuali rinascimentali.

In quegli anni si sviluppò a Firenze una nuova corrente culturale: il Dolce stil novo, che rappresentava per certi versi la continuazione e l'evoluzione del vecchio Amor cortese dei romanzi cavallereschi. I principali esponenti di tale corrente furono Guido Cavalcanti, Guido Guinizzelli, e soprattutto Dante Alighieri che rivoluzionò in modo profondo la letteratura italiana con opere come la Vita Nova e la Divina Commedia, universalmente riconosciuta come uno dei capolavori letterari di ogni tempo e ancora oggi studiata approfonditamente nelle scuole italiane. Da ricordare anche il contributo del fiorentino Giovanni Boccaccio, autore del Decameron, uno dei capolavori della letteratura italiana. In questa opera racconta di alcuni giovani che per fuggire alla peste si rifugiano nelle campagne vicino Firenze, e delle cento storie, molto spesso a carattere faceto, da raccontare per passare il tempo. Anche il Decameron, al pari delle altre sopra indicate, contribuì alla nascita di un volgare italiano, o più propriamente, di un dialetto fiorentino che sarebbe poi diventato la base dell'attuale lingua italiana. Forte è anche la fioritura dell'arte, con artisti come Giotto, Duccio di Buoninsegna, Simone Martini, Arnolfo di Cambio e Jacopo della Quercia. Anche qui Firenze (affiancata comunque dalle altre città toscane) si dimostra un centro culturale attivo oltre che un centro politico importante.

L'affermazione delle signorie nel nord Italia (1259-1328)[modifica | modifica wikitesto]

Le Signorie furono l'evoluzione istituzionale di molti comuni urbani dell'Italia centro-settentrionale attorno alla metà del XIII secolo. Esse si svilupparono a partire dal conferimento della carica di podestà o di capitano del popolo ai capi delle famiglie preminenti, con poteri eccezionali e durata spesso vitalizia. In tal modo si rispondeva all'esigenza di un governo stabile e forte che ponesse termine all'endemica instabilità istituzionale ed ai violenti conflitti politici e sociali, soprattutto tra magnati e popolari.[35] I signori più forti e ricchi riuscirono quindi ad ottenere la facoltà di designare il proprio successore, dando così inizio a dinastie signorili attraverso la legittimazione dell'imperatore, che concedeva il titolo di Duca (spesso dietro forti compensi da parte dei Signori). Rimanevano tuttavia funzionanti le istituzioni comunali, sebbene spesso si limitassero a ratificare le decisioni del Signore.

Le più importanti furono quelle dei De Medici, Gonzaga e Sforza. Ma anche quelle dei Della Torre, Visconti, Montefeltro, Estensi, Della Scala e Malatesta ebbero, in momenti diversi, notevole importanza.

Inizialmente le Signorie non erano istituzioni legittime ma si presentarono come "cripto-Signorie", cioè delle "Signorie nascoste", in quanto si aggiunsero alle istituzioni comunali senza mostrarsi apertamente e senza mostrare cambiata l'istituzione vigente. Con questa Signoria ancora in ombra (ma già forte) salirono al potere molti avventurieri, ma soprattutto famiglie di antica nobiltà feudale, che, dopo aver governato per una o due generazioni, decisero di legittimare il loro potere e di renderlo ereditario. Così ottennero nel XIV secolo il titolo di vicario imperiale e tra il XIV e il XV secolo i titoli di duca e marchese. L'assegnazione di questi titoli è indice della stabilizzazione dei poteri signorili e della debolezza crescente degli Imperatori tedeschi, che già dalla seconda metà del XIV secolo non riuscivano a controllare le regioni settentrionali, rendendo così possibile l'affermazione delle Signorie, che successivamente si evolsero in Principati con dinastie ereditarie; ciò avvenne quando i Signori, riconoscendo l'imperatore e pagando una quantità di denaro, vennero legittimati e riconosciuti come autorità da sudditi e principi.

Il declino del Papato e dell'Impero (1302-1414)[modifica | modifica wikitesto]

L'importanza dell'impero nel mondo politico medioevale, e in particolare in quello italiano, era notevolmente calata dopo la sconfitta di Federico Barbarossa alla battaglia di Legnano nel 1176 e quella di Manfredi nel 1266 a Benevento, che avevano segnato la fine del potere politico dell'impero rispettivamente nel Nord e nel Sud Italia.

Enrico VII di Lussemburgo tentò dopo la sua ascesa al soglio imperiale nel 1308 di restaurare l'antico potere imperiale in Italia trovando però la fiera opposizione del libero comune di Firenze, di papa Clemente V e di Roberto d'Angiò. La sua discesa in Italia con la conseguente incoronazione come Imperatore del Sacro Romano Impero (titolo vacante dalla morte di Federico II, durante il cosiddetto grande interregno) rimarrà quindi un gesto puramente simbolico. Nel 1313 muore mentre si trova ancora in territorio italiano deludendo così coloro che avevano sperato in una unificazione del suolo italiano sotto la sua bandiera. Anche il Papato, l'altra grande istituzione medioevale, attraversa un periodo di crisi.

Entrambe queste istituzioni si vedono costrette ad accettare la crescente influenza degli Stati nazionali, supportati dalla sempre più potente classe borghese, e la crisi del sistema feudale. Bonifacio VIII asceso al soglio pontificio nel 1296, cercò di restaurare il potere papale scontrandosi però con Filippo IV il Bello, re di Francia. Filippo scese in Italia e, con un gesto impensabile qualche secolo prima, imprigionò il papa ad Anagni (1303) dove sembra che abbia ricevuto addirittura uno schiaffo (Schiaffo di Anagni). Nel 1305, Clemente V spostò la sede papale ad Avignone dove restò per i successivi settanta anni. I papi avignonesi restarono succubi dei re di Francia e non mancarono di destare scandalo tra i loro contemporanei. Nel 1377 avvenne lo Scisma d'Occidente in seguito al ritorno a Roma di papa Gregorio XI: alla sua morte infatti i cardinali romani elessero al soglio pontificio Urbano VI mentre i cardinali francesi Clemente VII. Lo scisma si complicò ulteriormente dopo il Concilio di Pisa (1409) che, nel tentativo di unificare di nuovo la cristianità, elesse un altro papa. L'Europa rimase divisa tra i seguaci dei due (poi tre) papi fino alla definitiva fine dello scisma avvenuta col Concilio di Costanza (1414).

Lo scisma aveva mostrato la debolezza di un'istituzione che era stata un punto di riferimento fondamentale nei secoli passati. Così mentre dal punto di vista culturale il papa perdeva un'egemonia quasi millenaria dal punto di vista politico la Cattività avignonese e lo Scisma favorirono il distacco definitivo del Ducato di Urbino, già iniziato sotto Guido da Montefeltro, e la nascita per breve tempo di una repubblica romana tra il 1347 e il 1354 guidata da Cola di Rienzo. Questi dopo essersi impadronito del potere tentò di organizzare una repubblica simile a quella romana ma alla fine della sua carriera sconfinò nel delirio e venne linciato dai suoi stessi concittadini che lo avevano sostenuto.

Alfonso I di Napoli

Il meridione tra Angioini e Aragonesi (1250-1442)[modifica | modifica wikitesto]

Il papa, approfittando della morte di Federico II, cercò di insediare al trono del Regno di Sicilia Carlo I d'Angiò, fratello del re di Francia. Carlo trovò però l'opposizione di Manfredi, figlio di Federico II, che inizialmente ottenne una serie di successi, tanto che il partito ghibellino si affermò in molti comuni italiani, primo tra tutti Firenze: le milizie guelfe della città furono sconfitte a Montaperti (1260) dai Senesi, Ghibellini, aiutati dalle truppe dello stesso Manfredi. Costui fu tuttavia sconfitto pesantemente a Benevento da Carlo d'Angiò provocando un improvviso crollo del partito ghibellino in tutta Italia.

A causa dell'esoso fiscalismo degli Angioini (che misero ai posti di comando numerosi baroni francesi), nel 1282 la popolazione di Palermo insorse, chiamando in loro aiuto Pietro III d'Aragona, genero di Manfredi, che dichiarò guerra agli Angioini, dando così inizio alla Guerra del Vespro che si concluse soltanto nel 1302 con la Pace di Caltabellotta, in seguito alla quale la Sicilia sarebbe passata agli Aragonesi. Il Regno di Napoli restò invece sotto la dominazione angioina, con capitale Napoli; sotto gli Angioini fu mantenuto l'assetto amministrativo di origine sveva, con giustizierati e universitates, anche se le ultime regalie del napoletano furono però perse, quali il diritto del sovrano di nominare degli amministratori regi nelle diocesi con sedi vacanti[36]. Con Roberto d'Angiò a Napoli fiorirono le scienze umanistiche, con l'istituzione di una scuola di teologi scolastici e la commissione di traduzioni dal greco, da Aristotele a Galeno, per la Biblioteca Nazionale di Napoli, ma fiorì anche la cultura greca di Calabria, grazie alla quale il neoplatonismo e la cultura ellenistica entrarono nella tradizione italiana, dal Petrarca a Pico della Mirandola.

Morto Roberto, seguirono anni di instabilità politica a causa di una guerra di successione fra Giovanna I di Napoli e Carlo di Durazzo, cui seguì il breve regno di Luigi II d'Angiò, subito detronizzato da Ladislao I, figlio di Giovanna. Sotto il regno di questi, il regno ritrovò stabilità e anzi riuscì ad espandersi su buona parte dell'Italia centrale ai danni dello Stato Pontificio e dei comuni toscani. Nel 1414 però Ladislao morì e il regno tornò presto nei confini originari. Gli succedette Giovanna II, l'ultima sovrana angioina nel napoletano, che non avendo avuto eredi diretti, adottò un aragonese come figlio, Alfonso V d'Aragona, diseredandolo poi del regno, in favore di Renato d'Angiò. Alla morte di costei Alfonso rivendicò il diritto di successione dichiarando guerra a Napoli. Col sostegno del ducato di Milano Alfonso si impadronì in breve tempo del trono di Napoli, che governò con il nome di Alfonso I di Napoli e col titolo di Rex Utriusquae Siciliae. Costui, come poi suo figlio Ferrante, contribuì ampiamente all'ammodernamento del territorio dominato sul modello economico aragonese, tramite il sostegno giuridico della transumanza, i fori boari, il contrasto dei privilegi feudali e l'adozione del napoletano come lingua di stato.

Le lotte tra gli Stati italiani (1412-1454)[modifica | modifica wikitesto]

Nella prima metà del XV secolo si ebbe un lungo periodo di guerre che interessò l'intera penisola e fu segnato dai ripetuti tentativi degli Stati più forti di estendere la propria egemonia.
Il regno di Napoli fu scosso da una lunga crisi dinastica iniziata nel 1435 con la morte dell'ultima regina angioina, Giovanna II, e conclusasi solo nel 1442 con la vittoria di Alfonso V d'Aragona, che ebbe la meglio sul rivale Renato d'Angiò. L'avvento della dinastia aragonese dei Trastamara segnò anche la riunificazione de facto dei regni di Napoli e Sicilia e l'avvio di un periodo di stabilità dinastica destinato a durare fino alla fine del secolo.

Il dominio sui mari fu invece l'obiettivo che contrappose gli interessi delle antiche repubbliche marinare: estromessa Amalfi già nel XII secolo, lo scontro proseguì tra Pisa, Genova e Venezia. Genovesi e Pisani combatterono ripetutamente per il controllo del Tirreno, e nel 1406 Pisa fu conquistata da Firenze, perdendo definitivamente la propria autonomia politica. Agli inizi del secolo la contesa era dunque ridotta a un duello fra Genovesi e Veneziani. Per tutto il Quattrocento perdurò uno Stato di conflittualità tra le due repubbliche senza battaglie decisive. La potenza di Genova andò affievolendosi nel corso del secolo e Venezia si affermò come padrona dei mari, raggiungendo il culmine della propria ascesa agli inizi del XVI secolo. Con la caduta dell'Impero bizantino (avvenuta nel 1453), l'altro grande rivale di Venezia, la Serenissima poté interessarsi ad una politica di espansione territoriale sulla terraferma che prese avvio proprio agli inizi del XV secolo.
Le iniziative militari veneziane entrarono in conflitto con gli interessi del ducato di Milano, impegnato a sua volta in una politica espansionistica guidata della famiglia Visconti. Nello scontro si inserì anche la repubblica di Firenze, minacciata dall'aggressività viscontea e alleatasi con i Veneziani. La Serenissima riportò una vittoria decisiva nella battaglia di Maclodio del 1427, assumendo una posizione egemone che allarmò i Fiorentini, i quali preferirono rompere l'alleanza e schierarsi dalla parte di Milano. La guerra si protrasse con operazioni di minore portata fino alla pace di Lodi del 1454.

La Pace di Lodi e la politica dell'equilibrio (1454-1492)[modifica | modifica wikitesto]

La Pace di Lodi, firmata nella città lombarda il 9 aprile 1454, mise fine allo scontro fra Venezia e Milano che durava dall'inizio del XV secolo[37]. Il trattato fu ratificato dai principali Stati regionali[38] (prima fra tutti Firenze, passata da tempo dalla parte di Milano).

L'Italia settentrionale risultava in pratica spartita fra i due Stati nemici, nonostante persistessero alcune potenze minori (i Savoia, la Repubblica di Genova, i Gonzaga e gli Estensi). In particolare, stabilì la successione di Francesco Sforza al Ducato di Milano, lo spostamento della frontiera tra i suddetti stati sul fiume Adda, l'apposizione di segnali confinari lungo l'intera demarcazione (alcune croci scolpite su roccia sono tuttora esistenti) e l'inizio di un'alleanza che culminò nell'adesione – in tempi diversi – alla Lega Italica. L'importanza della Pace di Lodi consiste nell'aver dato alla penisola un nuovo assetto politico-istituzionale che – limitando le ambizioni particolari dei vari Stati – assicurò per quarant'anni un sostanziale equilibrio territoriale e favorì di conseguenza lo sviluppo del Rinascimento italiano. A farsi garante di tale equilibrio politico sarà poi – nella seconda parte del Quattrocento – Lorenzo il Magnifico, attuando la sua famosa politica dell'equilibrio.

Il Rinascimento italiano[modifica | modifica wikitesto]

Il Rinascimento italiano è la fioritura di quella civiltà culturale ed artistica che, nata a Firenze e da lì diffondendosi in tutta Europa dalla metà del XIV secolo a tutto il XVI secolo, mira a riscoprire la cultura classica antica, per un verso depurandola da alcune forme della religiosità medioevale, per un altro integrandola nello stesso contesto cristiano del Medioevo, sulla scia della rinascita spirituale che si era avuta nel Duecento con le figure di Gioacchino da Fiore e Francesco d'Assisi.[39]
I principali centri dell'Umanesimo-Rinascimento sono Firenze, Ferrara, Napoli,[40] Roma, Milano, Padova, e Urbino: a Firenze sotto l'egida di Lorenzo il Magnifico, nella città partenopea alla corte aragonese di Alfonso I, a Roma con il colto Enea Silvio Piccolomini, Pio II il papa umanista, e Leone X, a Padova con la prestigiosa Università, a Milano con Ludovico il Moro, a Ferrara con gli Estensi e ad Urbino nella raffinata corte di Federico da Montefeltro. Politicamente l'Umanesimo in Italia si accompagna alla trasformazione dei Comuni in Signorie essendo l'espressione della borghesia che ha consolidato il suo patrimonio e aspira al potere politico. Gli sviluppi dell'Umanesimo rientrano nella formazione delle monarchie nazionali in Europa.

L'Italia nel 1499

La sottomissione degli Stati italiani[modifica | modifica wikitesto]

Il 1494 segna la fine della politica dell'equilibrio e l'inizio di quel lungo periodo di conflitti che va sotto il nome di guerre d'Italia. Secondo una fortunata formula storiografica, questa data coincide con la fine della libertà italiana: la Penisola cade sotto l'egemonia delle potenze straniere (prima la Francia, poi la Spagna e infine l'Austria), una soggezione dalla quale si libererà solo nel 1866 con gli esiti vittoriosi della terza guerra di indipendenza.

La discesa di Carlo VIII in Italia[modifica | modifica wikitesto]

La riapertura delle ostilità dopo il quarantennio di pace seguito agli accordi di Lodi scaturì dall'iniziativa del re di Francia Carlo VIII, che discese in Italia alla testa di un esercito di 25.000 uomini con l'obiettivo di riconquistare il regno di Napoli, sul quale vantava diritti in virtù del legame dinastico con gli Angioini. La conquista del reame napoletano rappresentava per Carlo la premessa indispensabile per estendere il proprio controllo all'intera penisola e per affrontare direttamente la minaccia turca. La spedizione del re francese incontrò il favore di molti principi italiani, che intendevano approfittare della sua potenza per conseguire obiettivi propri: il duca di Milano Ludovico il Moro ottenne grazie all'appoggio di Carlo VIII la cacciata del nipote Gian Galeazzo Visconti, che insidiava il suo potere; a Firenze gli avversari dei Medici aprirono le porte della città ai francesi costringendo alla fuga Piero il Fatuo e restaurando la repubblica sotto la guida di Savonarola. Anche i cardinali romani ostili ad Alessandro VI Borgia puntavano alla sua deposizione, ma il papa spagnolo scongiurò colpi di mano garantendo al re il passaggio attraverso i territori pontifici e offrendo suo figlio Cesare come guida in cambio del giuramento di fedeltà.

Il 22 febbraio 1495 Carlo VIII entrò a Napoli, sostenuto da buona parte dei baroni del regno che si erano schierati dalla sua parte contro Ferdinando II d'Aragona. Ma la conquista non poté essere consolidata, vista l'avversione che la sua impresa aveva suscitato anche da parte di coloro che inizialmente l'avevano favorita: Milano, Venezia e il papa costituirono una lega antifrancese, alla quale diedero il proprio appoggio anche l'imperatore Massimiliano e la Spagna dei Re Cattolici. Anche se la lega non riuscì a ottenere una vittoria decisiva, con la Battaglia di Fornovo (luglio 1495) riuscì a costringere il sovrano a riparare in Francia. Le ostilità ripresero nel 1499 con la discesa in Italia di Luigi XII, successore di Carlo. Il nuovo sovrano conquistò il Ducato di Milano in forza dei diritti ereditati dalla nonna Valentina Visconti e nel 1501 i francesi occuparono Napoli, ma furono sconfitti dai rivali spagnoli nella Battaglia del Garigliano (1503). Fra il 1499 e il 1503 Cesare Borgia, figlio del papa Alessandro VI, conquistò un dominio a cavallo fra le Marche e la Romagna, grazie anche all'appoggio della Francia e a una politica violenta e spregiudicata. La morte del pontefice nell'agosto del 1503 travolse anche il fragile regno del figlio, che morì sotto le mura di Viana, in Navarra, nel 1507, combattendo a difesa del cognato Giovanni III d'Albret. Nel marzo del 1508, con la battaglia di Rusecco, la Serenissima sottrasse a Massimiliano I le città di Gorizia, Trieste e Fiume. Il nuovo Papa, Giulio II, temendo l'espansione della Serenissima, nel dicembre dello stesso anno, a Cambrai, stipulò un accordo segreto contro la Repubblica di Venezia, con la Francia, la Spagna, il Sacro Romano Impero, il Ducato di Ferrara, il Ducato di Savoia e il Marchesato di Mantova. Questo accordo prese il nome di Lega di Cambrai dalla città stessa.

Carlo V in un ritratto di Tiziano

Carlo V e Francesco I[modifica | modifica wikitesto]

Con la formazione della Lega di Cambrai (1508), voluta dal papa Giulio II in funzione antiveneziana, i francesi fecero ritorno in Italia, sconfiggendo nel 1509 con la battaglia di Agnadello i Veneziani, ma in seguito destando le preoccupazioni dei principi della penisola. Il pontefice costituì allora una Lega Santa che nel 1513 costrinse i francesi alla ritirata. Le mire francesi sull'Italia furono ereditate nel 1515 da Francesco I di Valois, che fu protagonista insieme al rivale Carlo V di una lunga lotta per l'egemonia continentale che ebbe in Italia il suo principale teatro. Col trattato di Noyon del 1516 le due grandi contendenti riconoscevano le rispettive conquiste: alla Francia veniva confermato il possesso del Ducato di Milano, alla Spagna quello del Regno di Napoli. Ma l'accordo non bastò a spegnere le rivalità, che esplosero nuovamente nel 1519 con l'elezione a Sacro Romano Imperatore di Carlo V, già re di Spagna, Napoli e Sicilia. Nel 1521 le armate francesi scesero nuovamente in Italia con l'obiettivo di riconquistare il reame napoletano, ma furono sconfitte nelle battaglie della Bicocca, di Romagnano e di Pavia, durante la quale lo stesso Francesco I fu fatto prigioniero e condotto a Madrid per poi essere liberato solo dopo la cessione di Milano agli spagnoli (1525).

Francesco I di Valois

L'allarme per la crescente potenza degli Asburgo portò alla costituzione della Lega di Cognac, promossa dal papa Clemente VII e siglata dal sovrano francese insieme alle repubbliche di Venezia e Firenze. Un'alleanza fragile che non fu in grado di evitare il terribile sacco di Roma del maggio 1527 ad opera dei Lanzichenecchi, soldati imperiali di origine prevalentemente tedesca e fede luterana. Tale episodio suscitò orrore e costernazione in tutto il mondo cattolico e costrinse il papa, asserragliato in Castel Sant'Angelo, alla pace con l'imperatore, dal quale ottenne la restaurazione dei Medici a Firenze, dove si era costituita una repubblica (1527-1530). Il 5 agosto 1529 venne stipulata la pace di Cambrai, con la quale la Francia rinunciava alle mire sull'Italia mentre la Spagna vedeva riconosciuto il possesso di Napoli e Milano.

L'equilibrio fu nuovamente infranto nel 1542, con l'inizio di una nuova fase di conflitti franco-spagnoli in territorio italiano. Gli scontri ebbero esiti alterni, sanciti da deboli trattati di pace (come la pace di Crépy del 1544) e continuarono anche dopo la morte di Francesco I e l'ascesa al trono del suo successore Enrico II nel 1547. Ma lo scenario internazionale mutò di colpo nel 1556, quando Carlo V abdicò dopo aver diviso i suoi possedimenti fra il figlio Filippo II e il fratello Ferdinando I. Furono proprio Enrico e Filippo a stipulare nel 1559 la pace di Cateau-Cambrésis, che mise fine definitivamente allo scontro tra Francia e Spagna per l'egemonia europea e sancì, dopo un sessantennio di guerre continue, quella fine della libertà italiana avviata dalla spedizione di Carlo VIII nel 1494. La Spagna consolidò la propria posizione di dominio in Italia, destinata a durare fino al 1714, anno della conclusione della guerra di successione spagnola e dell'avvento dell'Austria come potenza egemone sulla penisola.
Da questo momento si può considerare esaurita la parabola del Rinascimento: l'Italia è quasi interamente soggetta alla corona spagnola ed è interessata da quel processo di reazione della Chiesa cattolica al luteranesimo che va sotto il nome di Controriforma. Il periodo che seguì la fine delle guerre d'Italia - dalla seconda metà del XVI a tutto il XVII secolo - è stato a lungo etichettato come Età della decadenza, una formula per molti versi semplicistica che è stata fatta oggetto di profonda revisione da molti storici del XX secolo[41].

La dominazione spagnola[modifica | modifica wikitesto]

L'egemonia spagnola in Italia venne ratificata dalla pace di Cateau-Cambrésis. La Spagna esercitò da allora, e fino al 1714, il dominio diretto su tutta l'Italia meridionale ed insulare, sul Ducato di Milano e sullo Stato dei Presidii nel sud della Toscana. Lo Stato della Chiesa, il Granducato di Toscana, la Repubblica di Genova ed altri stati minori furono costretti di fatto ad appoggiare la politica imperiale spagnola. Il Ducato di Savoia, tendente a convertirsi in ago della bilancia fra Francia e Spagna, divenne nella realtà dei fatti un campo di battaglia fra queste due potenze. Solo la Repubblica di Venezia riuscì a conservare una relativa indipendenza che però non fu sufficiente a preservarla da una lenta ma inesorabile decadenza.

Condizioni dell'Italia nel seicento[modifica | modifica wikitesto]

In età moderna, l'Italia, e, più in generale, tutta l'Europa meridionale, ebbe a soffrire dello spostamento delle grandi rotte commerciali dal Mediterraneo all'Atlantico, chiaramente percepibile a partire dagli ultimi decenni del Cinquecento. Le devastazioni belliche a seguito della guerra dei trent'anni colpirono soprattutto l'Italia settentrionale: il principale di questi scontri che vide contrapposti gli interessi imperiali a quelli francesi fu la guerra di successione di Mantova e del Monferrato. La forte pressione fiscale esercitata dalla Spagna sui suoi domini, dovuta alle esorbitanti spese di guerra, invece si fece sentire con gravissime conseguenze in tutto il meridione ed in Lombardia, mentre i vuoti lasciati dalla grave pestilenza del 1630 ebbero effetti devastanti sull'economia italiana del tempo. È un dato di fatto che fin dal quarto decennio del XVII secolo quasi tutta l'Italia era passata ad essere un'area con gravi problemi di sottosviluppo economico, politicamente amorfa, socialmente disgregata. Fame e malnutrizione regnavano incontrastate in molte regioni peninsulari e nelle due isole maggiori.

Il declino culturale dell'Italia non marciò di pari passo con quello politico, economico e sociale. È questo un fenomeno riscontrabile in molti paesi, Spagna compresa. Se nel Cinquecento il Rinascimento italiano produsse i suoi frutti più maturi e si impose all'Europa del tempo, l'arte ed il pensiero barocchi, elaborati a Roma a cavallo fra Cinquecento e Seicento avranno una forza di attrazione ed una proiezione internazionale non certo inferiori. È comunque un dato di fatto che ancora per tutta la prima metà del Seicento ed oltre, l'Italia continuò ad essere un paese vivo, capace di elaborare un pensiero filosofico (Giordano Bruno, Tommaso Campanella, Paolo Sarpi) e scientifico (Galileo Galilei, Evangelista Torricelli) di altissimo profilo, una pittura sublime (Caravaggio), un'architettura unica in Europa (Gianlorenzo Bernini, Borromini, Baldassare Longhena, Pietro da Cortona) ed una musica, sia strumentale (Arcangelo Corelli, Girolamo Frescobaldi, Giacomo Carissimi) che operistica (Claudio Monteverdi, Francesco Cavalli) che fece scuola. A questo proposito ricordiamo che il melodramma è una tipica creazione dell'età barocca.

Masaniello ritratto da Aniello Falcone, 1647.

La rivolta di Masaniello[modifica | modifica wikitesto]

Il rapace fiscalismo degli spagnoli suscitò varie rivolte, tra cui una delle più note di questo periodo è quella del 1647 del pescatore Masaniello a Napoli. La rivolta fu scatenata dall'esasperazione delle classi più umili verso le gabelle imposte sugli alimenti di necessario consumo. Dopo dieci giorni di rivolta che costrinsero gli spagnoli ad accettare le rivendicazioni popolari, a causa di un comportamento sempre più dispotico e stravagante Masaniello fu assassinato all'età di ventisette anni dagli stessi rivoltosi che lo avevano appoggiato.

La fine di Masaniello non decretò però la fine della rivolta: i napoletani, condotti dal nuovo capopopolo Gennaro Annese, riuscirono dopo vari mesi a cacciare gli spagnoli dalla città e il 17 dicembre fu infine proclamata la Real Repubblica Napoletana sotto la guida del duca francese Enrico II di Guisa, che in quanto discendente di Renato d'Angiò rivendicava diritti dinastici sul trono di Napoli. Enrico era appoggiato dalla Francia che sperava in questo modo di far rientrare il Regno di Napoli sotto l'influenza francese. L'esempio di Masaniello fu poi seguito anche da popolani di altre città: da Giuseppe d'Alesi a Palermo, e da Ippolito di Pastina a Salerno. La parentesi rivoluzionaria si concluse solo il 6 aprile 1648, quando gli spagnoli ripresero il controllo della città.

Nel 1701 a Napoli avvenne una nuova insurrezione contro gli spagnoli: la congiura di Macchia ad opera dei nobili. Anche a causa di una scarsa partecipazione dei ceti umili, la rivolta fallì. Il dominio spagnolo su Napoli continuò fino al 1707, anno in cui la guerra di successione spagnola pose fine al viceregno iberico sostituendogli quello austriaco.

L'Europa nel 1713, dopo la pace di Utrecht.

La guerra di successione spagnola[modifica | modifica wikitesto]

Il 1º novembre 1700 morì Carlo II di Spagna, da tempo malato. La maggior parte delle dinastie regnanti al momento vantava parentele con il moribondo ed erano interessate al trono di Spagna, che sarebbe rimasto vacante con la morte di Carlo II. Cinque giorni dopo la morte, per disposizione testamentaria del defunto re, veniva proclamato nuovo re di Spagna il duca Filippo d'Angiò, nipote del re di Francia Luigi XIV, il quale assumeva il nome di Filippo V. Inghilterra, Austria e Paesi Bassi, intenzionate a impedire che la Spagna passasse sotto l'influenza francese (sarebbe stato infatti molto difficile fronteggiare un'unica sovranità borbonica da entrambe le parti dei Pirenei), strinsero la cosiddetta alleanza dell'Aja (7 settembre 1701), con la quale si impegnavano ad impedire che le volontà testamentarie del defunto re di Spagna trovassero definitiva attuazione. Diedero così inizio alla guerra di successione spagnola, che si combatté per ben dodici anni e coinvolse anche i possedimenti spagnoli in Italia. La guerra si concluse con la Pace di Utrecht (1713), che sancì la fine della dominazione spagnola in Italia e l'inizio di quella austriaca.

La dominazione austriaca[modifica | modifica wikitesto]

Come conseguenza della Guerra di successione spagnola (1701 –1714) Filippo V fu riconosciuto re di Spagna, ma il regno perse con il trattato di Utrecht i suoi possedimenti in Italia. Il ducato di Milano, il regno di Napoli e quello di Sardegna finirono alla casa degli Asburgo mentre il regno di Sicilia dovette essere assegnato alla Casa Savoia, regnante il duca Vittorio Amedeo II, che nell'occasione era divenuto re. In questo modo era iniziata la dominazione austriaca in Italia, che si protrasse fino al 1866.

Elisabetta Farnese, Regina di Spagna

La guerra della Quadruplice Alleanza[modifica | modifica wikitesto]

La Spagna, per mano del nuovo primo ministro Cardinal Alberoni, aveva adottato una politica aggressiva verso gli altri paesi cofirmatari dei trattati per l'insoddisfazione del nuovo Re per la perdita di tutti i possedimenti europei seppur in cambio di un trono e per il desiderio della Regina Elisabetta Farnese di ottenere ducati in Italia per i propri figli. Alberoni e Filippo V la sostennero in questo sforzo, poiché entrambi ambivano a ricostruire la ex Grande Spagna, e, decisi a recuperare i territori perduti in Italia, accamparono pretese del regno spagnolo su Sardegna e Sicilia.

La battaglia navale di Capo Passero

La Spagna nel 1717-1718 prese l'iniziativa occupando prima la Sardegna, in mano agli Asburgo, poi la Sicilia territorio sabaudo di recente acquisizione. Questa iniziativa provocò la formazione di una quadruplice alleanza (1717) tra Francia, Inghilterra, Olanda e Austria, la quale, un anno dopo conseguì una schiacciante vittoria a Capo Passero sulla flotta spagnola (1718).

La guerra si concluse con il trattato dell'Aia (1720) che decretò un cambio di isole italiane tra Asburgo e Savoia: ai primi andò la Sicilia (allora più ricca rispetto all'isola sarda) e il titolo regio di Vittorio Amedeo II cambiò da Re di Sicilia (trattato di Utrecht) a Re di Sardegna; i Savoia porteranno questo titolo fino all'unificazione del Regno d'Italia. Al figlio di Elisabetta Farnese, Carlo (1716 – 1788), furono promessi i ducati di Parma, di Piacenza e di Toscana, che dopo la prossima estinzione della linea maschile dei Farnese gli sarebbero stati attribuiti. La Spagna negli anni successivi uscì dal suo isolamento e con la Guerra di successione polacca (1733 – 1738) riuscì persino a portare sotto il suo controllo Napoli e la Sicilia.

La guerra di successione polacca[modifica | modifica wikitesto]

La guerra di successione polacca prese avvio nell'anno 1733 con la morte del Re di Polonia Augusto II, appartenente alla dinastia Wettin, e fu causata dalla volontà da parte della triplice alleanza costituitasi nell'anno precedente tra Russia, Prussia e Austria di impedire che la Polonia finisse sotto l'influenza francese. Infatti il primo ministro francese André-Hercule de Fleury riuscì a porre sul trono polacco il Leszczyński, ma l'intervento militare russo costrinse quest'ultimo alla fuga consentendo all'altro candidato Augusto III di Sassonia di insediarsi a sua volta sul trono polacco. Ciò mortificò la Francia che, per vendetta, scatenò un'offensiva bellica contro l'Austria. La Francia era alleata con la Spagna, anch'essa governata dai Borbone e legata con la Francia dal vecchio patto che aveva già visto uniti i rispettivi troni nel corso della precedente guerra di successione spagnola; ad essi si aggiunsero i Savoia. La guerra, combattutasi prevalentemente nel sud Italia, vide la sconfitta dell'Austria, che, avendo necessità di farsi riconoscere la Prammatica Sanzione del 1713 da parte delle altre case regnanti d'Europa (tra cui i Borbone di Francia e Spagna con i quali l'Austria si trovava in guerra), più che controbattere, subiva la guerra con la Francia. Nel 1734 con la battaglia di Bitonto, i Regni di Napoli e Sicilia ritornano formalmente indipendenti, dopo oltre due secoli di dominazione politica prima spagnola e poi austriaca. Sul trono di Napoli si insediarono i Borbone di Spagna.

Il preliminare di pace per il riassetto dell'Italia sottoscritto tra Francia e l'Austria il 3 ottobre 1735, poi confermato dalla successiva Pace di Parigi del 1739, prevedeva l'assegnazione del Granducato di Toscana a Francesco III Stefano di Lorena, una volta scomparso Gian Gastone de' Medici, l'ultimo rappresentante della dinastia de' Medici, per compensare l'assegnazione della Lorena al Leszczyński. All'Austria veniva riconosciuta la validità della Prammatica Sanzione e veniva restituito il Ducato di Parma e Piacenza, mantenendo inoltre il porto franco di Livorno, ma cedeva a Carlo di Borbone lo Stato dei Presidii, il Regno di Napoli e il Regno di Sicilia. I Savoia acquisirono le Langhe e i territori orientali del milanese venendo autorizzati, inoltre, a costruire piazzeforti nei territori appena conquistati. Tali accordi avrebbero dovuto costituire per gli Stati italiani una sistemazione definitiva e stabile nel quadro della politica di equilibrio tra tutte le maggiori potenze europee della prima metà del XVIII secolo, ma l'assetto geopolitico dell'Italia sarebbe stato nuovamente turbato nello spazio di qualche anno.

Guerra di successione austriaca[modifica | modifica wikitesto]

«L'Italia è un carciofo, bisogna mangiarne una foglia alla volta.»

Nel mese di ottobre del 1740, all'età di soli 56 anni, moriva improvvisamente, privo di figli maschi, Carlo VI d'Asburgo e saliva al trono d'Austria la figlia primogenita Maria Teresa, di soli 23 anni, sposa di Francesco Stefano di Lorena. L'ascesa al trono di Maria Teresa d'Asburgo provocò l'insorgere di numerosi dissensi tra le case regnanti in Europa che sfociarono in una sanguinosa guerra, passata alla storia come guerra di successione austriaca. Nel corso di questa guerra, che si combatté anche in Italia, la città di Genova venne occupata per un breve periodo dagli austriaci (1746). Il malcontento dei Genovesi nei confronti degli occupatori austriaci generò però una rivolta, che iniziò grazie al gesto patriottico di un ragazzino, Balilla, che lanciò un sasso contro un soldato austriaco. I Genovesi riuscirono alla fine a cacciare gli austriaci.

Con il Trattato di Aquisgrana (1748), che decretò la fine del conflitto, l'Italia subì un riassetto tale da trasformarla in un insieme di stati dall'equilibrio stabile per lungo tempo. L'Austria aveva ripreso il possesso del milanese e ristabilito la propria influenza sul Ducato di Modena. Il Regno di Sardegna si era espanso verso la valle padana e si era riappropriato di Nizza e della Savoia. La Spagna era stata tacitata mediante la cessione del Ducato di Parma e Piacenza a Felipe di Borbone, mentre il fratello di questi rimaneva nel pieno possesso dei regni di Napoli e della Sicilia, per nulla rimessi in discussione. L'Italia si avviava, quindi, ad un lungo periodo di stabilità che sarà scosso soltanto sul finire del secolo a seguito del coinvolgimento della penisola nei fatti legati alla rivoluzione francese e all'epopea bonapartista.

Condizioni dell'Italia nel settecento[modifica | modifica wikitesto]

Attorno agli anni trenta del XVIII secolo, si assiste ad una timida ripresa dell'economia italiana che si consolidò, soprattutto nel meridione, nei decenni successivi. L'Illuminismo, nato in Inghilterra, ma diffusosi in Italia attraverso l'intermediazione dei philosophes francesi iniziò a far sentire i suoi benefici influssi nel nord (Parma) come a Napoli e in Sicilia, dove regnò uno dei più grandi sovrani europei del tempo: il futuro Carlo III di Spagna. L'Austria, che, come abbiamo già visto, si era sostituita alla Spagna come potenza egemonica in Italia, soprattutto nella sua parte centro-settentrionale, fu governata da alcuni monarchi particolarmente capaci, Maria Teresa d'Austria e Giuseppe II in particolare, che introdussero in Lombardia, nel Trentino e nella regione di Trieste (la futura Venezia Giulia) delle riforme atte a favorire lo sviluppo economico e sociale di quelle terre.

L'Italia nel 1803.

L'Italia sotto il dominio napoleonico[modifica | modifica wikitesto]

Verso la fine Settecento sulla scena politica italiana si affacciò Napoleone Bonaparte. Questi nel 1796, comandò, come generale, la campagna italiana, al fine di far abbandonare al Regno di Sardegna la Prima coalizione, creata contro lo Stato francese, e per far arretrare gli austriaci. Gli scontri iniziarono il 9 aprile, contro i piemontesi e nel breve volgere di due settimane Vittorio Amedeo III di Savoia fu costretto a firmare l'armistizio. Il 15 maggio poi il generale francese entrò a Milano, venendo accolto come un liberatore. Successivamente respinse le controffensive austriache e continuò ad avanzare, fino ad arrivare in Veneto nel 1797. Qui si verificò anche un episodio di ribellione a causa dell'oppressione francese chiamato Pasque Veronesi, che tenne occupato Napoleone per circa una settimana. Con il diretto intento di danneggiare il pontefice fu proclamata nel 1797 la Repubblica Anconitana con capitale Ancona che fu poi unita alla Repubblica Romana: il tutto ebbe però breve durata, poiché nel 1800 lo Stato Pontificio fu ripristinato.

Napoleone con la corona ferrea

A ottobre del 1797 venne firmato il Trattato di Campoformio con il quale la Repubblica di Venezia fu annessa allo Stato austriaco. Il trattato riconobbe anche l'esistenza della Repubblica Cisalpina, la quale comprendeva Lombardia, Emilia-Romagna oltre a piccole parti di Toscana e Veneto, mentre il Piemonte venne annesso alla Francia provocando qualche moto di ribellione. Nel 1802 venne poi denominata Repubblica Italiana, con Napoleone Bonaparte, già Primo Console della Francia, in qualità di Presidente.

Il 2 dicembre 1804 Napoleone fu incoronato Imperatore dei francesi. In conformità col nuovo assetto monarchico francese Napoleone divenne anche Re d'Italia, tramutando la Repubblica italiana in Regno d'Italia. Questa decisione lo mise in contrasto con l'Imperatore del neonato Impero austriaco Francesco I che, essendo prima di tutto Imperatore dei Romani, risultava de iure pure Re d'Italia. La situazione si risolse con la guerra contro la Terza coalizione: l'Austria venne sconfitta (2 dicembre 1805) e il trattato di Presburgo (26 dicembre 1805) pose di fatto fine al Sacro Romano Impero che verrà però sciolto solo nel 1807. L'anno successivo Bonaparte riuscì a conquistare il Regno di Napoli affidandolo al fratello e consegnandolo nel 1808 a Gioacchino Murat. Inoltre Napoleone riservò alle sorelle Elisa e Paolina i principati di Massa, Carrara e Guastalla. Proprio nel 1808 il Regno d'Italia subì un ampliamento con le annessioni di Toscana e Marche.

Nel 1809, Bonaparte occupò Roma, in seguito a contrasti con il papa, che l'aveva scomunicato, e per mantenere in efficienza il proprio Stato[43], relegandolo prima a Savona e poi in Francia. Nella campagna di Russia, che Napoleone intraprese nel 1812, fu determinante l'appoggio degli abitanti della penisola italiana, ma questa si risolse con una sconfitta e molti italiani trovarono la morte. Dopo la fallimentare campagna di Russia gli altri stati europei si riorganizzarono, coalizzandosi tra loro e sconfiggendo Bonaparte a Lipsia. I suoi stessi alleati, primo tra tutti Murat, lo abbandonarono alleandosi con l'Austria.[44] Ormai abbandonato dagli alleati e sconfitto a Parigi il 6 aprile 1814 Napoleone fu costretto ad abdicare e venne mandato in esilio all'Isola d'Elba. Sfuggito alla sorveglianza riuscì a ritornare in Francia e a riprendere il potere. Guadagnò nuovamente l'appoggio di Murat, il quale tentò di esortare, senza successo, gli italiani a combattere con il Proclama di Rimini. Sconfitto Bonaparte, anche Murat venne vinto e ucciso. I regni creati in Italia scomparvero ed iniziò quindi il periodo storico della Restaurazione.

La Restaurazione (1815-48)[modifica | modifica wikitesto]

Con la Restaurazione ritornò sul trono gran parte dei sovrani precedenti al periodo napoleonico. Il regno di Sardegna che durante l'invasione napoleonica era rientrato nei confini insulari, riottenne tutti gli Stati di terraferma ed in più s'ingrandì con l'annessione della Repubblica di Genova, mentre Lombardia, Veneto, Istria e Dalmazia andarono all'Austria. Si ricostituirono i ducati di Parma e Modena, lo Stato della Chiesa, mentre il Regno di Napoli tornò ai Borbone.

Il regno di Sardegna nel 1860

Il Regno di Sardegna[modifica | modifica wikitesto]

La storia d'Italia è indissolubilmente legata alla storia dello Stato che la unificò sotto un'unica guida, il Regno di Sardegna. Fu creato sulla carta da Papa Bonifacio VIII nel 1297, con la denominazione di Regno di Sardegna e Corsica[45] per risolvere la crisi politica e diplomatica tra corona d'Aragona e ducato d'Angiò sulla Sicilia (la guerra del vespro). La realizzazione concreta del Regno di Sardegna vedrà dapprima la guerra dei catalano-aragonesi contro i pisani, poi contro il Regno di Arborea. Per oltre cento anni l'Isola fu teatro di una sanguinosa guerra prima di essere unificata definitivamente nel 1420.

Con il matrimonio tra Ferdinando II di Aragona con Isabella di Castiglia a Valladolid il 17 ottobre 1469, il Regno di Sardegna fu aggregato alla corona di Spagna e con il matrimonio della loro figlia Giovanna con Filippo d'Asburgo e la nascita di Carlo V, passò agli Asburgo, prima di Spagna, poi a quelli d'Austria (1708). A seguito della guerra di successione spagnola e del trattato dell'Aia (20 febbraio 1720), il Regno fu ceduto a Vittorio Amedeo II di Savoia, che ne divenne il diciassettesimo sovrano. Il 29 novembre 1847 gli Stati che componevano la corona di Casa Savoia si fusero insieme (Fusione perfetta) mantenendo la denominazione di Regno di Sardegna. Il 4 marzo 1848 Carlo Alberto promulgò lo Statuto fondamentale del Regno che ha retto lo Stato italiano fino al 1º gennaio 1948, quando entrò in vigore l'attuale Costituzione[46].

Vittorio Amedeo II, quindicesimo ed ultimo Duca di Savoia, poi incoronato re di Sicilia, nel 1720 divenne il diciassettesimo re di Sardegna

I Savoia[modifica | modifica wikitesto]

Umberto Biancamano nel 1032 ottenne dall'imperatore Corrado II la signoria della Savoia, della Moriana e d'Aosta. Attraverso varie successioni ereditarie, i Savoia ingrandirono nel tempo i loro territori a cavallo tra le Alpi Occidentali. Prima conti, poi duchi, nel 1416 ottennero pure il titolo nominale (senza territori) di re di Gerusalemme lasciato in eredità da Carlotta di Lusignano. Riuscirono abilmente nel XVII e nel XVIII secolo a difendersi dalle mire espansionistiche della Francia mantenendo tenacemente la loro autonomia. Da quando poi Emanuele Filiberto I di Savoia spostò la capitale da Chambéry a Torino per meglio difendersi dagli attacchi nemici, la dinastia prese le redini della storia italiana mantenendo il dominio sul ducato prima e sul Regno di Sardegna poi, fino alla unità d'Italia.

Nel 1720 Vittorio Amedeo II di Savoia assunse il titolo regio, divenendo il diciassettesimo sovrano del Regno di Sardegna. I Savoia vennero allora a pieno titolo annoverati fra le grandi casate d'Europa, fregiandosi dei titoli nominali di Re di Cipro, di Gerusalemme, d'Armenia, e dei titoli effettivi di duchi di Savoia, di Monferrato, Chiablese, Aosta e Genova; principi di Piemonte ed Oneglia; marchesi di Saluzzo, Susa, Ivrea, Ceva, Maro, Oristano, Sezana; conti di Moriana, Genova, Nice, Tenda, Asti, Alessandria, Goceano; baroni di Vaud e di Faucigny; signori di Vercelli, Pinerolo, Tarantasia, Lumellino, Val di Sesia; principi e vicari perpetui del Sacro Romano Impero in Italia. Il 17 marzo 1861 ottennero la corona di Re d'Italia. Nel 1936 Vittorio Emanuele III di Savoia fu proclamato Imperatore d'Etiopia, e nel 1939 Re d'Albania.

Il Risorgimento[modifica | modifica wikitesto]

Logo del Governo Italiano per il 150º anniversario dell'Unità d'Italia

Estensione cronologica del fenomeno[modifica | modifica wikitesto]

Tra il 1806 e 1810 Canova scolpì l'Italia turrita piangente sulla tomba di Vittorio Alfieri, uno dei primi intellettuali a promuovere il sentimento di unità nazionale

Sebbene non vi sia consenso unanime tra gli storici, la maggior parte di essi tende a stabilire l'inizio del Risorgimento, come movimento, subito dopo la fine del dominio Napoleonico e il Congresso di Vienna nel 1815, e il suo compimento fondamentale con l'annessione dello Stato Pontificio e lo spostamento della capitale a Roma nel febbraio 1871.
Tuttavia, gran parte della storiografia italiana ha esteso il compimento del processo di unità nazionale sino agli inizi del XX secolo, con l'annessione delle cosiddette terre irredente, a seguito della prima guerra mondiale,[47] creando quindi il concetto di quarta guerra di indipendenza. Anche la Resistenza italiana (1943-1945) è stata talvolta ricollegata idealmente al Risorgimento.[48]

La definizione dei limiti cronologici del Risorgimento risente evidentemente dell'interpretazione storiografica riguardo a tale periodo e perciò non esiste accordo unanime fra gli storici sulla sua determinazione temporale, formale ed ideale.

Esiste inoltre un collegamento tra un "Risorgimento letterario" e uno politico: fin dalla fine del XVIII secolo si scrisse di Risorgimento italiano in senso esclusivamente culturale.

La prima estensione dell'ideale letterario a fatto politico e sociale della rinascita dell'Italia si ebbe con Vittorio Alfieri (1749-1803), non a caso definito da Walter Maturi il «primo intellettuale uomo libero del Risorgimento»[49], vero e proprio storico dell'età risorgimentale, che diede inizio a quel filone letterario e politico risorgimentale che si sviluppò nei primi decenni del XIX secolo.

Come fenomeno politico, il Risorgimento viene compreso da taluni storici fra il proclama di Rimini (1815) e la breccia di Porta Pia da parte dell'esercito italiano (20 settembre 1870), da altri, fra i primi moti costituzionali del 1820-1821 e la proclamazione del Regno d'Italia (1861) o il termine della terza guerra d'indipendenza (1866).[50]

Altri ancora, in senso lato, vedono la sua nascita fra l'età riformista della seconda metà del XVIII secolo[51] e l'età napoleonica (1796-1815), a partire dalla prima campagna d'Italia[52].

La sua conclusione, parimenti, viene talvolta estesa, come detto, fino al riscatto delle terre irredente dell'Italia nord-orientale (Trentino e Venezia Giulia) a seguito della prima guerra mondiale.[53] Infine, le forze politiche che diedero vita alla Costituzione della Repubblica Italiana ed una parte della storiografia hanno individuato nella Resistenza all'occupazione nazi-fascista, tra il 1943 ed il 1945, un "secondo" Risorgimento.[48]

Premesse storiche[modifica | modifica wikitesto]

Le regioni italiane dell'età augustea

Il Risorgimento italiano trae origine idealmente da diverse tradizioni storiche.[54]

Impero romano e Medioevo[modifica | modifica wikitesto]

Durante l'età augustea l'Italia fu organizzata in un sistema amministrativo distinto da quello tipico della province[55] divenendo la parte privilegiata dell'impero: i suoi abitanti liberi erano cittadini romani[56], esentati dalla tassazione diretta, eccetto la nuova tassa sulle eredità creata per finanziare i bisogni militari. L'Italia fu dotata di una fitta rete stradale e di numerose strutture pubbliche (evergetismo augusteo). I privilegi accordati da Roma all'Italia, tanto da farne una sorta di metropoli rispetto alle altre province dell'impero, affondavano le loro radici nella più antica politica d'espansione romana, che facendo leva sul comune substrato culturale e linguistico caratterizzante molti popoli italici (Latini, Osci, Falisci, Umbri ecc.) ed i Veneti, assimilava poi nella stessa koiné anche gli altri popoli della regione italiana (Liguri, Celti, ecc.).

Con la caduta dell'Impero romano d'Occidente, l'unità territoriale della penisola non venne meno né col regno degli Ostrogoti, il primo di tante occasioni mancate nel Medioevo per far nascere anche in Italia una coscienza nazionale come viceversa avvenne in altri paesi europei, né dopo l'intervento diretto dell'imperatore d'Oriente Giustiniano I e la successiva guerra gotica (535-553); questa unità si ruppe con l'invasione longobarda e la conseguente spartizione della penisola.

I Longobardi inizialmente tesero a rimanere separati dalle popolazioni soggette sia sotto il profilo politico che militare, ma col tempo finirono sempre più per fondersi con la componente latina e tentarono, sull'esempio romano e ostrogoto, di riunificare la penisola per dare una base nazionale al loro regno.[57] Tale tentativo fallì per l'intervento dei Franchi richiamati da papa Adriano I, secondo un copione tipico destinato a ripetersi nei secoli a venire, che vede il papa cercare il più possibile di impedire la nascita di una potenza nemica sul suolo italico in grado di compromettere la sua autonomia.[58]

Prima della conquista franca infatti, il Regnum Langobardorum si identificava con la massima parte dell'Italia peninsulare e continentale e gli stessi re longobardi, dal VII secolo, non si consideravano più solo re dei longobardi, ma dei due popoli (longobardi e italici di lingua latina) posti sotto la propria sovranità nei territori non bizantini e dell'Italia tutta (Dei rex totius Italiae). I vincitori si erano pertanto gradualmente romanizzati, abbracciando la cultura dei vinti grazie anche all'accettazione del latino come unica lingua scritta dello Stato e come strumento di comunicazione privilegiato a livello giuridico e amministrativo. Durante il periodo longobardo, a seguito della Donazione di Sutri si formò il primo nucleo dello Stato Pontificio: il Patrimonium Sancti Petri, primo nucleo territoriale su cui si estenderà il potere temporale della Chiesa, fino al 1870.

I Franchi, a partire dalla seconda metà dell'VIII secolo, tentarono di ricostituire l'Impero con Carlo Magno: tale organismo prese corpo definitivamente un secolo e mezzo più tardi, con un sovrano germanico, Ottone I di Sassonia. Il Regno d'Italia era legato a questo grande organismo statuale da vincoli di vassallaggio, dai quali vanamente cercò di sottrarsi. I più celebri fra tali tentativi furono quello di Berengario del Friuli (850-924),[59] e poi di Arduino d'Ivrea (955-1015), personaggi considerati dalla storiografia nazionalista come antesignani dei patrioti risorgimentali. Arduino, attorno all'anno 1000, sostenuto dalla nobiltà laica del nord Italia, condusse alcune campagne militari per liberare l'Italia dalla tutela germanica.[60]

Nei primi secoli dopo il Mille, lo stesso desiderio di autonomia e libertà portò a un notevole sviluppo delle Repubbliche marinare (Amalfi, Genova, Pisa e Venezia), e poi dei liberi Comuni di popolo, favorendo quella rinascita dell'economia e insieme delle arti che approderà al Rinascimento, e che fu anticipata dal risveglio religioso che si ebbe nel Duecento con le figure di Gioacchino da Fiore e Francesco d'Assisi.[61]

Se durante l'alto Medioevo il sentimento nazionale italiano si mantenne ancora piuttosto in ombra, partecipando alla contesa tra le due potenze di allora, il Papato e l'Impero, con i quali si schierarono rispettivamente Guelfi e Ghibellini, esso cominciò così lentamente a emergere, alimentandosi soprattutto del ricordo dell'antica grandezza di Roma, e trovando nell'identità religiosa rappresentata dalla Chiesa, idealmente erede delle istituzioni romane, un senso di comune appartenenza.[62] La vittoria nella battaglia di Legnano ad opera della Lega Lombarda contro l'imperatore Federico Barbarossa (1176), e la rivolta dei Vespri Siciliani contro il tentativo del re di Francia di assoggettare la Sicilia (1282), saranno assunte in particolare dalla retorica romantica ottocentesca come i simboli del primo risveglio di una coscienza di patria.[63]

Mentre però da un lato la formazione dei comuni e delle signorie portò al fallimento di una composizione politica unitaria, per il prevalere di interessi locali in un'Italia suddivisa in piccoli stati, spesso in lotta fra di loro, d'altro lato, secondo taluni autori, fu proprio questo il periodo in cui si formò l'Italia come nazione, «...forse...la più precoce delle nazioni europee...[64]», e in cui, secondo alcuni storici, si produsse ad opera di Federico II il primo serio tentativo di unificazione peninsulare[65]. Tale tentativo, secondo altre correnti storiografiche, fu invece espressione della volontà di una politica espansionistica di assoggettamento ad opera del sovrano svevo-italiano, tesa a favorire l'instaurarsi di signorie ghibelline a lui amiche, sottraendo l'Italia dall'influenza papale e sottomettendola per intero all'impero germanico.[66]

Rinascenze e Rinascimento[modifica | modifica wikitesto]

Dante Alighieri
Niccolò Machiavelli

Durante le rinascenze culturali del XIII e XIV secolo, che avrebbero condotto al fiorire del Rinascimento, si dimostrò ben vivo il ricordo della passata grandezza dell'Italia come centro del potere e della cultura dell'impero romano e come centro del mondo, e il Paese fu ispirazione ed oggetto di studio per poeti e letterati, cantando lodi all'Italia antica - già vista come continuum culturale se non nazionale - e deprecandone la contemporanea situazione. Un sentimento di comune appartenenza nazionale sembrò maturare presso gli intellettuali del tempo mentre il volgare latino locale veniva elevato al rango di lingua letteraria, primo ideale elemento di una coscienza collettiva di popolo.[67] Anche grazie a tali letterati e intellettuali, fra cui emersero le figure universali di Dante, Petrarca e Boccaccio, che ebbero scambi culturali senza tener conto dei confini regionali e locali, la lingua italiana dotta si sviluppò rapidamente, evolvendosi e diffondendosi nei secoli successivi anche nelle più difficili temperie politiche, pur rimanendo per molti secoli lingua veicolare solo per le classi più colte e dominanti, venendo progressivamente ed indistintamente adottata come lingua scritta in ogni regione italofona, prescindendo dalla nazionalità dei suoi principi. Dante e Petrarca inoltre introdussero la locuzione Bel paese, come espressione poetica, per indicare l'Italia:

«del bel paese là dove 'l sì suona,[68]»

«il bel paese/ Ch'Appennin parte e 'l mar circonda e l'Alpe[69]»

Sul piano politico, invece, a causa della mancanza di uno stato unitario sul modello di quelli che stavano via via sorgendo nel resto d'Europa, i piccoli stati italiani furono costretta a supplire con l'intelligenza strategica dei suoi capi politici alla superiorità di forze degli stati nazionali europei, arrivando a concordare una alleanza la Lega Italica. Esemplare fu in proposito il signore di Firenze Cosimo de' Medici (1389-1464), non a caso soprannominato Pater Patriae, ovvero "Padre della Patria",[70] e considerato uno dei principali artefici del Rinascimento fiorentino: la sua politica estera, infatti, mirante al mantenimento di un costante e sottile equilibrio fra i vari stati italiani, sarà profetica nell'individuare nella concordia italiana l'elemento chiave per impedire agli stati stranieri di intervenire nella penisola approfittando delle sue divisioni.[71]

L'importanza della strategia di Cosimo, proseguita dal suo successore Lorenzo il Magnifico (1449-1492) nella sua continua ricerca di un accordo tra gli stati italiani in grado di sopperire alla loro mancanza di unità politica,[72] non venne tuttavia compresa dagli altri prìncipi della penisola, ed essa si concluse con la morte di Lorenzo nel 1492.

Francesco Guicciardini
C. Ripa, L'Italia (1603)

Da allora in Italia ebbe inizio un lungo periodo di dominazione straniera, la quale, secondo gli storici risorgimentali, fu quindi dovuta non a sterile arrendevolezza, bensì al ritardo del processo politico di unificazione. Nella propaganda risorgimentale, per via del romanzo omonimo di Massimo d'Azeglio, è anzi rimasto celebre e ricordato come gesto di patriottismo l'episodio della disfida di Barletta (1503), quando tredici cavalieri italiani,[73] alleati degli spagnoli per la conquista del Regno di Napoli, capeggiati dal capitano di ventura Ettore Fieramosca, sconfissero in duello altrettanti cavalieri francesi che li avevano insultati accusandoli di viltà e codardia.[74]

L'interesse per l'unità si spostò intanto dall'ambito culturale a quello dell'analisi politica e, già nel XVI secolo, Machiavelli e Guicciardini[75] dibattevano il problema della perdita dell'indipendenza politica della penisola, divenuta nel frattempo un campo di battaglia fra Francia e Spagna e infine caduta sotto la dominazione di quest'ultima.[76]

Pur con programmi diversi, Machiavelli e Guicciardini, fautori rispettivamente di uno Stato accentrato e di uno federale[77], concordavano sul fatto che la perdita dell'individualità nazionale fosse avvenuta a causa dell'individualismo e della mancanza di senso dello Stato delle varie popolazioni italiane. Ecco quindi il compito del Principe al quale Machiavelli lanciava la sua nota

«esortazione a pigliare l'Italia e liberarla dalle mani dei barbari.[78]»

All'inizio del secolo XVII Cesare Ripa con la sua opera Iconologia, nella voce "Italia con le sue provincie. Et parti de l'isole" rifacendosi ai testi classici diffonde l'immagine classica dell'Italia turrita, con cornucopia e sovrastata da una stella, "come rappresentata nelle Medaglie di Commodo, Tito et Antonino"[79] e conclude la descrizione dell'Italia con la frase «Siede sopra il Globo (come dicemmo) per dimostrare come l'Italia è Signora et Regina di tutto il Mondo, come hanno dimostrato chiaro gli antichi Romani, et hora più che mai il Sommo Pontefice maggiore et superiore a qual si voglia Personaggio.»

Età napoleonica[modifica | modifica wikitesto]

1798: censura borbonica anti-italiana, pagina originale della commedia "Il corsaro di Marsiglia" di Gamerra con le correzioni del regio censore G. Lorenzi che eliminano ogni riferimento all'Italia, alla libertà e alla Francia[80]

Non fu che alla fine del XVIII secolo, con l'arrivo delle truppe napoleoniche nella penisola, che cominciò a diffondersi presso strati sempre più ampi di popolazione un sentimento nazionale italiano[81], fino ad allora percepito soltanto da una ristretta cerchia di intellettuali, aristocratici e borghesi già esposti alle idee dell'Illuminismo, che aveva trovato in Napoli il suo maggior centro di studio accademico. Un'eredità ancora ben presente, a testimonianza dell'influsso "francese", è data dalla origine del tricolore italiano inizialmente adottato nelle piccole ed effimere repubbliche create da Napoleone Bonaparte nell'Italia centro settentrionale e, quindi divenuto bandiera nazionale italiana; risale sempre a Napoleone la prima moneta con la parola "Italia": si tratta del marengo d'oro da 20 franchi coniato nel 1801 dalla Repubblica Subalpina per celebrare la vittoria alla Battaglia di Marengo contro gli austriaci recante la dicitura: L'Italie délivrée à Marengo (L'Italia liberata a Marengo)[82].

Questi nuovi sentimenti nazionalistici vennero anche diffusi dalle nazioni che si fronteggiavano militarmente sul suolo italiano per cercare l'appoggio delle popolazioni. Da Gradisca l'11 ottobre 1813 Eugenio di Beauharnais invitando gli italiani all'unione e al combattimento contro le forze austriache affermava: "... ITALIA! ITALIA! Questo sacro nome, che produsse nell'antichità cotanti prodigj, sia oggidì il nostro grido di unione! ... Il prode che combatte pei suoi focolari, per la sua famiglia, per la sua gloria e per l'indipendenza del suo paese è sempre invincibile..."; a questo proclama rispondeva Il 10 dicembre 1813 Nugent, comandante delle forze austro britanniche, da Ravenna rivolgendo a sua volta un proclama agli italiani, contenente l'affermazione "... Avrete TUTTI a divenire una nazione indipendente..."[83]

Lord Bentick, comandante dell'esercito britannico in Italia, dopo essere sbarcato a Livorno, il 14 marzo 1814, a sua volta lanciava un appello agli italiani, facendo un parallelo con la Spagna appena resasi indipendente, che si concludeva: "... Congiunte allora le forze nostre faran sì che l'Italia ciò divenga ch'ella già fu ne' suoi migliori tempi, e ciò che al presente è ancora la Spagna.".[84]

Un più forte appello per una presa di coscienza politica nazionale diffusa in tale periodo, si trova nel Proclama di Rimini, anche se rimase disatteso,[85] in cui Gioacchino Murat, il 30 marzo 1815, durante la guerra austro-napoletana, rivolse un appello a tutti gli italiani "...Italiani, non state più in forse, siate Italiani..." affinché si unissero per salvare il regno posto sotto la sua sovranità, rappresentato come unico garante della loro indipendenza nazionale contro l'occupante straniero: " ... Italiani, la Provvidenza vi chiama infine ad essere una nazione indipendente; dall'Alpi allo stretto di Scilla odasi un grido solo: Indipendenza d'Italia! ...".

Sempre allo scopo di attirare le simpatie delle classi colte italiane alla propria causa, il governo austriaco arrivo' nel gennaio 1816 a favorire l'uscita a Milano di una rivista intitolata Biblioteca Italiana, che sorti' l'effetto opposto e indusse come reazione la nascita de Il Conciliatore.

Le idee e gli uomini[modifica | modifica wikitesto]

Francesco Lomonaco

Lo sviluppo di una coscienza politica nazionale coincise, soprattutto nella borghesia, con la diffusione delle idee liberali, e dell'Illuminismo.

Nel 1765 sul n.2 de Il Caffè esce La patria degli Italiani, di Gian Rinaldo Carli che si chiude con la frase «Un italiano in Italia non è mai forestiero».

Nel 1782 quaranta scienziati italiani fondarono a Verona la Società italiana, ritenendo, come scrisse il suo primo presidente il matematico Antonio Maria Lorgna, che "lo svantaggio dell’Italia è l’avere ella le sue forze disunite" per cui si doveva "associare le cognizioni e l’opera di tanti illustri Italiani separati" ricorrendo "a un principio motore degli uomini sempre attivo, e talora operante con entusiasmo, l’amor della Patria", Lorgna concludeva: "Cari Signori oltremontani, aspettino un pochino e vedranno l’Italia sotto altro aspetto fra pochi anni. Basta che siamo uniti".[86]

Queste idee vennero quindi esaltate dalla Rivoluzione francese, ed ebbero un'accelerazione improvvisa con la discesa in Italia di Napoleone Bonaparte nella sua I campagna d'Italia, nel 1796. Rovesciati i sovrani preesistenti, i francesi, deludendo le speranze dei patrioti giacobini italiani, si erano stabilmente insediati in buona parte dell'Italia settentrionale, creando repubbliche su modello francese (le cosiddette repubbliche sorelle), rivoluzionando la vita del tempo e portando idee nuove, ma facendone anche ricadere il costo sulle popolazioni locali, sino a generare episodi di rivolta come le cosiddette "Pasque veronesi".[87]

Il sorgere della coscienza nazionale non fu un processo unitario, lineare o coerentemente definito; diversi programmi, aspettative ed ideali, a volte anche incompatibili tra loro, confluirono in un vero e proprio crogiuolo[88]: vi erano in campo quelli romantico-nazionalisti, repubblicani, protosocialisti, anticlericali, liberali, monarchici filo Savoia o papalini, laici e clericali, vi era l'ambizione espansionista di Casa Savoia verso la Lombardia, vi era il bisogno di liberarsi dal dominio austriaco nel Regno del Lombardo-Veneto, unitamente al generale desiderio di migliorare la situazione socio-economica approfittando delle opportunità offerte dalla rivoluzione tecnico-industriale,[89] superando al contempo la frammentazione della penisola laddove sussistevano Stati, in parte liberali, che spinsero i vari rivoluzionari della penisola a elaborare e a sviluppare un'idea di patria più ampia e ad auspicare la nascita di uno Stato nazionale analogamente a quanto avvenuto in altre realtà europee come Francia, Spagna e Gran Bretagna.

Vincenzo Gioberti

Francesco Lomonaco fu uno dei primi patrioti, se non il primo,[90] a preconizzare la formazione di un'Italia unita sotto un unico governo. Nel suo scritto Colpo d'occhio sull'Italia, contenuto nel Rapporto al cittadino Carnot (1800), egli recitò: «Perché vi sia in Europa bilancia politica è d'uopo che l'Italia sia fusa in un solo governo [...] Gli Italiani, avendo unico e proprio governo acquisteranno spirito di nazionalità, avendo patria godranno della libertà e di tutti i beni che ne derivano».[91]

Dopo Lomonaco, le personalità di spicco in questo processo furono molte tra cui: Giuseppe Mazzini, figura eminente del movimento liberale repubblicano italiano ed europeo;[92] Giuseppe Garibaldi, repubblicano e di simpatie socialiste, per molti un eroico ed efficace combattente per la libertà in Europa ed in Sud America; Camillo Benso conte di Cavour, statista in grado di muoversi sulla scena europea per ottenere sostegni, anche finanziari, all'espansione del Regno di Sardegna; Vittorio Emanuele II di Savoia, abile a concretare il contesto favorevole con la costituzione del Regno d'Italia.

Vi furono gli unitaristi repubblicani e federalisti radicali contrari alla monarchia come Nicolò Tommaseo e Carlo Cattaneo; vi furono cattolici come Vincenzo Gioberti, Antonio Rosmini e Vincenzo d'Errico che auspicavano una confederazione di stati italiani sotto la presidenza del Papa (neoguelfismo) o della stessa dinastia sabauda; vi furono docenti ed economisti come Giacinto Albini e Pietro Lacava, divulgatori di ideali mazziniani soprattutto nel Meridione[93].

Trascorsa la fase delle società segrete, sviluppatasi soprattutto tra il 1820 ed il 1831, durante i due decenni successivi presero corpo le due correnti principali che promossero con piena consapevolezza ed incisività politica il processo risorgimentale, quella democratica e quella moderata.[94]

Gli anni della restaurazione[modifica | modifica wikitesto]

La mappa d'Italia con i confini del 1815 e le date dell'unificazione
Ciro Menotti al supplizio, litografia di Geminiano Vincenzi

Dopo la sconfitta definitiva di Napoleone il Congresso delle potenze vincitrici riunitosi a Vienna decise di restaurare i sovrani detronizzati in nome del principio di legittimità, talora sacrificato per l'assetto dell'equilibrio di potere (balance of power) tra le potenze europee. Per assicurare il mantenimento dell'ordine, essendo la restaurazione avvenuta senza considerare le volontà popolari e talora imponendo un nuovo dominio diverso da quello pre-napoleonico, come nel caso dell'annessione del Veneto all'Impero austro-ungarico, e dell'unione del Regno di Sicilia a quello di Napoli nel Regno delle due Sicilie, venne sviluppato il principio d'intervento e della sovranità limitata degli stati[95]. Dove la situazione politica di uno stato mettesse in pericolo l'ordine negli altri stati, si previde la creazione di uno strumento repressione internazionale chiamato Santa Alleanza a cui avrebbero partecipato forze armate delle potenze vincitrici. Il patto fu stipulato tra l'Austria, la Prussia, la Russia; successivamente il 20 novembre 1815 la Gran Bretagna aderì a quella che fu chiamata la Quadruplice Alleanza, che l'entrata della Francia di Luigi XVIII nel 1818 trasformò nella Quintuplice Alleanza.

Il Congresso concordò inoltre incontri periodici (il cosiddetto Concerto d’Europa), al fine di controllare lo stato dell'ordine internazionale, appianare i contrasti e assicurare la pace: uno strumento questo così efficace che fino alla guerra di Crimea vennero evitati conflitti tra le potenze europee.

Dopo il Congresso di Vienna, l'influenza francese e rivoluzionaria rimase nella vita politica italiana attraverso la circolazione delle idee e la diffusione di gazzette letterarie; fiorirono salotti borghesi che, sotto il pretesto letterario, crearono veri e propri club di tipo anglosassone o giacobino, spesso di modello iniziatico e massonico. Tali circoli si prestarono talvolta a coprire alcune società segrete[96] che andavano formandosi, come i Filadelfi e gli Adelfi, trasformatisi infine nei Sublimi Maestri Perfetti di Filippo Buonarroti.

I moti carbonari[modifica | modifica wikitesto]

In questo panorama patriottico settario, la principale associazione politica segreta fu quella della Carboneria, originariamente nata a Napoli nel 1814 per opporsi alla politica filonapoleonica di Gioacchino Murat; dopo la caduta di quest'ultimo e l'insediamento o il ritorno sui troni in alcuni stati della penisola italiana di sovrani illiberali tramite l'intervento delle truppe austriache, la Carboneria si diffuse nella penisola assumendo un carattere cospiratorio con lo scopo di trasformare questi stati in stati costituzionali provocandovi moti rivoluzionari.

1817[modifica | modifica wikitesto]

Il primo moto carbonaro venne tentato a Macerata, nello Stato pontificio, nella notte tra il 24 e il 25 giugno 1817, ma la polizia papalina, informata dei preparativi, soffocò l'azione sul nascere. Tredici congiurati furono condannati a morte e poi graziati da papa Pio VII.[97]

Nel luglio del medesimo anno le rimanenti truppe austriache, ancora presenti a Napoli dopo aver riportato i Borboni sul trono, completarono il loro ritiro dal Regno delle Due Sicilie e il generale austriaco Laval Nugent von Westmeath divenne comandante supremo dell'esercito delle Due Sicilie e Ministro della guerra

1820-1823[modifica | modifica wikitesto]

«Non fia loco ove sorgan barriere / Tra l’Italia e l’Italia, mai più! / L’han giurato: altri forti a quel giuro / Rispondean da fraterne contrade,»

L'arresto di Silvio Pellico e Pietro Maroncelli (1820)

Nel porto spagnolo di Cadice il 1 gennaio 1820 gli ufficiali delle forze militari che avrebbero dovuto reprimere la rivolta di Simón Bolívar nell'America del sud rifiutarono di imbarcarsi. Il loro pronunciamiento si estese a tutta la Spagna, obbligando il re Ferdinando VII a concedere nuovamente il 10 marzo dello stesso anno la Costituzione di Cadice del 1812.

Le notizie di questi avvenimenti accesero gli animi dei carbonari italiani provocando i moti costituenti degli anni 1820-1821 che, pur avendo tutti come finalità la progressiva liberalizzazione dei regimi assolutistici, assunsero tuttavia connotazioni diverse da Stato a Stato e da città a città.

In Sicilia una rivolta separatista esplose il 15 luglio 1820 con la formazione di un governo a Palermo che ripristinò la Costituzione siciliana del 1812. I separatisti del governo provvisorio inviarono una lettera al re dove dichiaravano che: «Dal 1816 in poi, la Sicilia ebbe la sventura di essere cancellata dal novero delle nazioni e di perdere ogni costituzione. Noi domandiamo l'indipendenza della Sicilia e i voti non sono solo di Palermo ma della Sicilia intera e la maggior parte del popolo siciliano ha pronunziato il suo voto per l'indipendenza».[98] Il 7 novembre 1820 il Borbone inviò un esercito agli ordini di Florestano Pepe (poi sostituito dal generale Pietro Colletta) che riconquistò la Sicilia attraverso lotte sanguinose e ristabilì la monarchia assoluta risottomettendo la Sicilia a Napoli.[99]

A Napoli i moti iniziati il 1 luglio del 1820 ad opera di due giovani ufficiali, Michele Morelli (1790-1822) e Giuseppe Silvati (1791-1822), culminarono con la presa della città: il generale Guglielmo Pepe, comandante degli insorti, riuscì ad imporre al re Ferdinando I la concessione della costituzione.

Per riportare l'ordine negli stati che si erano sollevati le potenze europee della Quadruplice alleanza si riunirono nel dicembre del 1820 al Congresso di Troppau. Ferdinando I convocato nel successivo Congresso di Lubiana nel gennaio 1821 ebbe il permesso di recarvisi dal governo rivoluzionario, dietro il giuramento di difendere la costituzione di fronte al consesso europeo. Il re tuttavia, sconfessando gli impegni presi alla partenza da Napoli col parlamento napoletano, richiese l'intervento militare degli Austriaci, che sconfissero l'esercito napoletano, guidato da Pepe, nella battaglia di Antrodoco il 7 marzo 1821 e conquistarono Napoli il 23 marzo. La costituzione venne annullata[100] e trenta rivoluzionari furono condannati a morte (tra cui Pepe, Morelli e Silvati).

A Palermo, nell'agosto 1821, vennero costituite venti "vendite" carbonare, con la finalità di abbattere il governo e avere la costituzione spagnola; il moto era guidato dal sacerdote Bonaventura Calabrò, che organizzò una rivolta prevista il 12 gennaio 1822, creando un nuovo vespro. Tuttavia il susseguirsi delle riunioni insospettì la polizia borbonica, che convinse un congiurato al doppio gioco. Nella notte dell'11 gennaio iniziarono i primi arresti e confessioni, un timido tentativo di rivolta che avvenne l'indomani fu represso e i congiurati imprigionati. Il 31 gennaio, nove dei congiurati, tra cui due sacerdoti, furono condannati a morte e le loro teste, rinchiuse in gabbie di ferro, rimasero appese a Porta San Giorgio fino al 1846[101].

In Basilicata, tra i promotori dei moti carbonari vi furono il medico Domenico Corrado e i fratelli Francesco e Giuseppe Venita, in passato militari borbonici, che invano tentarono di sollevare l'intera regione per la salvaguardia della Costituzione. Le loro attività sovversive incitarono il governo borbonico ad inviare un reggimento capeggiato dal generale austriaco Roth che, dopo averli scovati a Calvello, li condannò a morte tramite fucilazione assieme ad altri rivoluzionari mentre Corrado fu condotto a Potenza dove venne passato per le armi; le condanne si consumarono tra il marzo e l'aprile del 1822.[102]

Mentre a Napoli i rivoltosi ebbero come unica finalità la promulgazione della costituzione, a Torino l'insurrezione scoppiata nel gennaio 1821 accolse tensioni e inquietudini anti-austriache, già manifestatesi in quella città con i moti studenteschi soffocati nel sangue dalla polizia sabauda. Questi ultimi moti videro come protagonista alcuni degli uomini simbolo del Risorgimento, tra i quali Santorre di Santarosa.

Silvio Pellico

Anche a Milano una componente patriottica e anti-austriaca partecipò ai moti, fra i cui ispiratori va citato il forlivese Piero Maroncelli, che però venne arrestato dalla polizia austriaca. La scoperta di alcuni documenti compromettenti permise così alle autorità di stroncare l'insurrezione, alla quale avrebbe preso parte Federico Confalonieri, rinchiuso, subito dopo il fallimento del moto, nella Fortezza dello Spielberg, dove erano già custoditi da alcuni mesi il Maroncelli e Silvio Pellico, a seguito del celebre processo Maroncelli Pellico[103]. Le successive repressioni spinsero all'esilio molti patrioti italiani, come Antonio Panizzi, che proseguirono all'estero la loro azione, impegnandosi propagandisticamente e stabilendo contatti con personalità delle potenze straniere interessate a risolvere il problema italiano.

Giuseppe Mazzini

Il periodo dei moti liberali si chiuse a fine settembre 1823, con la resa di Cadice, dopo la battaglia del Trocadero, a cui partecipò anche Carlo Alberto di Savoia, vinta dalle forze francesi di Luigi XVIII, incaricato dalle potenze della Santa Alleanza di ripristinare con la forza la monarchia assoluta in Spagna.

1824-1847[modifica | modifica wikitesto]

Mappa preunitaria degli stati italiani

In Romagna, nel 1824, dopo l'uccisione del direttore di polizia di Ravenna Domenico Matteucci ad opera di una cospirazione carbonara, il cardinale Agostino Rivarola venne inviato per reprimerla. Rivarola, nominato "cardinal legato a latere", fece condurre un'indagine che portò ad un processo e alla sentenza del 31 agosto 1825, con la quale vennero condannate, a varie pene, 514 persone appartenenti a tutti gli strati sociali. Successivamente fu concessa la commutazione della pena ai sette condannati alla pena capitale e la grazia per molti altri.[104]

Nuove insurrezioni si ebbero nel Cilento nel 1828 per ottenere il ripristino della Costituzione che nel 1820 era stata concessa nel Regno delle Due Sicilie. Il tentativo dei rivoltosi si concluse tragicamente con trentatré condanne a morte e il paesino di Bosco raso al suolo a cannonate dal maresciallo Del Carretto[105].

In Emilia-Romagna, tra il 1830 e il 1831, l'effimero Stato delle Province Unite Italiane, fu represso con l'intervento delle truppe austriache, e una colonna di volontari guidati da Giuseppe Sercognani, comandante della guardia nazionale di Pesaro, per conto del governo delle Province Unite marciante verso Roma, venne sconfitta a Rieti dalle truppe pontificie.

Nel 1832 riprese la ribellione in Romagna, repressa dal cardinale Albani che intervenne con forze sanfediste. Dopo un primo scontro con le guardie civiche, il 20 e 21 gennaio, che si caratterizzò con le "stragi di Cesena e Forlì", altre battaglie vi furono il 24 gennaio a Faenza, il 25 a Forli. La riunione delle forze papaline con le truppe austriache e quindi il loro ingresso il 26 a Bologna concluse la rivolta.[106][107]. Per bilanciare l'intervento austriaco a Bologna, i francesi il 26 febbraio occuparono Ancona dove rimasero per sei anni.

Nel 1832, fu pubblicata a Torino l'autobiografia di Silvio Pellico, Le mie prigioni, con la descrizione delle dure condizioni di vita dei prigionieri politici in regime di carcere duro nella fortezza austriaca dello Spielberg: tra gli episodi più commoventi per i lettori dell'epoca, l'amputazione di una gamba del Maroncelli. Il libro ebbe una vasta risonanza, sia in Italia che nei salotti europei, accentuando nei patrioti italiani i sentimenti antiaustriaci. Nel 1849 Metternich commenterà che quel libro aveva danneggiato l'Austria più di una battaglia persa.[108] Nell'anno successivo, 1833, venne pubblicato il romanzo storico Ettore Fieramosca, o la disfida di Barletta di Massimo D'Azeglio, che riprende un evento storico medioevale allo scopo di risvegliare il patriottismo degli italiani. Nel 1834 avvenne il fallimento dell'invasione della Savoia per suscitare una rivolta nel Regno di Sardegna (1720-1861), organizzata da Mazzini e guidata sul campo da Ramorino.

Il 12 luglio 1837, in seguito a voci incontrollate sull'arrivo nel porto di una nave contagiata dal colera si ebbe l'insurrezione di Messina, seguita nel volgere di pochi giorni dalla insurrezione di Catania e Siracusa richiedenti il ripristino della Costituzione del 1812; questi moti siciliani furono repressi da Del Carretto e terminarono con la fucilazione di numerosi patrioti. Il 23 del medesimo mese insorse Penne in Abruzzo, sotto la guida di Domenico de Caesaris; la rivolta fu repressa dal colonnello Tanfano e si concluse con la fucilazione di otto rivoltosi. Tanfano sarà ucciso quattro anni dopo, durante l'insurrezione antiborbonica dell'Aquila dell 8 settembre 1841, terminata anch'essa con la fucilazione di tre insorti[109].

Rivolte mazziniane[modifica | modifica wikitesto]

A partire dai primi anni trenta dell'Ottocento si impose come figura di primo piano Giuseppe Mazzini (1805-1872), divenuto membro della Carboneria nel 1830. La sua attività di ideologo e organizzatore rivoluzionario lo costrinse a lasciare l'Italia nel 1831 per fuggire a Marsiglia, dove fondò la Giovine Italia, un movimento che raccoglieva le spinte patriottiche per la costituzione di uno Stato unitario e repubblicano, da inserire in una più ampia prospettiva federale europea. Mazzini rifiutava l'idea del settarismo carbonaro, per sostenere una spinta rivoluzionaria dal basso, fondata sull'azione delle masse popolari e sul coinvolgimento diretto delle popolazioni.

Condividendo il programma mazziniano Giuseppe Garibaldi (1807-1882) prese parte ai falliti sommovimenti rivoluzionari in Piemonte e Liguria del 1834. Condannato a morte dal governo sabaudo e costretto a fuggire in Sud America, partecipò ai moti rivoluzionari in Brasile ed Uruguay.

Il Regno delle Due Sicilie fino a quel momento non aveva seguito questi sviluppi: era caratterizzato per una forte repressione politica, culminata nel 1844 nel soffocamento dei moti tentati dai giovani fratelli Attilio (1810–1844) ed Emilio Bandiera (1819–1844), disertori della marina austriaca, fatti fucilare dal re Ferdinando II per aver tentato un'improvvisata spedizione di tipo mazziniano in Calabria.

Per la mancanza di coordinamento tra i congiurati, per l'assenza e l'indifferenza delle masse, tutte le rivolte mazziniane fallirono.

I congressi scientifici prima del '48[modifica | modifica wikitesto]

Il regime "liberale" del Granducato di Toscana permise nel 1839 la nascita della Società Italiana per il Progresso delle Scienze a Pisa, dove verrà organizzato il "Primo congresso degli scienziati italiani" (1839), a cui parteciparono studiosi dai vari stati della penisola: la prima riunione pubblica di uomini di scienza riuniti sotto il comune attributo di "italiani"[110][111]. I congressi proseguirono a cadenza annuale, nei diversi stati: Torino, Firenze, Padova, Lucca, Milano, Napoli (che fu il più numeroso, con circa 1600 partecipanti), Genova ed infine, nel 1847, Venezia; i moti insurrezionali dell'anno successivo ed i conseguenti irrigidimenti dei regimi impedirono successivi congressi fino al congresso di Firenze del 1861. Oltre al loro contenuto scientifico, questi congressi permisero scambi di idee e confronti nella nuova classe intellettuale italiana che andava formandosi, ed erano anche visti come una possibilità di discutere delle vicende italiane come la liberalizzazione commerciale, la necessità di una lega doganale, la costruzione di ferrovie, mascherando sotto questi progetti di modernità economica e strutturale la fondamentale esigenza di un'unificazione politica.[112]

Il biennio delle riforme[modifica | modifica wikitesto]

Allegoria neoguelfa patriottica: "Sogno spaventevole del maresciallo Radetsky": l'alleanza di Pio IX (che innalza la croce) e Carlo Alberto (che impugna la spada) accompagnati dall'Italia rappresentata da una donna fasciata col tricolore e sventolante la bandiera
Massimo d'Azeglio

Nel cosiddetto biennio delle riforme (1846-1848), a seguito del fallimento dei moti rivoluzionari mazziniani, prendono vigore progetti politici di liberali moderati, tra cui spiccano Massimo d'Azeglio, Vincenzo Gioberti e Cesare Balbo con "le speranze d'Italia" i quali, sentendo soprattutto la necessità di un mercato unitario come premessa essenziale per un competitivo sviluppo economico italiano, avanzano programmi riformisti per una futura unità italiana nella forma accentrata o federativa. Nasce così il movimento neoguelfo che riscuote un grande successo presso l'opinione pubblica in coincidenza con l'elezione il 16 giugno 1846 di papa Pio IX, ritenuto un "liberale", e il 17 luglio, in accordo con i desideri dei liberali, il nuovo pontefice concesse una amnistia ai prigionieri, alimentando le speranze dei sostenitori neoguelfi, e di molti patrioti italiani, di un sostegno attivo del papa per l'ottenimento dell'indipendenza nazionale.

Sotto la spinta di queste novità molti stati italiani attuarono diverse riforme modernizzatrici: nel Granducato di Toscana fu ampliata la libertà di stampa e si ebbe la formazione di una guardia civica, nel Regno di Sardegna si ebbero riforme in senso liberale dell'ordinamento giudiziario.

Nel 1847 Pio IX prese la decisione di proporre al regno piemontese e al granducato di Toscana l'unione in una "Lega doganale" per favorire la circolazione delle merci; l'iniziativa si fermò dopo la firma di un accordo di intenti il 3 novembre 1847, nel tentativo di coinvolgere il ducato di Modena; l'inizio delle agitazioni del 1848 fece definitivamente tramontare il progetto.

Il 28 novembre 1847 re Carlo Alberto effettuò l'unione politica e amministrativa di tutti i territori da lui governati, trasformando il Regno di Sardegna in un unico stato, con un unico parlamento e medesime leggi per tutti i sudditi dei diversi territori.

Sempre nel 1847 il musicista Michele Novaro, sul testo del patriota e poeta Goffredo Mameli, compose l'inno Il Canto degli italiani, più noto come "Fratelli d'Italia" dalla prima strofa, che in breve divenne popolare e suonato come inno dai patrioti italiani, dopo un secolo diventerà l'inno nazionale della Repubblica Italiana.

La "primavera dei popoli" e la Prima guerra d'indipendenza[modifica | modifica wikitesto]

«Pochi sanno che la grande fiammata rivoluzionaria del 1848 che investì l'Italia e l'Europa, e dalla quale ha inizio il nostro Risorgimento nazionale, fu accesa proprio a Reggio il 2 settembre 1847.[113]»

Le cinque giornate di Milano - Dipinto di Baldassare Verazzi (Museo del Risorgimento di Milano)

Gli anni 1847-1848, la cosiddetta "Primavera dei popoli", videro lo sviluppo di vari movimenti rivoluzionari in tutta Europa; sommosse scoppiarono il 23 febbraio in Francia, il 28 febbraio nello Stato di Baden che iniziò la rivolta che velocemente si estese a tutti gli stati tedeschi e il 13 marzo raggiunse l'Austria, il 15 marzo insorse l'Ungheria, il 28 marzo la Polonia.

Allegoria della repressione dell'insurrezione siciliana

Una rivolta mazziniana organizzata da Domenico Romeo il 2 settembre 1847 scoppiò a Reggio Calabria dove s'insediò un governo provvisorio che nel distretto di Gerace aveva il comando militare. Anche questa insurrezione, per la mancata partecipazione popolare e la frantumazione dei comandi militari, si concluse con la repressione armata dell'esercito borbonico e la fucilazione dei promotori.

Il 12 gennaio 1848 scoppiò una rivolta indipendentista in Sicilia che, propagatasi a Napoli, costrinse il sovrano a promulgare l'11 febbraio del 1848 una costituzione simile a quella francese del 1830. Gli altri sovrani italiani dovettero seguire rapidamente l'esempio di Ferdinando II: Leopoldo II di Toscana concesse lo Statuto il 17 febbraio, quindi il 4 marzo Carlo Alberto promulgò lo Statuto albertino e il 14 marzo fu la volta dello Stato Pontificio. Il 1 aprile il parlamento siciliano, riunito a Palermo decretò: "Che il Potere Esecutivo dichiari a nome della Nazione agli altri Stati d'Italia, che la Sicilia già libera ed indipendente intende a far parte unione e federazione Italiana", e l'invio come dono di tre bandiere nazionali a Roma, Piemonte e Toscana col motto: A [nome dello Stato Italiano] Sicilia Indipendente ed Italiana. Il 13 aprile il parlamento siciliano completo' l'indipendenza siciliana con una nuova delibera in cui decretava: "1) Ferdinando Borbone e la sua dinastia sono per sempre decaduti dal Trono di Sicilia., 2) La Sicilia si reggerà a Governo Costituzionale, e chiamerà al Trono un principe Italiano dopoché avrà riformato il suo Statuto"[114].

Ferdinando II, pochi mesi dopo la concessione della costituzione a Napoli, sciolse le camere ripristinando l'assolutismo (15 maggio). Ciò provocò la ribellione dei liberali in diverse zone del regno e a Napoli, in Via Toledo. La sommossa napoletana fu repressa nel sangue, con le truppe mercenarie svizzere, con 500 morti tra i patrioti[115] tra i quali lo scrittore lucano Luigi La Vista e il filosofo Angelo Santilli, morti rispettivamente a soli 22 e 25 anni.

In Italia il 1848 fu principalmente segnato dalla decisione da parte del Regno di Sardegna di farsi promotore dell'unità italiana, anticipando l'azione del movimento rivoluzionario e dei mazziniani, temendone la spinta sovvertitrice e la possibilità che questa assumesse il ruolo guida nel processo di unificazione. Primo passo in tal senso fu la Prima Guerra d'Indipendenza, anti austriaca, scoppiata a seguito della rivolta vittoriosa antiaustriaca delle Cinque giornate di Milano (1848). La guerra si svolse in tre fasi: una prima campagna militare (dal 23 marzo al 9 agosto 1848) iniziata con l'appoggio dallo Stato Pontificio e dal Regno delle due Sicilie. Questi ultimi due stati si ritirarono ben presto dal conflitto, ma gran parte dei loro soldati scelsero di rimanere e continuare a combattere l'Austria con l'esercito piemontese assieme agli altri volontari italiani tra i quali Giuseppe Garibaldi. Vi fu poi un armistizio e una seconda campagna militare (dal 20 al 24 marzo 1849).

La guerra condotta e definitivamente persa da Carlo Alberto a seguito della sconfitta nella battaglia di Custoza e nella Battaglia di Novara, si concluse territorialmente con un sostanziale ritorno allo statu quo ante e, a seguito dell'abdicazione del padre, con la salita al trono di Vittorio Emanuele II che, diversamente da quanto fecero gli altri governanti italiani, non ritirò lo Statuto Albertino concesso dal padre, così che il suo regno rimase l'unico stato costituzionale nella penisola italiana ed anche l'unico a conservare il tricolore come bandiera nazionale.

Scontro tra Cacciatori tirolesi e soldati piemontesi del 14º reggimento "Pinerolo" durante la battaglia di Novara.

In occasione di questo conflitto con l'Austria assunsero notevole importanza alcune esperienze repubblicane di durata temporanea e senza un loro esito finale positivo. Dal febbraio 1849 al luglio 1849 si svolse la vicenda della Repubblica Romana, che vide Pio IX fuggire dalla città e rifugiarsi nella fortezza di Gaeta come ospite di Ferdinando II di Borbone, mentre il governo a Roma veniva assunto dal triumvirato di Giuseppe Mazzini, Aurelio Saffi e Carlo Armellini. La Repubblica Romana, che comprendeva tutte le terre già pontificie, fu sciolta con gli interventi militari degli austriaci che assediarono Ancona, entrandovi dopo un duro assedio navale e terrestre il 21 giugno 1849, e dei francesi che attaccarono Roma, cancellando la prospettiva di una soluzione neoguelfa per l'unità della nazione.

Anche il Veneto insorse: a Venezia, con un'insurrezione iniziata il 17 marzo 1848 nasceva la Repubblica di San Marco che ridava temporaneamente la libertà alla città, nel Cadore per circa due mesi una piccola armata di volontari, guidati da Pietro Fortunato Calvi, sbarrò l'accesso alla regione alle armate austriache. Venezia resistette ad un lungo assedio fino alla sua capitolazione il 27 agosto 1849, dopo una dura lotta, a seguito dell'intervento militare austriaco che ripristinava il dominio sul Veneto.

Nei territori lombardi sottoposti al dominio austriaco, scoppiarono anche piccole rivolte locali: dopo l'Armistizio di Salasco nell'ottobre 1848 si ebbero moti mazziniani in Val d'Intelvi, alla ripresa delle ostilità nel 1849 Como insorse e dopo la definitiva sconfitta piemontese nel 1849 ci fu l'episodio delle Dieci giornate di Brescia, che vide la città resistere sino a fine marzo 1849, per dieci giorni, alle truppe austriache, che, dopo la loro vittoria alla battaglia di Novara, rioccuparono le campagne lombarde; al termine dei combattimenti la città fu lasciata al saccheggio della truppa austriaca.

La Toscana, proclamatasi repubblica toscana il 15 febbraio 1849, con la guida del triumvirato Guerrazzi, Montanelli, Mazzoni venne ricondotta sotto il granduca Leopoldo II a seguito dell'invasione armata austriaca nel maggio 1849, che ebbe i momenti più drammatici nell'assedio e sacco di Livorno.

Il Regno di Sicilia fu militarmente riconquistato dall'esercito borbonico dopo la presa di Palermo il 14 maggio 1849 da parte di Carlo Filangieri.

Tutti i moti europei legati al 1848, furono repressi, nel volgere di due anni, secondo gli schemi della Restaurazione, tranne che in Francia, dove la Seconda Repubblica francese si sostituì alla monarchia di re Luigi Filippo Borbone d'Orléans con Luigi Napoleone che, dopo quattro anni, diventerà Napoleone III imperatore dei francesi. Gli eventi francesi provocarono la fine degli equilibri politici esistenti in Europa dal Congresso di Vienna, modificando le alleanze fra gli stati ed influiranno sulle vicende italiane, spingendo persino alcuni esuli napoletani a progettare l'insediamento sul trono di Napoli di Luciano Murat secondogenito di Gioacchino Murat. Il cambio di politica di Pio IX, il cui nome veniva invocato inizialmente dai patrioti italiani lo rese inviso divenendo uno dei loro maggiori bersagli polemici, e al contempo la difesa del papato, con l'azione militare delle truppe inviate a Roma, permise alla Francia di Napoleone III di ampliare la sua sfera d'influenza nella penisola in opposizione a quella austriaca che si trovo' indebolita.

Molti patrioti finirono giustiziati, altri esiliati, una parte di quest'ultimi trovo' asilo in Piemonte, Carlo Cattaneo si esilio' a vita a Lugano, in Svizzera, nazione che proprio nel 1848 si era data la Costituzione confederale e dove inizialmente si rifugio' anche Mazzini che poi si mosse a Londra città che divenne un importante centro dei fuoriusciti italiani, il toscano Giuseppe Montanelli si rifugio' a Parigi, il presidente del governo siciliano Ruggero Settimo andò in esilio a Malta e Garibaldi, dopo un breve peregrinare, finì in America, ospite per un certo tempo di Antonio Meucci.

Il "decennio di preparazione"[modifica | modifica wikitesto]

Le azioni mazziniane[modifica | modifica wikitesto]

Carlo Pisacane

Nei dieci anni successivi alla sconfitta (il cosiddetto "decennio di preparazione") riprese inizialmente vigore il movimento repubblicano mazziniano, favorito anche dal fallimento del programma federalista neoguelfo; i mazziniani promossero una serie di insurrezioni, tutte fallite.

Quelle che più impressionarono l'opinione pubblica italiana ed europea furono l'esecuzione capitale dei martiri di Belfiore (1852) a Mantova, esito cruento della repressione austriaca contro le ribellioni avvenute negli anni precedenti nel Regno Lombardo Veneto, e la disastrosa spedizione di Sapri (1857), nel Regno delle Due Sicilie, condotta all'insegna del credo mazziniano per il quale ciò che contava era più che il successo il "dare l'esempio" e conclusasi con la morte di Carlo Pisacane e dei suoi 23 compagni, massacrati dai contadini assieme ad altri patrioti liberati all'inizio della spedizione dal carcere di Ponza. Fortemente impressionò la borghesia italiana anche la rivolta milanese del 6 febbraio 1853 che condotta con spirito mazziniano, ossia confidando in una spontanea partecipazione popolare e addirittura nell'ammutinamento dei soldati ungheresi dell'esercito austriaco, fallì miseramente nel sangue. Oltre che l'impreparazione e la superficiale organizzazione dei rivoltosi, operai d'ispirazione politica socialista, furono proprio i mazziniani, notoriamente in contrasto ideologico col marxismo, a contribuire al fallimento non facendo loro pervenire le armi promesse e mantenendosi passivi al momento dell'insorgere della rivolta. Un pugno di uomini armati di pugnali e coltelli andarono così consapevolmente incontro al disastro in nome dei loro ideali patriottici e socialisti.[116]

A Napoli nel 1856, dopo un fallito attentato al re Ferdinando II, veniva condannato a morte il calabrese Agesilao Milano mentre in Sicilia veniva repressa una sommossa organizzata da Francesco Crispi e Francesco Bentivegna[117].

La crisi del movimento mazziniano favorisce nel 1857 la creazione in Piemonte della Società nazionale italiana, ad opera degli esuli Daniele Manin e Giuseppe La Farina e in probabile accordo con Cavour, a supporto del movimento unitario che si stava formando attorno al Piemonte, operando alla luce del sole nel regno sabaudo e clandestinamente negli altri stati italiani.

La realpolitik cavouriana[modifica | modifica wikitesto]

Camillo Benso conte di Cavour

Nel 1850 Camillo Benso conte di Cavour entra nel governo piemontese: inizialmente come ministro per il commercio e l'agricoltura, divenendo poi anche ministro delle finanze e della Marina; infine diventò primo ministro il 4 novembre 1852, grazie ad un accordo tra le forze di centro-destra e di centro-sinistra. Fin dall'inizio come ministro del commercio intraprende un'azione che punta a molteplici accordi con le nazioni europee, stringendo accordi commerciali con Grecia, le città anseatiche, l'Unione doganale tedesca, la Svizzera e i Paesi Bassi, ed approfondisce i contatti con le potenze europee viaggiando nell'estate del 1852 ed incontrando a Londra il Ministro degli Esteri inglese Malmesbury, Palmerston, Clarendon, Disraeli, Cobden, Lansdowne e Gladstone e a Parigi il presidente Luigi Napoleone ed il ministro degli esteri francese[118]. L'anno successivo Ludwig von Rochau introducendo il concetto di realpolitik col suo saggio Principles of Realpolitik[119] ne porta come esempio l'azione di Cavour che prepara le basi "per una grande originale operazione nazionale"[120].

Sotto Cavour si accentuano i contrasti con i conservatori clericali e il Regno di Sardegna, arrivando ad un punto di non ritorno con la scomunica papale comminata al Re Vittorio Emanuele II, a Cavour e a tutti membri del governo e del parlamento a seguito della Crisi Calabiana (1855) che si concluse con l'approvazione della legge sui conventi.

La Seconda guerra d'indipendenza[modifica | modifica wikitesto]

Napoleone III

Il biennio 1859-1860 costituì una nuova fase decisiva per il processo d'unificazione, caratterizzato dall'alleanza tra la Francia di Napoleone III e il Regno di Sardegna siglata con gli accordi di Plombières del 21 luglio 1858, che peraltro non prevedevano la completa unità italiana estesa a tutta la penisola.

Il 10 gennaio 1859 Vittorio Emanuele II, inaugurando i lavori del Parlamento subalpino, pronunciò un famoso discorso della Corona con l'affermazione: «Noi non siamo insensibili al grido di dolore che da tante parti d'Italia si leva verso di noi»; frase che esprimeva un'accusa di malgoverno austriaco sugli italiani ai quali il re sabaudo si proponeva come loro soccorritore e una velata ricerca del "casus belli": elemento quest'ultimo necessario poiché, secondo gli accordi, Napoleone III sarebbe entrato in guerra solo in seguito ad un attacco austriaco al Piemonte.[121]

Nel frattempo Garibaldi veniva autorizzato a condurre apertamente una campagna di arruolamento di volontari nei Cacciatori delle Alpi, una nuova formazione militare regolarmente incorporata nell'esercito sardo. L'Austria colse nelle parole del sovrano piemontese e nel riconoscimento ufficiale dei volontari agli ordini del noto rivoluzionario mazziniano Garibaldi, che veniva stanziato ai confini del Lombardo-Veneto, una provocazione e una sfida. La possibilità però di una guerra all'Austria con l'alleato francese sembrava ancora lontana dal realizzarsi per l'opposizione dei cattolici francesi che vedevano in una guerra vittoriosa del Piemonte una probabile successiva annessione dello Stato pontificio, con la conseguente perdita del potere temporale del papa. Per allontanare il rischio di una guerra agiva anche la diplomazia inglese e prussiana che si adoperava per una conferenza di pace: si sapeva infatti che gli accordi di Plombières prevedevano un insediamento della Francia nell'Italia centrale e meridionale che avrebbe alterato i rapporti di forza in Europa.[122]

La battaglia di Varese
La Battaglia di Solferino

Dopo mesi, durante i quali sembrava si potesse giungere a una pacificazione, giunse l'ultimatum austriaco al Piemonte con l'ingiunzione di disarmare l'esercito e il corpo dei volontari. Cavour in risposta all'intimazione austriaca dichiarò di voler resistere all'«aggressione» e a fine aprile giunse la dichiarazione di guerra degli austriaci che attaccarono il Piemonte attraversando il confine sul fiume Ticino (26 aprile).

Il 12 maggio 1859 l'alleato francese Napoleone III, sulle orme del "grande zio", secondo gli accordi convenuti, entrò in guerra al comando dell'Armée d'Italie. Seguirono nel periodo maggio-giugno una serie di vittorie franco-piemontesi, ma con un alto numero di perdite, mentre i Cacciatori delle Alpi al comando di Garibaldi dopo aver preso Varese, Bergamo, Brescia continuavano ad avanzare verso il Veneto.

Alle notizie della guerra all'Austria il 27 aprile 1859 i ducati emiliani, le legazioni pontificie, e il Granducato di Toscana, dopo l'abbandono del granduca Leopoldo, chiedevano ed ottenevano l'invio di commissari sabaudi per l'annessione al Regno sardo.

Questi avvenimenti che sconvolgevano gli accordi di Plombières sulla spartizione degli stati italiani, il malcontento dell'opinione pubblica francese per l'alto numero di morti nella guerra in Italia, l'opposizione dei cattolici francesi che vedevano realizzarsi i loro timori per la perdita dell'autonomia papale, spinsero Napoleone III ad accettare di firmare un armistizio (11 luglio 1859) con l'imperatore Francesco Giuseppe d'Asburgo ("preliminari di pace di Villafranca") che concedeva ai Piemontesi la sola Lombardia (eccetto Mantova e Peschiera del "Quadrilatero") in cambio dell'abbandono delle terre già occupate nel Veneto e della rinuncia a soddisfare le richieste di annessioni.

Vittorio Emanuele accettò le condizioni di pace e ritirò i commissari regi dalle città di Firenze, Parma, Modena, Bologna dove però i governi provvisori si opposero alla restaurazione ipotizzando anche una forza militare comune di difesa, mentre le truppe papaline riprendevano militarmente il controllo dell'Umbria ribellatasi.

Nel frattempo il quadro internazionale cambiava e l'Inghilterra si mostrava favorevole ad una situazione italiana dove la Francia non avrebbe avuto alcun peso mentre uno Stato unitario italiano poteva costituire un valido punto d'equilibrio in Europa sia nei confronti della Francia che dell'Austria.

Il ritiro unilaterale dei francesi rendeva nulli gli accordi di Plombières, ma il prezzo stabilito da Napoleone III per permettere l'annessione dell'Italia centrale fu il riportare in vita le clausole del trattato segreto del 1859 - che prevedevano la cessione della Savoia e il Nizzardo alla Francia, in cambio del riconoscimento da parte di quest'ultima delle annessioni dell'Emilia e della Toscana che, tramite i plebisciti dell'11 e 12 marzo 1860, entrarono a far parte del Regno di Sardegna. Il 12 marzo 1860 fu firmato con la Francia un altro trattato segreto in tal senso.[123]

La Spedizione dei Mille e la proclamazione del Regno d'Italia[modifica | modifica wikitesto]

Giuseppe Garibaldi

Ulteriore passo verso l'unità fu la spedizione "dei Mille" garibaldini in Sud Italia.[124], preceduta sull'isola da piccoli moti rivoluzionari. Questa era formata da poco più di un migliaio di volontari provenienti in massima parte dalle regioni settentrionali e centrali della penisola, appartenenti sia ai ceti medi che a quelli artigiani e operai; fu l'unica impresa risorgimentale a godere, almeno nella sua fase iniziale, di un deciso appoggio delle masse contadine siciliane, all'epoca in rivolta contro il governo borbonico e fiduciose nelle promesse di riscatto fatte loro da Garibaldi. «Il profondo malcontento delle masse popolari delle campagne e delle città, sebbene avesse le sue radici nella miseria e quindi nella struttura di classe della società, si rivolgeva contro il governo prima ancora che contro le classi dominanti»[125].

Dopo la battaglia di Calatafimi, dove fu determinante per la vittoria la partecipazione dei contadini siciliani, con la partecipazione di 200 picciotti siciliani e circa 2.000 contadini locali in aggiunta ai 1.089 volontari garibaldini[126], e la conquista di Palermo, mentre le truppe regie si ritirano verso Messina, secondo Del Carria "con la metà di giugno si spezza definitivamente l'alleanza tra borghesi e contadini per dar luogo all'alleanza tra borghesi isolani e borghesia continentale rappresentata dai garibaldini e dai moderati"[127], significativa in tal senso è la repressione ordinata a Nino Bixio, della ribellione contadina avvenuta a Bronte e a rischio di estensione in tutta la regione del catanese.

Vittorio Emanuele II re d'Italia

Mentre Garibaldi avanzava da sud, in agosto insorse la Basilicata (la prima provincia a dichiararsi parte d'Italia nella zona continentale del Regno delle Due Sicilie),[128] arrivando ad avere un governo provvisorio che rimase in carica fino all'ingresso di Garibaldi a Napoli. Dopo Napoli, le truppe garibaldine si scontrarono un'ultima volta con quelle borboniche nella Battaglia del Volturno il 1º ottobre 1860. Con la vittoria di Garibaldi l'Italia meridionale veniva definitivamente sottratta ai Borbone, dinastia che in passato aveva dato a Napoli anche un grande sovrano[129], ma che «…ormai rappresentava, nella vita dell'Italia Meridionale, la peior pars…», cioè la parte peggiore, come scrisse Benedetto Croce[130]. Anche lo storico e filosofo Ernest Renan, in viaggio nel Mezzogiorno d'Italia attorno al 1850, al pari degli altri viaggiatori e osservatori stranieri constatava l'«…affreuse tyrannie intellectuelle qui règne sur cette partie de l'Italie…»[131]

L'itinerario della Spedizione dei Mille.

Le truppe di Vittorio Emanuele II intanto entravano nello Stato della Chiesa scontrandosi il 18 settembre con l'esercito pontificio nelle Marche, durante la Battaglia di Castelfidardo, che sarebbe stato l'ultimo grande scontro armato prima dell'unità italiana. Dopo aver ottenuto la vittoria, le truppe piemontesi inseguirono quelle pontificie asserragliatesi ad Ancona, che venne subito assediata. Quando i pontifici cedettero anche là, fu possibile per il Piemonte annettere la Legazione delle Marche e quella dell'Umbria, a seguito di un plebiscito. Solo dopo esso si sarebbe potuto pensare alla proclamazione del Regno d'Italia in quanto, attraverso le Marche e l'Umbria, si sarebbero unite geograficamente le regioni del nord e del centro (confluite nel Regno di Sardegna in seguito alla seconda guerra d'indipendenza e alle conseguenti annessioni), con le regioni meridionali (conquistate da Garibaldi).

Dopo alcuni tentennamenti e sotto la pressione di Cavour e dell'imminente annessione di Marche ed Umbria alla monarchia sabauda, Garibaldi, pur di idee repubblicane, non pose ostacoli all'unione dell'ex Regno delle Due Sicilie al futuro Stato unificato italiano, che già si profilava all'epoca sotto l'egida di Casa Savoia. Tale unione fu formalizzata mediante il referendum del 21 ottobre 1860.[132]

Il 17 marzo 1861 il parlamento subalpino proclamò Vittorio Emanuele II non re degli italiani ma «re d'Italia, per grazia di Dio e volontà della nazione». Non "primo", come re d'Italia, ma "secondo" come segno distintivo della continuità della dinastia di casa Savoia[133]; tre mesi dopo moriva Cavour che, nel suo primo discorso al Parlamento dopo la proclamazione del Regno d'Italia, aveva suggerito la linea politica di Libera Chiesa in libero Stato come soluzione al problema della persistenza del potere temporale in Italia, che impediva una soluzione pacifica affinché Roma, proclamata capitale del Regno, ma di fatto ancora capitale dello Stato pontificio, potesse effettivamente diventare la capitale del nuovo Stato e che conseguentemente condizionava la partecipazione dei cattolici, sensibili alle indicazioni di Pio IX, alla vita politica nazionale.

Il nuovo regno mantenne lo Statuto albertino, la costituzione concessa da Carlo Alberto nel 1848 e che rimarrà ininterrottamente in vigore sino al 1946; nel 1865 si arrivo' alla unificazione legislativa del Regno.

Terza guerra di indipendenza e Roma capitale[modifica | modifica wikitesto]

La terza guerra di indipendenza[modifica | modifica wikitesto]

Quando Vittorio Emanuele II divenne re d'Italia, il 17 marzo 1861, il processo di unificazione nazionale non poteva considerarsi definitivo poiché il Veneto, il Trentino e il Friuli appartenevano ancora all'Austria e Roma, proclamata idealmente capitale del Regno era ancora sede papale.

La situazione delle terre irredente (come si sarebbe detto alcuni decenni più tardi) costituiva una fonte di tensione costante per la politica interna italiana e chiave di volta della sua politica estera. Le crescenti tensioni fra Austria e Prussia per la supremazia in Germania (sfociate infine nel 1866 nella guerra austro-prussiana) offrirono al neonato Regno d'Italia l'opportunità di effettuare un consistente guadagno territoriale e procedere sulla via dell'unificazione italiana.

L'8 aprile 1866 il Governo Italiano (guidato dal generale Alfonso La Marmora) concluse una alleanza militare con la Prussia di Otto von Bismarck, grazie anche alla mediazione della Francia di Napoleone III. Si era creata, infatti, un'oggettiva convergenza fra i due Stati che vedevano nell'Impero Austriaco l'ostacolo al rafforzamento dell'unità nazionale italiana in funzione antiaustriaca.

Secondo i piani prussiani, l'Italia avrebbe dovuto impegnare l'Austria sul fronte meridionale. Nel contempo, forte della superiorità navale, avrebbe portato una minaccia alle coste dalmate, distogliendo ulteriori forze dal teatro di guerra nell'Europa centrale.

Piano della terza guerra di indipendenza

Il 16 giugno 1866 la Prussia iniziò l'ostilità contro alcuni principati tedeschi alleati dell'Austria. All'inizio del conflitto, l'esercito italiano era diviso in due armate: la prima, al comando di Alfonso La Marmora, stanziata in Lombardia ad ovest del Mincio verso le fortezze del Quadrilatero; la seconda, al comando del generale Enrico Cialdini, in Romagna, a sud del Po, verso Mantova e Rovigo. Al comando della flotta fu designato il vecchio ammiraglio Carlo Pellion di Persano.

Il capo di Stato Maggiore generale La Marmora mosse per primo, incuneandosi fra Mantova e Peschiera, ove subì una sconfitta a Custoza il 24 giugno. Cialdini, al contrario, per tutta la prima parte della guerra non assunse alcuna posizione offensiva e non assediò neppure la fortezza austriaca di Borgoforte, a nord del Po. Custoza segnò un generale arresto delle operazioni, con gli Italiani che si riorganizzavano nel timore di un contrattacco austriaco. Gli Austriaci ne approfittarono per compiere due piccole offensive e saccheggi in Valtellina (operazioni in Valtellina) e in Val Camonica (battaglia di Vezza d'Oglio).

Tuttavia, a seguito di alcune importanti vittorie prussiane sul fronte tedesco, in particolare quella di Sadowa del 3 luglio 1866, gli Austriaci decisero di far rientrare a Vienna uno dei tre corpi d'armata schierati in Italia e diedero priorità alla difesa del Trentino e dell'Isonzo. Nelle settimane che seguirono, a Enrico Cialdini fu quindi affidato il grosso dell'esercito. Egli seppe guidare l'avanzata italiana da Ferrara a Udine: passò il Po e occupò Rovigo l'11 luglio, Padova il 12 luglio, Treviso il 14 luglio, San Donà di Piave il 18 luglio, Valdobbiadene e Oderzo il 20 luglio, Vicenza il 21 luglio, Udine il 26 luglio.[134]

Nel frattempo i volontari di Giuseppe Garibaldi si erano spinti dal Bresciano in direzione della città di Trento aprendosi la strada il 21 luglio durante la battaglia di Bezzecca, mentre una seconda colonna italiana guidata da Giacomo Medici arrivava, il 25 luglio, in vista delle mura di Trento.

Queste ultime vittorie italiane vennero tuttavia oscurate, nella coscienza collettiva, dalla sconfitta della Marina a Lissa il 20 luglio.

L'esito generale della guerra fu determinato dalle importanti vittorie prussiane sul fronte tedesco, in particolare quella di Sadowa del 3 luglio 1866, ad opera del generale von Moltke. Il 9 agosto Garibaldi rispose all'ordine di ritirarsi dal Trentino, con il celebre e celebrato «Obbedisco». La cessazione delle ostilità venne sancita con l'Armistizio di Cormons, il 12 agosto 1866, seguito il 3 ottobre 1866 dal trattato di Vienna.

Secondo i termini del trattato di pace, l'Italia guadagnò Mantova e l'intera antica terraferma veneta (che comprendeva l'attuale Veneto e il Friuli occidentale). Rimanevano in mano austriaca il Trentino, il Friuli orientale, la Venezia Giulia e la Dalmazia. Le città di Trento e Trieste continuavano ad essere sotto il governo di Vienna.

Gli austriaci consegnarono le province perdute alla Francia, che ne avrebbe fatto dono al Regno d'Italia. Il 4 novembre 1866 i Savoia ebbero consegnata dagli Asburgo la Corona Ferrea (simbolo della sovranità sull'Italia), già usata dai re longobardi, dagli imperatori del Sacro Romano Impero Germanico e dallo stesso Napoleone III. La corona tornò così alla sua sede storica nel Duomo di Monza. L'annessione al Regno d'Italia venne sancita da un plebiscito (a suffragio universale maschile) svoltosi il 21 e 22 ottobre, anche se già il 19 ottobre in una stanza dell'hotel Europa sul Canal Grande il generale Leboeuf (plenipotenziario francese e "garante" dello svolgimento della consultazione) firmò la cessione del Veneto all'Italia. Prima ancora del plebiscito le terre venete erano già state cedute ufficialmente al Regno d'Italia; "la Gazzetta di Venezia" il giorno successivo ne aveva dato notizia, in pochissime righe: "Questa mattina in una camera dell'albergo Europa si è fatta la cessione del Veneto".[135] Il 7 novembre 1866, pochi giorni dopo la proclamazione ufficiale dell'esito del plebiscito, Vittorio Emanuele II compì una visita solenne a Venezia. Le salme dei fratelli Bandiera e di Domenico Moro rientrarono il 18 giugno 1867, quella di Daniele Manin il 22 marzo 1868.

Roma capitale[modifica | modifica wikitesto]

Stampa allegorica del periodo sulla situazione politica post-unitaria: l'Italia turrita indica a Cialdini, (con la sciabola sguainata), i suoi nemici abbarbicati attorno a Napoleone III (trasformato in albero): briganti, nobili borbonici (raffigurati dal pazzariello napoletano), il clero e il Papa Pio IX; sullo sfondo Garibaldi, a Caprera, ara un campo come Cincinnato
La breccia delle mura a Porta Pia

Seppure alla proclamazione del Regno d'Italia il 17 marzo 1861 fosse stata indicata Roma come "capitale morale" del nuovo Stato, la città rimaneva la sede dello Stato Pontificio[136], per quanto ridotto di dimensioni. La Romagna era infatti già passata al Piemonte con i plebisciti seguiti alla Seconda Guerra d'Indipendenza; similmente era accaduto per le Marche e l'Umbria, in seguito alla Battaglia di Castelfidardo e al successivo plebiscito: lo Stato della Chiesa era ormai ridotto al solo Lazio[137]. Il dominio temporale del papa rimaneva sotto la protezione delle truppe francesi dislocate a Roma; Garibaldi per due volte tentò di prendere Roma, venendo bloccato una volta sull'Aspromonte dall'esercito italiano inviato da Urbano Rattazzi e, in un secondo tentativo, sconfitto dai francesi nella battaglia di Mentana senza che, questa volta, vi fosse un intervento diretto del governo Menabrea che, in nome degli accordi con la Francia, fece arrestare Garibaldi a Figline e da lì tradotto a La Spezia da dove fu riportato a Caprera.[138]

Solo dopo la sconfitta e cattura di Napoleone III a Sedan nella guerra franco-prussiana avvenuta il 1º settembre 1870, venne ritirato da Roma il contingente di truppe francesi a protezione del pontefice; le truppe italiane con bersaglieri e carabinieri in testa, pochi giorni dopo, il 20 settembre, entrarono dalla breccia di Porta Pia nella capitale.

Papa Pio IX, che si considerava prigioniero del nuovo Stato italiano, reagì scomunicando Vittorio Emanuele II, ritenendo inoltre non opportuno (non expedit), e poi esplicitamente proibendo che i cattolici partecipassero attivamente alla vita politica italiana, da cui si autoesclusero per circa mezzo secolo con gravi conseguenze per la futura storia d'Italia.

Dopo il plebiscito del 2 ottobre 1870 che sancì l'annessione di Roma al Regno d'Italia, nel giugno del 1871 la capitale d'Italia, già trasferita - in ottemperanza alla Convenzione di settembre (1864) - da Torino a Firenze, divenne definitivamente Roma.[139]

Il 20 settembre venne quindi fissato come festa nazionale, simbolo della conclusione, fino a quel momento, del periodo risorgimentale. La festività venne abolita nel 1929, con i Patti Lateranensi.

L'anno successivo Nizza tento' invano di ritornare italiana.

L'ideale conclusione e il completamento territoriale[modifica | modifica wikitesto]

Con Roma finalmente capitale inizio' anche un processo di unificazione culturale del paese, a cui contribuirono le pubblicazioni di alcuni libri destinati ad essere diffusi in tutta la nazione: nel 1870 esce la prima Storia della letteratura italiana scritta da Francesco de Sanctis, nel 1876 il Il Bel Paese dell'abate e patriota Antonio Stoppani che descrive ai suoi lettori gli aspetti fisici e umani semisconosciuti della penisola, nel 1881 Carlo Collodi pubblica Pinocchio un romanzo di formazione per ragazzi, nel 1886 esce un altro romanzo: Cuore, di Edmondo De Amicis, sempre rivolto ai giovani e scritto per inculcar loro le "virtù civili" e mantenere vivo il ricordo degli eventi risorgimentali, e nel 1891 Pellegrino Artusi pubblica La Scienza in cucina e l'Arte di mangiar bene, un testo che divenne popolare in poco tempo, ancor oggi ristampato e che secondo alcuni critici riusci' "a creare un codice di identificazione nazionale là dove fallirono gli stilemi e i fonemi manzoniani»[140].

Bolgheri: Incipit della lapide commemorativa dei caduti della prima guerra mondiale, in cui questa viene indicata come la maggior guerra del Risorgimento
Dritto della medaglia commemorativa della guerra italo-austriaca 1915-1918; l'iscrizione recita "Guerra per l'unità d'Italia 1915-1918"

Dopo la fine della Grande Guerra una corrente storiografica iniziò ad individuare nel conflitto mondiale la conclusione del Risorgimento e dell'Unità d'Italia[141][142].

Tale visione fu condivisa da intellettuali nazionalisti e irredentisti dell'epoca, ma anche da alcuni storici liberali, fra cui Adolfo Omodeo, che fu «uno dei più accesi sostenitori della visione della Grande guerra come continuazione e compimento delle guerre di indipendenza e del Risorgimento...»[143], per via del ricongiungimento con le terre irredente di Venezia Tridentina, Venezia Giulia, nonché la città di Zara. Essi attribuirono quindi il nome di quarta guerra di indipendenza alla Prima guerra mondiale[144].

Successivamente la città di Fiume venne unita all'Italia nel 1924, dopo il Trattato di Rapallo, in seguito alle breve esperienza della Reggenza italiana del Carnaro, mentre per la Dalmazia, esclusa Zara, le aspirazioni degli irredentisti non furono mai raggiunte, escluso il breve periodo di esistenza del Governatorato di Dalmazia durante la Seconda guerra mondiale.

I problemi dello stato unitario[modifica | modifica wikitesto]

Molti e gravi furono i problemi che il nuovo Stato dovette affrontare.

Nord e Sud[modifica | modifica wikitesto]

Discordando con l'affermazione di Massimo D'Azeglio «Il primo bisogno d'Italia è che si formino Italiani dotati d'alti e forti caratteri. E pure troppo si va ogni giorno più verso il polo opposto: pur troppo s'è fatta l'Italia, ma non si fanno gl'Italiani»[145], Cavour realisticamente scriveva che non solo gli italiani ma neppure l'Italia era "fatta": «Il mio compito è più complesso e faticoso che in passato. Fare l'Italia, fondere assieme gli elementi che la compongono, accordare Nord e Sud, tutto questo presenta le stesse difficoltà di una guerra con l'Austria e la lotta con Roma»[146]. Cavour ben sapeva come si fosse giunti all'unificazione in soli due anni grazie all'aiuto di circostanze favorevoli interne ed internazionali. Ora, tuttavia, si trattava di sanare quella che alcuni avevano definito una forzatura storica, un miracolo italiano.[147]

La nuova Italia aveva messo assieme popolazioni eterogenee per storia, per lingue parlate, per tradizioni ed usanze religiose (la sensibilità e gli usi legati al cattolicesimo erano differenti nelle varie parti d'Italia). Luigi Carlo Farini, inviato da Cavour, a Napoli in qualità di Luogotenente, il 27 ottobre 1860, gli descriveva la situazione in una lettera con queste frasi: «Che barbarie! Altro che Italia! Questa è Affrica. I beduini, a riscontro di questi caffoni, sono fior di virtù civile [...] E la canaglia dà il sacco alle case de' signori e taglia le teste, le orecchie a' galantuomini, e se ne vanta, e scrive a Gaeta[148]: i galantuomini ammazzati son tanti e tanti; a me il premio. Anche le donne caffone ammazzano; e peggio: legano i galantuomini [...] pe' testicoli, e li tirano così per le strade; poi ne fanno ziffe zaffe: orrori da non credersi»[149][150].

Secondo lo storico britannico Christopher Duggan (1957), docente di storia italiana nonché direttore del Centre for the Advanced Study of Italian Society all’Università di Reading, numerose figure di primo piano dell’epoca, tra cui molti meridionali esiliati dai Borbone, contribuirono a costruire e ad aggravare l’immagine del Meridione come terra barbara e incolta, ripetendo un luogo comune estremamente falso, diffuso da parecchio tempo prima dell'unificazione: che a sud di Roma iniziasse l'Africa.[151]. La cattiva fama dei meridionali risale a una frase, riportata dallo storico Giordano Bruno Guerri, di Metternich, espressa dopo la rivolta napoletana del 1820: «Un popolo mezzo barbaro, di una ignoranza assoluta, di una superstizione senza limiti, focoso e passionale come gli africani, un popolo che non sa né leggere né scrivere e che risolve le cose con il pugnale»[152].

Le condizioni del Regno[modifica | modifica wikitesto]

Quintino Sella

Le condizioni di tutta l'Italia[153] si presentavano arretrate rispetto agli stati industrializzati dell'Europa occidentale. La rete ferroviaria nel 1861 consisteva in appena 2100 chilometri di binari che in più erano stati progettati in modo di avere uno scartamento tale da impedire, per ragioni militari, il passaggio dei confini di uno Stato all'altro.

Molto alta la mortalità infantile, l'igiene precaria causava ricorrenti epidemie di colera, diffusa la malaria e la pellagra.

L'analfabetismo raggiungeva una percentuale nazionale del 75%, con punte del 90% in alcune zone del paese.[154]

L'isolamento diplomatico e le minacce austriache imponevano per la difesa il rafforzamento dell'esercito e della marina.

La soluzione di questi problemi comportò un grande impegno finanziario per il nuovo Stato che dovette introdurre nel 1868 la tassa sul macinato, un'«imposta progressiva sulla miseria»,[155] una vera e propria tassa sul pane, fino ad allora sconosciuta nelle regioni del Centro e del Nord dove causò la ribellione dei contadini emiliani. Quintino Sella, ministro delle finanze del Regno d'Italia, che l'aveva con altri ideata, divenne nell'opinione popolare «l'affamatore del popolo».[156]

L'abolizione delle dogane tra i vari stati comportò il fallimento delle piccole attività artigianali impossibilitate a reggere la concorrenza con la produzione industriale del Nord.

Il brigantaggio[modifica | modifica wikitesto]

«A Napoli, noi abbiamo altresì cacciato il sovrano per stabilire un governo fondato sul consenso universale. Ma ci vogliono e sembra che ciò non basti, per contenere il Regno, sessanta battaglioni; ed è notorio che, briganti o non briganti, niuno vuol saperne. Ma si dirà: e il suffragio universale? Io non so nulla di suffragio, ma so che al di qua del Tronto non sono necessari battaglioni e che al di là sono necessari. Dunque vi fu qualche errore e bisogna cangiare atti e principi. Bisogna sapere dai Napoletani un'altra volta per tutto se ci vogliono, sì o no. Capisco che gli italiani hanno il diritto di fare la guerra a coloro che volessero mantenere i tedeschi in Italia, ma agli italiani che, restando italiani, non volessero unirsi a noi, credo che non abbiamo il diritto di dare archibugiate, salvo si concedesse ora, per tagliare corto, che noi adottiamo il principio nel cui nome Bomba (Ferdinando) bombardava Palermo, Messina ecc. Credo bene che in generale non si pensa in questo modo, ma siccome io non intendo rinunciare al diritto di ragionare, dico ciò che penso.»

Carmine Crocco, il più noto brigante postunitario[158]

I dubbi espressi da D'Azeglio (briganti o non briganti) apparivano superati dalla storiografia risorgimentale che riprese la definizione di brigantaggio usata dallo stesso governo del Regno d'Italia[159] per mascherare agli occhi degli stati europei le gravi difficoltà politiche della avvenuta unificazione come una manifestazione di semplice criminalità.

Ad esempio lo storico Francesco Saverio Sipari insisteva nel considerare l'origine sociale del fenomeno, quando nel 1863 scrisse: «il brigantaggio non è che miseria, è miseria estrema, disperata.».[160]

Così anche Giustino Fortunato che non lo considerò «un tentativo di restaurazione borbonica e di autonomismo» ma «un movimento spontaneo, storicamente rinnovantesi ad ogni agitazione, ad ogni cambiamento politico, perché sostanzialmente di indole primitiva e selvaggia, frutto del secolare abbrutimento di miseria e di ignoranza delle nostre plebi rurali».[161]

Lo stesso Benedetto Croce vede nel brigantaggio l'ultimo sostegno di una monarchia, quella borbonica, che ancora una volta aveva chiamato in suo aiuto «...o piuttosto a far le sue vendette, le rozze plebi, e non trovando altri campioni che truci e osceni briganti...»[162].

Accanto alla miseria, alcuni invece identificarono nel brigantaggio un fenomeno di resistenza al nuovo stato italiano. Il deputato liberale Giuseppe Ferrari disse: «I reazionari delle Due Sicilie si battono sotto un vessillo nazionale, voi potete chiamarli briganti, ma i padri e gli Avoli di questi hanno per ben due volte ristabiliti i Borboni sul trono di Napoli.»[163].

Alla fine gran parte degli storici hanno inquadrato tale fenomeno come espressione di un disagio autentico, manifestatosi con le forme di una vera e propria guerra civile (1861-1865).

In realtà il brigantaggio era nato e prosperava nel Mezzogiorno ben prima dell'annessione al Regno d'Italia[164], ma si era sviluppato ulteriormente negli anni sessanta dell'Ottocento in seguito all'invio di un gran numero di reparti dell'esercito (Ma ci vogliono e sembra che ciò non basti, per contenere il Regno, sessanta battaglioni... in Massimo D'Azeglio, Op.cit.)

Secondo l'inchiesta sul brigantaggio redatta dal deputato Giuseppe Massari, nelle province di Basilicata e Capitanata la rivolta raggiunse enormi proporzioni ed emersero le bande più pericolose e apparentemente invincibili, comandate da temuti e rispettati capimassa come Carmine Crocco e Michele Caruso.[165]

Che si trattasse di un fenomeno ben radicato è dimostrato infine dal fatto che si ritenne necessario l'intervento dell'esercito regio e l'emanazione di leggi speciali (la legge Pica 1863), che applicavano la legge marziale nei territori del Mezzogiorno italiano.

La ricerca storica più recente ha contribuito a mettere in luce gli aspetti politici che motivarono la resistenza delle popolazioni meridionali prima nei confronti dei Borbone[166], poi del Regno d'Italia (con le conseguenti repressioni), superando definitivamente il modello che ha tentato per decenni di liquidare l'insorgenza meridionale come fenomeno esclusivamente banditesco.

La complessa problematica legata a tale resistenza non fu estranea (insieme ad altre concause) alla nascita della Questione meridionale.

Decentramento e accentramento[modifica | modifica wikitesto]

Cavour secondo i principi del liberalismo inglese era favorevole al decentramento:

«Il prof. E. Amari [autonomista siciliano], dottissimo giureconsulto come egli è, riconoscerà, io lo spero, che noi siamo non meno di lui amanti della discentralizzazione, che le nostre teorie sullo Stato non comportano la tirannia di una capitale sulle province.[167]»

In tal senso egli aveva presentato un progetto di legge con Farini e Minghetti il 13 marzo 1861 che «consisteva nel riunire insieme in consorzi obbligatori e permanenti quelle province che fossero più affine tra loro per natura di luogo, per comunanza d'interessi, di leggi, di abitudini.»[168] Il disegno di legge non poté essere sottoposto alla Camera per la morte improvvisa di Cavour e quando Minghetti presentò un analogo progetto di legge[169] dopo un lungo dibattito fu bocciato. Il progetto federalista di Minghetti prevedeva: «...un ordinamento che consenta di conservare le tradizioni e i costumi delle popolazioni locali. Ad ogni Grande Provincia [Regione] dovrà spettare il potere legislativo e l'autonomia finanziaria per quanto riguarda i lavori pubblici, l'istruzione, la sanità, le opere pie e l'agricoltura. Le Grandi Province e i Comuni dovranno ampliare...le rispettive basi elettorali estendendo il diritto di voto a tutti...senza escludere gli analfabeti. I sindaci non saranno più di nomina regia ma dovranno essere nominati dal consiglio comunale regolarmente eletto. Allo Stato spetteranno soltanto la politica estera, la difesa, i grandi servizi di utilità nazionale (ferrovie, poste, telegrafi e porti), nonché un'azione di vigilanza e controllo sull'operato degli enti locali.»[170]

La nuova classe politica successa alla morte di Cavour nutrendo grandi timori che la recente unità fosse messa in pericolo da sommovimenti interni preferì imboccare la strada dell'accentramento autoritario estendendo a tutto il paese il sistema comunale e provinciale del Regno di Sardegna. L'Italia venne divisa in province sotto il controllo dei prefetti e i consigli comunali elettivi furono soggetti a sindaci nominati dal sovrano.

Come scrive Candeloro: «Fare una sola regione del Mezzogiorno continentale sembrava pericoloso per l'unità, ed era d'altra parte difficile dividerlo in regioni che avessero una certa vitalità, poiché nel Mezzogiorno non erano esistiti Stati regionali e di conseguenza, non vi erano allora, oltre Napoli, delle città adatte ad essere centri regionali.»[171]

Interpretazioni storiografiche[modifica | modifica wikitesto]

Sin dai primi moti unitari del 1848 sono state mosse diverse critiche al processo di unificazione, le quali hanno dato origine ad una storiografia revisionista, di varia ispirazione culturale ed ideale, che contesta in diverso modo la rappresentazione offerta dalla storiografia più diffusa circa i processi politici e militari che condussero all'unità d'Italia, tanto da influenzare, in taluni casi, l'origine di movimenti autonomisti e separatisti, meridionali e settentrionali.

L'assenza delle masse contadine e il contrasto città-campagna[modifica | modifica wikitesto]

Un filone di critica storiografica, elaborando le analisi che fece Antonio Gramsci nei suoi quaderni del carcere[172], che partì dalle considerazioni del meridionalista Gaetano Salvemini sulla non soluzione della questione contadina legata alla non soluzione della questione meridionale[173], ha sviluppato un'interpretazione che sostiene come nel Risorgimento italiano fosse stata assai limitata la partecipazione della masse popolari, soprattutto contadine, agli eventi che hanno caratterizzato l'unità nazionale italiana e come il Risorgimento possa essere considerato come una rivoluzione mancata.

«Quanto alla partecipazione contadina delle masse subalterne alle vicende della unificazione essa continuò ad essere assai modesta».[174]

Lo storico Franco Della Peruta[175] constata come il problema dell'assenza delle masse contadine al movimento risorgimentale si ponesse sin dall'indomani dei moti del '48 alla coscienza degli stessi contemporanei di quegli avvenimenti.

Fin dal 1849, contrariamente a quanto sosteneva Mazzini, che cioè la questione sociale dovesse essere risolta solo dopo aver affrontato il problema dell'unità nazionale, un mazziniano, rimasto anonimo, scriveva sulla mazziniana "Italia del popolo": «la politica di classe adottata dal governo provvisorio milanese [...] causò la sopravvenuta freddezza dei contadini di Lombardia verso la guerra nazionale».

Carlo Cattaneo, ricordando le Cinque giornate milanesi, scriveva: «Si può rimproverare agli amici della libertà [...] di non aver chiamato il popolo dei sobborghi e delle campagne alla pratica delle armi».[176]

Lo stesso Carlo Pisacane, fra i primi, assieme a Giuseppe Ferrari a introdurre concetti socialisti nelle ideologie risorgimentali, nel 1851 nell'Appendice alla "La guerra combattuta in Italia negli anni 1848-49" ribadiva l'idea della necessità di una vasta partecipazione contadina al progetto unitario e che si dovesse «far comprendere ai contadini che è loro interesse cambiare la vanga col fucile» ma questo non sarebbe mai avvenuto poiché, come scrisse Giuseppe Ferrari lo stesso anno, osservando i moti popolari europei, «non vale parlare di Repubblica se il popolo sovrano muore di fame».,[177]

L'indifferenza dei contadini, se non l'ostilità nei confronti di tutto ciò che riguardava la città e i "signori", risaliva come sosteneva Antonio Gramsci[178], ed in epoca più recente gli storici Emilio Sereni[179] e Giorgio Candeloro, al periodo della formazione dei Comuni italiani quando, dopo aver attirato i contadini in città ("l'aria delle città rende liberi"), affrancandoli ed usandoli come operai per le manifatture, sottoposero la campagna alla città con un regime vincolistico dei prezzi dei prodotti agricoli.[180]

Lo storico Girolamo Arnaldi osserva che nella seconda guerra d'indipendenza (1859) "i soldati dell'esercito sardo, quasi esclusivamente contadini e popolani... non erano ancora ben persuasi che il Piemonte fosse in Italia, tant'è vero che ai volontari provenienti dalle altre regioni d'Italia rivolgevano la domanda: "Vieni dall'Italia?"[181].

Lo stesso Cavour si scandalizzava che i volontari arruolati a Torino provenienti dal Regno delle Due Sicilie fossero appena poche decine[182][183], mentre tra i 1089 garibaldini partiti da Quarto si contavano 86 volontari provenienti dal regno borbonico, pari all'8% del totale dei volontari e a poco meno del 10% degli 894 volontari affluiti da regioni non appartenenti al regno sabaudo preunitario.

Anzi, in buona parte, la classe contadina meridionale entrerà nella storia proprio battendosi contro l'unità ormai raggiunta: è il fenomeno del brigantaggio postunitario che, secondo Isnenghi, "...può considerarsi pressoché l'unica manifestazione reale, per estensione geografica, partecipazione numerica e durata di presenza attiva delle masse subalterne negli anni del Risorgimento"[184].

Più articolata l'analisi di Seton-Watson sulla contrapposizione fra campagna e città: "Con l'eccezione della Sicilia, dove una vasta rivolta di contadini precedette lo sbarco di Garibaldi, poche furono le zone in cui i contadini svolsero un ruolo positivo nell'unificazione del paese: le campagne in generale rimasero passive o si mossero solo in difesa del vecchio ordine. I governi, agli occhi dei contadini, sono un male necessario, il nuovo governo italiano era particolarmente odioso perché era stato imposto dai 'signori' e dalle città, perché perseguitava la Chiesa, aumentava le imposte ma, soprattutto perché era efficiente"[185]

Le cinque giornate di Milano (18 - 22 marzo 1848)[modifica | modifica wikitesto]

La rivoluzione europea del 1848

Uno degli avvenimenti abitualmente indicati dalla storiografia classica come un esempio della partecipazione popolare al fenomeno risorgimentale è quello della rivolta milanese del 1848 quando i cittadini milanesi combatterono in massa gli austriaci innalzando il vessillo tricolore ed addirittura, dopo che Carlo Alberto aveva firmato la resa con gli austriaci e si disponeva ad abbandonare Milano, incendiarono le loro case vicine alle mura per difendere meglio la città dal ritorno delle truppe di Radetzky.[186]

Alcuni storici osservano che si trattava dei patrioti cittadini milanesi e non del "popolo" dei contadini che viveva nella campagna milanese, al di fuori della città ove ci furono episodi di partecipazione contadina alla lotta antiaustriaca ma prevalentemente su costrizioni operate dai parroci e dai proprietari terrieri; e dopo il ritiro dei piemontesi al di là del Ticino, si alzò nelle campagne il grido di "Abbasso i signori, abbasso i cittadini, viva Radetzky".[187]

Mettendo da parte le tematiche delle libertà civili e della condizione di sottomissione governativa verso Vienna, il ceto contadino non aveva motivazioni per voler cacciare gli austriaci in quanto il governo di Vienna li aveva sempre favoriti con una buona amministrazione e con sgravi fiscali.[188] Gli austriaci avevano compreso che i loro avversari erano i liberali italiani della classe borghese emergente che voleva svincolarsi della loro oppressiva tutela e formare quel mercato unitario italiano che sottintendeva i proclamati ideali patriottici.[189] Per conservare il dominio nei territori del suo impero il governo austriaco si accattivava i favori delle masse contadine, giungendo a minacciare contro i liberali latifondisti una riforma agraria a vantaggio dei contadini.[190]

Da guerra federalista a guerra regio-sabauda[modifica | modifica wikitesto]

L'iniziale partecipazione popolare cittadina nelle rivoluzioni del '48 italiano fu colta dalla classe politica piemontese come l'occasione intervenire a difesa dei "fratelli" lombardi e veneti. Scriveva Lorenzo Pareto, il ministro degli esteri del Regno Sardo: «La resistenza ferma ed eroica che da più giorni fanno gli abitanti di Milano contro le truppe austriache ha commosso tutte le vicine popolazioni e altamente eccitato sino all'entusiasmo la loro simpatia.»[191]

Sembrava in quel momento potesse realizzarsi il programma neoguelfo di Vincenzo Gioberti che divenne presidente del consiglio del Regno di Sardegna nel dicembre 1848. Gioberti era convinto che l'Italia dovesse ritornare ad essere una nazione unita in una federazione di stati trovando il suo fattore di unificazione, non come predicava Mazzini nel popolo «che è un desiderio, non un fatto, un presupposto non una realtà, un nome non una cosa»[192] ma nella religione valore questo «sommamente nostro e nazionale, perché creò la nazione ed è radicato in essa da diciotto secoli.» Il papa quindi con il suo prestigio a capo di una lega tra i vari stati difesa militarmente dal Piemonte «la provincia guerriera d'Italia».

L'affluire in Lombardia di volontari per la guerra di liberazione nazionale, e tra questi Garibaldi, che respinto dal governo sardo si era messo a disposizione del governo provvisorio milanese, spinse il governo di Carlo Alberto, prima che si costituisse una repubblica a Milano, a Venezia, a Genova e persino a Torino, a dichiarare la guerra all'Austria secondo le sollecitazioni dell'aristocrazia liberale lombarda rappresentata dal capo della municipalità Gabrio Casati, timorosa che i democratici e i repubblicani, ispirati dal Cattaneo, prendessero la guida del movimento rivoluzionario, anche se Mazzini aveva messo da parte il suo programma repubblicano, sciogliendo la Giovane Italia per non intralciare la guerra di liberazione.

La condotta della guerra ritardata dalla decisione di Carlo Alberto di non impegnarsi più a fondo se prima i lombardi non avessero votato con un plebiscito l'annessione al Piemonte, la dissociazione del pontefice Pio IX il 29 aprile 1848 dalla guerra nazionale, poiché come capo della cristianità era obbligato a comportarsi nei confronti di «tutte le genti, popoli e nazioni con eguale studio di paternale amore»[193], causò lo spegnersi di quell'entusiasmo patriottico dell'opinione pubblica moderata, che inizialmente aveva portato i sovrani costituzionali di Firenze, Roma e Napoli a inviare truppe regolari in sostegno del Piemonte che ora venivano richiamate in patria. La guerra federalista diventava guerra regio-sabauda secondo le mai spente aspirazioni dei Savoia di espandersi oltre il Ticino. Ma le sconfitte militari dei piemontesi fecero crollare ogni progetto unitario.[194].

Il fallimento nel '49 del programma moderato del neoguelfismo, come avrebbe dovuto realizzarsi nella Prima guerra d'indipendenza, e di quello democratico mazziniano con la caduta delle repubbliche mazziniane di Roma e Firenze fece perdere al nostro Risorgimento gran parte del suo sentimento romantico e popolare[195] diffusosi con l'elezione di Pio IX, il papa "liberale".[196]

Gioberti, a seguito della salita al trono di Vittorio Emanuele II non fu più presidente del consiglio e l'iniziativa passò nelle mani della monarchia sabauda e del conte di Cavour. L'Italia si sarebbe fatta non per virtù di popolo, poco più di un'astrazione nel pensiero mazziniano, ma con la diplomazia, con l'aiuto militare della Francia e le annessioni al Regno di Sardegna.

La partecipazione effettiva delle masse popolari al processo unitario continuò ad essere assai modesta. I moderati che avevano visto sventolare le bandiere rosse sulle barricate del '48 in Francia e i democratici che ricordavano l'esito infausto della spedizione di Pisacane si accomunavano: "Da destra e da sinistra, mille sospetti e diverse ragioni di diffidenza si addensano contro le masse lontane ed estranee dei subalterni. Che cosa cela il loro silenzio? A che cosa può portare l'attivazione? Non val meglio lasciarle alla loro inerzia secolare?".[197]

Apparentemente a giudizio di alcuni storici[198] sembravano esserci possibilità di una partecipazione popolare al movimento risorgimentale unitario considerando che «intorno al '60 ci furono nel meridione italiano diverse rivolte plebee, ma esse non erano che insurrezioni di cafoni[199] analfabeti che sognavano la loro rivoluzione: la spartizione delle terre non l'unità d'Italia che per loro era un evento privo di senso...».

La spedizione dei Mille[modifica | modifica wikitesto]

«L'unità d'Italia è stata e sarà - ne ho fede invitta - la nostra redenzione morale. Ma è stata, purtroppo, la nostra rovina economica. Noi eravamo, il 1860, in floridissime condizioni per un risveglio economico, sano e profittevole. L'unità ci ha perduti. E come se questo non bastasse, è provato, contrariamente all'opinione di tutti, che lo Stato italiano profonde i suoi benefici finanziari nelle province settentrionali in misura ben maggiore che nelle meridionali.»

«...necessaria fu, nel 1860, la dissoluzione del Regno di Napoli, unico mezzo per conseguire una più larga e alacre vita nazionale e per dare migliore avviamento agli stessi problemi che travagliavano l'Italia del mezzogiorno»

Giuseppe Garibaldi
Nino Bixio

La spedizione dei Mille fu una grande occasione per l'Italia poiché trasformò il Risorgimento da un movimento d'élite a un grande movimento popolare[202]; occasione in vero persa da quei giovani che pure con entusiasmo "avevano lasciato i loro studi, i loro agi... per venire in questa lontana isola…a ritrovarvi i ricordi del passato greco e romano... ma niente comprendevano, né cercavano di capire, della realtà di questi, come subito li chiamarono "arabi."[203]

In effetti Garibaldi aveva promesso, dopo aver assunto la guida dell'isola in nome di Vittorio Emanuele II, di abolire le tasse che gravavano sull'isola quali la tassa sul macinato[204] e del dazio d'entrata sui cereali, l'abolizione degli affitti e dei canoni per le terre demaniali e di voler procedere ad una riforma del latifondo. Queste promesse non attirarono, almeno inizialmente, un numero consistente di siciliani, ma il primo scontro, la battaglia di Calatafimi, ebbe comunque esito positivo per i Mille contro le più numerose e meglio addestrate truppe borboniche.[205]

Da questo momento inizia la guerra separata dei contadini siciliani ancora condotta in nome di Garibaldi e della libertà. Invadono i demani comunali, i feudi dei baroni latifondisti, bruciano gli archivi dove sono custoditi i titoli del loro servaggio, vengono anche uccisi dei benestanti e persone collegate al sistema del latifondo. Gramsci sosterrà che "I movimenti di insurrezione dei contadini contro i baroni furono spietatamente schiacciati e fu creata la Guardia Nazionale anticontadina; è tipica la spedizione repressiva di Nino Bixio, il braccio destro del Generale, nella regione del catanese dove le insurrezioni furono più violente"[206][207][208]

Le attese del popolo siciliano in contrasto con gli obiettivi della spedizione garibaldina sono testimoniati nel diario del garibaldino Cesare Abba dalla trascrizione del suo dialogo con frate Carmelo, che egli vorrebbe convincere ad unirsi all'impresa a cui ribatte il religioso:
«- Verrei, se sapessi che farete qualche cosa di grande davvero: ma ho parlato con molti dei vostri, e non mi hanno saputo dir altro che volete unire l’Italia.
- Certo; per farne un grande e solo popolo.
- Un solo territorio...! In quanto al popolo, solo o diviso, se soffre, soffre; ed io non so che vogliate farlo felice.
- Felice! Il popolo avrà libertà e scuole.
- E nient’altro! - interruppe il frate: - perché la libertà non è pane, e la scuola nemmeno. Queste cose basteranno forse per voi Piemontesi: per noi qui no.
- Dunque che ci vorrebbe per voi?
- Una guerra non contro i Borboni, ma degli oppressi contro gli oppressori grandi e piccoli, che non sono soltanto a Corte, ma in ogni città, in ogni villa... allora verrei [con voi]. Se io fossi Garibaldi, non mi troverei a quest'ora quasi ancora con voi soli.»
- Allora anche contro di voi frati, che avete conventi e terre dovunque sono case e campagne!
- Anche contro di noi; anzi prima che contro d'ogni altro! Ma col Vangelo in mano e colla croce. Allora verrei. Così è troppo poco. Se io fossi Garibaldi, non mi troverei a quest'ora, quasi ancora con voi soli.
- Ma le squadre?
- E chi vi dice che non aspettino qualche cosa di più? -»[209]

Critiche al processo di unificazione[modifica | modifica wikitesto]

«Chi l'ha costruita sono stati politicanti e studiosi del Nord e del Sud, in nome dell'unità, del progresso, della rivoluzione, del Re, del Duce. Non tutti insieme, si capisce, né tutti con la medesima voce, ma un po' per volta, in armonica disarmonia. Gente magari in buona fede, ma che ignorava i fatti, quelli veri: oppure gente che voleva nascondere qualcosa, per diversissime ragioni spesso contrastanti. La ragione, o meglio il pretesto più comune e più facile era, anzi è l'unità d'Italia, alibi necessario che ogni sozzura copre con le sue grandi santissime ali. Il risultato? Oggi più che mai l'Italia è divisa in due parti, una tutta bianca, l'altra tutta nera. Di questo mito il tempo ha fatto un baluardo così roccioso e inattaccabile che il conformismo liberale, anche se a volte dubitoso ed erudito, non osa neppure scalfirlo.»

Settembre 1863, un bersagliere mostra il cadavere del "brigante" Nicola Napolitano dopo la fucilazione.

La critica storiografica al processo di unificazione italiana ha avuto inizio nella seconda metà dell'Ottocento da parte di coloro che avevano vissuto tale fenomeno. Fra questi si segnalano, oltre alla posizione critica di Giuseppe Mazzini, che fu sempre fautore di una soluzione repubblicana, lo storico e nobile borbonico Giacinto de' Sivo, con il suo libro Storia delle Due Sicilie 1847-1861; e Giuseppe Buttà e Ludovico Quandel rispettivamente cappellano militare e capitano nell'esercito del Regno delle Due Sicilie. La tesi centrale di questi autori, è quella secondo cui gli avvenimenti del periodo 1860-61 non sarebbero riconducibili a tensioni di tipo ideale, o alla volontà di unire l'Italia. Piuttosto, sarebbero l'esito di un accordo tra le principali potenze europee (Inghilterra e Francia) ed il Piemonte. Secondo tali autori, il Regno di Sardegna avrebbe avuto finalità meramente economiche e di espansione territoriale, ed avrebbe realizzato il disegno unitario attraverso una complessa manovra diplomatico-militare, includente la corruzione di alcuni alti quadri dell'esercito borbonico ed accordi con mafia e camorra, di cui la spedizione dei Mille sarebbe solo l'episodio maggiormente visibile.

Alla generazione successiva appartenne invece Gaetano Salvemini che a sua volta influenzò i nuovi studiosi.[211] Fra questi ultimi vi fu, secondo Piero Gobetti, anche Antonio Gramsci.[212] Salvemini, di orientamento socialista-riformista ma aperto al liberalismo, vide nel Risorgimento un processo storico che ebbe il merito di riscattare l'Italia dalla dominazione straniera e dai vecchi regimi assolutistici. La riunificazione del Paese non era avvenuta tuttavia su basi federali, come sarebbe stato auspicabile bensì centraliste e fu opera di una minoranza borghese che subito escluse le masse popolari dalla partecipazione alla vita pubblica (mediante un sistema elettorale a suffragio ristretto), mettendo in atto una politica economica e sociale che ne causò l'impoverimento.[213] Negli anni cinquanta e sessanta del Novecento si sviluppò anche una storiografia critica di matrice cattolica e un'altra di orientamento marxista. Quest'ultima ebbe il suo riferimento principale nei Quaderni dal Carcere di Antonio Gramsci, che, sebbene scritti negli anni trenta del secolo passato, furono pubblicati soltanto fra il 1948 e il 1951. Il pensatore e politico sardo vide il Risorgimento come una rivoluzione agraria mancata[214] e l'unificazione come consolidamento della supremazia delle classi dominanti italiane, di estrazione prevalentemente borghese, sulle masse popolari. Anche per il liberale Piero Gobetti il processo storico risorgimentale fu una rivoluzione mancata, in quanto l'unificazione d'Italia avvenne «...per opera del dispotismo...», anche se «...fu gran ventura per un popolo...che si trovasse a guidarlo Cavour, il Cattaneo della diplomazia che seppe evitare l'isterilirsi della rivoluzione in una tirannide.».[215] Da tale rivoluzione rimasero esclusi gli starti sociali più bassi: le classi medie «...avevano infatti conquistato il governo senza instaurare rapporti di comunicazione con le altre classi...».[216].

Nel secondo dopoguerra alcuni esponenti del mondo accademico italiano e straniero, nonché un certo numero di saggisti, riprendendo alcune formulazioni di Gramsci e Salvemini (fra cui quelle relative al Mezzogiorno come mercato semicoloniale[217]), interpretarono il processo di unificazione attuato nei confronti degli stati preunitari come un'operazione militare di colonizzazione,[218] in particolar modo nei confronti del Regno delle Due Sicilie, Stato pienamente indipendente al pari del Regno di Sardegna[219]. Tra gli esponenti di maggior rilievo del revisionismo risorgimentale è possibile citare, oltre a personalità del mondo accademico come Denis Mack Smith, Christopher Duggan, Martin Clark, Eugenio Di Rienzo e Tommaso Pedio il romanziere e sceneggiatore televisivo Carlo Alianello e i saggisti Nicola Zitara, Gigi Di Fiore e Lorenzo Del Boca.

Secondo le tesi di questi revisionisti, il regno sardo, con l'appoggio di potenze straniere come Francia e Gran Bretagna, invase i regni della penisola senza dichiarazione di guerra;[220][221] e i moti insurrezionali non furono animati spontaneamente dal popolo ma da agenti inviati dal regno sabaudo.[222] Accuse sono state, inoltre, rivolte dai revisionisti alla conduzione dei plebisciti, che sono descritti come avvenuti in maniera illegale[223][224] e sulla spedizione dei Mille, che avrebbe raggiunto il suo obiettivo con ingenti finanziamenti dall'Inghilterra e dalle logge massoniche,[225] oltre al supporto delle mafie[226] e degli ufficiali borbonici corrotti.[227]

Alcuni sovrani dei regni preunitari, come Francesco V di Modena[228] e Francesco II di Borbone,[229] lamentarono l'assenza di un legittimo pretesto nelle annessioni condotte dal Regno di Sardegna. Nella nascita del Regno d'Italia, i revisionisti individuano l'origine di alcuni fenomeni delicati come il brigantaggio postunitario, la questione meridionale e l'emigrazione. Il brigantaggio postunitario, rivalutato dai controstorici come un movimento di resistenza,[230] fu represso dal regio governo con metodi brutali, tanto da suscitare polemiche anche da parte di alcuni esponenti della classe liberale (come Giuseppe Ferrari,[231] Giovanni Nicotera[232] e Nino Bixio)[233] e politici di diversi stati europei,[234] compreso Napoleone III, il quale dichiarò che "Les Bourbons n'ont jamais fait autant" (i Borbone non hanno mai fatto tanto).[235]

Particolarmente duro fu poi il trattamento riservato ai militari al servizio del Regno delle Due Sicilie e dello Stato Pontificio, che furono deportati in diverse roccaforti piemontesi, ad esempio nel forte di Fenestrelle, dove la gran parte di loro morì per la fame, gli stenti e le malattie.[236]

Gli aderenti a questa interpretazione lamentano le scarse attenzioni del governo italiano dell'epoca, soprattutto nei confronti del meridione, una protesta che iniziò già con la corrente meridionalista. Essi ritengono che la politica poco attenta alle necessità delle masse sarebbe stata la causa di una forte ondata migratoria, che interessò, maggiormente, prima il settentrione (in particolare il Veneto)[237] e poi il meridione, in cui si sostiene il fenomeno fosse assente durante il governo borbonico.[238] Come le tesi sostenute dai meridionalisti, la scuola revisionista vede nella fase postunitaria una crisi irreversibile del sud, che sarebbe stato penalizzato per favorire lo sviluppo economico e industriale del nord. Secondo tale corrente di pensiero, il meridione subì l'aumento e l'introduzione di nuove tasse,[239] licenziamenti di impiegati e operai,[240] e la progressiva chiusura di alcune industrie.[241]

Il "popolarismo" risorgimentale[modifica | modifica wikitesto]

Il popolo italiano nelle cinque giornate di Milano

Il popolo, che alcuni storici considerano assente dalla storia che si faceva, era ben presente nella storia che si scriveva. Giornali quotidiani, manifesti, volantini, non fanno che appellarsi al popolo e a chiamarlo ad attivarsi e a condividere gli ideali nazionali. Il popolo nelle aree più depresse della penisola, ove il sistema scolastico non era sviluppato, nella maggioranza non sa leggere e quando trova incollati sui muri i proclami e gli appelli ha bisogno della mediazione degli intellettuali.[242]

Non si tratta poi semplicemente di ignoranza e analfabetismo che fanno sì che la classe dirigente alla fine parli a se stessa, ma anche il fatto che la circolazione delle idee è ancora difficile nell'Italia preunitaria priva quasi di strutture di comunicazione e dove le polizie sono state addestrate a impedire che tra le masse e gli intellettuali si realizzi il contagio politico.

Ed infine, ultimo grande ostacolo alla comunicazione tra intellettuali e popolo, è la non coincidenza di codice tra coloro che porgono il messaggio e quelli che lo ricevono:

«"Libertà! Indipendenza!", reclamano entusiasti gli insorti e i volontari delle varie correnti risorgimentali. "Polenta! Polenta!" ribattono cocciuti e sordi i contadini descritti dal Nievo ne[l romanzo] Le confessioni d'un italiano[243]»

Il Risorgimento come moto nazional-popolare[modifica | modifica wikitesto]

«Dagli atri muscosi dai fori cadenti,
dai boschi, dall'arse fucine stridenti,
dai solchi bagnati di servo sudor,
un volgo disperso repente si desta;
intende l'orecchio, solleva la testa
percosso da novo crescente rumor.»

«Noi siamo da secoli
Calpesti, derisi
Perché non siam Popolo
Perché siam divisi»

Una storiografia sviluppatasi già all'indomani della raggiunta unità d'Italia con gli storici N.Bianchi e C.Tivaroni[244] presenta il movimento risorgimentale come il risultato realizzatosi quasi in modo provvidenziale tramite l'incontro tra i democratici, il popolo, i moderati e i politici liberali, avvenuto con la mediazione della monarchia sabauda.[245]

All'indomani dell'unità nazionale la classe dirigente presenta ciò che era accaduto come il risultato di una spinta popolare e questo si vuole che sia insegnato nelle scuole del Regno: cosicché varie generazioni di italiani hanno imparato il Risorgimento come avrebbe dovuto essere invece che com'è stato. Secondo Isnenghi si trattò del tentativo, sentito come essenziale, di costruire a posteriori una base storica comune a un popolo sino allora in parte assente. Gli intellettuali cercavano un collegamento con le classi subalterne tentando di persuaderle che l'unità italiana era stata il frutto della volontà del popolo guidato dalle "elites" risorgimentali e creando il mito di una coscienza nazionale italiana esistita nei secoli passati e finalmente realizzatasi.[246]

In contrasto con questa visione provvidenzialistica già Oriani nel 1892[247] e Croce[248] mettevano in rilievo come l'unità d'Italia si fosse raggiunta con una conquista regia risultato di un compromesso tra la monarchia sabauda, troppo debole per unificare il paese da sola, e un movimento democratico, altrettanto debole per poter fare una rivoluzione popolare, cosicché l'Italia postunitaria difettava nelle sue strutture democratiche e non avrebbe mai potuto assolvere al ruolo che pretendeva di grande potenza europea.

Gli storici del periodo fascista come Gioacchino Volpe (1927)[249] ripresero invece la teoria postrisorgimentale che giudicava positivamente la visione di un Risorgimento come risultato di una guerra dinastica poiché questa era stata la necessaria premessa dell'avvento del fascismo che, dopo la felice conclusione della "quarta guerra d'indipendenza", ossia la prima guerra mondiale, aveva realizzato i già delineati destini del popolo italiano che il movimento fascista aveva fatto protagonista di quella rivoluzione popolare prima fallita.

Omodeo (1926) riprese in parte la visione del Risorgimento come il risultato di una positiva e feconda azione messa in atto da una minoranza liberale che era stata però sopraffatta dall'avvento del fascismo. Tesi condivisa in parte da Croce (1928) che giudicava positivamente il periodo della politica liberale che aveva portato all'unità nazionale e che aveva governato saggiamente nel periodo postunitario fino a quando non si era manifestata quella "malattia morale" del fascismo, destinata comunque ad essere sanata dal liberalismo.

Il Risorgimento come tentativo di Riforma religiosa in Italia[modifica | modifica wikitesto]

La Chiesa libera evangelica italiana (o "Chiesa cristiana libera", o semplicemente "Chiesa libera"), fu un tentativo ottocentesco di creare una chiesa protestante interamente italiana sulla scia ideale del Risorgimento politico su istanze prevalentemente anticlericali e garibaldine. Fra i suoi promotori principali vi fu l'ex sacerdote cattolico barnabita Alessandro Gavazzi (1809-1889). Viene costituita nel 1850 a Londra fra esuli italiani.[250]

Le città benemerite del Risorgimento nazionale[modifica | modifica wikitesto]

Ventisette città italiane sono state insignite di questo titolo durante il Regno d'Italia per «le azioni altamente patriottiche compiute dalle città italiane nel periodo del Risorgimento nazionale».

Mappe cronologiche dell'unificazione d'italia[modifica | modifica wikitesto]

Dall'unità d'Italia ad oggi[modifica | modifica wikitesto]

Bandiera nazionale del Regno d'Italia

Lo stato italiano nacque nel 1861 dopo l'esito della seconda guerra di indipendenza e dopo i plebisciti nei diversi territori conquistati o annessi. Con la prima convocazione del Parlamento italiano del 18 febbraio 1861 e la successiva proclamazione del 17 marzo, Vittorio Emanuele II di Savoia divenne il primo re d'Italia (1861-1878).

La popolazione, rispetto all'originario Regno di Sardegna, quintuplicò. Istituzionalmente e giuridicamente, il Regno d'Italia venne configurandosi come un ingrandimento del Regno di Sardegna, esso fu infatti una monarchia costituzionale. Il neonato Stato quindi si ritrovò, fin dai primi tempi, a tentare di risolvere problemi di standardizzazione delle leggi, di mancanza di risorse a causa delle casse statali vuote per le spese belliche, di creazione di una moneta unica per tutta la penisola e, più in generale, problemi di gestione per tutte le terre improvvisamente acquisite. Difficoltà cui si aggiungevano altre carenze strutturali, come ad esempio l'analfabetismo e la povertà diffusa, nonché la mancanza di infrastrutture.

Le questioni che tennero banco nei primi anni dopo l'unificazione d'Italia furono la disastrosa situazione economica del Mezzogiorno ed il brigantaggio antisabaudo delle regioni meridionali (soprattutto tra il 1861 e il 1869): il problema divenne noto come la "questione meridionale". Ulteriore elemento di fragilità per il giovane regno italiano fu l'ostilità della chiesa e del clero cattolico nei suoi confronti, ostilità che si sarebbe rafforzata dopo il 1870 e la presa di Roma assumendo anche in questo caso la denominazione di "questione romana".

La destra storica[modifica | modifica wikitesto]

Ritratto di Marco Minghetti

Politica interna[modifica | modifica wikitesto]

Nel gennaio 1861 si tennero le elezioni per il primo parlamento unitario. Su quasi 22 milioni di abitanti (non erano stati ancora annessi Lazio e Veneto), il diritto a votare fu concesso solo a 419.938 persone (circa l'1,8% della popolazione italiana). L’affluenza alle urne fu del 57%.[251]

La Destra storica, erede di Cavour ed espressione della borghesia liberale, vinse queste elezioni. I suoi esponenti erano soprattutto grandi proprietari terrieri e industriali, e personalità legate all’ambito militare (Ricasoli, Sella, Minghetti, Spaventa, Lanza, La Marmora, Visconti Venosta).

La Destra storica diede alla neonata Italia un'economia basata sul libero scambio, che però soffocò la nascente industria italiana, esponendola agli attacchi del più forte capitalismo d'Oltralpe. Un altro grave problema che affliggeva il paese, la difformità legislativa lungo la penisola, fu risolto mediante l'accentramento dei poteri (accantonando i progetti di autonomie locali proposti da Marco Minghetti), estendendo la legislazione piemontese a tutta la penisola e dislocandovi in modo capillare le prefetture come strumento di governo. Anche il sistema scolastico fu riformato e uniformato in tutta Italia a quello piemontese (legge Casati) nel 1859. Fu poi istituita la coscrizione obbligatoria.

Risanamento del bilancio[modifica | modifica wikitesto]

La Destra impose anche un pesante fiscalismo, al fine di finanziare le opere pubbliche di cui il Paese aveva bisogno per competere con le altre potenze europee. Il 16 marzo 1876, il Presidente del Consiglio, Marco Minghetti, annunciò il pareggio di bilancio.[252] La ricchezza nazionale aumentò in due scaglioni tra il 1860 e il 1880. Nella prima fase aumentò tramite le imposte dirette, che riguardavano i redditi di origine agraria, nella seconda fase invece con le imposte indirette, colpendo maggiormente i ceti meno abbienti. Nel 1868 venne introdotta la tassa sul macinato (per la precisione, sulla macinazione dei cereali) scatenando così proteste popolari con assalti ai mulini, distruzione dei contatori, invasioni di municipi. Al termine di questa rivolta contadina si contarono molti arrestati, feriti e morti.

I rapporti con la popolazione[modifica | modifica wikitesto]

Tutti questi provvedimenti resero più complicato l'inserimento dei nuovi territori nel Regno. A causa principalmente di provvedimenti visti come insensati ed odiosi da parte della popolazione, vale a dire l'imposta sul macinato e il servizio militare obbligatorio, la Destra favorì, in un certo senso, lo sviluppo del Brigantaggio, che era storicamente endemico di vaste regioni del Regno delle Due Sicilie e dello Stato della Chiesa, cui rispose con particolare durezza attraverso la legge Pica e il dispiegamento nell'Italia centro-meridionale di oltre 120.000 soldati, imponendo, in pratica, uno stato di guerra al Sud. Stando alle informazioni ufficiali del nuovo Regno d'Italia, dal settembre del 1860 all'agosto del 1861 ci furono nell'ex Regno delle Due Sicilie 8.964 fucilati, 10.604 feriti, 6.112 prigionieri, 13.529 arrestati, e più di 3.000 famiglie perquisite. Questo fu uno dei motivi che incoraggiarono l’emigrazione dalle regioni meridionali d’Italia.

Politica estera[modifica | modifica wikitesto]

In politica estera, la Destra storica fu assorbita dai problemi del completamento dell'Unità d’Italia; il Veneto venne annesso al Regno d'Italia in seguito alla terza guerra d'indipendenza (1866). Per quanto riguarda Roma, la Destra cercò di risolvere la questione con la diplomazia, ma si scontrò con l'opposizione di Papa Pio IX, di Napoleone III e della Sinistra. Alla caduta di Napoleone III dopo la guerra franco-prussiana, l’Italia attaccò lo Stato Pontificio e conquistò Roma, che diventò Capitale nel 1871. Il Papa si proclamò prigioniero e lanciò violenti attacchi allo Stato italiano, istigando una forte campagna anticlericale da parte della Sinistra. Il governo regolò i rapporti con la Santa Sede con la legge delle guarentigie, non riconosciute dal Papa. Il Pontefice non riconobbe la legge e vietò ai cattolici di partecipare alla vita politica italiana, secondo la formula "né eletti, né elettori" (non expedit).

Un consigliere di legazione prussiano in Italia, Theodor von Bernardi, colse, nel corso della Terza Guerra d'Indipendenza, una frattura sui temi di politica estera fra una frazione "francofila" (formata da membri della Permanente, la corrente piemontese della Destra) e una frazione definita "nazionale". La prima corrente si sarebbe rifatta al generale La Marmora (Presidente del Consiglio prima della guerra e Comandante di fatto del Regio Esercito nel corso della guerra) e sarebbe dipesa eccessivamente dalle linee direttive di Napoleone III. La seconda invece,guidata dal barone Ricasoli, avrebbe avuto una visione più ampia del ruolo internazionale dell'Italia e sarebbe stata molto meno filo-francese e più filo-prussiana.

Fine della Destra Storica[modifica | modifica wikitesto]

L'era della Destra finì nel 1876: il governo Minghetti fu messo in minoranza dallo stesso Parlamento, che rifiutava la nazionalizzazione delle neonate ferrovie, cosicché il primo ministro dovette dare le dimissioni. Era stata attuata la rivoluzione parlamentare: per la prima volta un capo del governo veniva esautorato non per autorità regia, bensì dal Parlamento. Il re Vittorio Emanuele II, preso atto delle dimissioni, diede l'incarico di formare un nuovo governo al principale esponente dell'opposizione, Agostino Depretis. Iniziava l'era della Sinistra storica. Gli esponenti della Destra storica che continuarono in un ruolo di opposizione parlamentare, e che in prevalenza provenivano dalla Toscana, furono chiamati dai loro avversari "consorteria".

Divisioni e dissidi interni[modifica | modifica wikitesto]

Subito dopo le prime elezioni nel neonato Regno d'Italia, la Destra storica si divise in due "correnti" differenziate in base alla zona d'elezione:

  • i piemontesi, eredi della Destra storica che aveva caratterizzato il Regno di Sardegna, formarono una "Associazione Liberale Permanente"
  • i tosco-emiliani, sostenuti da lombardi e dai politici meridionali, formarono un gruppo, chiamato dispregiativamente "Consorteria" dai piemontesi.

Con il tempo questa divisione lasciò il posto ad una divisione di tipo personale: i due principali leader delle varie anime della Destra, Sella e Minghetti, infatti, erano impegnati in una battaglia personale. Le Destre concordavano solo sulla necessità di raggiungere il pareggio di bilancio e sulla sconvenienza delle riforme democratiche volute dalla Sinistra, soprattutto l'estensione del suffragio elettorale. Non va inoltre dimenticato che al gruppo "originale" della Destra storica, formato da settentrionali di tendenze liberali, si erano aggiunti dei "nuovi arrivati" cioè i borghesi meridionali, di tendenze conservatrici. Le divergenze fra queste due anime saranno di non poco conto. [253]

Governi della Destra Storica[modifica | modifica wikitesto]

  • Governo Cavour IV (marzo-giugno 1861), conclusosi dopo la morte del Conte di Cavour
  • Governo Ricasoli I (giugno 1861 - marzo 1862), conclusosi con le dimissioni di Ricasoli in seguito a contrasti con il Re
  • Governo Farini (dicembre 1862 - marzo 1863), conclusosi dopo le dimissioni di Farini, che dava segni di squilibrio mentale
  • Governo Minghetti I (marzo 1863 - settembre 1864), conclusosi dopo la repressione a Torino di una manifestazione contraria al trasferimento della capitale a Firenze
  • Governo La Marmora I (settembre 1864 - dicembre 1865), conclusosi con le dimissioni di La Marmora in seguito al respingimento alla Camera di un decreto del Governo
  • Governo La Marmora II (dicembre 1865 - giugno 1866), conclusosi con le dimissioni di La Marmora che assume la guida dell'Esercito nella Terza Guerra d'Indipendenza
  • Governo Ricasoli II (giugno 1866 - aprile 1867), conclusosi con le dimissioni di Ricasoli dopo le elezioni del 1867
  • Governo Menabrea I (ottobre 1867 - gennaio 1868)
  • Governo Menabrea II (gennaio 1868 - maggio 1869)
  • Governo Menabrea III (maggio-dicembre 1869), conclusosi con le dimissioni di Menabrea in seguito alla proteste popolari contro la tassa sul macinato
  • Governo Lanza (dicembre 1869 - luglio 1873)
  • Governo Minghetti II (luglio 1873 - marzo 1876), conclusosi con le dimissioni Minghetti in seguito alla "rivoluzione parlamentare" che portò al potere la Sinistra storica

La sinistra storica[modifica | modifica wikitesto]

Agostino Depretis

Allargamento del suffragio e politiche sociali[modifica | modifica wikitesto]

Gli esponenti della Sinistra storica erano perlopiù esponenti della media borghesia, in maggior parte avvocati. Tentarono di riconciliare la politica col «paese reale» democratizzando e modernizzando lo stato e il paese.[254]

Un'importante riforma riguardava l'istruzione: la legge Coppino (1877) rese obbligatoria e gratuita l'istruzione elementare (dai 6 ai 9 anni d'età). La Sinistra si batté per l'allargamento del suffragio, tramite una legge del 1882 (legge Zanardelli) che concedeva diritto di voto a tutti i maschi, che avessero compiuto i 21 anni e rispettassero requisiti per il voto: il pagamento di un'imposta di almeno 19,8 lire (invece delle precedenti 40) o, in alternativa, il conseguimento dell'istruzione elementare appena allargata (era comunque sufficiente dimostrare di saper leggere e scrivere). Con la suddetta riforma il corpo elettorale salì al 6,9% della popolazione italiana, rispetto al 2,2% del 1880.[255]

La volontà della Sinistra storica era quella di ampliare il suffragio fino a un'utopica universalità (che per quel periodo era comunque ben lungi dall'essere proponibile) basandosi non più tanto sul censo dei cittadini, quanto sulla loro istruzione.

La Sinistra storica prese provvedimenti anche in campo amministrativo, dove provvide ad un decentramento dei poteri e in campo sociale, con l'introduzione di prime misure a difesa dei lavoratori. Furono inoltre avviate una serie di inchieste per esaminare le condizioni di vita della popolazione rurale: la più nota è senz'altro l'inchiesta Jacini, che rivelò una diffusa malnutrizione (pellagra), alta mortalità infantile (per difterite), grande povertà e scarse condizioni igieniche. Diffuso era il fenomeno dell'emigrazione.

Il protezionismo[modifica | modifica wikitesto]

La Sinistra storica, in politica interna, ebbe come obiettivo l'abolizione dell'impopolare tassa sul macinato[256] e in generale una politica di sgravi fiscali e di investimenti nello sviluppo industriale del paese.

La Sinistra perseguì una politica protezionista. In Italia il principale ispiratore della nuova politica tariffaria in materia di commercio estero fu Luigi Luzzatti. Con la crisi economica in Europa (1873-1895) crebbe la miseria dei braccianti, e questo provocò i primi scioperi agricoli. Il protezionismo si tradusse nell'intervento diretto dello Stato nell’economia. I governi italiani della Sinistra, condizionati da gruppi industriali del Nord, approvarono nel 1878 l'introduzione di tariffe doganali a protezione delle industrie tessili e siderurgiche; furono inoltre concessi sussidi ai settori in difficoltà e sviluppate le infrastrutture.

Nel 1887, per fronteggiare la grande depressione, si diede vita a quel "blocco agrario-industriale", come lo chiama Antonio Gramsci, tra la classe liberale e progressista del Nord con gli agrari e i latifondisti reazionari del Meridione, estendendo la tariffa protettiva sulla cerealicoltura che risentiva delle esportazioni dagli Stati Uniti d'America di grano, che, per la riduzione dei noli dei trasporti, arrivava sul mercato italiano a prezzi inferiori.

Un dazio che danneggiava evidentemente gli industriali settentrionali che dovevano commisurare il salario degli operai sul prezzo del pane che aumentava artificiosamente e che pure accettarono di buon grado il danno economico, compensato, secondo la storiografia marxista, da un'alleanza con gli agrari che avrebbe tenuto lontani tentativi di riscatto sociale delle masse subalterne.

Una tariffa protettiva, che reintroduceva la tassa sulla fame come ai tempi dell'imposta sul macinato e che danneggiava inoltre il settore della produzione meridionale del vino e dell'ortofrutta, già in crisi dalla rottura dei rapporti commerciali con la Francia dai tempi del Congresso di Berlino e della politica filotedesca di Crispi. In politica economica Crispi adottò una politica di protezionismo commerciale che è diritta a difendere i prodotti nazionali contro la concorrenza straniera.

Politica estera[modifica | modifica wikitesto]

Il Vittoriano, meglio conosciuto come l'Altare della Patria, in piazza Venezia a Roma, iniziò ad essere costruito in questi anni

In politica estera, la Sinistra storica di Depretis abbandonò la tradizionale alleanza con la Francia, a causa degli attriti diplomatici generati dalla presa di posizione dei transalpini sulla questione tunisina, entrando nell'orbita della Triplice Alleanza a fianco degli imperi centrali di Austria-Ungheria e Germania e favorendo lo sviluppo del colonialismo italiano, innanzitutto con l'occupazione di Massaua in Eritrea.

Fine della Sinistra storica[modifica | modifica wikitesto]

La fase della Sinistra storica si concluse nel 1896 a seguito delle elezioni politiche. Il governo Depretis, infatti, si era spostato verso l'ala conservatrice del parlamento, incontrando i moderati più progressisti, che erano stati inglobati all'interno di una più grande coalizione.

Lentamente furono estromessi gli esponenti più progressisti della Sinistra, dando vita ad un Grande Centro, che monopolizzava la vita politica del Paese, lasciando a pochi partiti minori il ruolo di opposizione di estrema sinistra. Questa politica, in cui la dialettica e la differenza ideologica fra le ali del Parlamento vengono sfumando, è detta trasformismo, e fu resa possibile dalla riforma elettorale.[256]

Dopo Depretis, la figura cardine della politica italiana dal 1887 al 1896 fu Francesco Crispi. Il modello della sua politica era la Germania di Bismarck, dove le tensioni sociali fra la classe operaia e la borghesia sembravano equilibrate. Crispi represse nel sangue la rivolta dei fasci operai in Sicilia e sciolse il Partito Socialista, fondato da Turati a Genova nel 1892, tuttavia emanò una serie di riforme sociali quali la riduzione della giornata lavorativa e la prima legge sull'assistenza sociale, passata alla storia proprio come "legge Crispi".

Sotto il suo governo la politica coloniale fu ripresa con più vigore, fino alla disfatta di Adua (1896), che segnò la fine della Sinistra Storica con le dimissioni del primo ministro.

Nella crisi di fine secolo si manifestarono le conseguenze sul piano sociale della politica protezionistica[senza fonte], come dimostrano i fatti di piazza del Duomo a Milano del maggio 1898 quando il generale Bava Beccaris non esitò a sparare con i cannoni ad alzo zero sulla folla che chiedeva "Pane e lavoro" durante la protesta dello stomaco.

Si era infatti verificato un ulteriore aumento del prezzo del grano a causa delle diminuite esportazioni dagli Stati Uniti, impegnati allora nella guerra per Cuba.

Sarebbe bastato togliere la tariffa protettiva, ma ormai la classe dirigente italiana era terrorizzata dal socialismo e preferiva ricorrere all'intervento repressivo del Regio Esercito.

Governi della Sinistra storica[modifica | modifica wikitesto]

Governi della Crisi di fine secolo[modifica | modifica wikitesto]

L'epoca giolittiana[modifica | modifica wikitesto]

Giovanni Giolitti

Dal 1901 al 1914 la storia e la politica italiana fu fortemente influenzata dai governi guidati da Giovanni Giolitti.

Giolitti I (maggio 1892 - dicembre 1893)[modifica | modifica wikitesto]

L'inizio del primo ministero di Giovanni Giolitti coincise sostanzialmente con la prima vera disfatta del governo di Crispi, messo in minoranza nel febbraio del 1891 su una proposta di legge di inasprimento fiscale. Dopo Crispi, e dopo una breve parentesi (6 febbraio 1891 - 15 maggio 1892) durante la quale il paese fu affidato al governo liberal-conservatore del marchese Di Rudinì, il 15 maggio 1892 fu nominato Primo Ministro Giovanni Giolitti, allora ancora facente parte del gruppo crispino.

Il suo rifiuto di reprimere con la forza le proteste che, nel frattempo, attraversavano estesamente il paese e che, il più delle volte, si riversavano nelle piazze (vedi il paragrafo L'ideologia politica) a causa di una generale crisi economica che faceva salire, fra l'altro, il costo dei beni di prima necessità; le voci che lo indicavano come propositore di una tassa progressiva sul reddito (motivi, entrambi, che gli alienarono il consenso dei ceti dirigenti borghese-imprenditoriale e dei proprietari terrieri, che vedevano in lui una minaccia ai propri interessi economici) e, infine, lo scandalo della Banca Romana che gli valse accuse di aver "coperto" irregolarità fiscali (prima con il suo dicastero delle finanze e poi con una costante riluttanza all'apertura di inchieste parlamentari) lo travolsero in pieno facendogli crollare la base del consenso su cui poggiava la sua ancora giovane politica e lo costrinsero a dimettersi poco più di un anno e mezzo dalla nomina, il 15 dicembre 1893.

Tra il Giolitti I ed il Giolitti II: la crisi di fine secolo[modifica | modifica wikitesto]

Di fronte alle debolezze mostrate da Giolitti, appena dimessosi, gli elettori (ancora relativamente pochi, a causa del suffragio ristretto) vollero di nuovo affidarsi al governo repressivo di Crispi, per tentare di porre fine ai continui disordini causati dai lavoratori. La politica estera di Crispi, aggressiva e colonialista, lo portò in Eritrea, ma una serie di sconfitte culminate con quella di Adua (1º marzo 1896) ne causarono le dimissioni. Il periodo che va da questo momento sino al 1903, quando Giolitti ritornò Primo Ministro, è comunemente indicato come la "crisi di fine secolo": un periodo di recessione economica contribuì infatti all'aumento della tensione sociale e politica, che si tradusse nella successione di 11 governi in appena 10 anni.

Il 4 febbraio 1901 il pronunciamento di Giolitti alla Camera, emblematico della sua ideologia, contribuì alla caduta del governo allora in carica, il Governo Saracco, responsabile di aver ordinato lo scioglimento della Camera del Lavoro di Genova.

Già a partire dal governo Zanardelli (15 febbraio 1901 - 3 novembre 1903), Giolitti ebbe una notevole influenza che andava oltre quella propria della sua carica di Ministro degli Interni, anche a causa dell'avanzata età del presidente del consiglio.

Giolitti II (novembre 1903 - marzo 1905)[modifica | modifica wikitesto]

Il 3 novembre 1903 Giolitti ritornò al governo, ma questa volta si risolse per una svolta radicale: si oppose, come prima, alla ventata reazionaria di fine secolo, ma lo fece dalle file della Sinistra e non più del gruppo crispino come fino ad allora aveva fatto.

Questo cambiamento gli consentì di seguire un po' più agevolmente quella politica che si era proposta già all'epoca del suo primo mandato: conciliare gli interessi della borghesia con quelli dell'emergente proletariato (sia agricolo che industriale); a questo proposito è notevole come Giolitti fu il primo a proporre l'entrata nel suo governo come ministro al socialista Filippo Turati che rifiutò convinto che la base socialista non avrebbe capito una sua partecipazione diretta ad un governo liberale borghese. Nonostante l'opposizione della corrente massimalista, in quel periodo minoritaria, Turati appoggiò dall'esterno il governo Giolitti che in questo contesto poté varare norme a tutela del lavoro (in particolare infantile e femminile), sulla vecchiaia, sull'invalidità e sugli infortuni; i prefetti furono invitati ad usare maggiore tolleranza nei confronti degli scioperi a condizione che non turbassero l'ordine pubblico; nelle gare d'appalto furono ammesse le cooperative cattoliche e socialiste.

L'apertura nei confronti dei socialisti, insomma, fu una vera e propria costante di questa fase di governo: Giolitti programmava, infatti, di estendere il consenso nei riguardi del governo presso queste aree popolari, e in particolare presso quelle aristocrazie operaie che, grazie ad una migliore retribuzione salariale e, quindi, a un migliore tenore di vita, raggiungevano il reddito minimo che consentiva il diritto di voto. Giolitti era infatti convinto che non fosse utile a nessuno tenere bassi i salari perché da un lato non avrebbe consentito ai lavoratori di condurre una vita dignitosa, dall'altro avrebbe strozzato il mercato provocando una sovrapproduzione.

Per la riuscita di questo suo progetto occorrevano due condizioni: la prima che i socialisti rinunziassero alle loro proclamate volontà rivoluzionarie, che del resto non avevano mai neppure accennato a tradurre in atto anche nelle più favorevoli occasioni insurrezionali come quelle da poco presentatesi con la rivolta dei Fasci siciliani,[257] la seconda che la borghesia italiana fosse disponibile a rinunciare, almeno in piccola parte, ai suoi privilegi di classe per una politica di moderate riforme.

La situazione storica che attraversava il partito socialista, spaccato tra massimalisti rivoluzionari e turatiani riformisti favorì il programma giolittiano di coinvolgerlo nella guida del paese ma anche lo condizionò come apparve dagli spostamenti a destra o a sinistra che subì il suo governo a seconda di quale corrente prevalesse nei periodici congressi del partito. Giolitti riproponeva la politica del trasformismo nel tentativo di isolare l'estrema sinistra e dividere i socialisti associandoli al governo. Tuttavia Filippo Turati, che pure in un discorso del 22 maggio 1907 aveva dichiarato alla Camera che le trasformazioni sociali dovessero avvenire «per una via di evoluzione, di penetrazione, di sostituzione graduale», in quanto egli pensava che la violenza rivoluzionaria «avesse una funzione clamorosa e decorativa, assai più che una funzione sostanziale», non soddisfece a pieno le aspettative di Giolitti rifiutando la partecipazione diretta al suo governo che preferì appoggiare dall'esterno temendo, se avesse accettato il ministero offertogli, le ripercussioni sulla sua base elettorale scandalizzata da un aperto sostegno socialista a un governo liberale dei "padroni".

A questo proposito la critica storiografica nota come, da queste migliori condizioni sociali, rimanessero esclusi i lavoratori meno qualificati (in particolare quelli meridionali), di fatto spesso e volentieri emarginati dai progetti politici di Giolitti (e che andarono a confluire nei partiti massimalisti).

Le agitazioni sociali[modifica | modifica wikitesto]

Gaetano Salvemini

Gli scioperi che si susseguirono negli anni 1901 e 1902 sia nel settore agricolo[258] che in quello industriale, sia nel più sviluppato Nord che nel Sud del paese, dimostravano che tutta la floridezza economica e le riforme giolittiane non arrivavano ad incidere sulla precaria situazione della società italiana, soprattutto di quella meridionale, abbandonata a se stessa e presa in considerazione solo come un serbatoio di voti da ottenere con la corruzione dei deputati meridionali, gli "àscari"[259] del governo, con le pressioni dei prefetti, della mafia e della camorra. Gli intellettuali meridionali, come Gaetano Salvemini, non si stancavano di accusare Giolitti, il "ministro della malavita".

Le moderate riforme non bastavano più: il paese aveva l'esigenza di riforme radicali, strutturali, che se non soddisfatta avrebbe causato quella estremizzazione delle classi sociali che, dopo l'intervallo fuorviante, voluto dalla classe dirigente, della Prima guerra mondiale, giungerà al culmine nel dopoguerra con la rivoluzione fascista preventiva del ceto medio contro i presunti sovversivi.

I primi segni di questo fenomeno storico sono proprio nelle contraddizioni dell'età giolittiana che si dibatte tra governi riformisti e conservatori. Non a caso il 1904 fu l'anno del primo sciopero generale della storia italiana voluto per motivi politici dai sindacalisti rivoluzionari di Arturo Labriola nella speranza che questo fosse lo stimolo per una rivoluzione proletaria. Ma il calcolo politico fallì dinanzi alla tattica giolittiana di lasciare esaurire e sfogare lo sciopero limitandosi a garantire l'ordine pubblico.

Tra il Giolitti II ed il Giolitti III[modifica | modifica wikitesto]

In questo periodo invitò l'amico Alessandro Fortis a creare un governo (come appunto avvenne).

Giolitti III (maggio 1906 - dicembre 1909)[modifica | modifica wikitesto]

Alla caduta del secondo Governo Fortis (24 dicembre 1905 - 8 febbraio 1906), dopo un breve ministero Sidney Sonnino, Giolitti insediò il suo terzo governo.

Il malessere continuava ad essere diffuso soprattutto nel Mezzogiorno d'Italia dove, anche a causa dell'aumento demografico e ai numerosi dissesti economici causati da grandi disastri naturali (si ricordi l'eruzione del Vesuvio del 1906 ed il terremoto che devastò Messina e Reggio Calabria nel 1908), continuava la emorragia della emigrazione che divenne un fatto culturale tale da trovare espressioni nella nostra letteratura nazionale da Giovanni Verga a Luigi Capuana. Interi paesi si spopolavano e sparivano antiche culture. Un fenomeno crudele e doloroso ma anche in un certo senso benefico poiché intere popolazioni ebbero modo d'uscire dal loro isolamento medioevale e, sia pure a prezzo di insanabili ferite, entrare in contatto con le moderne società occidentali. Il governo, che in un primo momento aveva ostacolato il flusso migratorio per non far salire troppo i prezzi sul mercato del lavoro, in seguito diede via libera favorendo la fuga all'estero delle classi subalterne soprattutto perché cominciava a temere le conseguenze di un'aumentata pressione sociale e poteva così contare su un'affidabile stabilità monetaria.

Durante questo mandato Giolitti continuò, essenzialmente, la politica economica già avviata nel suo secondo governo, e si preoccupò di risanare il bilancio dello stato con una più equa ripartizione degli oneri sociali, aiutato dalla congiuntura economica positiva dei primi anni del Novecento. Il governo poté dare il via nel 1906 alla conversione della rendita nazionale, diminuendo il tasso d'interesse dal 5% al 3,75% dando la possibilità, a chi non avesse accettato la diminuzione della rendita, di poter ottenere l'intero rimborso dei capitali sottoscritti; ma ben pochi furono i sottoscrittori che lo richiesero, segno della buona fiducia nelle finanze dello stato. Questa era, in realtà, un'operazione rischiosa perché, per quanto si potesse prevedere un certo panico tra i creditori dello Stato, le richieste di rimborso non erano facilmente prevedibili. Di fatto, comunque, ebbe successo perché queste furono assai limitate e la possibilità della bancarotta fu ampiamente sventata. Ciò fu possibile perché la conversione della rendita provocò una generale diminuzione del costo del denaro che consentì di ottenere crediti ad un saggio di interesse più favorevole e, quindi, incontrò un nutrito consenso. Questo favorì l'industria pesante, che risultava ancora arretrata a causa della mancanza, da parte degli industriali, dei grandi capitali che sarebbero stati necessari a svecchiarla.

Oltre a ciò, la conversione della rendita centrò il suo scopo primario: far "guadagnare" virtualmente allo stato la differenza sui suoi debiti che, con l'abbassamento del tasso, non era più tenuto a pagare. I proventi di questa manovra poterono, così, essere impiegati nell'industria.

La lira godeva di una stabilità mai prima raggiunta al punto che sui mercati internazionali la moneta italiana era quotata al di sopra dell'oro e addirittura era preferita alla sterlina inglese. E tutto questo, nonostante gli ingenti esborsi di denaro pubblico per la realizzazione di grandi opere pubbliche come l'acquedotto pugliese, il traforo del Sempione (1906), la bonifica delle zone di Ferrara e Rovigo.

Accanto all'ormai completata nazionalizzazione delle Ferrovie, infine, andò a collocarsi la proposta di nazionalizzazione delle assicurazioni (portata a compimento nel quarto mandato).

Lo sviluppo economico si estese, anche se in misura minore, al settore agricolo che, con la riapertura soprattutto del mercato francese, dopo la ripresa voluta da Giolitti delle buone relazioni con la Francia, interrotte dalla politica estera filotedesca crispina, vide accrescersi le esportazioni dei prodotti ortofrutticoli e del vino, mentre l'introduzione della coltura della barbabietola da zucchero incrementò lo sviluppo delle raffinerie nella pianura padana.

Per ciascuna di queste azioni la critica storiografica non ha mancato di evidenziare anche i risvolti negativi: non ostacolare l'emigrazione significa anche servirsene, un po' cinicamente, senza tenere in conto il disagio arrecato a interi strati sociali costretti a sradicarsi dalla propria terra (specie dal Sud, dove il cosmopolitismo era certamente ben lontano dal diffondersi); favorire unicamente l'industria pesante a discapito di quella agro-manifatturiera è, poi, una tipica visione industrialista che non tiene in debito conto l'economia del Mezzogiorno, che avrebbe necessitato di trasformazioni più profonde del solo acquedotto pugliese; infine la nazionalizzazione delle assicurazioni consentì abnormi speculazioni da parte di chi ne deteneva le azioni.

Innegabile è invece, la bontà del miglioramento della legislazione sul lavoro femminile e infantile con nuovi limiti di orario (12 ore) e di età (12 anni).

Tra il Giolitti III ed il Giolitti IV[modifica | modifica wikitesto]

Nel dicembre del 1909 divenne presidente del consiglio Sidney Sonnino, di tendenze conservatrici. A lui successe Luigi Luzzatti.

Giolitti IV (marzo 1911 - marzo 1914)[modifica | modifica wikitesto]

Il quarto governo Giolitti durò dal 30 marzo 1911 al 21 marzo 1914. Nacque come il tentativo probabilmente più vicino al successo di coinvolgere al governo il Partito Socialista, che comunque votò a favore. Il programma prevedeva la nazionalizzazione delle assicurazioni sulla vita e l'introduzione del suffragio universale maschile, progetti di considerevole valenza "sociale" e entrambi immediatamente realizzati. Nel settembre del 1911 Giolitti, premuto dalle spinte nazionaliste (il movimento nazionalista si era costituito come partito organizzato nel primo congresso di Firenze nel 1910) diede tuttavia inizio alla guerra di Libia; il conflitto ebbe notevoli ripercussioni anche in politica interna, dividendo il Partito Socialista e allontanandolo dal governo in maniera irrimediabile.

La guerra di Libia[modifica | modifica wikitesto]

«Carlo Marx è stato mandato in soffitta.»

Giolitti aveva comunque capito la pressione che saliva dall'inaffidabile e contraddittorio movimento socialista ed andò quindi a cercare quei naturali alleati che gli offriva la Chiesa di papa Pio X che, preoccupato del pericolo sovversivo, aveva attenuato il non expedit[260] consentendo ai conservatori cattolici di partecipare alle elezioni politiche del 1909 assicurando in questo modo il rafforzamento del governo Giolitti[261] che da questo momento iniziò il suo cammino verso la destra conservatrice, la quale avrebbe celebrato nel 1910, a Firenze, la nascita del partito nazionalista che chiedeva a gran voce l'ingresso della Terza Italia nella gara coloniale delle grandi potenze europee.

La guerra italo-turca, realizzata con l'appoggio diplomatico delle potenze dell'Intesa, voluta dall'opinione pubblica italiana e dalla borghesia industriale interessata alla produzione di guerra, rappresenta l'inizio della fine dell'età giolittiana. Alle delusioni seguite alla sanguinosa conquista di quello "scatolone di sabbia", come dicevano i socialisti turatiani, si aggiunse la preoccupazione per la ricomparsa, dopo dieci anni di pareggio, del passivo nel bilancio dello stato.

Dopo il congresso di Reggio Emilia del 1912 che aveva visto l'espulsione dell'ala moderata e il prevalere della corrente massimalista, guidata da un giovane anarco-sindacalista, Benito Mussolini, divenuto direttore dell'"Avanti", tutto stava ad indicare che la lotta politica si stava acutizzando tra l'estremismo di sinistra e una borghesia passata alle tesi dell'imperialismo.

Furono forse queste preoccupazioni che nell'imminenza delle elezioni del 1913 spinsero Giolitti alla ricerca di un più vasto consenso di massa con l'istituzione del suffragio universale maschile e soprattutto con il patto Gentiloni[262] con i cattolici in funzione antisocialista. I risultati elettorali sembrarono premiare la politica giolittiana, ma era un'illusione: ormai lo scontro tra la destra e la sinistra si combatteva nelle strade come dimostreranno i disordini della "Settimana Rossa" nel giugno del 1914, guidata dal socialista Mussolini, dal repubblicano Pietro Nenni, dall'anarchico Errico Malatesta. Questa situazione sociale ingestibile politicamente convinse Giolitti, già dimessosi nel marzo del 1914, di aver visto giusto nella sua decisione di abbandonare almeno temporaneamente la vita politica. Giolitti in realtà si era dimesso designando come suo successore il conservatore Antonio Salandra, calcolando che dal fallimento della politica di questi egli sarebbe potuto tornare al governo da sinistra con un programma di più avanzate riforme. Ma il suo piano si rivelò sbagliato: ormai non era più possibile alcuna mediazione tra capitale e lavoro.

Dopo il Giolitti IV[modifica | modifica wikitesto]

L'inizio della fine della cosiddetta età giolittiana fu l'arrivo al governo di Antonio Salandra nel 1914. Questi successe a Giolitti accordandosi con lui, ma presto riuscì a rendersi politicamente autonomo, sfruttando la nuova situazione creatasi dopo la firma (all'insaputa del Parlamento e dei Partiti politici, a maggioranza pacifisti), nell'aprile del 1915, del così detto Patto di Londra. Quando nel maggio 1915 Salandra vincolò la sua prosecuzione al governo all'accettazione da parte del Parlamento della volontà interventista del governo, del re e delle gerarchie dell'esercito (contro le Potenze centrali e gli accordi di alleanza militare che l'Italia aveva stipulato con essi), Giolitti si trovò ad essere il capo della maggioranza neutralista della Camera. Fu in quel contesto che si ebbe un gesto di grande valenza simbolica anche se di scarsi effetti pratici: un numero di deputati superiore alla maggioranza dell'Assemblea lasciò il suo biglietto da visita nell'anticamera dell'abitazione romana dell'ex primo ministro a testimoniare il suo appoggio. Nonostante questo, il giorno dopo il Parlamento si piegò al diktat del re, del governo e dell'esercito. Per alcuni storici questo momento segna in Italia la fine dell'epoca liberale e l'inizio di un'epoca di governi autoritari e anti-parlamentari che sfocerà nel ventennio fascista di Benito Mussolini. Salandra, reincaricato dal Re, fece uscire l'Italia dalla neutralità, per cui Giolitti si batteva, e la portò nella Prima guerra mondiale.

Giolitti V (giugno 1920 - luglio 1921)[modifica | modifica wikitesto]

Squadristi

L'ultima permanenza al governo di Giolitti iniziò nel giugno 1920, durante il cosiddetto biennio rosso (1919-1920), quando lo stato liberale ormai in agonia, richiamò il vecchio statista, ancora di fresche energie, ad affrontare e risolvere la questione fiumana. Giolitti col trattato di Rapallo liquidò la questione di Fiume dichiarata città libera, e con mano ferma, facendo intervenire l'esercito, costrinse Gabriele D'Annunzio che l'aveva teatralmente occupata a lasciare la città. La stessa energia Giolitti cercò di applicare nella politica interna, ma qui la situazione era degenerata sin dal suo ultimo ministero nel 1914. Per risanare il bilancio dello stato in grave passivo per le spese di guerra, aumentò il carico fiscale sui ceti più abbienti introducendo imposte straordinarie sui profitti di guerra e addirittura fece varare una legge sulla nominatività dei titoli azionari che cessarono di essere parzialmente esenti dall'imposizione fiscale. Misure molto coraggiose che convinsero i liberali borghesi che Giolitti era ormai schierato dalla parte dei sovversivi mentre questi a loro volta continuavano a considerarlo dalla parte dei padroni.

Giolitti risolse con successo l'occupazione delle fabbriche dell'agosto-settembre 1920 - l'inizio del biennio rosso - adottando il suo sistema di non intervento diretto dello stato il quale si limitava a garantire l'ordine pubblico. Ciò però non fece diminuire la paura del ceto medio deciso ormai ad affidarsi per la sua difesa dai "bolscevichi" allo squadrismo fascista. Per porre freno alle frequenti agitazioni socialiste, Giolitti non esitò ad appoggiare le azioni delle squadre fasciste, credendo che la loro violenza potesse essere in seguito riassorbita all'interno del sistema democratico. L'ultimo errore politico di Giolitti fu quello di allearsi nelle elezioni del maggio del 1921 coi nazionalisti e coi fascisti nella speranza di ridurre i due blocchi contrapposti socialisti e cattolici che impedivano la formazione di qualsiasi governo efficiente. Egli si illudeva, secondo il suo credo politico, di poter portare nell'alveo del moderatismo liberale il fascismo; così non fu, anzi la sua manovra elettorale mentre aveva lasciato inalterata la forza contrapposta di socialisti e cattolici, aveva contribuito a dare una patina di rispettabilità al movimento fascista che, con i 35 deputati eletti al Parlamento italiano, iniziava la sua marcia verso la conquista del potere.

L'avventura coloniale[modifica | modifica wikitesto]

Il Corno d'Africa[modifica | modifica wikitesto]

L'inizio del regno vide l'Italia impegnata anche in una serie di guerre di espansione coloniale. L'occupazione cominciò nel novembre 1869 con il padre lazzarista Giuseppe Sapeto che avviò le trattative per l'acquisto della Baia di Assab. Il governo egiziano contestò tale acquisizione e rivendicò il possesso della baia: da ciò seguì una lunga controversia che si concluse solo nel 1882 dopo tre tentativi. L'iniziativa fu appoggiata dai governi di sinistra di Agostino Depretis e da una compagnia private guidata da Raffaele Rubattino. Il 10 marzo 1882 il governo italiano acquistò il possedimento di Assab, che il 5 luglio dello stesso anno diventò ufficialmente italiano.

Oltre all'acquisizione di Assab da parte della società Rubattino, lo Stato italiano cercò di occupare il porto di Zeila, a quel tempo controllato dagli egiziani, ma con esito negativo. Quando gli egiziani si ritirarono dal Corno d'Africa nel 1884, i diplomatici italiani fecero un accordo con la Gran Bretagna per l'occupazione del porto di Massaua che assieme ad Assab formò i cosiddetti possedimenti italiani nel mar Rosso. Dal 1890 assunsero la denominazione ufficiale di Colonia Eritrea.

L'interesse per la fondazione di colonie italiane continuò anche durante i governi di Francesco Crispi. La città di Massaua diventò il punto di partenza per un progetto che sarebbe dovuto sfociare nel controllo del Corno d'Africa. Agli inizi degli anni ottanta questa zona era abitata da popolazioni etiopiche, dancale, somale e oromo, autonome oppure soggette a dominatori. All'epoca i signori della zona erano gli egiziani (lungo le coste del mar Rosso), alcuni sultanati (i più importanti furono gli Harar, gli Obbia, e i Zanzibar), emiri o capi tribali. Diverso il caso dell'Etiopia, allora retta dal Negus Neghesti (Re dei Re, cioè Imperatore) Giovanni IV, ma con la presenza di uno Stato relativamente autonomo nei territori del sud, retto da Menelik II.

Attraverso i commercianti e gli studiosi italiani che frequentavano la zona, già dagli anni sessanta, l'Italia cercò di dividere i due Negus al fine di penetrare, prima politicamente e poi militarmente, all'interno dell'Etiopia. Tra i progetti ci fu l'occupazione della città santa di Harar, l'acquisto di Zeila dai britannici e l'affitto del porto di Chisimaio, posto alla foce del Giuba, in Somalia. Tutti e tre i progetti non si conclusero positivamente.

Umberto I, Re d'Italia dal 1878 al 1900

Nel 1889 l'Italia ottenne, tramite un accordo da parte del Console italiano di Aden con i Sultani che governavano la zona, i protettorati su Obbia e su Migiurtinia. Nel 1892 il Sultano di Zanzibar concesse in affitto i porti del Benadir (fra cui Mogadiscio e Brava) alla società commerciale "Filonardi". Il Benadir, sebbene gestito da una società privata, fu sfruttato dal Regno d'Italia come base di partenza per delle spedizioni esplorative verso le foci del Giuba e dell'Omo, e per ottenere il protettorato sulla città di Lugh.

A seguito della sconfitta e della morte dell'Imperatore Giovanni IV in una guerra contro i dervisci sudanesi (1889), l'esercito italiano occupò una parte dell'altopiano etiopico, compresa la città di Asmara, sulla base di precedenti accordi fatti con Menelik II il quale, con la morte del rivale, era riuscito a farsi riconoscere Negus Neghesti, cioè “Re di Re” (“Imperatore”). Con il trattato che seguì, Menelik II accettò la presenza degli italiani sull'altopiano etiope e riconobbe nell'Italia l'interlocutore privilegiato con gli altri paesi europei. Quest'ultimo riconoscimento fu interpretato dagli italiani come l'accettazione di un protettorato e negli anni seguenti sarà fonte di discordie fra i due paesi.

La politica di progressiva conquista dell'Etiopia si concretizzò con la campagna d'Africa Orientale (1895-1896) e terminò con la sconfitta di Adua (1º marzo 1896). Fu uno dei pochi successi della resistenza africana al colonialismo europeo del XIX secolo. Anche dopo questa cocente sconfitta la politica coloniale nel Corno d'Africa continuò con il protettorato sulla Somalia, dichiarata colonia nel 1905.

Dalla Sirte al Ciad[modifica | modifica wikitesto]

Uno dei tentativi di creare un Impero coloniale oltre il Corno d'Africa era quello di un'espansione che andasse dal mar Mediterraneo al golfo di Guinea. Il progetto non venne mai esplicitato pubblicamente, ma fu chiaro durante le trattative per il Trattato di Versailles (1919), dopo la prima guerra mondiale, che causò frizioni diplomatiche con la Francia. Per realizzare questa intenzione, avendo già formale possesso della Libia, il corpo diplomatico italiano chiese di avere la colonia tedesca del Camerun e cercò di ottenere, come compenso per la partecipazione alla guerra mondiale, il passaggio del Ciad dalla Francia all'Italia. Il progetto fallì quando il Camerun venne assegnato alla Francia e l'Italia ottenne solamente l'Oltregiuba, oltre a una ridefinizione dei confini tra la Libia e ed il Ciad, possedimento francese.

Una delle richieste italiane durante il Trattato di Versailles dopo la prima guerra mondiale fu quella di annettere la Somalia Francese e il Somaliland in cambio della rinuncia alla partecipazione nella ripartizione delle colonie tedesche tra le forze dell'Intesa. Il tentativo non ebbe seguito. Fu l'ultima manovra dello “stato liberale”, prima del fascismo, relativa alla penetrazione nel Corno d'Africa.

Colonie italiane[modifica | modifica wikitesto]

Eritrea (1884 - 1941)[modifica | modifica wikitesto]

Menelik II, imperatore d'Abissinia (oggi Etiopia) dal 1889 al 1913

L'area del mar Rosso fu una delle zone che suscitò il maggior interesse dei governi della Sinistra italiana.

Primo nucleo della futura colonia Eritrea fu l'area commerciale stabilita dalla società Rubattino nel 1870 presso la baia di Assab. Abbandonata per quasi dieci anni, fu poi acquistata dallo Stato italiano agli inizi degli anni ottanta e assieme al porto di Massaua, occupato nel 1884, compose i possedimenti italiani del mar Rosso.

Con il Trattato di Uccialli i possedimenti italiani vennero estesi nell'entroterra fino alle sponde del fiume Mareb. Di conseguenza il 1º gennaio 1890 fu istituzionalizzato il possesso di quei territori con la creazione di una colonia retta da un Governatore e avente capoluogo la città di Asmara (climaticamente più confortevole per gli italiani rispetto a Massaua).

La massima espansione dei suoi confini fu raggiunta agli inizi del 1896, quando il Governatore della colonia, Oreste Baratieri dovette tramutare in realtà il progetto di occupazione dell'entroterra etiopico. Nel 1894 aveva fatto occupare la città sudanese di Cassala, allora possedimento derviscio, mentre nel 1895 durante la campagna d'Africa Orientale, occupò ampie zone del Tigray, comprendenti la città di Axum. A seguito della sconfitta nella battaglia di Adua, i confini della colonia ritornarono ad essere quelli stabiliti dal Trattato e tali rimasero fino alla guerra d'Etiopia.

Primo governatore non militare fu Ferdinando Martini a quel tempo convinto sostenitore della necessità per lo Stato italiano di possedere colonie. A costui toccò il compito di ristabilire contatti pacifici con l'Etiopia, di migliorare i rapporti fra italiani e popolazioni indigene e di creare un corpo di funzionari che portasse avanti l'amministrazione della colonia. Fu grazie alla sua politica che la colonia ebbe degli Ordinamenti Organici e dei codici coloniali.

La Somalia (1890 - 1941)[modifica | modifica wikitesto]

La prima penetrazione italiana in Somalia fu stabilita nel sud del paese africano tra il 1889 e il 1890 come protettorato. Fu dichiarata colonia nel 1905. Nel giugno 1925 la sfera di influenza italiana venne estesa fino ai territori dell'Oltregiuba e le isole Giuba, fino ad allora parte del Kenya inglese e cedute come ricompensa per l'entrata in guerra a fianco degli Alleati durante la prima guerra mondiale.

Tientsin, Cina (1901 - 1943)[modifica | modifica wikitesto]

Nel 1901, come a molte altre potenze straniere, fu garantito all'Italia una concessione commerciale nell'area della città di Tientsin in Cina. La concessione italiana, di 46 ettari, fu una delle minori concessioni concesse dal Celeste impero alle potenze europee. Dopo la fine della prima guerra mondiale la concessione austriaca nella stessa città fu inglobata in quella italiana. I termini di tale concessione vennero ridiscussi, e infine la stessa concessione venne di fatto sospesa, a seguito di un accordo tra la Repubblica Sociale Italiana e il governo filo-giapponese della Repubblica di Nanchino (che inglobò la concessione) nel 1943. Dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943, la guarnigione italiana a Tientsin combatté contro i giapponesi, ma dovette poi arrendersi e pagare con la prigionia in Corea. La concessione di Tientsin, così come i quartieri commerciali italiani a Shanghai, Hankow e Pechino, furono formalmente soppressi con il trattato di pace del 1947.

Libia (1911 - 1943)[modifica | modifica wikitesto]

Dopo una breve guerra contro l'Impero Ottomano nel 1911, l'Italia acquisì il controllo della Tripolitania e della Cirenaica, ottenendo il riconoscimento internazionale a seguito degli accordi del Trattato di Losanna. Le mire italiane sulla Libia, vennero appoggiate dalla Francia, che vedeva di buon occhio l'occupazione di quel territorio in funzione anti-inglese. Con il fascismo, alla Libia venne attribuito l'appellativo di quarta sponda, quando in realtà per gran parte degli anni venti fu impegnata in una sanguinosa pacificazione della colonia (durante la quale si fece ricorso ai gas asfissianti e alle deportazioni di massa).

Il Dodecaneso (1912 - 1943)[modifica | modifica wikitesto]

Tra l'aprile e l'agosto del 1912, durante la fase conclusiva della guerra in Libia contro l'Impero Ottomano, l'Italia decise di occupare dodici isole dell'Egeo sottoposte al dominio turco: il cosiddetto Dodecaneso. A seguito del Trattato di Losanna, l'Italia poté mantenere l'occupazione militare delle dodici isole fino a quando l'esercito turco non avesse abbandonato completamente l'area libica. Questo processo avvenne lentamente, anche perché alcuni ufficiali ottomani decisero di collaborare con la resistenza libica, per cui l'occupazione dell'area nel mar Egeo venne mantenuta nei fatti fino al 21 agosto 1915, giorno in cui l'Italia, entrata nella prima guerra mondiale assieme le forze dell'Intesa, riprese le ostilità contro l'Impero Ottomano.

Durante la guerra e l'occupazione italiana di Adalia l'isola di Rodi fu sede di un'importante base navale per le forze marine britanniche e francesi.

Dopo la vittoria nella prima guerra mondiale, il Regno d'Italia intendeva consolidare formalmente la propria presenza nell'area dell'Egeo e lungo le coste turche. Tramite un accordo con il governo greco all'interno del Trattato di Sèvres del 1919, si stabilì che Rodi diventasse italiana anche dal punto di vista formale, mentre le altre undici isole sarebbero passate alla Grecia, come la totalità delle altre isole del mar Egeo. In cambio, l'Italia avrebbe ottenuto dallo Stato greco il controllo della parte sud-ovest dell'Anatolia (Occupazione italiana di Adalia), che si estendeva da Konya fino ad Alanya e che comprendeva il bacino carbonifero di Adalia. La sconfitta dei greci nella guerra contro la Repubblica di Turchia nel 1922, rese impossibile l'accordo e l'Italia mantenne l'occupazione di fatto delle isole fino a quando, con il Trattato di Losanna del 1923, l'amministrazione dell'arcipelago non le fu riconosciuto internazionalmente.

Saseno (1914-1920)[modifica | modifica wikitesto]

L'isola di Saseno fu occupata il 30 ottobre 1914 dal Regno d'Italia, fino a quando, dopo la prima guerra mondiale, il 18 settembre 1920, grazie ad un accordo italo-albanese (accordo di Tirana del 2 agosto 1920, in cambio delle pretese italiane su Valona) e ad un accordo con la Grecia, entrò a far parte dell'Italia che la voleva per la sua posizione strategica.

Fece prima parte della provincia di Zara (dal 1920 al 1941), poi nel 1941 entrò a far parte della provincia di Cattaro (Dalmazia). Occupata dai tedeschi nel settembre del 1943 e dai partigiani albanesi nel maggio del 1944, l'isola venne restituita all'Albania per effetto del Trattato di Parigi del 10 febbraio (1947).

Oggi sull'isola esiste un deposito e una caserma della Guardia costiera aperta nel 1997 per reprimere i traffici illeciti tra l'Italia e l'Albania e restano le installazioni (incluso un faro e varie fortificazioni) costruite durante la precedente occupazione italiana.

Fatti di sangue durante il dominio coloniale italiano[modifica | modifica wikitesto]

A seguito dell'uccisione di civili e militari italiani in Libia ed Etiopia[263], durante il dominio coloniale italiano in Africa furono commesse (anche se in misura inferiore a quanto fatto - ad esempio - da inglesi e francesi[264]) alcune atrocità e crimini contro l'umanità[265][266].

L'Italia nella prima guerra mondiale (1915-1918)[modifica | modifica wikitesto]

L'iniziale neutralità[modifica | modifica wikitesto]

Antonio Salandra, capo del governo interventista che spinse l'Italia ad entrare in guerra

«Se, movendo da questo tracciato ideale, il solo che il senno politico poteva proporre a risolvere il problema messo innanzi all'Italia … si passa a considerare l'azione degli uomini di stato italiani nei dieci mesi che corsero tra lo scoppio della guerra e la partecipazione dell’Italia, si vede che essi vi si attennero esattamente»

Il governo Salandra[modifica | modifica wikitesto]

Il governo Salandra era succeduto al governo Giolitti per reazione alla crescente forza della sinistra rivoluzionaria: per marcare il centro dei suoi interessi, Salandra tenne per sé il ministero dell'interno. La situazione era ben rappresentata dal giovane Benito Mussolini che, da direttore dell’Avanti!, benediceva le azioni delle leghe dei contadini di Emilia e Romagna, che sarebbero sfociate, di lì a poco, nella cosiddetta "Settimana Rossa" del giugno 1914. Salandra svolse con fermezza e prudenza il suo compito di mantenimento dell'ordine, che ebbe suggello nella sconfitta dei socialisti alle elezioni amministrative del giugno-luglio.

Il 28 giugno, mentre il mondo politico italiano si divideva attorno a tali questioni, giunse da Sarajevo la notizia dell'attentato all'erede alla corona austriaca: essa venne accolta senza particolare apprensione, anzi con un certo sollievo, visto che l'arciduca Francesco Ferdinando (nipote dell'imperatore d'Austria Francesco Giuseppe) era considerato ostile all’Italia e la sua prossima successione al trono austriaco era vissuta come una potenziale minaccia per gli interessi nazionali.

In realtà lo sventurato Francesco Ferdinando era ostile all’avventura bellica e fu, semmai, la sua prematura scomparsa ad incoraggiare i “decisionisti” di Vienna a risolvere, una volta per tutte, la spina nel fianco rappresentata dal governo manifestamente ostile di Belgrado, pur non sapendo se annetterla tutta direttamente oppure sconfiggerla e poi esigere un compenso in denaro.[267] Il Kaiser Guglielmo II approvò con telegramma da Kiel del 30 giugno la scelta di dare una lezione alla Serbia.[267]

Scoppio della guerra[modifica | modifica wikitesto]

L'ultimatum austriaco alla Serbia[modifica | modifica wikitesto]

«Il Ministro degli Affari Esteri ha spontaneamente introdotto oggi la questione dell'atteggiamento italiano nell'eventualità di una guerra europea. Dato che il carattere della Triplice Alleanza è puramente difensivo; dato che le nostre misure contro la Serbia possono precipitare una conflagrazione europea; e infine, dato che non abbiamo preventivamente consultato questo governo, l'Italia non sarebbe stata obbligata a unirsi a noi nella guerra. Questo, tuttavia, non preclude l'alternativa che l'Italia possa, nell'eventualità, dover decidere per se stessa se i suoi interessi fossero serviti meglio alleandosi con noi in una operazione militare o rimanendo neutrale. Personalmente si sente più incline a favore della prima soluzione, che gli appare la più probabile, purché gli interessi italiani nella Penisola Balcanica siano salvaguardati e purché noi non cerchiamo cambiamenti che probabilmente ci daranno un predominio dannoso agli interessi italiani nei Balcani.»

Roma fu quindi sorpresa, il 23 luglio, dalla notizia che l'Austria-Ungheria aveva inviato un perentorio ultimatum alla Serbia, che sorprese tutta l'Europa per una durezza che non ammetteva repliche e la cui accettazione avrebbe significato, per la Serbia, una capitolazione senza combattere.

Salandra, e soprattutto San Giuliano, sapevano bene che la Russia e l'Austria-Ungheria coltivavano entrambe delle ambizioni verso i Balcani e ben prima dell’attentato di Sarajevo: nel 1909 Vienna aveva colto di sorpresa San Pietroburgo, uscita stremata dalla guerra russo-giapponese, con la consegna di un primo ultimatum a Belgrado, ottenendone il riconoscimento dell'annessione della Bosnia-Erzegovina alla corona austriaca (cui la Serbia si era, sino ad allora, negata). Nell’aprile del 1913, nel corso della prima guerra balcanica, aveva consegnato un secondo ultimatum per impedire l'invasione dei territori nominalmente turchi, destinati, di lì a breve, a costituire il Regno d'Albania. Nel luglio dello stesso 1913 (durante la seconda guerra balcanica) aveva progettato di intervenire a sostegno della Bulgaria, al fine di impedire a Belgrado di strapparle la Macedonia.

L'Italia e l'Austria-Ungheria erano vincolate da un trattato, la Triplice Alleanza che prevedeva, tra l'altro, anche un obbligo di reciproca informazione circa le rispettive iniziative diplomatiche. Ciò che aveva permesso all'Italia, come ricorda Benedetto Croce di opporsi, per ben due volte, ad azioni militari austriache contro la Serbia. Ma, alla terza occasione, Vienna aveva agito senza consultare e nemmeno informare il governo italiano e, con ciò stesso, aveva violato lo spirito e la lettera del patto.

Non è, quindi, che Vienna non avesse informato Roma perché la sottovalutasse (o volesse offenderne la dignità di potenza europea) ma, anzi, perché ne prevedeva una reazione negativa. Vienna aveva deciso di gettarsi in una pericolosa avventura e (ottenuto il consenso dell'Impero tedesco, il terzo alleato) non aveva alcuna intenzione di essere ostacolata da chicchessia.

A Francesco Giuseppe ed ai suoi ministri era evidente che l’azione contro la Serbia era contraria agli interessi italiani (non tanto con riguardo a Trento e Trieste, per il momento, quanto ad equilibri e compensazioni nei Balcani). Se invece in queste prime fasi che preludevano allo scontro militare il governo italiano avesse espresso il proprio sostegno, Vienna avrebbe, prima o poi, dimostrato, o per lo meno sostenuto, di aver ottenuto un preventivo consenso dal governo italiano, dall’ambasciatore o da qualunque altra autorità dotata di rappresentanza. E, quindi, non sarebbe stata tenuta a negoziare con Roma alcuna compensazione territoriale. Ma Roma se ne guardò bene. L'Austria-Ungheria, non potendo sostenere nemmeno una diversa interpretazione della Triplice, non cercò il consenso dell'Italia e tirò dritto. Si limitò, dopo l'entrata in guerra dell'Italia a fianco Francia e Gran Bretagna (maggio 1915), ad accusare l'Italia di un assai generico “tradimento”.

Semmai, il fatto che Vienna avesse rinunciato ad assicurarsi l'appoggio di Roma (o, perlomeno, la "benevola neutralità") prima di aggredire la Serbia, dimostrò che sperava ancora nella neutralità della Russia. La stessa cosa che ci si augurava a Berlino. Belgrado, d'altra parte, nei precedenti cinque anni aveva già accettato due ultimatum austriaci e non si vedeva, quindi, perché non avrebbe potuto accettarne un terzo. A sigillo di questo drammatico errore strategico, vennero subito inviate diverse centinaia di migliaia di uomini contro la Serbia, salvo rapidamente ritirarne una cospicua parte e ridirigerla verso la Russia, alla cui entrata in guerra, manifestamente, non si volle credere sino all’ultimo giorno. Tanto che la Serbia venne effettivamente occupata solo l'anno successivo e con il contributo determinante della Bulgaria.

L'allargamento del conflitto a Russia, Germania e Francia[modifica | modifica wikitesto]

Le speranze austriache per un conflitto locale si infransero assai presto, il 30 luglio 1914 con la mobilitazione generale in Russia e, il 31 luglio, con la mobilitazione generale in Austria-Ungheria. Il 1º agosto la Germania dichiarò guerra alla Russia, il 3 agosto alla Francia. Seguirono il 3 agosto l'invasione tedesca del Belgio neutrale, e la conseguente entrata in guerra della Gran Bretagna.

San Pietroburgo era intervenuta in difesa della Serbia della quale l'Austria-Ungheria era, oggettivamente, l'aggressore. L’Italia, quindi, non era affatto tenuta ad intervenire nel conflitto, dal momento che la Triplice Alleanza vincolava l'Italia ad intervenire a fianco dell'alleato austriaco unicamente nel caso di una guerra difensiva, non provocata da un membro dell'alleanza. Salandra ed il marchese di San Giuliano si comportarono di conseguenza e, il 2 agosto 1914, dichiararono la neutralità del Regno d’Italia: il giorno prima la Germania aveva dichiarato guerra alla Russia, il giorno dopo l'avrebbe dichiarata alla Francia.

Vienna e Berlino si trovavano quindi a combattere senza l'alleato italiano.

Il dilemma strategico italiano[modifica | modifica wikitesto]

All’inizio di agosto, quindi, Roma assisteva agli eventi, e valutava le alternative disponibili.

Le quattro alternative[modifica | modifica wikitesto]
  1. La prima consisteva in un ingresso nel conflitto a fianco di Vienna e Berlino. Era tuttavia chiaro che, dopo un'eventuale vittoria, l'Italia difficilmente avrebbe ottenuto adeguati compensi. Salandra disse che sarebbe divenuta, al meglio, «il primo vassallo dell’Impero». Il Re, con espressione meno colorita, scrisse (il 2 agosto agli ambasciatori a Vienna e Berlino) che «non ci sarebbe né il desiderio né l'interesse di attribuirci compensazioni adeguate per il sacrificio che sarebbe stato necessario sostenere». Il mancato preavviso circa l’ultimatum austriaco alla Serbia era lì a dimostrarlo. La questione dell'atteggiamento collaborativo dei due alleati era tanto più importante considerando che l'Italia dipendeva interamente da importazioni di materie prime dall’estero (sino al 90% del carbone, ad esempio, era importato dalla Gran Bretagna) e sarebbe stato necessario ottenere adeguate garanzie di rifornimento da Vienna e Berlino.
  2. La seconda alternativa consisteva nel mantenimento della neutralità: tale atteggiamento era soggetto ad un rischio determinante, ovvero una decisiva vittoria tedesca sul fronte francese. Eventualità, in effetti, alla quale l’avanzata di von Moltke si avvicinò moltissimo (battaglia della Marna, 6-9 settembre). San Giuliano, in ogni caso, la riteneva probabile. Il rischio era enorme in quanto, al meglio, Vienna avrebbe conservato Trento e Trieste per decenni ed imposto la propria egemonia su tutti i Balcani, chiudendo all'Italia ogni possibilità di espansione commerciale e militare. Nel caso peggiore, l'Italia avrebbe dovuto subire la «vendetta» austriaca (così si esprimeva Cadorna).
  3. La terza alternativa consisteva in una neutralità negoziata con Vienna: le conseguenza pratiche non differivano da quelle di una neutralità non negoziata ma, per lo meno, si sarebbe ottenuto il Trentino, forse qualcosa di più e, in ogni caso, un trattato da far valere in caso di vittoria tedesca.
  4. La quarta, infine, sarebbe consistita nel rivolgimento delle alleanze e nell'entrata in guerra a fianco della Triplice intesa. Tuttavia essa era subordinata al totale insuccesso di una negoziazione con Vienna: se quest’ultima non le avesse concesso nemmeno il Trentino, allora, caduto il trattato di alleanza, sarebbe occorso perseguire unicamente gli interessi nazionali e valutare cosa potessero offrire Francia, Russia ed Gran Bretagna.

Prima di assumere qualsiasi decisione, quindi, occorreva passare per i negoziati che andavano faticosamente cominciando con Vienna, riguardo alle compensazioni per l'occupazione austriaca della Serbia.

La reazione italiana all’invasione austriaca della Serbia[modifica | modifica wikitesto]

Comportandosi conseguentemente, San Giuliano non denunciò la Triplice e, pur lamentando la violazione ai patti appena subita, si limitò a richiamare Vienna e Berlino all'articolo 7: esso specificava che qualora l'Austria o l'Italia avessero occupato territorio nei Balcani, tale occupazione non doveva avere luogo se non dopo un preventivo accordo con l'altra potenza, così da compensarla. Tuttavia, seppure l'Austria si fosse accordata con l'Italia prima dell'attacco alla Serbia, il ricevimento dell'eventuale compensazione non avrebbe comunque obbligato l'Italia ad entrare in guerra al fianco dell'Austria.

Tale articolo 7 non fu presente nel trattato fino al secondo rinnovo del 1891. Esso fu inserito successivamente proprio al fine di evitare che l'Italia subisse ulteriori ingrandimenti austriaci nei Balcani. Ed era ben chiaro a tutti come esso avesse sempre costituito una delle ragioni fondamentali che avevano permesso a Roma, nei decenni, di rinnovare la Triplice Alleanza.

Per comprendere la determinazione del governo italiano, occorre considerare che in quel 1914 venivano, finalmente, al pettine tutte le principali questioni diplomatiche che avevano occupato i due Paesi dal 1866 in avanti: già nel 1875 Francesco Giuseppe, venuto a colloquio a Venezia con Vittorio Emanuele II, aveva escluso ogni discussione circa Trieste ma ammesso che, quanto a Trento, poteva venire il momento che l'Austria, in seguito all'ampliamento dei suoi domini in un'altra direzione, fosse in grado di cederla amichevolmente (nel 1910 i sudditi italiani del resto erano, ufficialmente, solo 768 422, ovvero appena l'1,5% dei 51 390 223 austro-ungarici). Fra il 29 luglio e il 20 ottobre 1878, però, Vienna aveva iniziato l'occupazione della Bosnia ed Erzegovina e nel 1909 (come abbiamo visto) l'aveva annessa senza che Roma ottenesse alcuna compensazione.

Gli Austriaci si erano anche concessi il gusto di beffare gli Italiani, sostenendo che «l'occupazione fatta nei Balcani era semplicemente un peso che l'Austria si era addossato a servigio della pace europea». Roma, nel 1914, godeva di tutt’altra posizione di forza ed intendeva, comprensibilmente, trarne vantaggio.

Tutt'altra questione riguarda la sincerità delle intenzioni italiane, nei sette mesi che vanno dall'ultimatum austriaco alla Serbia al Patto di Londra. Un segnale importante è rappresentato dal fatto che quando San Giuliano morì il 16 ottobre 1914, egli venne sostituito da Sidney Sonnino, praticamente l'unico politico italiano che si fosse espresso, nell’agosto-settembre, a favore di un intervento al fianco di Vienna e Berlino, dicendo che «le cambiali bisogna pagarle». Della serietà delle intenzioni italiane era convinto anche Benedetto Croce, il quale scriveva che: «i negoziati per l'eventuale accordo bisognava condurli... per accertarsi col fatto che la guerra fosse proprio ineluttabile» ammettendo, quindi, anzi ricercando un accordo con Vienna che consentisse il mantenimento della neutralità italiana.

I due movimenti di opposizione, inoltre, assai rappresentativi ancorché minoritari, erano decisamente contrari all’intervento: i socialisti perché ormai appiattiti sulle posizioni della sinistra massimalista (al contrario degli omologhi tedeschi), i cattolici perché appiattiti sulla posizione del Vaticano, il quale non poteva certo incoraggiare alcun'azione ostile nei confronti dell'ultima grande potenza cattolica, l'Austria-Ungheria, che sempre aveva offerto grandi servigi alla difesa ed alla diffusione della fede (per quegli anni basti pensare alla Bosnia ed Erzegovina).

Ma i militari andarono anche più in là, come dimostra la nota con cui, il 31 luglio, il capo di Stato Maggiore italiano Luigi Cadorna annunciò a Salandra l'intenzione di inviare non già tre (come previsto dalla lettera della Triplice), ma cinque corpi d'armata sul fronte del Reno a sostegno dell'offensiva tedesca contro la Francia, mentre il generale Garioni a Tripoli aveva predisposto i suoi piani per l'invasione della Tunisia.

Negoziati colle potenze europee[modifica | modifica wikitesto]

Il primo round di negoziati[modifica | modifica wikitesto]

San Giuliano presentò la propria posizione a Vienna e Berlino sin dall’agosto. Non risultano proposte formali, anche perché Vienna rispose che non avrebbe accettato alcuna discussione su qualsiasi compensazione se l'Italia non fosse prima entrata nel conflitto. Quindi Roma doveva considerare la dichiarazione di guerra russa all'Austria-Ungheria come un casus foederis.

Ma tale posizione era contraria al trattato, irrealistica e controproducente, rispetto al vantaggio (per Vienna talmente evidente) di tenere l'Italia fuori dal conflitto, che esso può essere spiegato unicamente con la speranza di Vienna di chiudere rapidamente, e con vantaggio, il conflitto.

Non si trattava di un calcolo errato, come dimostrarono le grandiose vittorie tedesche sui russi a Tannenberg (26-30 agosto 1914) ed ai laghi Masuri (6-15 settembre 1914), e il successo dell'avanzata tedesca attraverso il Belgio e la Francia settentrionale. Ma poi venne la vittoria francese alla battaglia della Marna (6-9 settembre), che salvò Parigi e fece retrocedere gli invasori di parecchie decine di chilometri e il fallimento della "Corsa al mare" tedesca (Prima battaglia di Ypres 10-11 novembre).

San Giuliano ne concluse che la guerra sarebbe durata ancora a lungo e che Roma godeva del tempo necessario per ottenere da Vienna quanto le spettava ai sensi della Triplice, e per preparare l'esercito alla bisogna.

La cattiva preparazione dell’esercito[modifica | modifica wikitesto]

Al momento l'Esercito Italiano non era in grado di entrare nel conflitto in tempi brevi, indipendentemente da quale decisione il governo avesse preso fra le alternative disponibili. L'Italia aveva combattuto la terza guerra di indipendenza in condizioni di superiorità sull'esercito austriaco, unicamente perché più di metà di esso era impegnato in Boemia contro i prussiani.

Almeno dal 1910, tuttavia, l’Austria-Ungheria aveva dato avvio ad un massiccio programma di riarmo, che rendeva evidente la condizione di inferiorità italiana (+ 78% per l'Italia contro + 180% per Vienna); inferiorità che risultava aggravata dalla sfavorevole conformazione dei confini veneti, che lasciavano agli austriaci il controllo di gran parte delle prealpi italiane affacciate sulla pianura veneta. Ad essa aveva cercato di rimediare il programma di fortificazione avviato, ma mai completato, dai generali che si erano succeduti a capo dello Stato Maggiore (Enrico Cosenz e Alberto Pollio principalmente).

A ciò si aggiunga che, dal 1912, non si erano risparmiati mezzi per la guerra italo-turca e la successiva campagna di “pacificazione” della Libia, ove la guerriglia arabo-turca era ben lontana dall’essere sedata. Colà erano ancora stanziati circa 60 000 uomini, oltre ai 20 000 in Eritrea e Somalia.

Il nuovo capo di Stato Maggiore, Luigi Cadorna, nominato solo il 27 luglio 1914, un mese dopo la morte per infarto del predecessore Pollio, denunciava l'assoluta mancanza degli equipaggiamenti invernali, la mancanza di un parco d’assedio e di bombe a mano, la carenza di mezzi di trasporto, mitragliatrici, artiglieria campale e cesoie per i reticolati. La mobilitazione generale avrebbe richiesto la formazione di almeno 14 000 ufficiali, tutti ancora da reclutare. Assai migliore appariva la situazione della flotta, ma solo in caso di conflitto con l'Austria-Ungheria, dal momento che, in quegli anni, nessuna potenza marittima poteva rivaleggiare con la flotta inglese.

La situazione era ben nota al ceto dirigente. Tanto che Giolitti espresse sino alla vigilia dell’entrata in guerra il proprio suggerimento di perseguire ad libitum negoziati con Vienna e Berlino, utili o inutili che fossero. Il suo principale punto di obiezione era, appunto, costituito dallo stato di preparazione dell’esercito, che riteneva decisamente insufficiente. Egli aveva, inoltre, maturato un profondo scetticismo nel corso della guerra italo-turca per la quale il suo governo non aveva certo lesinato i mezzi. In quei giorni egli ebbe a dichiarare «ma quale guerra! Se non abbiamo nemmeno un generale che valga una lira!».

Antonio Salandra e Luigi Cadorna, nel frattempo, provvedevano agli approvvigionamenti necessari e fecero sicuramente tutto il possibile ma, come i primi anni di guerra dimostrarono, non fu abbastanza.

L’ingresso in guerra della Turchia e l’occupazione italiana di Valona[modifica | modifica wikitesto]

Nel frattempo gli avvenimenti precipitavano: il 29 ottobre la Turchia entrava in guerra a fianco di Germania ed Austria-Ungheria. Si trattò di un passaggio decisivo per chiarire i reali margini di negoziazione dell'Italia, ai sensi del famoso articolo 7: negli anni precedenti, infatti, Vienna aveva, a volte, immaginato di compensare le pretese italiane riguardo a Trento e Trieste con vaghe proposte in Medio Oriente. Un po' come Bismarck aveva compensato le pretese francesi sull’Alsazia-Lorena, appoggiandone l’espansione in Africa: si trattava, come sempre, di «offrire quel che non gli apparteneva e che stimava indifferente per gli interessi tedeschi».

Già Benedetto Croce diceva che si trattava di una «astuzia troppo grossolana da dovervi cader dentro, se proprio la necessità non vi ci avesse spinto». Ed in effetti Roma aveva ripetutamente rifiutato tali abboccamenti, la prima volta già nel 1877, quando Bismarck offrì a Francesco Crispi, in compensazione dell'occupazione austriaca della Bosnia ed Erzegovina, guadagni in Albania. Ma Roma chiese, sempre e solo, Trento e Trieste, che considerava sue per diritto di nazionalità. La scena si ripeté un anno più tardi, al Congresso di Berlino del giugno-luglio 1878.

Ora, con la Turchia alleata di Berlino e Vienna e tutta l'Africa già spartita fra le potenze europee, null’altro restava da offrire all'Italia se non territori francesi (Nizza, la Corsica o Tunisi) o inglesi (Malta) che, per definizione, non costituivano compensazioni bensì eventuali prede di guerra e, comunque, avrebbero richiesto la rinuncia alla neutralità. L'eventuale negoziato circa le compensazioni si riduceva, ora e finalmente, ai territori austriaci e le carte andavano scoperte.

In tale contesto va interpretato l'intervento che Salandra condusse, sei giorni prima dell'ingresso nel conflitto della Turchia, nel porto di Valona: l'Albania, infatti, era precipitata nell'anarchia dopo la fuga in Italia del principe Guglielmo di Wied, il 3 settembre, venuto a contrasto con Essad Pascià; il principe era il primo sovrano del nuovo stato albanese, indipendente solo dalla pace di Bucarest dell’agosto 1913 che aveva messo fine alla seconda guerra balcanica. Lo stato albanese era nato proprio per la volontà dell'Italia di impedire alla Serbia l’accesso all'Adriatico, concorde, per una volta, con Vienna.

La caduta del fragile sovrano, quindi, esponeva il piccolo stato alle rinnovate mire dei vicini: principalmente Grecia e Serbia. Salandra reagì inviando a Valona una “missione sanitaria”, sbarcata il 23 ottobre protetta da fanti di marina, e da una squadra navale che rimase ad incrociare nelle acque albanesi. Lo sbarco era stato preceduto, il 21 ottobre, dall'occupazione dell'isola di Saseno, che domina l’imboccatura del porto. Stante la precedente volontà austriaca di garantire l'indipendenza del piccolo Stato, Salandra poté agevolmente sostenere che non si trattava di un'azione ostile nei confronti degli interessi asburgici.

Gli accordi con la Romania[modifica | modifica wikitesto]

L’ultimo atto del ministero San Giuliano fu la sottoscrizione di un accordo con la Romania che impegnava i due Paesi ad un preavviso di almeno otto giorni prima di un eventuale abbandono della neutralità.

Bucarest si trovava, infatti, in una posizione simile a quella italiana, in quanto nazione latina, neutrale ma interessata a territori appartenenti all'Austria-Ungheria, associata alla Triplice sin dal 1883, un anno dopo l’Italia. Le sue ambizioni erano, infine, potenzialmente in conflitto con le rivendicazioni della Serbia, proprio come era per l'Italia.

La Romania, tuttavia, sarebbe entrata in guerra dalla parte dell'Intesa solo il 27 agosto 1916: agli effetti pratici, quindi, tale accordo ebbe come unico effetto quello di accrescere il potere negoziale italiano alle trattative con l'Intesa.

Il rafforzamento del governo Salandra[modifica | modifica wikitesto]

San Giuliano morì il 16 ottobre 1914 e il portafoglio passò ad interim a Salandra.

Alla fine di ottobre, Salandra predispose uno stanziamento straordinario di 600 milioni, per accelerare la preparazione di esercito e marina. Il ministro del Tesoro Rubini, neutralista, chiese (tra l’ingenuo e lo strumentale) nuove imposte per compensare quello stanziamento e ne ottenne un invito a dimettersi, cosa che fece il 30 ottobre. Il ministro della guerra Grandi si era dimesso per disaccordi con il capo di Stato Maggiore Cadorna, e venne sostituito il 10 ottobre dal generale Zupelli. Il ministro della Marina Millo si era dimesso per motivo di salute, e fu sostituito il 13 luglio dal viceammiraglio Viale.

Tutto ciò impose un rimpasto di governo: Sonnino divenne ministro degli esteri e Carcano ministro del Tesoro. Salandra disponeva, adesso, di un gabinetto più disposto ai preparativi bellici.

Salandra ricevette l'incarico il 2 novembre, e venne presentato alla Camera il 3 dicembre. Qui dichiarò che «l'Italia deve organizzarsi e munirsi, quanto più le sia consentito e col massimo vigore possibile, per non rimanere essa stessa prima o poi sopraffatta», e venne messo in votazione un conseguente ordine del giorno. La Camera approvò con 433 voti a favore e 49 contro; il Senato, il 15 dicembre, all'unanimità.

Le negoziazioni con l'Austria-Ungheria[modifica | modifica wikitesto]

Nel frattempo, i russi avevano iniziato una “offensiva d'inverno” in Galizia, con gli austriaci che riuscivano solo ad arrestarne le avanguardie con una battaglia di contenimento a Limanova il 17 dicembre, ma non a sgombrare le vaste zone perdute.

L'11 dicembre, Sonnino ritenne maturi i tempi per tornare a far presente al conte Berchtold (ministro degli esteri austro-ungarico dal 1912), il disposto dell'articolo 7 dei patti della Triplice Alleanza ed il conseguente diritto italiano a compensi. Chiedeva, quindi, il sollecito avvio di negoziati. Berchtold aveva risposto che l'avanzata in Serbia non costituiva ancora, formalmente, un'occupazione e che solo la sua stabilizzazione avrebbe portato all’avvio di negoziati.

Si trattava, chiaramente, di argomenti di lana caprina e come tali vennero accolti a Roma e, soprattutto, a Berlino, da dove, peraltro, il 16 dicembre era giunto a Roma come ambasciatore un pezzo da novanta come l'ex cancelliere von Bülow. Berlino non contava certo su un intervento italiano, ma intendeva garantirsi del mantenimento della neutralità italiana, al fine di salvaguardare i cospicui interessi economici e finanziari tedeschi nella penisola e il rifornimento di generi alimentari e bellici.

Berchtold fu, quindi, indotto ad ammorbidirsi, proponendo, verso il 20 dicembre, di riconoscere l’occupazione italiana del Dodecaneso (risalente al 1912), di rendere permanente quella di Valona e di rinunciare ad ogni ulteriore offensiva nei Balcani. Ma rifiutò ogni discussione circa il Trentino, pure in presenza di una generica proposta tedesca di contro-compensare Vienna con un pezzetto di Slesia.

Sonnino concluse questo round di negoziati rendendo chiaro che tali concessioni erano insufficienti e che, senza il Trentino, Roma non si sarebbe ritenuta soddisfatta. Le proposte austriache erano tali, tuttavia, da convincere Salandra a sostituire la “missione sanitaria” a Valona con reparti dell’esercito, sbarcati il 29 dicembre (dai 300 fanti di marina di ottobre si passò a circa 6 800 soldati a gennaio). Ma quello che l’Italia voleva era Trento, non Tirana e, il 7 gennaio Sonnino fece ribadire a Vienna che l’Italia avrebbe accettato unicamente territori austriaci.

L'arrivo di von Bülow e le pressioni tedesche[modifica | modifica wikitesto]
Palazzo della Ballhausplatz, già sede del Congresso di Vienna e oggi sede del ministero degli esteri austriaco

In questo periodo, il principale referente di Salandra e del Re fu Bülow, il quale era ben conscio che le aspirazioni italiane su Trento e Trieste rappresentavano la base indispensabile di ogni negoziato. Non occorreva, tuttavia, accettarle tutte: Trieste, in particolare, era non solo il primo porto dell’Austria-Ungheria, ma anche uno sbocco capitale per la Germania. L'ambasciatore tedesco suggeriva, quindi, che l'Italia doveva accontentarsi del Trentino e pretendere, per Trieste, «una certa autonomia e l'incremento del suo carattere nazionale» (è probabile che la cosa si sarebbe risolta nella costituzione di una, già assai agognata, Università Italiana).

Von Bülow ebbe la possibilità di presentare le proprie proposte presso tutte le persone necessarie: vide Giolitti il 20 dicembre, Sonnino il 29 dicembre, il Re il 30 dicembre. L'ambasciatore tedesco ripeté le proprie rassicurazioni anche pochi giorni dopo, quando giunse notizia che al ministero degli esteri di Vienna (soprannominata la "Ballhausplatz") Berchtold era stato sostituito dall’ungherese István Burian, il 13 gennaio 1915.

Von Bülow, in definitiva, aveva ben svolto il proprio compito, tanto da spingere, lo stesso Giolitti a procurare la pubblicazione sulla Tribuna di Roma, di una lettera redatta il 24 gennaio 1915, nella quale affermava: «potrebbe essere, e non apparirebbe improbabile, che, nelle attuali condizioni dell'Europa, parecchio - Giolitti aveva scritto “molto” - possa ottenersi senza una guerra; ma su questo, chi non è al Governo, non ha elementi per un giudizio completo». Si trattava, in pratica, della ratifica della linea von Bülow.

Il rifiuto austriaco a seri negoziati[modifica | modifica wikitesto]

Infatti, il 12 febbraio, Roma e Vienna ripresero le trattative, ma Burian assunse una posizione assai rigida, rifiutò ogni discussione preliminare circa il Trentino, giungendo a rinnegare le concessioni del suo predecessore, circa l'occupazione italiana di Valona e del Dodecaneso.

Tutto ciò indebolì fortemente la credibilità della posizione mediatrice tedesca, e dei politici italiani che si erano spesi per una (utile e compensata) neutralità. Ad esempio Giolitti venne largamente irriso per il suo “parecchio” della lettera del 24 gennaio. L’Italia aveva concesso moltissimo: Vienna avrebbe ottenuto Belgrado, mentre Roma si sarebbe contentata della sola Trento, restando insoluta la questione delle province, parzialmente italiane, della Venezia-Giulia e della Dalmazia. E ciò nonostante che tale compromesso avrebbe scontentato vaste fasce della popolazione, rappresentando la pietra tombale sulla carriera dei politici coinvolti.

A peggiorare le cose v’era la risolutezza del voltafaccia austriaco: determinato al punto da contraddire i pressanti suggerimenti di Berlino e sostenuto dallo stato maggiore e dall'imperatore in prima persona. La principale preoccupazione di Salandra e del Re divenne, improvvisamente, una possibile guerra preventiva da parte dell’Austria-Ungheria, la quale teneva, da sempre, ben presidiati i propri confini.

Che lo stato maggiore austriaco brulicasse di “italofobi” era ben chiaro a tutti: nel 1909 il generale Conrad, capo di Stato Maggiore generale austriaco dal 18 novembre 1906, aveva proposto di profittare del terremoto di Messina per condurre una facile “guerra preventiva” contro l’Italia e, nel dicembre 1911, nel corso della guerra italo-turca, per un simile suggerimento dovette essere temporaneamente destituito. Ma, in quel 1914, Conrad era ben saldo in sella come capo di Stato Maggiore e le sue sparate avevano sempre espresso gli umori profondi di larga parte della classe politica austro-ungherese. Come, d’altra parte, dimostrava proprio in quei mesi l’atteggiamento assai rigido dell’Imperatore.

Un estremo tentativo di accordo si ebbe solo a partire dall’8 marzo 1915: l’inizio delle operazioni che avrebbero portato allo sbarco franco-inglese a Gallipoli e la continuazione dell’avanzata russa in Galizia (due settimane più tardi sarebbe caduta Przemysl, l’ultima fortezza austriaca in Galizia) avevano, infine, indotto il Burian a concedere una parte del Trentino, compresa Trento, ma non prima della fine della guerra: tali condizioni erano, chiaramente, inaccettabili per l’Italia.

Si trattava, per entrambe le parti, solo di guadagnare tempo.

Il Patto di Londra[modifica | modifica wikitesto]

Sonnino rispose alle provocatorie profferte austriache con un'uguale provocazione: egli richiese oltre all’intero Trentino anche Trieste ed il basso Isonzo. Si sentiva, infatti, le spalle coperte: l’avanzata russa in Galizia proseguiva e, il 4 marzo 1915, l’Italia aveva presentato le proprie richieste alle potenze dell’Intesa: la difficoltà maggiore era rappresentata dalle pretese circa il controllo della Dalmazia e lo status di Valona, oggetto, anche, delle richieste della Serbia, sostenuta dalla Russia per solidarietà etnica, e della Gran Bretagna per questioni di controllo navale.

Sin dal settembre 1914 l’Intesa aveva offerto a San Giuliano Trento, Trieste (ma non la Venezia Giulia) e Valona. Il ministro italiano richiese Trentino, Venezia Giulia, l'internazionalizzazione di Valona (ovvero l’autonomia dell’Albania), il disarmo della flotta austriaca, una parte dei possedimenti turchi e, in generale, un'equa ripartizione di qualsivoglia indennità di guerra fosse stato possibile ottenere al termine del conflitto.

Le discussioni accelerarono con l’inizio delle operazioni che avrebbero portato allo sbarco franco-inglese a Gallipoli; il 4 marzo l’Italia presentò le proprie nuove richieste all’Intesa: Trento, Bolzano, Trieste e l’Isonzo, tutta la Dalmazia e Valona.

Nelle settimane successive la posizione italiana fu prima indebolita dalla caduta di Przemysl poi rafforzata dalle difficoltà incontrate nel corso delle operazioni a Gallipoli.

Le trattative proseguirono, quindi, celermente ed il 16 aprile venne raggiunto un accordo circa le compensazioni territoriali: l’Italia si contentò di Zara e Sebenico, rinunciando a Spalato e Fiume, ma ebbe promesso non solo Trento, Trieste e l'Isonzo, ma pure Bolzano, con i “confini naturali”. Si aggiungevano Valona e vaghe promesse riguardo a concessioni a sud di Smirne, di fronte al Dodecaneso. Restava da regolare la data dell’entrata in guerra, che venne poi fissata entro un mese dalla firma dell’alleanza, ciò che permise la sottoscrizione del trattato: il Patto di Londra venne sottoscritto il 26 aprile.

Conseguentemente, e non banalmente, il 4 maggio Sonnino comunicò a Vienna la nullità dell’alleanza. Ciò ancorché l'esistenza del patto rimanesse segreta.

Il nuovo governo Salandra e l’entrata in guerra[modifica | modifica wikitesto]

«Cittadini e soldati, siate un esercito solo! Ogni viltà è tradimento, ogni discordia è tradimento, ogni recriminazione è tradimento.»

A quel punto Giolitti si recò a Roma ed espresse a Salandra ed al re il proprio suggerimento di continuare i negoziati con Vienna e Berlino. Il principale punto di obiezione era costituito dallo stato di preparazione dell’esercito. Nel frattempo von Bülow, del tutto indipendentemente dal Giolitti tentava di influenzare l’opinione pubblica.

Così il 3 maggio, l'Italia si disimpegnò dalla Triplice Alleanza, mentre i nazionalisti manifestavano in piazza per l'entrata in guerra[268], i parlamentari neutralisti ricevettero minacce e intimidazioni, (lo stesso Giolitti dovette assumere una scorta). Il 13 maggio Salandra presentò al Re le dimissioni; Giolitti, nel timore di approfondire una grossa frattura all'interno del paese, di provocare una crisi istituzionale di larga portata e di compromettere il paese all'esterno, rinunciò alla successione e fece in modo in sostanza che l'incarico venisse conferito nuovamente a Salandra. L'Italia entrò perciò in guerra per volontà di un gruppo di relativa minoranza, chiamando a combattere i militari lungo più di 750 chilometri di fronte, che andavano dal Mare Adriatico al confine svizzero.

Il prestigio di Giolitti era enorme, assai superiore a quello di Salandra, e quest’ultimo si sentì obbligato a presentare, il 13 maggio, le dimissioni del governo, contando di riottenere un incarico. Vittorio Emanuele III si rivolse a Giolitti, che rifiutò, poiché finalmente informato del Patto di Londra (inizialmente non ne fu informato nemmeno Cadorna) ma, soprattutto e da politico di razza, per evitare che «il suo avvento facesse cadere, almeno per il momento, la minaccia di guerra e imbaldanzisse l’Austria». Si disse anche che il Re avesse pure minacciato di abdicare a favore del cugino, il duca d'Aosta, ma la cosa è appare assai improbabile ed assomiglia, piuttosto, ad un pettegolezzo o, al massimo, ad uno sfogo umorale.

Il Re si rivolse, quindi, a Marcora, a Boselli e a Carcano. Tutti e tre erano a favore dell’intervento e il comasco Carcano aveva addirittura sostituito Rubini. Ma nessuno aveva un ascendente politico maggiore di quello di Salandra e tutti rifiutarono, suggerendo un reincarico, intervenuto, in effetti, il 16 maggio. Nel frattempo si assisteva a grandi manifestazioni interventiste nelle città del nord, che avevano fortemente rinforzato il partito della guerra.

I risultati non tardarono a manifestarsi: il 20 maggio il parlamento approvò facilmente i crediti di guerra, con Giolitti assente al momento della votazione. Il 23 maggio venne presentata la dichiarazione di guerra alla sola Austria-Ungheria, con effetto dal 24 maggio successivo.

1915[modifica | modifica wikitesto]

Lo Stato italiano decise di entrare in guerra il 24 maggio 1915.

L'Isonzo vicino a Caporetto

Il comando dell'esercito venne affidato al generale Luigi Cadorna, che aveva come obiettivo il raggiungimento di Vienna passando per Lubiana[269]. All'alba del 24 maggio il Regio Esercito sparò il primo colpo di cannone contro le postazioni austro-ungariche asserragliate a Cervignano del Friuli che, poche ore più tardi, divenne la prima città conquistata. All'alba dello stesso giorno la flotta austro-ungarica bombardò la stazione ferroviaria di Manfredonia; alle 23:56, bombardò Ancona. Lo stesso 24 maggio cadde il primo soldato italiano, Riccardo Di Giusto.

Il comando delle forze armate italiane fu affidato al generale Luigi Cadorna. Il fronte aperto dall'Italia ebbe come teatro le Alpi, dallo Stelvio al mare Adriatico. Lo sforzo principale per sfondare il fronte fu concentrato nella regione delle valli Isonzo, in direzione di Lubiana. Dopo un'iniziale avanzata italiana, gli austro-ungarici ricevettero l'ordine di trincerarsi e resistere. Si arrivò così a una guerra posizione simile a quella che si stava svolgendo sul fronte occidentale: l'unica differenza consisteva nel fatto che, mentre sul fronte occidentale le trincee erano scavate nel fango, sul fronte italiano erano scavate nelle rocce e nei ghiacciai delle Alpi fino ed oltre i 3.000 metri di altitudine. Nelle ultime battaglie dell'Isonzo, combattute alla fine del 1915, le perdite italiane ammontarono a oltre 60.000 morti e più di 150.000 feriti, equivalenti a circa un quarto delle forze mobilitate.

1916[modifica | modifica wikitesto]

La cartolina di un soldato al fronte alla famiglia

L'inizio del 1916 fu caratterizzato dalla quinta battaglia dell'Isonzo che non portò ad nessun risultato. In scontri che seguirono gli austro-ungarici sfondarono in Trentino, occupando l'altopiano di Asiago. Questa offensiva fu fermata a fatica dall'Esercito italiano che reagì con una controffensiva respingendo il nemico fino all'altopiano del Carso. Lo scontro fu chiamato battaglia degli Altipiani.

Il 4 agosto 1916 fu conquistata Gorizia che, pur non essendo di importanza strategica, fu presa a caro prezzo (20.000 morti e 50.000 feriti). Anche le ultime tre battaglie combattute nell'anno non portarono a nessun guadagno strategico a fronte però di 37.000 morti e 88.000 feriti.

Oltre la conquista di Gorizia, l'unico guadagno territoriale fu l'avanzamento del fronte di qualche chilometro in Trentino.

1917[modifica | modifica wikitesto]

Un bastione eretto durante la guerra nei pressi di Plezzo

Il 18 agosto 1917 iniziò la più imponente offensiva italiana nel conflitto, con 600 battaglioni e 5.200 pezzi d'artiglieria (a fronte, rispettivamente dei 250 e 2.200 austriaci). Nonostante lo sforzo la battaglia non portò a nessun acquisto territoriale né tantomeno alla conquista di postazioni strategie. Ingente fu il prezzo pagato con il sangue (30.000 morti, 110.000 feriti e 20.000 tra dispersi o prigionieri).

Nell'ottobre 1917 la Russia abbandonò il conflitto a causa della rivoluzione comunista. Le truppe degli Imperi centrali furono spostate dal fronte orientale a quello occidentale.

Visti gli esiti dell'ultima offensiva italiana e i rinforzi provenienti dal fronte orientale, austro-ungarici e tedeschi decisero di tentare l'avanzata.

Il 24 ottobre gli austro-ungarici e i tedeschi ruppero il fronte convergendo su Caporetto e accerchiarono la 2a Armata comandato dal generale Luigi Capello. Il generale Capello e Luigi Cadorna da tempo avevano il sospetto di un probabile attacco, ma sottovalutarono le notizie e l'effettiva capacità offensiva delle forze nemiche. Gli austriaci avanzarono per 150 km in direzione sud-ovest raggiungendo Udine in soli quattro giorni. L'unica armata che resistette al disastro[270] fu la 3a, guidata da Emanuele Filiberto di Savoia, cugino di Re Vittorio Emanuele III.

Mappa dell'avanzata austro-ungarica tedesca in seguito alla rotta italiana

La rottura del fronte di Caporetto provocò il crollo delle postazioni italiane lungo l'Isonzo, con la ritirata delle armate schierate dall'Adriatico fino alla Valsugana, in Trentino. I 350.000 soldati dislocati lungo il fronte si diedero a una ritirata disordinata assieme a 400.000 civili che scappavano dalle zone invase. Ingenti furono le perdite di materiale bellico. Inizialmente si tentò di fermare il ripiegamento portando il nuovo fronte lungo il fiume Tagliamento, con scarso successo, poi al fiume Piave, dove, l'11 novembre 1917, la ritirata ebbe fine anche grazie al diniego di Re Vittorio Emanuele III alla proposta di indietreggiare fino al Mincio.

A seguito della disfatta, il generale Cadorna, nel comunicato emesso il 29 ottobre 1917, indicò, in modo errato e strumentale «la mancata resistenza di reparti della II armata» come la motivazione dello sfondamento del fronte da parte dell'esercito austro-ungarico. In seguito Cadorna, invitato a far parte della Conferenza interalleata a Versailles, venne sostituito dal generale Armando Diaz, l'8 novembre 1917, dopo che la ritirata si stabilizzò definitivamente sulla linea del Monte Grappa e del Piave.

La disfatta portò alcune conseguenze: Cadorna venne rimosso dall'incarico e sostituito dal maresciallo Armando Diaz nel ruolo di capo di stato maggiore. Oltre a Cadorna perse il posto anche il generale Luigi Capello, ritenuto principale responsabile della sconfitta. Un altro effetto della disfatta l'elevato malcontento nelle truppe. I disordini furono frequenti, e molti si concludevano con sommarie fucilazioni.

1918[modifica | modifica wikitesto]

Schema della Battaglia di Vittorio Veneto nel 1918 risultata decisiva per la vittoria italiana nella guerra

La severa disciplina di Cadorna, i lunghi mesi in trincea e il disastro di Caporetto avevano fiaccato l'esercito. Per i militari più religiosi furono anche determinanti le parole di papa Benedetto XV sull'”inutile strage”. Diaz, per fronteggiare questi problemi e per raggiungere la vittoria, cambiò completamente strategia. Innanzitutto alleggerì la disciplina ferrea. Secondariamente, essendo il nuovo fronte meglio difendibile di quello lungo l'Isonzo, puntò ad azioni mirate alla difesa del territorio nazionale, piuttosto che a sterili ma sanguinosi contrattacchi. Ciò il compattamento delle truppe e della nazione, presupposto per la vittoria finale. Già nel 1917 furono chiamata alle armi la classe dei nati nel 1899 (i cosiddetti “Ragazzi del '99”).

Gli austro-ungarici fermarono gli attacchi in attesa della primavera del 1918, preparando un'offensiva che li avrebbe dovuti portare a penetrare nella pianura veneta.

L'offensiva austro-ungarica arrivò il 15 giugno: l'esercito dell'Impero attaccò con 66 divisioni nella battaglia del solstizio (15 - 23 giugno 1918), che vide gli italiani resistere all'assalto. Gli austro-ungarici persero le loro speranze, visto che il paese era ormai a un passo dal tracollo, assillato dall'impossibilità di continuare a sostenere lo sforzo bellico sul piano economico e su quello sociale, data l'incapacità dello Stato di farsi garante dell'integrità dello Stato multinazionale asburgico. Con i popoli dell'impero asburgico sull'orlo della rivoluzione, l'Italia anticipò di un anno l'offensiva prevista per il 1919 per impegnare le riserve austro-ungariche ed impedire loro la prosecuzione dell'offensiva sul fronte francese.

«La guerra contro l'Austria-Ungheria che, sotto l'alta guida di S. M. il Re Duce Supremo, l'Esercito italiano, inferiore per numero e per mezzi, iniziò il 24 maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace valore condusse ininterrotta ed asprissima per 41 mesi, è vinta. [...]
I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo, risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza.»

Da Vittorio Veneto, il 23 ottobre partì l'offensiva, con condizioni climatiche pessime. Gli italiani avanzarono rapidamente in Veneto, Friuli e Cadore e il 29 ottobre l'Austria-Ungheria si arrese. Il 3 novembre, a Villa Giusti, presso Padova l'esercito dell'Impero firmò l'armistizio; i soldati italiani entrarono a Trento mentre i bersaglieri sbarcarono a Trieste, chiamati dal locale comitato di salute pubblica, che però aveva richiesto lo sbarco di truppe dell'Intesa. Il giorno seguente, mentre il generale Armando Diaz annunciava la vittoria, venivano occupate Rovigno, Parenzo, Zara, Lissa e Fiume. Quest'ultima pur non prevista tra i territori nei quali sarebbero state inviate forze italiane venne occupata, come previsto da alcune clausole dell'Armistizio, in seguito agli eventi del 30 ottobre 1918 quando il Consiglio Nazionale, insediatosi nel municipio dopo la fuga degli ungheresi, aveva proclamato, sulla base dei principi wilsoniani, l'unione della città all'Italia.

L'esercito italiano forzò comunque la linea del Trattato di Londra intendendo occupare anche Lubiana, ma fu fermato poco oltre Postumia dalle truppe serbe. I cinque reparti della Marina entravano a Pola. Il giorno seguente venivano inviati altri mezzi a Sebenico che diventava la sede principale del Governo Militare della Dalmazia.

L'ultimo caduto italiano è stato il caporal maggiore Giuseppe Pezzarossa di 19 anni appartenente alla 1º Sezione Mantova, colpito da una pallottola in fronte alle ore 15 del 30 ottobre 1918 a sud di Udine. Questo triste primato è conteso da Attilio Del Gobbo che, a vent'anni, cadde sotto il fuoco dell'esercito austroungarico in ritirata, la mattina del 4 novembre mentre si dirigeva da Feletto Umberto (Tavagnacco) verso Udine sventolando il tricolore per accogliere le truppe italiane arrivate in città. Secondo lo storico Giuseppe Del Bianco, Udine ha quindi dato la prima (Riccardo Di Giusto) e l'ultima vittima della prima guerra mondiale.[271]

L'esito del conflitto[modifica | modifica wikitesto]

L'Italia completò la sua riunificazione nazionale acquisendo il Trentino-Alto Adige, la Venezia Giulia, l'Istria ed alcuni territori del Friuli ancora irredenti. Queste regioni avevano fatto parte, fino ad allora, della Cisleitania nell'ambito dell'Impero austro-ungarico (ad eccezione della città di Fiume, incorporata nel Regno d'Italia nel 1924 e posta in Transleitania).

L'Italia nel 1924, con le province di Fiume, di Pola e di Zara

Inoltre al Regno d'Italia furono assegnate alcune compensazioni territoriali in Africa, come l'Oltregiuba in Somalia.

Ma il prezzo fu altissimo: 651.010 soldati, 589.000 civili per un totale 1.240.000 morti su di una popolazione di soli 36 milioni, con la più alta mortalità nella fascia di età compresa tra 20 e 24 anni.[272][273][274]

Le conseguenze sociali ed economiche furono pesantissime: l'Italia con la sua economia basata sull'agricoltura perse una grossa fetta della sua forza-lavoro causando la rovina di moltissime famiglie.

Tuttavia, l'Italia non vide riconosciuti i diritti territoriali acquisiti sulla Dalmazia con l'intervento a fianco degli alleati: in base al Patto di Londra con cui aveva negoziato la propria entrata in guerra, l'Italia avrebbe dovuto ottenere la Dalmazia settentrionale incluse le città di Zara, Sebenico e Tenin.

Infatti, in base al principio della nazionalità propugnato dal presidente americano Thomas Woodrow Wilson, la Dalmazia venne annessa al neocostituito Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni, con l'eccezione di Zara (a maggioranza italiana) e dell'isola di Lagosta, che con altre tre isole vennero annesse all'Italia.

Questo rifiuto degli Alleati di mantenere gli impegni sottoscritti nel Patto di Londra creò numerose tensioni nella politica italiana del primo dopoguerra, ed uno dei maggiori beneficiati fu Benito Mussolini con il suo "Fascismo".

Il Fascismo[modifica | modifica wikitesto]

Le origini e il primo dopoguerra[modifica | modifica wikitesto]

Il caporale Mussolini sul Carso

All'indomani della Grande Guerra l'Italia si trovò in una situazione economica, politica e sociale precaria e difficile. Il drammatico conto presentato dalla guerra in termini di perdite umane fu pesantissimo, con oltre 650.000 caduti e circa un milione e mezzo tra mutilati, feriti e dispersi, senza contare le distruzioni occorse nel Nord-Est del Paese, divenuto fronte bellico, con il dislocamento e, sovente, la perdita della casa di ogni bene da parte di centinaia di migliaia di profughi che erano fuggite dalle loro case trovatesi nel mezzo di assalti e bombardamenti.

Il sorgere del Regno di Jugoslavia alle frontiere orientali pose una pesante e decisiva pietra tombale sui sogni di riunificazione nazionale italiana, con l'acquisizione dei territori promessi ed inclusi nel Patto di Londra: gli altri Alleati si erano appoggiati alle proposte del presidente USA Woodrow Wilson per assegnare al Regno di Jugoslavia stesso (in slavo SHS, Srbija-Hrvatska-Slovenija) la Dalmazia, Fiume (che secondo il trattato del 1915 sarebbe dovuto restare all'Austria-Ungheria o, in subordine, ad un piccolo Stato croato) e l'Istria Orientale. La città di Fiume - dal canto suo - aveva espresso fin dagli ultimi fuochi della guerra la volontà di essere riunita all'Italia, ponendo così il governo di Roma nell'imbarazzo di dover accettare i voti della cittadinanza fiumana e contemporaneamente entrare in urto con Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti d'America e - ovviamente - Regno jugoslavo. Infine, nonostante la fine delle ostilità con gli Imperi centrali, l'Italia restava coinvolta nella guerra in Albania, dai contorni incerti e dagli obiettivi ancora più incerti, mentre il Montenegro, stato vincitore della guerra e col quale l'Italia per motivi dinastici e strategici intratteneva rapporti privilegiati, veniva annesso alla Jugoslavia con il consenso delle altre potenze alleate, ciò che venne recepito come un'altra grave ferita alla politica adriatica italiana.

Alla situazione politica internazionale difficile, faceva da contraltare una situazione economica interna drammatica: l'Italia dipendeva in gran parte dalle importazioni oltremare di grano e carbone ed aveva contratto pesantissimi debiti con gli Stati Uniti. Le casse statali erano quasi vuote anche perché la lira durante il conflitto aveva perso buona parte del suo valore, con un costo della vita aumentato di almeno il 450%.

Alla mancanza di materie prime, faceva anche seguito la progressiva smobilitazione del Regio Esercito (dopo averne impiegato una grandissima parte come manodopera per le immediate necessità del dopoguerra e nel primo raccolto del 1919) e la fine della produzione bellica, che implicava una riconversione delle fabbriche. La mancanza di un solido mercato interno e la crisi di quelli esteri impediva - tuttavia - che la produzione potesse trovare sfogo, e di conseguenza molte manifatture semplicemente chiusero.

In breve, inoltre, l'Italia si trovò ad affrontare il problema dell'assorbimento di centinaia di migliaia di disoccupati dell'industria di guerra e di milioni di soldati smobilitati. Molte delle promesse fatte durante la guerra a costoro (come l'espropriazione di terre ai latifondisti e la loro distribuzione in lotti ai reduci di guerra) non furono rispettate, provocando malcontento e delusione. L'attrito fra le masse di ex combattenti e quelle operaie si delineò immediatamente, con l'accusa nei confronti dei secondi di essersi "imboscati" e nei primi di essere stati "servi della guerra borghese".

In un primo momento ciò provocò un'importante crescita di partiti e movimenti di sinistra, in particolar modo del Partito Socialista Italiano, la cui componente minoritaria rivoluzionaria era galvanizzata dal successo della Rivoluzione russa. La fine della guerra, delle restrizioni politiche e della censura permise di riprendere le attività propagandistiche e sindacali. A destra, invece, le formazioni nazionaliste ed interventiste si scatenavano nella contestazione del governo e dei trattati di pace, mentre attorno ai circoli dannunziani nasceva la locuzione "Vittoria mutilata", che sarebbe divenuta la parola d'ordine degli insoddisfatti.

Lo Stato si venne quindi a trovare sotto un triplice attacco: dall'estero, con l'evidente tentativo delle potenze alleate di ridimensionare la portata della vittoria e delle rivendicazioni italiane a vantaggio del Regno di Jugoslavia. Dalle formazioni socialiste e sindacali, che iniziarono una campagna para-rivoluzionaria, soprattutto attraverso una durissima campagna di scioperi. Dalle formazioni nazionaliste, la cui campagna denigratoria verso l'azione del governo sarebbe poi culminata nel settembre 1919 con l'Impresa di Fiume.

A risentire di questa instabilità fu soprattutto l'ordine pubblico, con l'acuirsi del radicalismo e della violenza, l'urto fra le compagini socialiste e internazionaliste (compresse durante gli anni del conflitto ed ora libere di agire nuovamente) e quelle nazionaliste ed interventiste.

Il fascio littorio, simbolo del fascismo.

Nascita del fascismo[modifica | modifica wikitesto]

Tra gli strati sociali più scontenti e più soggetti alle suggestioni ed alla propaganda nazionalista che, a seguito del Trattato di Pace, si infiammò ed alimentò il mito della vittoria mutilata, emersero le organizzazioni di reduci ed in particolare quelle che raccoglievano gli ex-arditi (truppe scelte d'assalto), presso le quali, al malcontento generalizzato, si aggiungeva il risentimento causato dal non aver ottenuto un adeguato riconoscimento per i sacrifici, il coraggio e lo sprezzo del pericolo dimostrati in anni di duri combattimenti al fronte.

Con la fine della Prima guerra mondiale ed essendo l'Italia risultata vittoriosa nel conflitto, alla conferenza di pace di Parigi richiese che venisse applicato alla lettera il patto (memorandum) di Londra, che preveda l'annessione anche della Dalmazia; così non fu a causa del parere contrario del presidente americano Wilson. La Francia inoltre non vedeva di buon occhio una Dalmazia italiana poiché avrebbe consentito all'Italia di controllare i traffici provenienti dal Danubio. Il risultato fu che le potenze dell'Intesa alleate dell'Italia opposero un rifiuto e ritrattarono quanto promesso nel 1915.

Incontro tra Benito Mussolini e Gabriele D'Annunzio, il poeta attivo nella Prima guerra mondiale ed anche nella lotta per l'indipendenza di Fiume

L'Italia fu divisa sul da farsi, e Vittorio Emanuele Orlando abbandonò per protesta la conferenza di pace di Parigi. Le potenze vincitrici furono così libere di disegnare il nuovo confine orientale dell'Italia senza che essa presenziasse, e applicarono il trattato di Londra secondo il loro giudizio; la Dalmazia, che pure fu occupata militarmente dall'Italia dalla fine della prima guerra mondiale alla prima conferenza di pace di Parigi, fu assegnata al neonato regno dei Serbi, Croati, e Sloveni, la Jugoslavia.

Fu questo il contesto nel quale il 23 marzo 1919 Benito Mussolini fondò a Milano il primo fascio di combattimento, adottando simboli che sino ad allora avevano contraddistinto gli arditi, come le camicie nere e il teschio.

Il nuovo movimento espresse la volontà di "trasformare, se sarà inevitabile anche con metodi rivoluzionari, la vita italiana" autodefinendosi partito dell'ordine riuscendo così a guadagnarsi la fiducia dei ceti più ricchi e conservatori, contrari a ogni agitazione e alle rivendicazioni sindacali, nella speranza che la massa d'urto dei "fasci di combattimento" si potesse opporre alle agitazioni promosse dai socialisti e dai cattolici popolari.

Al neonato movimento mancava inizialmente una base ideologica ben delineata e lo stesso Mussolini non s'era in un primo tempo schierato a favore di questa o quell'altra idea, ma semplicemente contro tutte le altre. Nelle sue intenzioni il fascismo avrebbe dovuto rappresentare la "terza via".

Biennio rosso, fiumanesimo e "rivoluzione fascista": gli anni dello squadrismo[modifica | modifica wikitesto]

Roma, devastazione di una sede sindacale con falò sulla strada delle carte e suppellettili ivi rinvenute (1920)

Nel movimento fascista, oltre ad arditi, futuristi, nazionalisti, sindacalisti rivoluzionari ed ex combattenti d'ogni arma confluirono successivamente anche elementi di dubbia moralità ed avventurieri. Appena 20 giorni dopo la fondazione dei Fasci le neonate squadre d'azione si scontrarono con i socialisti e assaltarono la sede del giornale socialista Avanti!, devastandola: l'insegna del giornale fu divelta e portata a Mussolini come trofeo. Nel giro di qualche mese i Fasci si diffusero in tutta Italia, sebbene con una consistenza assai scarsa.

Il 23 giugno 1919 si insediò il governo di Francesco Saverio Nitti, sostituendo il dimissionario Vittorio Emanuele Orlando, dopo le delusioni seguite ai trattati di pace. Le politiche intraprese da Nitti sollevarono un fortissimo malcontento, soprattutto fra militari, reduci congedati e nazionalisti.

Il 19 settembre 1919, Gabriele d'Annunzio ruppe gli indugi e alla testa di reparti ammutinati del Regio Esercito marciò su Fiume dove, manu militari, instaurò un governo rivoluzionario con l'obiettivo di affermare l'unione all'Italia del comune carnero. Questa azione fu immediatamente esaltata dal movimento fascista, anche se Mussolini non offrì - né avrebbe potuto offrire - alcun reale appoggio alla causa dei legionari.

Il 16 novembre del 1919, le elezioni (per la prima volta secondo il sistema proporzionale) videro il trionfo dei due partiti di massa: il Partito Socialista che si affermò primo partito con il 32% dei voti e 156 seggi e il neonato Partito Popolare di don Sturzo che, alla sua prima prova elettorale ottenne il 20% dei voti e 100 seggi. Il movimento fascista, presentatosi nel solo collegio di Milano, con una lista capeggiata da Mussolini e Marinetti, raccolse meno di 5.000 suffragi sui circa 370.000 espressi, non riuscendo a eleggere alcun rappresentante.

In seguito alla durissima sconfitta elettorale, Mussolini meditò seriamente l'abbandono della politica,[275] nonostante la sbandierata esistenza di 88 Fasci combattenti con 20.000 iscritti; cifra che alcuni storici ritengono viziata da eccessivo ottimismo. In ogni caso, sul Popolo d'Italia del 23 marzo 1929, il segretario del PNF Augusto Turati, affermò che al 31 dicembre 1919 i Fasci in Italia erano 31 con solo 870 iscritti.

I risultati elettorali non garantirono al paese la stabilità necessaria e il PSI, che aveva il maggior peso, continuò a rifiutare alleanze con i partiti "borghesi". L'iniziativa politica dunque rimase nelle mani dei movimenti sindacali rappresentati dalle leghe socialiste e popolari che lanciarono una escalation di scioperi e occupazioni, storicamente nota come "Biennio rosso", culminata nell'estate del 1920 in una occupazione generalizzata di terreni agricoli, opifici e installazioni industriali in quasi tutto il Paese, con esperimenti di autogestione, autoproduzione e la creazione di consigli di fabbrica sul modello dei soviet.[276]

In particolare le occupazioni di terreni agricoli convinsero molti latifondisti, principalmente in Emilia, nell'alta Toscana e nella bassa Lombardia, a svendere cascine e fattorie a ex-mezzadri, fattori o piccoli coltivatori diretti. Fu questa la nuova categoria di proprietari terrieri, ben più decisa a difendere i propri beni dalle occupazioni rispetto ai precedenti latifondisti, alla quale Mussolini si rivolse per dare consistenza al movimento fascista, sposandone appieno le necessità.

Così, mentre i socialisti erano dilaniati dalle diatribe interne e dalla concorrenza sindacale delle leghe bianche dei Popolari sturziani, schiere di appartenenti alla piccola borghesia agraria, artigiana o del commercio, allarmati dalle occupazioni e dai disordini, confluirono nel movimento guidato da Mussolini. In pochi mesi si costituirono in Italia oltre 800 nuovi Fasci, con circa 250.000 iscritti, i quali diedero vita alle squadre d'azione, dette spregiativamente "squadracce" dagli avversari politici, che contrastarono le leghe rosse e bianche, durante gli scioperi o le azioni di occupazione, in un diffuso clima di violenza politica.

Tra le squadre fasciste dell'Italia meridionale militavano anche alcuni delinquenti. Particolarmente a Napoli, dove la centralista organizzazione camorristica ottocentesca stava attraversando un fase di anarchia, alcuni camorristi si dettero anima e corpo alla causa fascista, intravedendo la possibilità di carriera e di cancellazione dei reati precedenti. Ad esempio, come nel caso di Guido Scaletti, piccolo camorrista dei Quartieri Spagnoli, che fondò il primo sindacato padronale partenopeo, o di Enrico Forte che per i suoi servigi di squadrista fu ricompensato, nel 1924, con la direzione della "Manifattura Tabacchi". Un tempo preso il potere, il fascismo, abilmente usò i camorristi per controllare e reprimere l'attività di delinquenza comune, in cambio dispensando piccole cariche pubbliche, posti di lavoro e, soprattutto, tollerando il contrabbando. L'attività di Polizia e Carabinieri venne intensificata e diretta verso i malavitosi che non collaboravano con il regime. Nella zona di Aversa, dove si era formata una struttura camorristica potente e concorrente a quella napoletana, nel 1927 le forze dell'ordine operarono la maggiore retata anticamorra della storia, con 4.000 arrestati.[277]

La direzione velleitaria e confusa delle occupazioni, che aveva mostrato l'incapacità delle forze politiche più radicali a sviluppare una reale e progressiva azione rivoluzionaria, fu immediatamente chiara a molti politici, in particolar modo a Gramsci e a Giolitti,[278] subentrato al secondo governo Nitti.

Nel settembre 1920 Giolitti riuscì a spezzare il fronte occupazionista, attraverso la concessione di limitati progressi salariali, ottenendo il ritorno della legalità. Stabilita una temporanea pace sociale interna, affrontò la questione di Fiume, deciso a risolvere il problema internazionale della Reggenza del Carnaro. Dopo serrate trattative fra Italia, Iugoslavia e D'Annunzio, Giolitti diede il via all'azione militare, volta a sgomberare con la forza i legionari dal comune carnero, culminata con Natale di sangue del 1920.

La componente militare largamente prevalente nelle squadre conferì a queste una netta superiorità negli scontri coi socialisti, i popolari e i sindacati non fascisti, che ben presto - sebbene notevolmente più numerosi - subirono l'urto delle camicie nere. La sistematica campagna fascista di distruzione dei centri di aggregazione socialista, popolare e sindacale di intimidazione e aggressione dei loro militanti - assieme alla contemporanea politica sotterranea condotta da Mussolini nei confronti dei partiti moderati e della destra - portarono il socialismo ad una crisi, mentre parallelamente cresceva la forza numerica e il morale dei Fasci di Combattimento. Così, mentre nel 1921 il Partito Socialista Italiano si disgregava in due successive scissioni, dando vita al Partito Comunista d'Italia), il 7 novembre 1921 nasceva il Partito Nazionale Fascista (PNF), trasformando il movimento in partito, abbandonando le posizioni del sindacalismo rivoluzionario, accettando alcuni compromessi legalitari e costituzionali con le forze moderate e distaccandosi sostanzialmente dalla linea politica fondativa del movimento, sancita nel Programma di San Sepolcro del 1919. In quel periodo il PNF giunse ad avere ben 300.000 iscritti (nel momento di massima espansione il PSI aveva superato di poco i 200.000 iscritti).

Dal punto di vista organizzativo, al "gruppo di Milano" - nucleo originario del Fascismo - si aggiunse una componente rurale e agraria, forte dell'appoggio dei latifondisti e possidenti terrieri emiliani, pugliesi e toscani. Proprio in queste regioni le squadre guidate dai ras furono più determinate a colpire i sindacalisti, i popolari e i social-comunisti, e le masse rurali organizzate che avanzavano rivendicazioni sociali, politiche ed economiche, intimidendoli con la famigerata pratica del manganello e dell'olio di ricino, o addirittura commettendo omicidi che restavano a volte impuniti.[279] In questo clima di violenze, alle elezioni del 15 maggio 1921 i fascisti riuscirono a portare in parlamento i loro primi deputati, fra cui Mussolini.

La celebrità del partito crebbe ancora quando i sindacati non fascisti proclamarono per il 1º agosto 1922 uno sciopero generale come ritorsione per degli scontri avvenuti a Ravenna: i fascisti per ordine di Mussolini sostituirono gli scioperanti, con pessimi risultati produttivi, nel tentatitivo di far fallire la protesta. Sempre nell'agosto del 1922 gli abitanti di Parma, con epicentro nel quartiere popolare di Oltretorrente, organizzati dagli Arditi del Popolo, comandati da Guido Picelli e Antonio Cieri riuscirono fieramente a resistere alle squadre fasciste guidate da Italo Balbo, futuro "trasvolatore atlantico". Fu dell'ultima resistenza all'incalzare del fascismo.[280]

Marcia su Roma e primi anni di governo[modifica | modifica wikitesto]

Un momento della marcia su Roma

Dopo il Congresso di Napoli, in cui 40.000 camicie nere inneggiarono a marciare su Roma, Mussolini diede seguito ai suoi piani insurrezionali contro il debole governo italiano: il momento pareva propizio, ed un forte contingente di 50.000 squadristi venne radunato nell'alto Lazio e condotto da un quadrumvirato, composto da Italo Balbo (uno dei ras più famosi), Emilio De Bono (comandante della Milizia), Cesare Maria De Vecchi (un generale non sgradito al Quirinale) e Michele Bianchi (segretario del partito fedelissimo di Mussolini che, invece, rimase prudentemente a Milano), mosse contro la Capitale, il 26 ottobre 1922. Mentre l'Esercito si preparava a fronteggiare il colpo di mano fascista (con Pietro Badoglio principale sostenitore della linea dura) il re Vittorio Emanuele III si rifiutò di firmare il decreto di stato d'emergenza, costringendo alle dimissioni il presidente del consiglio Luigi Facta ed il suo governo. Le camicie nere marciarono sulla Capitale il 28 ottobre, senza incontrare alcuna resistenza ed effettuando anche qualche azione violenta contro i comunisti e i socialisti della città.

Il 30 ottobre, dopo la marcia su Roma, il re incaricò Benito Mussolini di formare il nuovo governo. Il capo del fascismo lasciò Milano per Roma, ed immediatamente si mise all'opera. A soli 39 anni Mussolini diveniva presidente del consiglio, il più giovane nella storia dell'Italia unita.

Il nuovo governo comprendeva elementi dei partiti moderati di centro e di destra e militari, e - ovviamente - molti fascisti.

Fra le prime iniziative intraprese dal nuovo corso politico vi fu il tentativo di "normalizzazione" delle squadre fasciste - che in molti casi continuavano a commettere violenze -, provvedimenti a favore dei mutilati e degli invalidi di guerra, drastiche riduzioni della spesa pubblica, la riforma della scuola (Riforma Gentile), la firma degli accordi di Washington sul disarmo navale, e l'accettazione dello status quo col regno di Jugoslavia circa le frontiere orientali e la protezione della minoranza italiana in Dalmazia.

Nei primissimi mesi del Governo Mussolini venne anche istituito il Parco nazionale del Gran Paradiso, grazie alla donazione, fatta nel 1919 allo stato italiano, della riserva di caccia reale da parte di Vittorio Emanuele III.

Il fascismo diventa dittatura[modifica | modifica wikitesto]

Giacomo Matteotti

In vista delle elezioni del 6 aprile 1924 Mussolini fece approvare una nuova legge elettorale (legge Acerbo) che avrebbe dato i due terzi dei seggi alla lista che avesse ottenuto la maggioranza con almeno il 25% dei voti. La campagna elettorale si tenne in un clima di tensione senza precedenti con intimidazioni e pestaggi. Il listone guidato da Mussolini ottenne il 64,9% dei voti.

Il 30 maggio 1924 il deputato socialista Giacomo Matteotti prese la parola alla Camera contestando i risultati delle elezioni.[281] Il 10 giugno 1924 Matteotti venne rapito e ucciso.

L'opposizione rispose a questo avvenimento ritirandosi sull'Aventino (Secessione aventiniana), ma la posizione di Mussolini tenne fino a quando il 16 agosto il corpo decomposto di Matteotti fu ritrovato nei pressi di Roma. Uomini come Ivanoe Bonomi, Antonio Salandra e Vittorio Emanuele Orlando esercitarono allora pressioni sul re affinché Mussolini fosse destituito, Giovanni Amendola gli prospettò scenari inquietanti, ma Vittorio Emanuele III appellandosi allo Statuto Albertino replicò: «Io sono sordo e cieco. I miei occhi e le mie orecchie sono il Senato e la Camera»[282] e quindi non intervenne.

Ciò che accadde esattamente la notte di San Silvestro del 1924 non sarà forse mai accertato. Pare che una quarantina di consoli della Milizia, guidati da Enzo Galbiati, ingiunsero a Mussolini di instaurare la dittatura minacciando di rovesciarlo in caso contrario.

Il 3 gennaio 1925, alla Camera, Mussolini recitò il famoso discorso in cui si assunse ogni responsabilità per i fatti avvenuti:

«Dichiaro qui, al cospetto di questa Assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto. Se le frasi più o meno storpiate bastano per impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda! Se il fascismo non è stato che olio di ricino e manganello, e non invece una passione superba della migliore gioventù italiana, a me la colpa! Se il fascismo è stato un'associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere! Se tutte le violenze sono state il risultato di un determinato clima storico, politico e morale, ebbene a me la responsabilità di questo, perché questo clima storico, politico e morale io l'ho creato con una propaganda che va dall'intervento ad oggi.»

Con questo discorso Mussolini si era dichiarato dittatore. Nel biennio 1925-1926 vennero emanati una serie di provvedimenti liberticidi: vennero sciolti tutti i partiti e le associazioni sindacali non fasciste, venne soppressa ogni libertà di stampa, di riunione o di parola, venne ripristinata la pena di morte e venne creato un Tribunale speciale con amplissimi poteri, in grado di mandare al confino con un semplice provvedimento amministrativo le persone sgradite al regime.

Il 24 dicembre 1925 una legge cambia le caratteristiche dello stato liberale: Benito Mussolini cessa di essere presidente del Consiglio, cioè primus inter pares tra i ministri e diventa primo ministro segretario di Stato, nominato dal re e responsabile di fronte a lui e non più al Parlamento; a loro volta i vari ministri sono nominati dal re su proposta del primo ministro e responsabili sia di fronte al re sia di fronte al primo ministro. Inoltre la legge stabilisce che nessun progetto potrà essere discusso dal Parlamento senza l’approvazione del primo ministro.

Il 4 febbraio 1926 i sindaci elettivi vengono sostituiti da podestà nominati con decreto reale, mentre gli organi elettivi quali consigli e giunte vengono sostituiti da consulte comunali di nomina prefettizia.

Il 16 marzo 1928 la Camera dei deputati è chiamata a votare il criterio per il rinnovo della rappresentanza nazionale. Il criterio prevede una lista unica di 400 candidati scelti dal Gran Consiglio del Fascismo su proposta dalle organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro nonché da altre associazioni riconosciute. Gli elettori approveranno o meno tale lista. La riforma passa, quasi senza discussioni, con 216 sì e 15 no. Giolitti è uno dei pochi a protestare, ma viene messo subito a tacere da Mussolini con la frase: «Verremo da lei a imparare come si fanno le elezioni». Al Senato del Regno le proteste sono leggermente più animate, ma la legge passa con 161 favorevoli e 46 contrari. L’8 dicembre si chiude così la 28ma legislatura.

Il 24 marzo 1929 il popolo italiano è chiamato a votare la lista di deputati proposta dal Gran Consiglio del Fascismo: otto milioni e mezzo voterà sì, soltanto 136.000 voterà no, la percentuale dei votanti è dell’89,6%.

La crisi economica[modifica | modifica wikitesto]

Stemma di Stato durante il fascismo.

Il primo grosso problema che la dittatura dovette affrontare fu la pesante svalutazione della lira. La ripresa produttiva successiva alla fine della prima guerra mondiale portò effetti negativi quali la carenza di materie prime dovuta alla forte richiesta e ad un'esigua produttività rapportata ai bisogni reali della popolazione. Nell'immediato, i primi segni della crisi furono un generale aumento dei prezzi, l'aumento della disoccupazione, una diminuzione dei salari e la mancanza di investimenti in Italia e nei prestiti allo stato.

Per risolvere il problema, come in Germania, venne deciso di stampare ulteriore moneta per riuscire a ripagare i debiti di guerra contratti con Stati Uniti e Gran Bretagna, cosa che comunque portò un certo aumento di inflazione.

Le mosse per contrastare la crisi non si fecero attendere: venne messo in commercio un tipo di pane con meno farina, venne aggiunto alcool etilico alla benzina, vennero aumentate le ore di lavoro da 8 a 9 senza variazioni di salario, venne istituita la tassa sul celibato, vennero aumentati tutti i possibili prelievi fiscali, venne vietata la costruzione di case di lusso, vennero aumentati i controlli tributari, vennero ridotti i prezzi dei giornali, bloccati gli affitti e ridotti i prezzi dei biglietti ferroviari e dei francobolli.

Sicuramente la trovata propagandistica più nota fu la famosa quota 90. Rivalutando la lira nei confronti della sterlina, Mussolini riuscì sì a far quadrare i conti dello stato, ma mise il paese fuori dai mercati d'esportazione poiché con tale mossa raddoppiò il prezzo delle merci italiane all'estero.

Quando poi il 29 ottobre 1929 Wall Street crollò, la parola d'ordine di Mussolini fu quella di ignorare totalmente l'evento pensando che la cosa non avrebbe toccato minimamente l'Italia. L'economia nazionale entrò invece in una profonda crisi che portò alla nascita dell'IRI e che durò fino al 1937-1938. Solo nella metà degli anni trenta Mussolini si rese conto della situazione e solo allora svalutò la lira del 41% e introdusse nuove tasse. Da quel momento in poi egli non si preoccupò più dell'economia del paese, riversando tutte le sue energie nella guerra d'Etiopia e nella guerra civile spagnola prima e nella seconda guerra mondiale a fianco della Germania nazista poi.

La conciliazione con la Chiesa[modifica | modifica wikitesto]

I partecipanti e firmatari dei Patti Lateranensi

L'11 febbraio 1929 furono firmati i Patti Lateranensi, che stabilirono il mutuo riconoscimento tra il Regno d'Italia e lo Stato della Città del Vaticano.

Il rapporto tra Stato e Chiesa era precedentemente disciplinato dalla cosiddetta legge delle Guarentigie approvata unilateralmente dal Parlamento italiano il 13 maggio 1871 dopo la presa di Roma, questa legge non venne mai riconosciuta dai pontefici.

A pochi giorni dalla firma dei Patti Lateranensi, il 13 febbraio 1929, Pio XI, tenne un discorso a Milano ad un'udienza concessa a professori e studenti dell'Università Cattolica del Sacro Cuore, che passò alla storia per una lettura secondo cui Benito Mussolini sarebbe «l'uomo della Provvidenza»:

«Le condizioni dunque della religione in Italia non si potevano regolare senza un previo accordo dei due poteri, previo accordo a cui si opponeva la condizione della Chiesa in Italia. Dunque per far luogo al Trattato dovevano risanarsi le condizioni, mentre per risanare le condizioni stesse occorreva il Concordato. E allora? La soluzione non era facile, ma dobbiamo ringraziare il Signore di averCela fatta vedere e di aver potuto farla vedere anche agli altri. La soluzione era di far camminare le due cose di pari passo. E così, insieme al Trattato, si è studiato un Concordato propriamente detto e si è potuto rivedere e rimaneggiare e, fino ai limiti del possibile, riordinare e regolare tutta quella immensa farragine di leggi tutte direttamente o indirettamente contrarie ai diritti e alle prerogative della Chiesa, delle persone e delle cose della Chiesa; tutto un viluppo di cose, una massa veramente così vasta, così complicata, così difficile, da dare qualche volta addirittura le vertigini. E qualche volta siamo stati tentati di pensare, come lo diciamo con lieta confidenza a voi, sì buoni figliuoli, che forse a risolvere la questione ci voleva proprio un Papa alpinista, un alpinista immune da vertigini ed abituato ad affrontare le ascensioni più ardue; come qualche volta abbiamo pensato che forse ci voleva pure un Papa bibliotecario, abituato ad andare in fondo alle ricerche storiche e documentarie, perché di libri e documenti, è evidente, si è dovuto consultarne molti. Dobbiamo dire che siamo stati anche dall’altra parte nobilmente assecondati. E forse ci voleva anche un uomo come quello che la Provvidenza Ci ha fatto incontrare; un uomo che non avesse le preoccupazioni della scuola liberale, per gli uomini della quale tutte quelle leggi, tutti quegli ordinamenti, o piuttosto disordinamenti, tutte quelle leggi, diciamo, e tutti quei regolamenti erano altrettanti feticci e, proprio come i feticci, tanto più intangibili e venerandi quanto più brutti e deformi. E con la grazia di Dio, con molta pazienza, con molto lavoro, con l’incontro di molti e nobili assecondamenti, siamo riusciti « tamquam per medium profundam eundo » a conchiudere un Concordato che, se non è il migliore di quanti se ne possono fare, è certo tra i migliori che si sono fin qua fatti; ed è con profonda compiacenza che crediamo di avere con esso ridato Dio all’Italia e l’Italia a Dio.»

Questa lettura, suffragata dal regime, ad esempio attraverso la rivista ufficiale del fascismo Gerarchia, pesò su tutto il pontificato di Pio XI, ma il significato di quei patti, che sancirono il reciproco riconoscimento tra il Regno d'Italia e la Città del Vaticano, fu il coronamento di estenuanti trattative tra emissari del papa e rappresentanti di Mussolini. Infatti quest'ultimo gestì l'intera faccenda personalmente e non in qualità di capo del governo.

Tra fascismo e Chiesa ci fu sempre un rapporto ostico: Mussolini si era sempre dichiarato ateo ma sapeva benissimo che per governare in Italia non si poteva andare contro la Chiesa e i cattolici. La Chiesa dal canto suo, pur non vedendo di buon occhio il fascismo, lo preferiva di gran lunga all'ideologia comunista.

Alla soglia del potere Mussolini affermò (giugno 1921) che «il fascismo non pratica l'anticlericalismo» e alla vigilia della marcia su Roma informò la Santa Sede che non avrebbe avuto nulla da temere da lui e dai suoi uomini.

Con la ratifica del concordato la religione cattolica divenne la religione di stato in Italia, fu istituito l'insegnamento della religione cattolica nelle scuole e fu riconosciuta la sovranità e l'indipendenza della Santa Sede.

Propaganda e consolidamento del regime[modifica | modifica wikitesto]

Italo Balbo
Roma 1934: Facciata di Palazzo Braschi, sede nazionale del PNF durante la campagna per il plebiscito

All'inizio degli anni trenta la dittatura si era ormai stabilizzata ed era fondata su radici solide. I bambini, così come tutto il resto della popolazione, erano inquadrati in organizzazioni di partito, ogni opposizione era stroncata sul nascere, la stampa era profondamente asservita al fascismo. L'Italia insomma si era "abituata" al regime, tanto da osannarne il leader.

Fu in questo clima che vennero organizzate diverse imprese aeronautiche. Dopo le crociere di massa nel mediterraneo e la prima trasvolata dell'Atlantico meridionale (1931), nel 1933 il quadrumviro della Marcia su Roma, Italo Balbo, organizzò la seconda e più famosa trasvolata dell'Atlantico settentrionale per commemorare il decennale dell'istituzione della Regia Aeronautica (28 marzo 1923). A bordo di 25 idrovolanti SIAI-Marchetti S.55X dal 1º luglio al 12 agosto 1933 Balbo e i suoi uomini compirono la traversata fino a New York e ritorno attraversando tutte le maggiori nazioni europee e buona parte degli Stati Uniti. Per l'epoca fu un'impresa epica che diede al giovane ferrarese una fama addirittura superiore a quella di Mussolini.

Il 25 marzo 1934 si svolse il "secondo plebiscito", in funzione propagandistica, per fornire una copertura di ufficialità della solidità e del consenso interno del regime di Mussolini, il quesito verteva sulla accettazione di una nuova lista di 400 deputati per il parlamento scelti dal Gran Consiglio del fascismo. Ufficialmente la percentuale dei "sì" raggiunse il 96.25%. Bisogna ricordare che però coloro che votavano per il SÌ usavano una scheda tricolore, mentre chi votava per il NO usava una scheda bianca, perciò era facilmente riconoscibile (e quindi facilmente punibile).[284] Il 30 marzo a Torino un folto numero di aderenti a Giustizia e libertà vennero imprigionati. Il 14 giugno a Venezia avvenne il primo incontro fra Hitler e Mussolini.

La mafia nell'epoca fascista[modifica | modifica wikitesto]

Durante il fascismo la lotta alla mafia venne affidata a Cesare Mori, ricordato come il prefetto di ferro, che venne autorizzato ad intraprendere azioni della massima durezza per sradicare il fenomeno. La nomina di Mori a senatore e l'allontanamento dalla Sicilia è oggetto di indagine storiografica.

L'Impero[modifica | modifica wikitesto]

L'Impero coloniale italiano nel 1940, nel momento di massima espansione.

A partire dal 1926-27 l'Albania entrò gradualmente nella sfera d'influenza dell'Italia ma solo nell'aprile del 1939 fu occupata militarmente da questo paese che le impose come sovrano Vittorio Emanuele III.

Nel 1928, inoltre, gli italiani cominciarono a penetrare in Etiopia, divenuta ormai il principale interesse del fascismo, e gli etiopi ad attaccare il territorio italiano in Eritrea. L'incidente più importante, però, avvenne a Ual Ual, nel 1934, e Mussolini lo usò in seguito per giustificare la sua guerra contro lo Stato etiopico.

Mussolini, quindi, nel gennaio 1935 prese accordi con il ministro degli esterni francese, Pierre Laval per assicurarsi un sostegno diplomatico contro l'Etiopia.[285] Pochi mesi più tardi la Società delle Nazioni riconobbe la buona fede di entrambi i Paesi, ma prima l'Etiopia, che presentò ricorso a marzo dello stesso anno, e l'Italia poi, con una dichiarazione del duce a Cagliari non erano soddisfatti.

Il 2 ottobre del 1935, poi Mussolini dichiarò guerra all'Etiopia (Guerra d'Etiopia) e il giorno successivo iniziarono le operazioni, con un doppio attacco italiano proveniente sia dalle basi eritree, sotto il comando di De Bono, che da quelle somale, sotto al guida di Graziani. Contemporaneamente la Società delle Nazioni decise di sanzionare l'Italia per aver attaccato uno Stato membro, con pesanti ripercussioni sull'economia italiana[286]. In poco tempo gli italiani avanzarono e sconfissero ripetutamente le truppe abissine. A novembre Pietro Badoglio sostituì De Bono e il 7 maggio 1936 l'Etiopia venne sconfitta ed entrò a fare parte del Regno d'Italia, divenuto Impero. Vittorio Emanuele III assunse infatti il titolo di “Imperatore d'Etiopia”.

La guerra d'Etiopia e la nascita dell'Impero[modifica | modifica wikitesto]

Il fascismo cercò innanzitutto di presentarsi in maniera diversa nei confronti dell'Etiopia cercando di attuare un trattato di amicizia con l'amministrazione del reggente Hailé Selassié. Tale accordo si concretizzò nel 1928. In questa fase la colonia eritrea, sotto l'amministrazione del Governatore Jacopo Gasparini cercò di ottenere un protettorato sullo Yemen e creare una base per un impero coloniale sulla penisola araba, ma Mussolini non volle inimicarsi la Gran Bretagna e fermò il progetto.

A seguito della completa conquista della Libia, avvenuta alla fine degli anni venti, Mussolini manifestò l'intenzione di dare un Impero all'Italia e l'unico territorio rimasto libero da ingerenze straniere era l'Abissinia, nonostante fosse membro della Società delle Nazioni. Il progetto d'invasione iniziò all'indomani della conclusione degli accordi sul trattato di amicizia e si concluse con l'ingresso dell'esercito italiano ad Addis Abeba il 5 maggio 1936. Quattro giorni dopo venne proclamata la nascita dell'Impero italiano e l'incoronazione di Vittorio Emanuele III come Imperatore d'Etiopia (con il titolo di Qesar, anziché quello di Negus Neghesti).

Con la conquista di gran parte dell'Etiopia si procedette ad una ristrutturazione delle colonie del Corno d'Africa. Somalia, Eritrea ed Abissinia vennero riunite nel vicereame dell'Africa Orientale Italiana (AOI). Il progetto coloniale terminò con l'occupazione britannica dei territori soggetti al dominio italiano nel 1941.

Le colonie durante il fascismo[modifica | modifica wikitesto]

Vittorio Emanuele III, Re d'Italia dal 1900 al 1946 ed Imperatore d'Etiopia dal 1936 al 1943

Durante il fascismo l'Eritrea fu oggetto di un ambizioso progetto di modernizzazione, voluto dal Governatore Jacopo Gasparini, che cercò di tramutarla in un importante centro per la commercializzazione dei prodotti e materie prime. La colonia Eritrea venne inglobata nell'Africa Orientale Italiana nel 1936, diventando uno dei sei governi in cui era diviso il vicereame. Nel 1941 la colonia venne occupata, insieme al resto dell'Africa Orientale Italiana, dalle truppe britanniche.

All'inizio della seconda guerra mondiale, nel maggio 1940 le truppe italiane occuparono la Somalia britannica (Somaliland), che fu amministrativamente incorporata nella Somalia italiana. Nei primi mesi del 1941 le truppe inglesi occuparono tutta la Somalia italiana e riconquistarono anche il Somaliland. Dopo l'invasione da parte delle truppe alleate nella seconda guerra mondiale la Somalia Italiana fu consegnata all'Italia in amministrazione fiduciaria decennale nel 1950.

Nel 1934, Tripolitania e Cirenaica vennero riunite per formare la colonia di Libia, nome utilizzato 1.500 anni prima da Diocleziano per indicare quei territori. L'Italia perse il controllo sulla Libia, quando le forze italo-tedesche si ritirarono in Tunisia nel 1943. Dopo la fine della guerra, la Libia venne provvisoriamente amministrata dalla Gran Bretagna fino al conseguimento definitivo dell'indipendenza nel 1951.

Negli anni venti e trenta l'amministrazione del dodecaneso da un lato portò degli ammodernamenti, come la costruzione di ospedali e acquedotti, ma si distinse anche per il tentativo di italianizzare con diversi provvedimenti le dodici isole, i cui abitanti erano a maggioranza di lingua greca, con la presenza di una minoranza turca ed ebraica. Nel settembre 1943 dopo l'Armistizio di Cassibile, i soldati del Terzo Reich occuparono le isole. L'8 maggio del 1945 le forze britanniche presero possesso dell'isola di Rodi e tramutarono il Dodecaneso in un protettorato. Con il Trattato di Parigi (1947), gli accordi fra Grecia e Italia stabilirono il possesso formale delle isole da parte dello Stato greco, che assunse pieno controllo amministrativo solamente nel 1948.

Durante il regime fascista fu ampliati i possedimenti coloniali. Oltre a Eritrea, Somalia, Libia, dodecaneso e la concessione di Tientsin, entrarono nella sfera d'influenza italiana la già citata Etiopia, l'Albania.

Etiopia (1936 - 1941)[modifica | modifica wikitesto]

L'Abissinia (l'odierna Etiopia) fu conquistata dalle truppe italiane, comandate dal generale Pietro Badoglio dopo la guerra del 1935-1936. La vittoria fu annunciata il 9 maggio 1936, il Re d'Italia Vittorio Emanuele III assunse il titolo di Imperatore d'Etiopia, Mussolini quello di Fondatore dell'Impero, e a Badoglio fu concesso il titolo di Duca di Addis Abeba.

Con la conquista dell'Etiopia, i possedimenti italiani in Africa orientale (Etiopia, Somalia ed Eritrea) furono unificati sotto il nome di Africa Orientale Italiana A.O. I., e posti sotto il governo di un Viceré.

L'Etiopia fu la colonia italiana, insieme all'Eritrea, più interessata dalla costruzione di nuove strade, grandi infrastrutture (ponti, ecc.) e anche dalla sistemazione delle città, specie della capitale Addis Abeba secondo un piano regolatore prestabilito (nuovi quartieri, una nuova ferrovia). La breve presenza italiana, di soli 5 anni, e le difficoltà di pacificazione della zona, non permise la sistemazione totale della città, che sarebbe dovuta essere il fiore all'occhiello del colonialismo italiano. Tuttavia, quale membro della Società delle Nazioni, l'Italia ricevette la condanna internazionale per l'occupazione dell'Etiopia, che era uno Stato membro.

Nei primi mesi del 1941 le truppe inglesi sconfissero gli italiani ed occuparono l'Etiopia, anche se alcuni focolai di resistenza italiana si mantennero attivi a Gondar fino all'autunno del 1941. Inoltre si ebbe anche una guerriglia italiana durata fino al 1943. Gli inglesi reinsediarono il deposto Negus, Hailé Selassié, esattamente cinque anni dopo la sua cacciata.

Albania (1939 - 1943)[modifica | modifica wikitesto]

L'Albania era sotto la sfera di influenza italiana dagli anni venti, e l'isola di Saseno davanti Valona era parte integrante del Regno d'Italia dai tempi della Pace di Parigi (1919). Dopo alterne vicende, l'Albania venne occupata militarmente da truppe italiane nel 1939. Alla base di questa decisione, vi fu il tentativo di Mussolini di controbilanciare l'alleanza con la sempre più potente Germania nazista di Hitler, dopo l'occupazione dell'Austria e della Cecoslovacchia. L'invasione dell'Albania, iniziata il 7 aprile 1939 fu completata in cinque giorni. Il re Zog si rifugiò a Londra.

Vittorio Emanuele III ottenne la corona albanese, e venne insediato un governo fascista guidato da Shefqet Vërlaci. Le forze dell'esercito albanese vennero incorporate in quello italiano.

Nel 1941 vennero uniti all'Albania il Kosovo, alcune piccole aree del Montenegro ed una parte della Macedonia (territori già iugoslavi).

La resistenza contro l'occupazione italiana inizió nell'estate 1942 e si fece più violenta e organizzata nel 1943: nell'estate del 1943 le montagne interne erano difatti sotto il controllo diretto della resistenza albanese guidata da Enver Hoxha. Nel settembre 1943 dopo la caduta di Mussolini, il controllo sull'Albania venne assunto dalla Germania nazista.

Le sanzioni[modifica | modifica wikitesto]

L'11 ottobre 1935 l'Italia venne sanzionata dalla Società delle Nazioni per l'invasione dell'Etiopia. Le sanzioni in vigore dal 18 novembre consistevano in:

  • Embargo sulle armi e sulle munizioni
  • Divieto di dare prestiti o aprire crediti in Italia
  • Divieto di importare merci italiane
  • Divieto di esportare in Italia merci o materie prime indispensabili all'industria bellica

Paradossalmente, nell'elenco delle merci sottoposte ad embargo mancano petrolio e i semilavorati.

In realtà fu soltanto la Gran Bretagna a osservare le regole imposte dalle sanzioni. La Germania hitleriana così come gli Stati Uniti furono i primi due paesi a schierarsi apertamente verso l'Italia, garantendo la possibilità di acquistare qualunque bene. L'URSS rifornì di nafta l'esercito italiano per tutta la durata del conflitto, ed anche la Polonia si dimostrò piuttosto aperta.

Autarchia e il consenso[modifica | modifica wikitesto]

L'effetto emotivo delle sanzioni venne sfruttato dal regime affinché l'Italia si stringesse intorno a Mussolini. La Gran Bretagna venne etichettata col termine di perfida Albione, e le altre potenze coloniali occidentali furono etichettate come nemiche perché impedivano all'Italia il raggiungimento di un posto al sole. Ritornò in voga il patriottismo e la propaganda politica spinse affinché si consumassero solo prodotti italiani. Fu in pratica la nascita dell'autarchia, secondo la quale tutto doveva essere prodotto e consumato all'interno dello stato. Tutto ciò che non poteva essere prodotto per mancanza di materie prime venne sostituito: il tè con il carcadè, il carbone con la lignite, la lana con il lanital (la lana di caseina), la benzina con il carburante nazionale (benzina con l'85% di alcool) mentre il caffè venne abolito perché «fa male» e sostituito con il "caffè" d'orzo.

L'autarchia entrò anche nella lingua: sulla base di una "forma rozza di purismo"[287] furono infatti banditi tutti i forestierismi da ogni comunicazione scritta ed orale: ad esempio chiave inglese diventò chiave morsa, cognac diventò arzente, ferry-boat diventò treno-battello pontone. Conseguentemente vennero rinominate tutte le città con nome francofono dell'Italia nord-occidentale e con nome tedescofono dell'Italia nord-orientale: secondo la toponomastica fascista, per fare un paio di esempi, Courmayeur diventò Cormaiore e Kaltern diventò Caldaro. Inoltre si scoprì che anche l'uso del lei aveva origini straniere, perciò venne inaugurata una campagna per la sostituzione del lei con il voi, capeggiata dal segretario del partito Achille Starace.

Intanto mentre la Società delle Nazioni sanzionò l'Italia, Emilio De Bono venne silurato in favore del maresciallo Pietro Badoglio che fu autorizzato ad utilizzare i gas. Mentre la guerra si trasformò in una fonte di onorificenze per tutti i gerarchi, Badoglio commise stragi inaudite che finirono sui i giornali esteri (quelli italiani ovviamente censurarono ogni avvenimento).

Alle 22:30 di sabato 9 maggio 1936 Mussolini annunciò al popolo italiano la fondazione dell'Impero. Le truppe del maresciallo Pietro Badoglio entrarono infatti in Addis Abeba il 5 maggio, ponendo così fine alla guerra d'Etiopia.

La nascita dell'Impero comunque non portò nessuna delle ricchezze promesse: né oro, né ferro, né grano. L'Impero al contrario prosciugò le casse statali per la costruzione di strade, di dighe e di palazzi e dette a Mussolini l'illusione di avere un esercito potente e la capacità di poter piegare gli stati europei che sanzionarono il paese senza peraltro mettere in pratica le temute minacce.

Mussolini a Trieste, piazza dell'Unità

Le bonifiche[modifica | modifica wikitesto]

Uno degli elementi che caratterizzò la propaganda fascista fu il tema delle bonifiche e della fondazione di nuove città. L'intensa attività relativa alla "bonifica integrale", all'appoderamento di terreni incolti ed alla fondazione dei nuovi insediamenti, nasceva da specifici caratteri dell'ideologia fascista ed in particolare dalle istanze tradizionaliste, antimoderne ed antiurbane che caratterizzavano una parte del movimento fascista, senza per questo esaurirne la complessità, visto le opposte tendenze moderniste.

La "ruralizzazione" dell'intera società, il ritorno alla terra e alla civiltà contadina, fu infatti un obiettivo prioritario dello stesso Mussolini tanto da condizionare le scelte economiche fin dal 1928.[288] L'inurbamento era visto come la causa dell’abbassamento della natalità e origine di disordini sociali.[289]

Al contrario la possibilità di sfruttamento agricolo di nuovi territori che proseguivano analoghe iniziative avviate già sotto il governo Nitti, avrebbe incrementato la produzione cerealicola rendendo possibile l'autarchia alimentare, avrebbe creato una classe sociale di piccoli mezzadri[290] o proprietari agricoli, legati alla terra con tutta la famiglia, stabilizzando così la struttura sociale,[291] e combattendo così la denatalità, i disordini sociali,[292] e la degenenerazione della razza,[293]

Alcuni storici dietro l'ideologia nel "ruralismo" vedono altre motivazioni come una politica economica tesa a comprimere redditi e consumi, assorbendo il gran numero di disoccupati, causato anche dalla crisi mondiale successiva al 1929, cui l’industria non poteva dare lavoro, evitando l’arresto di una crescita demografica e facendo dell'agricoltura un serbatoio, in attesa che la produzione industriale superasse la crisi.[294]

L'attuazione degli interventi di bonifica prevedeva la pianificazione territoriale di ampia scala del territorio agricolo, la bonifica idrico-ambientale di vaste aree, la realizzazione di urbanizzazioni di varia tipologia insediativa, quasi sempre costituita da molti piccoli nuclei agricoli, ma che nel caso dell'imponente bonifica dell'agro pontino portò alla fondazione di nuove città tra cui Littoria (Latina) e Sabaudia. Questo ampio sviluppo urbanistico relativo alla creazione di nuovi insediamenti è stato recentemente oggetto di studi, riscoperte e pubblicazioni.[295] Oltre che nel Lazio interventi di bonifica furono intrapresi con alterni successi in Sardegna, Friuli, Puglia e Sicilia. Analoghi interventi di colonizzazione furono attuati in Libia.

Le aree necessarie a realizzare gli interventi venivano recuperate quasi sempre attingendo a terreni demaniali incolti, aree soggette ad usi civici, aree acquitrinose acquisite a poco prezzo e che venivano affidati all'ente incaricato della bonifica, principalmente l'O.N.C. (Opera Nazionale Combattenti), che provvedeva alla pianificazione, all'appoderamento ed all'assegnazione dei vari appezzamenti a famiglie di mezzadri che avrebbero nel tempo ripagato gli investimenti iniziali ed anche riscattata la proprietà. Furono numerosi i casi in cui anche privati[296] (società anonime speculative, opere pie, famiglie della nobiltà romana) parteciparono, più o meno volontariamente, alle iniziative di bonifica appoderando terreni da valorizzare e usufruenedo di mutui agevolati per le opere necessarie.[297] Scarsi furono i casi di esproprio per inadempienza dei proprietari, tenuti ad eseguire le opere di appoderamento, soprattutto in Puglia[298] e in Sicilia, nonostante che la legislazione fosse stata orientata in tal senso sia prima, che durante il fascismo. Il principale promotore di tale legislazione ed in generale dei processi di bonifica integrale fu Arrigo Serpieri che però nel 1935 fu esonerato dall'incarico di responsabile delle bonifiche proprio a causa della sua intransigenza verso i mancati espropri.[299]

La fondazione di nuovi centri e le bonifiche rappresentarono probabilmente l'operazione di maggior valenza propagandistica per il regime, con riflessi anche all'estero, tanto da essere scelti come tema principale per l'esposizione che si tenne in concomitanza del primo decennale della Marcia su Roma, la 1ª Mostra nazionale delle Bonifiche, organizzata da una commissione presieduta dallo stesso Arrigo Serpieri. Questa importanza propagandistica fu uno dei motivi per il quale il modello delle iniziative di "bonifica integrale" fu replicato ovunque ed in continuazione fino alle soglie del secondo conflitto mondiale.

La guerra civile in Spagna[modifica | modifica wikitesto]

FIAT C.R.32 del XVI Gruppo Autonomo "cucaracha" scortano un S.M.81 in una missione di bombardamento.
Reduci della Spagna sfilano dinanzi a Mussolini a via Nazionale a Roma

Il 18 luglio 1936 scoppiò in Spagna la guerra civile che vide contrapposti le sinistre del Fronte Popolare, che erano al potere dalle elezioni del 1936, e la Falange, una forza ideologicamente paragonabile al fascismo. Questa organizzazione non sarebbe mai stata capace di mettere il potere nelle mani del generale galiziano Francisco Franco senza l'aiuto della Chiesa Cattolica, della Germania nazista e dell'Italia fascista.

Allo scoppio delle ostilità oltre 60.000 volontari accorsero da 53 nazioni in aiuto dei repubblicani mentre Mussolini e Hitler fornirono in via ufficiosa l'appoggio alla Falange. In questo contesto non di rado persone provenienti dall'Italia schierate dalle due parti si scontrarono in una vera e propria lotta fratricida. Gli italiani accorsi a combattere per la Seconda Repubblica Spagnola erano fra i più numerosi, superati solo da tedeschi e francesi. Tra essi alcuni dei nomi più noti della resistenza al fascismo, come Emilio Lussu, Palmiro Togliatti, Pietro Nenni, Carlo Rosselli e il fratello Nello Rosselli (assassinati qualche tempo dopo in Francia).

Ciò che spinse Mussolini a lanciarsi in un'impresa senza alcun reale tornaconto fu probabilmente la possibilità di offrire agli italiani reduci dalla conquista dell'Etiopia un'altra avventura bellica. Per Hitler invece la questione era legata alle materie prime presenti in Spagna: la Germania aveva infatti un disperato bisogno del ferro spagnolo che nel 1937 verrà importato per una quantità pari a 1.620.000 tonnellate. Inoltre il Führer voleva sondare la sua capacità bellica in una sorta di test per le armi e gli equipaggiamenti che l'industria tedesca stava sviluppando per la Wehrmacht. Oltre al carattere economico di questo scontro si deve evidenziare la lotta ideologica in corso, tra fronti popolari e fascismi, con la complicazione data dalla natura della repubblica spagnola, di chiara ispirazione socialista. Forse proprio per questo le democrazie liberali non difesero tenacemente (ad esempio ricorrendo ad un blocco navale) la Spagna dall'aggressione fascista, poiché vedevano nella nascita di uno "stato rosso" nella penisola iberica un pericolo soprattutto per i loro interessi in Africa e in America latina. L'attiva partecipazione dell'Unione Sovietica alla guerra e il tentativo di egemonizzare la linea politica delle forze di sinistra spagnole erano una prova di questo pericolo, considerato dalle democrazie occidentali non meno grave del sorgere di una ulteriore dittatura di stampo fascista.

Nessuno dei due dittatori ebbe comunque il tornaconto sperato dalla vittoria finale di Franco. Quest'ultimo infatti negherà l'appoggio all'Asse e si dichiarerà non belligerante nei confronti di Francia e Gran Bretagna allo scoppio della seconda guerra mondiale, rifiutando in seguito l'accesso alle divisioni tedesche che avrebbero dovuto assaltare Gibilterra. Mussolini, dal canto suo, non fu mai risarcito per le ingenti perdite di mezzi subite dall'Italia durante la guerra civile spagnola.

L'Italia si scopre francamente razzista[modifica | modifica wikitesto]

Il 14 luglio 1938 il fascismo scrisse una delle pagine più vergognose della storia d'Italia: in quel giorno infatti fu pubblicato sui maggiori quotidiani nazionali il "Manifesto della razza". In questa sorta di tavola redatta da cinque cattedratici (Arturo Donaggio, Franco Savorgnan, Edoardo Zavattari, Nicola Pende e Sabato Visco) e da cinque assistenti universitari (Leone Franci, Lino Businco, Lidio Cipriani, Guido Landra e Marcello Ricci) venne fissata la «posizione del fascismo nei confronti dei problemi della razza».

I dieci imperativi categorici erano:

  1. Le razze umane esistono
  2. Esistono grandi razze e piccole razze
  3. Il concetto di razza è un concetto puramente biologico
  4. La popolazione dell'Italia attuale è nella maggioranza ariana e la sua civiltà è ariana
  5. È una leggenda l'apporto di masse ingenti di uomini in tempi storici
  6. Esiste ormai una pura "razza italiana"
  7. È tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti
  8. È necessario fare una netta distinzione fra i Mediterranei d'Europa (Occidentali) da una parte e gli Orientali e gli Africani dall'altra
  9. Gli ebrei non appartengono alla razza italiana
  10. I caratteri fisici e psicologici puramente europei degli Italiani non devono essere alterati in nessun modo

Con questo manifesto si dava il via a quel processo che portò alla promulgazione delle leggi razziali.

L'alleanza con la Germania Nazista[modifica | modifica wikitesto]

Dal 1938 in Europa si iniziò a respirare aria di guerra: Hitler aveva già annesso l'Austria e i Sudeti e con la successiva Conferenza di Monaco gli venne dato il lasciapassare per l'annessione di tutta la Cecoslovacchia, mentre Mussolini dopo l'Etiopia stava cercando nuove prede per non perdere il passo dell'alleato d'oltralpe.

La vittima designata venne trovata nell'Albania. In due soli giorni (7-8 aprile 1939) con l'ausilio di 22.000 uomini e 140 carri armati Tirana fu conquistata.

Il 22 maggio tra Germania e Italia venne firmato il Patto d'Acciaio. Tale patto assumeva che la guerra fosse imminente, e legava l'Italia in un'alleanza stretta con la Germania. Alcuni membri del governo italiano si opposero, e lo stesso Galeazzo Ciano, firmatario per l'Italia, definì il patto una «vera e propria dinamite».

L'Italia nella Seconda guerra mondiale (1940-1945)[modifica | modifica wikitesto]

Dalla "non belligeranza" all'intervento[modifica | modifica wikitesto]

L'invasione tedesca della Polonia e lo scoppio della guerra[modifica | modifica wikitesto]

Alle ore 4.45 del 1º settembre 1939 le forze armate tedesche varcarono il confine polacco, offrendo al mondo una dimostrazione pratica del Blitzkrieg, la "guerra-lampo", basata sulla stretta collaborazione delle forze corazzate e dell'aviazione. Alla sera del primo giorno di guerra, l'aviazione polacca era stata pressoché distrutta a terra dalla Luftwaffe. Il 3 settembre Gran Bretagna e Francia dichiararono guerra alla Germania, ma i polacchi vennero lasciati soli a combattere contro un avversario più forte e la loro resistenza venne sopraffatta in poche settimane senza che si fosse verificata la sperata offensiva alleata sul fronte occidentale. Alla dichiarazione di guerra Francia e Gran Bretagna non fecero seguire alcuna azione concreta che alleggerisse subito la pressione delle forze armate tedesche sulla Polonia: le 110 divisioni francesi schierate lungo la linea Maginot neppure tentarono di attaccare le 23 divisioni tedesche rimaste a difendere il confine occidentale della Germania, consentendo ai tedeschi di concentrare il grosso delle proprie forze sul fronte orientale.

Il 7 settembre la IV armata tedesca proveniente dalla Pomerania si riunì con la III giunta dalla Prussia orientale tagliando il corridoio di Danzica e lasciando la Polonia senza sbocco al mare. Il 17 settembre Varsavia venne accerchiata e capitolò dopo dieci giorni di incessanti bombardamenti. Il 17 settembre anche l'Armata Rossa, da est, varcò il confine polacco occupando i territori orientali.

"Non belligeranza" italiana[modifica | modifica wikitesto]

Nel frattempo l'Italia, nonostante la firma del Patto d'Acciaio, si era dichiarata "potenza non belligerante": la firma del patto era avvenuta con l'assicurazione verbale data dal ministro degli esteri tedesco von Ribbentrop al suo collega italiano, Galeazzo Ciano, che la Germania non avrebbe iniziato la guerra prima di tre anni; inoltre, la mancata consultazione dell'Italia prima dell'invasione della Polonia e della firma patto Ribbentrop-Molotov, poteva essere considerata una violazione dell'obbligo di consultazione fra i due paesi contenuto nel patto. L'Italia poté così dichiarare la propria non belligeranza senza venir meno ai patti sottoscritti.

Nel periodo della "non belligeranza", Hitler colse l'importanza strategica di avere l'Italia dalla propria parte: un'eventuale passaggio dell'Italia nel campo avversario, come nella prima guerra mondiale, avrebbe significato il ritorno allo schieramento del '14-18 e al blocco marittimo che, da solo, aveva piegato la Germania del Kaiser Guglielmo II. Perciò Hitler decise di cedere definitivamente sulla questione del Sud-Tirolo: alla fine del '39 i sudtirolesi furono chiamati a optare per l'una o per l'altra nazione: sui 229.000 abitanti della provincia di Bolzano, 166.488 scelsero la Germania impegnandosi a lasciare l'Italia entro due anni; 22.712 optarono per l'Italia e 32.000 non si pronunciarono e restarono nello stato di allogeni.

I successi nazisti[modifica | modifica wikitesto]

Nell'aprile 1940 i tedeschi, per procurarsi delle basi sul Mare del Nord e per assicurarsi le vie di rifornimento del ferro svedese, invasero la Danimarca e la Norvegia: il 9 aprile iniziò l'invasione della Danimarca che, del tutto impreparata a un conflitto, si arrese e venne occupata in un solo giorno; in Norvegia, fallito un tentativo anglo-francese di contrastare la conquista tedesca, fu insediato il governo fantoccio del nazista norvegese Vidkun Quisling. Il 10 maggio 1940, alle ore 5.35, Hitler scatenò l'attacco contro la Francia sul fronte occidentale penetrando nei Paesi Bassi, in Lussemburgo e in Belgio. Aggirate le fortificazioni francesi della linea Maginot, all'incirca con una manovra simile a quella attuata durante la prima guerra mondiale, i tedeschi costrinsero gli alleati franco-britannici ad entrare in Belgio dove furono travolti dall'impeto delle divisioni corazzate naziste massicciamente appoggiate dal Luftwaffe: l'Olanda fu costretta alla resa il 14 maggio e il Belgio dodici giorni dopo. Dopo aver stretto nella sacca di Dunkerque il corpo di spedizione britannico e parte dell'esercito francese insieme ai resti di quello belga, i tedeschi passarono la Somme spezzando la Linea Weygand e si diressero verso Parigi e il sud.

L'intervento italiano[modifica | modifica wikitesto]

«Combattenti di terra, di mare, e dell'aria! Camicie Nere della Rivoluzione e delle Legioni, uomini e donne d'Italia, dell'Impero e del Regno di Albania. Ascoltate! Un'ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria. L'ora delle decisioni irrevocabili. La dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia [...] La parola d'ordine è una sola, categorica e impegnativa per tutti. Essa già trasvola ed accende i cuori dalle Alpi all'Oceano Indiano: vincere! E vinceremo, per dare finalmente un lungo periodo di pace con la giustizia all'Italia, all'Europa, al mondo.»

Di fronte agli straordinari ed inaspettati successi della Germania nazista tra l'aprile e il maggio del 1940, Mussolini ritenne che gli esiti della guerra fossero oramai decisi e, pensando di poter approfittare dei successi nazisti per ottenere immediati vantaggi territoriali, il 10 giugno dichiarò guerra alla Francia ed alla Gran Bretagna. Alla contrarietà e alle rimostranze di alcuni importanti collaboratori e militari (fra cui Pietro Badoglio, Dino Grandi, Galeazzo Ciano e il generale Enrico Caviglia), Mussolini avrebbe risposto:

«Mi serve qualche migliaio di morti per sedermi al tavolo delle trattative.[300]»

Con riserve di munizioni sufficienti per appena due mesi[301], con sole 19 divisioni in grado di combattere e nella speranza di ottenere facilmente una vittoria militare contro un paese ormai esausto, il Duce fece ammassare le truppe italiane sul fronte occidentale per attaccare la Francia. Con azioni puramente dimostrative, l'11 giugno l'aviazione italiana bombardò Port Sudan, Aden e la base navale inglese di Malta.[302]

La guerra "parallela"[modifica | modifica wikitesto]

I vertici del fascismo si illusero che la guerra sarebbe stata breve e che l'Italia sarebbe stata in grado di condurre una guerra "parallela" a quella della Germania in piena autonomia dall'alleato.

La battaglia delle Alpi[modifica | modifica wikitesto]

Battaglione alpini Val Dora sul colle della Pelouse giugno 1940

La frontiera italo-francese era stata fortificata da entrambe le parti tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento e poi negli anni Trenta. Per gli alti comandi italiani un'offensiva francese su Torino era la minaccia più temuta; non pareva invece possibile un'offensiva italiana perché dopo le fortificazioni francesi bisognava attraversare altri rilievi montuosi prima di arrivare alla pianura e a obiettivi importanti, perciò i piani dell'esercito italiano, dall'Ottocento al 1940, prevedevano una guerra difensiva sulle Alpi. Gli italiani concentrarono alla frontiera 22 divisioni, 300.000 uomini e 3.000 cannoni, con grosse forze di riserva nella pianura padana.

Nella notte fra il 12 e il 13 giugno i bombardieri italiani si diressero su Francia meridionale, Tunisia e Corsica e colpirono Saint-Raphaël, Hyères, Biserta, Calvi, Bastia e la base navale di Tolone.

Il 14 giugno le truppe tedesche entrarono a Parigi e il 17 il maresciallo Pètain chiese la resa. Mussolini si era illuso di ottenere guadagni grandiosi (l'occupazione del territorio francese fino al Rodano, la Corsica, la Tunisia, Gibuti, addirittura la cessione della flotta, degli aerei, degli armamenti pesanti[303]) senza sparare un colpo, poi si rese conto che avrebbe ottenuto soltanto il terreno occupato dalle sue truppe e soltanto allora diede l'ordine di attaccare: dieci giorni dopo la dichiarazione di guerra.

L'offensiva italiana, condotta fra 21-24 giugno, non diede i risultati previsti e l'unica località di un certo rilievo ad essere occupata dalle truppe italiane fu Mentone sulla costa mediterranea. Il 23 giugno cominciarono le trattative a Roma per l'armistizio italo-francese, condotte separatamente da quelle della Germania. Le condizioni imposte furono: il territorio francese raggiunto dalle truppe italiane doveva essere smilitarizzato per tutta la durata dell'armistizio; le forze armate di terra, aria e mare francesi dovevano essere disarmate, fatta eccezione per quelle necessarie a mantenere l'ordine pubblico. Alle 19:15 del 24 giugno il generale Charles Huntziger e il maresciallo Badoglio, con la firma dell'armistizio di Villa Incisa, posero fine al conflitto diretto con la Francia. L'armistizio previde l'occupazione da parte italiana di alcuni territori francesi di confine, la smilitarizzazione del confine franco-italiano e libico-tunisino per una profondità di 50 chilometri, nonché la smilitarizzazione della Somalia francese (odierno Gibuti), e la possibilità da parte italiana di usufruire del porto di Gibuti e della ferrovia Addis Abeba-Gibuti.

Le ostilità sulle Alpi cessarono alle 0:35 del 25 giugno. Durante la battaglia delle Alpi occidentali, gli italiani ebbero 631 morti (59 ufficiali e 572 soldati), 616 dispersi e 2.631 tra feriti e congelati; i francesi catturarono 1.141 prigionieri che restituirono immediatamente dopo l'armistizio di Villa Incisa.[304] I francesi ebbero 40 morti, 84 feriti e 150 dispersi.[305]

L'impero in guerra[modifica | modifica wikitesto]

Semovente 75/18 durante la Campagna del Nord Africa.

L'entrata in scena dell'Italia nel secondo conflitto mondiale portò la guerra anche in Africa nelle colonie italiane della Libia e dell'Africa Orientale Italiana. All'inizio delle ostilità il comando supremo delle truppe italiane in Libia era affidato al governatore generale Italo Balbo. In Libia si trovavano due armate: la Quinta, comandata dal generale Italo Gariboldi, al confine con la Tunisia, composta da 8 divisioni, 500 cannoni, 2.200 autocarri e 90 carri leggeri da 3 tonnellate; al confine egiziano c'era la 10ª armata del generale Berti, con 5 divisioni, 1.600 pezzi d'artiglieria, 1.000 autocarri e 184 carri leggeri. In totale 220.000 uomini[306]. La 5ª squadra aerea, agli ordini del generale Porro, era costituita da 315 aerei da guerra. I francesi avevano 4 divisioni al confine tunisino, subito tolte dalla lotta dall'uscita di scena della Francia; le forze inglesi in Egitto ammontavano a circa 36.000/42.000 uomini[307].

A Balbo, abbattuto dalla contraerea italiana il 20 giugno, appena dieci giorni dopo l'entrata in guerra dell'Italia, succedette il maresciallo Rodolfo Graziani. Per qualche tempo in Africa settentrionale non vi furono battaglie, ma solo scaramucce e incursioni di mezzi blindati e camionette inglesi. Questa fase terminò il 13 settembre 1940, quando Graziani attraversò il confine con l'Egitto con le forze della 10ª armata giungendo il 16 settembre a Sidi el Barrani, circa 95 km oltre il confine, e lì si fermò a lungo per preparare una nuova offensiva. Non ci fu vera battaglia: gli inglesi, che si erano ritirati senza quasi opporre resistenza, persero 50 uomini; gli italiani 120.[308][309] In Africa Orientale, nella prima metà di luglio, gli italiani attaccarono verso il Sudan, respingendo un attacco inglese contro la cittadina eritrea di Metemma[310] ed occupando Cassala (a 20 km dalla frontiera con l'Eritrea e difesa dalla Sudan Defence Force), il piccolo forte britannico di Gallabat (circa 320 km (200 miglia) a sud di Cassala), e i villaggi di Ghezzan, Kurmuk e Dumbode sul Nilo Azzurro[311].

Dopo i successi nel Sudan, le truppe italiane passarono all'offensiva sulla frontiera col Kenia per eliminare il saliente di Dolo, che si incuneava fra Etiopia e Somalia, riuscendo ad occupare Fort Harrington, Moyale e Mandera, spingendosi verso l'interno per oltre 100 chilometri[312]. Alla fine di luglio le forze italiane raggiunsero Debel e Buna. Quest'ultima località, a un centinaio di chilometri dal confine, segnò la punta massima della penetrazione italiana in Kenia. A oriente, il 3 agosto, iniziò la conquista della Somalia Britannica; le forze italiane, comandate dal generale Guglielmo Nasi, portarono a compimento la campagna con l'occupazione di Berbera, la città principale, il 19 agosto.

La campagna di Grecia[modifica | modifica wikitesto]

I soldati italiani durante l'inverno in Albania.

Nella spartizione delle zone di influenza concordata tra Berlino e Roma, l'Italia cercò una vittoria di prestigio e optò per la strategia della "guerra separata". Mussolini attaccò pertanto il solo alleato rimasto alla Gran Bretagna sul continente europeo: la Grecia. L'aggressione alla Grecia[313] fu condotta con improvvisazione e poggiò sull'illusione di una rapida vittoria. Il 28 ottobre 1940, diciottesimo anniversario della marcia su Roma, le truppe italiane dislocate in Albania varcarono il confine puntando sulla Macedonia e sull'Epiro.

Tre divisioni del XXV Corpo d'Armata Ciamuria (51ª Divisione fanteria "Siena", 23ª Divisione fanteria "Ferrara" e 131ª Divisione corazzata "Centauro"), avevano il compito di condurre l'offensiva principale il cui scopo era la conquista dell'Epiro, mentre la 3ª Divisione alpina "Julia" e il Raggruppamento del litorale dovevano condurre manovre avvolgenti rispettivamente da nord, in direzione di Métzovon, e da sud verso Prévedza e Arta. L'avanzata fu lenta per le pessime strade e l'inclemenza del tempo e si arenò dopo pochi giorni senza raggiungere gli obiettivi prefissati. Tre giorni dopo l'inizio dell'offensiva italiana, il 1º novembre, scattò la controffensiva greca che costrinse rapidamente gli italiani ad arretrare con gravi perdite e a ripiegare a fatica in territorio albanese. Gli italiani si attestarono lungo una linea difensiva da trenta a sessanta kilometri all'interno della frontiera greco-albanese che, malgrado i continui attacchi greci, riuscirono a tenere fino all'intervento tedesco nei Balcani.[314]

La notte di Taranto[modifica | modifica wikitesto]

La sera dell'11 novembre 1940, 21 aerosiluranti Swordfish, parte armati di siluri e parte di bombe e ordigni illuminanti, decollati in due ondate successive dalla portaerei Illustrious, attaccarono nel porto di Taranto la flotta italiana riuscendo ad affondare in rada la corazzata Cavour e a danneggiare gravemente la Duilio e la nuovissima Littorio (tre delle cinque corazzate in servizio), insieme all'incrociatore pesante Trento e al cacciatorpediniere Libeccio. Fu una clamorosa dimostrazione di inefficienza della marina italiana: la flotta inglese poté avvicinarsi senza essere contrastata; la forte difesa contraerea di Taranto (un centinaio di cannoni, duecento mitragliere, oltre cento palloni frenati), riuscì ad abbattere solo due degli aerei inglesi. Il danno fu limitato dai bassi fondali del porto che impedirono l'inabissamento delle corazzate, ma solo la Littorio e la Duilio poterono essere recuperate prima della fine della guerra dopo molti mesi di lavoro.[315][316]

Disastro in Africa settentrionale[modifica | modifica wikitesto]

In Nord Africa, l'8 dicembre 1940, prevenendo di cinque giorni la nuova offensiva italiana prevista per il 13 di quel mese, scattò la controffensiva inglese iniziata come "ricognizione in forze" ma rapidamente trasformatisi in una grande offensiva. Con appena 35.000 uomini e 275 carri armati (contro i 150.000 uomini e 600 carri armati italiani), ma con un'abile strategia basata sulla guerra di movimento, il generale Richard O'Connor aggirò la linee italiane attaccandole alle spalle e proseguì l'avanzata fino al 9 febbraio 1941 costringendo gli italiani a ritirarsi di 400 chilometri e portando a termine l'occupazione della Cirenaica. Due sole divisioni britanniche annientarono 10 divisioni italiane facendo circa 130.000 prigionieri. Fra il 30 novembre 1940 e l'11 febbraio 1941, gli inglesi ebbero soltanto 438 morti, 1.200 feriti e 87 dispersi. Le perdite umane (morti, feriti e dispersi), subite dall'esercito italiano sono incerte, mentre quelle materiali furono di 1.100 cannoni e 390 carri armati.[317]

La guerra subalterna[modifica | modifica wikitesto]

La guerra parallela, su cui Mussolini aveva impostato l'intervento italiano, aveva due presupposti: la vicina vittoria tedesca sulla Gran Bretagna e la capacità delle forze italiane di conseguire successi parziali su teatri diversi come base per la rivendicazione di una serie di annessioni al tavolo della pace. Entrambi i presupposti vennero presto meno: la Gran Bretagna non fu conquistata e la guerra parallela italiana finì con tre sconfitte (il fallimento dell'aggressione alla Grecia, l'affondamento delle corazzate a Taranto e il disastro in Africa settentrionale). L'intervento tedesco nei Balcani e soprattutto nel Mediterraneo e in Africa settentrionale permise la continuazione della guerra italiana.

Sebbene fosse logico, in una guerra di coalizione, che l'alleato più forte venisse in aiuto di quello più debole, l'alleanza italo-tedesca fu sempre disuguale: Hitler e i suoi generali prendevano le loro decisioni senza consultare l'alleato italiano, le forze tedesche nel Mediterraneo aumentavano o diminuivano secondo le esigenze della guerra tedesca. Si parla di "guerra subalterna" nel 1941-1943[318] perché totalmente dipendente dalle decisioni tedesche.

Scende in campo l'Afrika Korps[modifica | modifica wikitesto]

Rommel, la volpe del deserto, incontra il generale italiano Italo Gariboldi a Tripoli nel febbraio 1941.

A seguito della sconfitta in Libia fra la fine del 1940 e l'inizio del 1941, il Maresciallo Graziani venne sostituito il 12 febbraio con il generale Italo Gariboldi. Il 14 febbraio sbarcarono in Libia le prime unità del corpo di spedizione tedesco noto come "Afrika Korps", al comando del generale Erwin Rommel, inviato in Africa da Adolf Hitler, preoccupato della situazione che si stava creando su quel fronte.[319]

Il generale Rommel era formalmente un subordinato del comandante in capo del fronte del Nord Africa, il generale italiano Italo Gariboldi, ma con il diritto di appellarsi direttamente ad Hitler in caso di disaccordo; tale situazione continuò fino al 1943 per due ragioni: le truppe dell'Asse erano composte in massima parte da italiani ed egli non ebbe mai al suo comando più di cinque divisioni tedesche; inoltre i rifornimenti via mare erano trasportati da mercantili italiani. Rommel tuttavia, per reputazione e personalità, di fatto riuscì sempre ad imporre il suo punto di vista all'alleato ed, in caso di richieste o istruzioni, si rivolse sempre al Führer o all'Oberkommando der Wehrmacht.[320]

Lo sbarco in Libia delle divisioni tedesche dell'Afrika korps determinò un capovolgimento degli equilibri in campo tra le forze dell'Asse e i britannici. Il 24 marzo 1941 Rommel con le divisioni italiane e l'Afrika Korps partì all'offensiva e nel giro di tre settimane, con un'avanzata di quasi 1.000 chilometri, riconquistò la Cirenaica. Il 13 aprile gli italo-tedeschi raggiunsero Sollum, sul confine con l'Egitto, dove Rommel si fermò per riorganizzare le sue forze. Nella veloce avanzata gli italo-tedeschi avevano lasciato indietro Tobruch, con le cui difese esterne erano venuti in contatto il 10 aprile e che fu assediata su un perimetro di 35 kilometri.[317] Intanto l'Africa Orientale Italiana aveva cessato di esistere e le forze che in tal modo si erano rese disponibili vennero rapidamente dirottate dai britannici in Egitto. Il 14 maggio i britannici lanciarono una prima offensiva nel tentativo di sbloccare Tobruch, ma vennero respinti da un contrattacco tedesco che tuttavia lasciò in mani britanniche il Passo Halfaya.[317] All'inizio di giugno, rinforzati dall'arrivo dei primi aiuti americani, i britannici lanciarono una nuova offensiva, l'Operazione Battleaxe, che partì il mattino del 15 giugno. La battaglia durò tre giorni lasciando sostanzialmente la situazione immutata. Dopo il fallimento di "Battleaxe", Churchill esonerò il generale Archibald Wavell e lo sostituì con il generale Claude Auchinleck. Dopo di ciò, le operazioni nel deserto libico conobbero un lungo periodo di stasi durato da luglio a novembre, in parte determinato dall'attacco tedesco all'Unione Sovietica che assorbì una grande quantità di uomini e mezzi. Il periodo di stasi fu utilizzato dagli opposti schieramenti per rinforzarsi; i britannici molto più degli italo-tedeschi: sostenuti dagli Stati Uniti grazie alla legge "Affitti e prestiti", approvata dal Congresso l'11 marzo 1941, riuscirono ad ammassare per l'inizio di novembre forze più che doppie di quelle avversarie.[317]

La battaglia di Capo Matapan[modifica | modifica wikitesto]

Bordata della Vittorio Veneto contro gli incrociatori inglesi della Forza B durante lo scontro di Gaudo (battaglia di Capo Matapan).

Il decisivo intervento tedesco a favore dell'Italia modificò i rapporti tra i due alleati: Hitler pretendeva di far pesare le sue decisioni anche sui comandi italiani. Lamentando l'inattività delle forze navali italiane e la facilità con la quale i britannici operavano il traffico marittimo fra l'Africa settentrionale e la Grecia, dove la Wehrmacht si accingeva a intervenire, i tedeschi incominciarono a premere sui comandi italiani per indurre la marina italiana ad assumere una tattica più offensiva rifiutando le scuse avanzate da Supermarina, come la penuria di nafta, e insinuando il dubbio che la marina italiana non osasse affrontare il nemico.

Fu decisa quindi un'azione offensiva nel Mediterraneo orientale in caccia del traffico Alleato; l'intera operazione era affidata al fattore sorpresa, ma l'intercettazione e la decrittazione di alcune comunicazioni radio italiane misero i britannici in condizione di prevenire le mosse italiane, sospendere il traffico mercantile e predisporre l'uscita della squadra navale da Alessandria e di una seconda squadra dal Pireo. La squadra navale italiana, al comando dell'ammiraglio Angelo Iachino e composta dalla corazzata Vittorio Veneto, da 6 incrociatori pesanti, 2 incrociatori leggeri e 14 cacciatorpediniere, prese il mare la sera del 26 marzo. La squadra britannica di Alessandria, al comando dell'ammiraglio Andrew Cunningham, con tre corazzate, una portaerei e 9 cacciatorpediniere salpò la sera del 27 marzo contemporaneamente alla squadra del Pireo, forte di 4 incrociatori leggeri e 4 cacciatorpediniere e al comando dell'ammiraglio Henry Pridham-Wippell. La partenza delle navi britanniche sfuggì alla ricognizione italiana a causa delle cattive condizioni meteorologiche. Quella stessa notte fu portata a termine una coraggiosa azione dei mezzi d'assalto della marina italiana nella baia di Suda, a Creta, dove sei uomini, comandati dal tenente di vascello Faggioni, a bordo di barchini esplosivi penetrarono nella baia e riuscirono ad affondare l'incrociatore pesante York e una petroliera.

Il giorno seguente, 27 marzo, la squadra navale italiana fu individuata da un ricognitore britannico togliendo all'ammiraglio Iachino, la speranza di cogliere il nemico di sorpresa. Secondo le disposizioni di Cunningham, le due formazioni britanniche avrebbero dovuto incontrarsi all'alba del 28 a sud-est di Gaudo, ossia più o meno nello stesso luogo dove, secondo gli ordini di Supermarina, doveva trovarsi a quell'ora la squadra italiana. Alle 8:00 del mattino i tre incrociatori pesanti (Trieste, Bolzano e Trento) dell'ammiraglio Luigi Sansonetti si scontrarono con i quattro incrociatori leggeri di Pridham-Wippel. Sia Sansonetti che Pridham-Wippell avevano ricevuto gli stessi ordini: in caso di ingaggio, dovevano ritirarsi facendo in modo che il nemico li inseguisse, in modo da portarlo più vicino possibile alle navi da battaglia. Gli inglesi furono i primi a invertire la rotta inseguiti da quelli italiani finché alle 8:30 Iachino ordinò a Sansonetti di interrompere l'azione e rientrare; appena gli italiani interruppero l'inseguimento, gli incrociatori inglesi invertirono la rotta e presero a seguirli. L'ammiraglio Iachino riuscì a stringere con la Vittorio Veneto le distanze sugli incrociatori leggeri britannici e alle 10:56 aprì il fuoco senza colpire gli avversari. Cunningham, troppo lontano dalla zona dello scontro per intervenire direttamente, fece alzare dalla portaerei Formidable un gruppo di sei aerosiluranti Fairey Albacore per attaccare la corazzata italiana; gli aerosiluranti giunsero sulle navi italiane alle 11:15 ma non riuscirono a mettere a segno neppure un colpo. Le navi di Pridham-Wippell ne approfittarono per portarsi fuori tiro. Preoccupato dalla presenza degli aerei imbarcati britannici e con i caccia a corto di carburante, alle 11:40 Iachino diede ordine alla squadra italiana di sospendere l'azione, invertire la rotta e rientrare verso la base.

Mentre la squadra di Iachino si dirigeva a tutta forza verso le basi italiane inseguita dalle navi britanniche, gli aerosiluranti della Formidable attaccarono nuovamente la squadra italiana colpendo la Vittorio Veneto, che potette continuare la navigazione, sia pure a velocità ridotta. Gli attacchi aerei continuarono fino al crepuscolo e, nell'ultimo attacco, un siluro colpì l'incrociatore Pola, immobilizzandolo. L'ammiraglio Iachino ordinò agli incrociatori Fiume e Zara, con la scorta dei cacciatorpediniere Alfieri, Gioberti, Oriani e Carducci, di tornare indietro verso il Pola per soccorrerlo proprio mentre la squadra britannica si stava avvicinando. Le navi italiane finirono nella trappola: le navi britanniche equipaggiate per il combattimento notturno e dotate su alcune unità di apparecchiature radar, aprirono il fuoco alle 22:27: sugli incrociatori italiani si abbatterono le salve da 381 mm delle corazzate Warspite, Valiant e Barham: i due incrociatori vennero affondati insieme ai cacciatorpediniere Alfieri e Carducci, mentre l'Oriani e il Gioberti riuscirono a fuggire.

Verso le 3:00 del mattino il cacciatorpediniere Jervis si avvicinò al Pola con l'intento di silurarlo, ma visto che dal Pola non giungevano segni di ostilità, il comandante britannico decise di affiancarlo per trarre in salvo l'equipaggio prima di affondarlo. Alle 3:40, dopo aver preso a bordo l'intero equipaggio, il Jervis si scostò dal Pola e gli indirizzò contro un siluro facendolo colare a picco. Alle 8:00 del mattino del 29 marzo, oltre ai 258 uomini del Pola, i britannici avevano già tratto in salvo 905 naufraghi, ma l'arrivo di una formazione di aerei tedeschi li costrinse a interrompere l'operazione di salvataggio.

Blitz nei Balcani[modifica | modifica wikitesto]

Bersaglieri italiani in Jugoslavia nel 1941.

Agli inizi del 1941, ottenuto l'appoggio di Romania, Ungheria, Bulgaria, Slovacchia e Jugoslavia, Hitler si preparava a portare l'attacco contro l'URSS avendo il controllo completo del fianco meridionale delle sue armate dirette ad est, ma la situazione delle truppe italiane in Albania e il colpo di stato in Jugoslavia del 27 marzo 1941, che rovesciò il governo collaborazionista del principe reggente Pavle proclamando maggiorenne il giovane re Pietro II e stringendo un patto d'alleanza con l'URSS, costrinsero il Fürehr a rimandare l'attacco per soccorrere gli italiani, occupare la Grecia e regolare la situazione in Jugoslavia.

Zone di occupazione italo-tedesche della Jugoslavia.

L'attacco contro la Jugoslavia, scattato all'alba del 6 aprile, venne affidato alla XII armata del feldmaresciallo Wilhelm List, che partendo dalla Bulgaria si diresse verso Belgrado, mentre la II armata di Weichs varcava il confine jugoslavo da nord. Dall'Ungheria intervenne la III armata ungherese, e la II armata italiana del generale Vittorio Ambrosio, schierata alla frontiera giuliana, si diresse verso Lubiana e lungo la costa dalmata. Le truppe italiane occuparono la Slovenia, la Dalmazia e il Montenegro e si ricongiunsero con i reparti provenienti dall'Albania. In sole due settimane la resistenza jugoslava venne annientata e il paese venne smembrato dai vincitori:

La Croazia (colore rosso), che comprendeva la maggior parte dei territori delle attuali Croazia e Bosnia ed Erzegovina, venne dichiarata regno indipendente ed affidata, nominalmente, al principe Aimone di Savoia Aosta, ma di fatto venne retta da un governo filo-nazista del capo degli ustascia Ante Pavelić. Anche in Serbia venne creato uno stato fantoccio sotto la guida del Generale Milan Nedić.

Gli italiani ottennero anche il protettorato sul Montenegro, paese natale della Regina Elena, mentre l'Albania (occupata dall'Italia sin dal 1939) acquisì buona parte del Kossovo, la parte occidentale della Macedonia jugoslava (Dibrano) e, a spese del Montenegro, estese le sue frontiere a nord, nella regione della Metohija.

Le diverse zone della Grecia occupate dai paesi dell'Asse

Contemporaneamente all'attacco contro la Jugoslavia, i tedeschi penetrarono in Grecia dalla Bulgaria e in breve tempo raggiunsero Salonicco, tagliando fuori il contingente greco di stanza in Tracia. Avanzando verso la costa occidentale della Grecia la Wehrmacht tagliò fuori le divisioni greche in Albania e, travolte con rapide manovre di aggiramento le linee difensive britanniche, i tedeschi ottennero rapidamente il crollo di ogni resistenza.

Con la firma della resa e la successiva conquista dell'isola di Creta, il paese ellenico venne suddiviso tra le forze italiane, tedesche e bulgare. Come mostra la cartina qui a fianco:

Ad Atene venne instaurato un governo militare greco, sottoposto al controllo della Germania nazista e dell'Italia fascista, guidato dal Generale Georgios Tsolakoglu.

La fine dell'Impero[modifica | modifica wikitesto]

Intanto, in Africa Orientale, l'Italia subì la controffensiva britannica. Nel gennaio 1941 le forze italiane erano ancora in superiorità numerica, nonostante fossero isolate dalla madrepatria, e grazie al reclutamento di cittadini italiani ed etiopici potevano contare su circa 340.000 uomini; mentre le forze britanniche disponevano di 250.000 uomini e sulle forze della guerriglia etiopica.

Sul fronte settentrionale, la pressione britannica indusse gli italiani ad evacuare la città di Cassala in Sudan, conquistata pochi mesi prima, e a ripiegare in Eritrea sulle posizioni fortificate prima di Agordat (Battaglia di Agordat), poi di Cheren (Battaglia di Cheren), dove resistettero fino al 27 marzo.[321] A sud, conquistata la Somalia nel marzo 1941, le truppe britanniche respinsero quelle italiane verso il centro dell'Etiopia, sino a giungere alla resa, con l'onore delle armi, di Amedeo duca d'Aosta, viceré d'Etiopia, sulle alture dell'Amba Alagi (Seconda battaglia dell'Amba Alagi).

Il 6 aprile Haile Selassie entrò a Debra Marcos, mentre le avanguardie di Alan Gordon Cunningham erano giunte alle porte della capitale dell'impero. A Combolcià, pochi chilometri a sud di Dessiè, si trovavano postazioni difensive italiane; il raggruppamento di brigata sudafricano del generale Dan Pienaar impegnò l'artiglieria italiana con i suoi cannoni, mentre la fanteria raggiunse le alture a quota 1.800 metri. I sudafricani impiegarono tre giorni per raggiungere gli obiettivi e, dopo che un gruppo di guerriglieri etiopici si era unito a loro, presero d'assalto e conquistarono le postazioni italiane (22 aprile). I sudafricani ebbero 9 morti e 30 feriti e fecero 8.000 prigionieri[322].

Ad Addis Abeba, dove vivevano ben 40.000 civili italiani, i britannici affidarono l'amministrazione pubblica ai reparti della PAI (Polizia dell'Africa Italiana), che provocarono diversi incidenti: spararono sui prigionieri etiopici non ancora liberati uccidendone 64, mentre un gruppo di ausiliari reclutati tra i civili uccise altri 7 etiopi durante una rissa[323]. Allora i britannici disarmarono i soldati italiani e affidarono l'ordine pubblico all'appena ricostituita polizia etiope. La vittoria finale dell'Etiopia e la sua liberazione dipesero molto anche dall'opposizione continua degli etiopi alla dominazione italiana, con una guerra (e guerriglia) che effettivamente non si fermò per tutti cinque anni di occupazione italiana fino alla totale liberazione. Il 5 maggio 1941, il Negus Haile Selassie entrò ad Addis Abeba su un'Alfa Romeo scoperta, preceduto dal colonnello Wingate su un cavallo bianco.

Anche dopo la conquista alleata di Addis Abeba e l'episodio dell'Amba Alagi, resistette ancora per diversi mesi la guarnigione italiana di Gondar, forte di circa 40.000 uomini[324] e comandata dal generale Guglielmo Nasi. Il generale amministrò egregiamente il suo avamposto e fino a ottobre, la situazione dei soldati italiani fu relativamente buona, ma dopo la caduta del presidio di Uolchefit e di quello di passo Culqualber, il 27 novembre, nella battaglia di Gondar, gli italiani furono sconfitti e costretti ad arrendersi.

Gli italiani in Russia[modifica | modifica wikitesto]

Con l'Operazione Barbarossa, scatenata da Hitler il 22 giugno 1941, il conflitto registrò una svolta destinata ad avere conseguenze decisive sulla storia del mondo. L'attacco cominciò all'alba su tutta la linea del fronte, dal mare del Nord al Mar Nero; le forze tedesche comprendevano 3.200.000 uomini (suddivisi in 153 divisioni, di cui 19 corazzate e 15 motorizzate), 3.400 carri armati, 250 semoventi, 7.150 cannoni, 600.000 automezzi, 625.000 cavalli e 3.900 aerei. Alle forze tedesche si affiancavano circa 690.000 soldati dei paesi alleati: finlandesi, romeni, ungheresi, slovacchi e "volontari" spagnoli e francesi[325].

Soldati dell'ARMIR in URSS nel 1942

Mussolini, impressionato dai primi clamorosi successi nazisti, si precipitò ad offrire ad Hitler l'aiuto di un consistente corpo di spedizione italiano, nonostante Hitler lo avesse tenuto all'oscuro fino all'ultimo dell'inizio dell'invasione e avesse inizialmente tentato di respingere l'offerta di aiuto: "L’aiuto decisivo, Duce, lo potrete però sempre fornire con il rafforzare le Vostre forze nell’Africa Settentrionale... nonché intensificando la guerra aerea e, dove sia possibile, quella dei sottomarini nel Mediterraneo".[326] L'invio nell'estate 1941 del CSIR (Corpo di spedizione italiano in Russia) agli ordini del generale Giovanni Messe (tre divisioni, 62.000 uomini, 5.500 automezzi, 4.600 quadrupedi, 220 pezzi di artiglieria, 83 aerei), ebbe un valore prettamente politico: non influì, se non minimamente, sui rapporti di forza nella campagna; rappresentò, invece, la volontà di Mussolini di difendere il suo ruolo di primo fra gli alleati di Hitler in quella che si prospettava come la trionfale e decisiva vittoria.

Le divisioni dello CSIR giunsero in ferrovia la frontiera russa, poi avanzarono in Ucraina parte a piedi e parte in autocarro. Furono inserite nel gruppo corazzato Von Kleist (poi I armata corazzata), e impiegate in autunno nella regione dei fiumi Dnepr e Donec per l'eliminazione delle sacche di resistenza che la progressione delle forze motocorazzate tedesche si era lasciate alle spalle. Successivamente furono schierate sul fronte con compiti di difesa statica e a fine dicembre e poi in gennaio riuscirono a respingere alcuni attacchi della fanteria russa. I mesi successivi videro soltanto combattimenti minori. Le perdite fino al 30 luglio 1942 furono di 1.792 morti e dispersi e 7.878 tra feriti e congelati.

L'anno seguente, il corpo di spedizione italiano venne rafforzato da altre sei divisioni e trasformato nell'VIII armata, conosciuta come ARMIR (Armata italiana in Russia) e posta al comando del generale Gariboldi, che nell'autunno 1942 contava 230.000 uomini, 16.700 automezzi, 1.150 trattori di artiglieria, 4.500 motoveicoli, 25.000 quadrupedi, 940 cannoni e 64 aerei. Le nuove divisioni italiane giunsero nell'estate 1942 in ferrovia fino alla zona di Karkov per poi percorrere da 500 a 1.000 km fino alla linea del fronte con i propri mezzi: a piedi o in autocarro.

I mezzi d'assalto e gli aerosiluranti[modifica | modifica wikitesto]

Lo Scirè con i contenitori per tre mezzi d'assalto sul ponte di coperta utilizzati nell'Impresa di Alessandria.

Nella guerra subalterna condotta dall'Italia, furono solo gli aerosiluranti della Regia aeronautica e i mezzi d'assalto della Regia marina a conseguire qualche significativa vittoria.

Come già detto, la notte del 26 marzo 1941 i mezzi d'assalto della marina italiana penetrarono nella baia di Suda e riuscirono ad affondare l'incrociatore pesante York e a danneggiare gravemente la nave cisterna Pericles che venne abbandonata durante il rimorchio verso Alessandria.

Il 23 luglio 1941 aerosiluranti italiani della 280ª e della 283ª suadriglia attaccarono ripetutamente un grosso convoglio britannico colpendo l'incrociatore Manchester e un mercantile ed affondando il cacciatorpediniere Fearless. Il 26 settembre successivo il convoglio britannico Halberd partì da Gibilterra per rifornire la base di Malta. Il giorno successivo venne attaccato da diverse squadriglie di aerosiluranti, concentratesi in Sardegna per affrontarlo, che riuscirono ad affondare il piroscafo Imperial Star da 12.000 tonnellate e a danneggiare diverse altre navi, tra cui la corazzata Nelson colpita a prua. Durante tutto il 1941 gli aerosiluranti della Regia aeronautica riuscirono ad affondare nove navi, più quattro probabili, e a danneggiarne più o meno gravemente altre trenta, con la perdita di 14 aerei su un totale di 260 impiegati.[309]

La sera del 18 dicembre 1941, il sommergibile Scirè portò fino all'imbocco del porto di Alessandria 3 maiali (siluri pilotati), i cui equipaggi, penetrati all'interno del porto, riuscirono a piazzare cariche esplosive sul fondo delle corazzate Queen Elisabeth (33.550 t) e Valiant (27.500 t), affondando la prima e danneggiando gravemente la seconda. Nella stessa azione venne affondata la petroliera Sagona (7.750 t) e danneggiato l'incrociatore leggero Jervis (1.690 t).

La controffensiva britannica in Africa settentrionale[modifica | modifica wikitesto]

In Africa settentrionale, durante il lungo periodo di stasi delle operazioni da luglio a novembre, le forze britanniche si erano rafforzate molto più di quelle italo-tedesche: ai circa 600 aeroplani e 400 carri armati italo-tedeschi si contrapponevano 1.300 aerei e 800 carri britannici. Il 15 agosto il generale Rommel aveva assunto il comando di tutte le forze italo-tedesche, che comprendevano 7 divisioni italiane (200.000 uomini), tra cui l'Ariete, corazzata, e 67.000 soldati tedeschi con due divisioni corazzate.[317]

Il 18 novembre i britannici attaccarono in direzione di Sidi Rezegh dando inizio ad una battaglia molto complessa che proseguì fino al 10 gennaio 1942 e che può essere divisa in tre fasi: fra il 18 e il 26 novembre l'attacco a Sidi Rezegh che venne respinto; dal 27 novembre al 2 dicembre la battaglia di Bir el-Gobi, al termine della quale i britannici, dopo durissimi scontri con le forze corazzate tedesche e la divisione Ariete, arrivarono a Tobruch; dal 7 dicembre al 10 gennaio 1942 gli italo-tedeschi, che erano rimasti con una settantina di carri in tutto (40 i tedeschi e 30 l'Ariete), si sganciarono dal nemico e ripiegarono dalla Cirenaica.[317]

L'America in guerra[modifica | modifica wikitesto]

Nell'autunno del 1941 la situazione mondiale era cambiata decisamente: i sovietici dopo un lungo periodo di insuccessi non si erano lasciati travolgere dai tedeschi e gli Stati Uniti, attaccati dal Giappone a Pearl Harbor il 7 dicembre, erano entrati in guerra.

L'11 dicembre Mussolini annunciò con il solito discorso dal balcone di Palazzo Venezia la dichiarazione di guerra dell'Italia agli Stati Uniti e, alle 14:30 dello stesso giorno, l'incaricato d'affari americano George Wadsworth venne convocato dal ministro degli esteri italiano Ciano per sentirsi comunicare la dichiarazione di guerra: "Vi ho chiamato per comunicarvi, nel nome del mio re e del governo italiano, che da oggi l'Italia si considera in guerra con gli Stati Uniti". "It's very tragic" ("È molto tragico"), fu la risposta di Wadsworth.[327]

La guerra sporca di Mussolini[modifica | modifica wikitesto]

Monumento alle vittime dell'eccidio di Podhum'.
Vista del campo di concentramento di Arbe
Internati morti nel campo di concentramento di Arbe. Fonte: Rabski zbornik, 1953.[328]

Dal giugno 1940, al settembre 1943, l'esercito italiano combatté la stessa guerra di aggressione della Germania nazista.
Il modo d'occupazione italiano dei territori conquistati non fu difforme dagli altri praticati a quel tempo; senza dimenticare che esso fu applicato in regioni dove gli italiani erano percepiti dalla popolazione locale come aggressori e come tali furono osteggiati e contrastati.

La lotta contro i "banditi" slavi o greci, fu condotta con modalità di guerra dure, talvolta spietate, che in Grecia furono rese ancor più aspre dalla penuria alimentare, mentre in Jugoslavia furono rese drammatiche da feroci contrasti etnico-politici che contrapponevano ustascia, cetnici e titoisti alla ferrea volontà italiana di trasformare in suolo patrio, territori non abitati da italiani, se non in parte della Dalmazia.

Le autorità greche segnalarono stupri di massa. Il comando tedesco in Macedonia arrivò a protestare con gli italiani per il ripetersi delle violenze contro i civili. Il capo della polizia di Elassona, Nikolaos Bavaris, scrisse una lettera di denuncia ai comandi italiani e alla Croce rossa internazionale: "Vi vantate di essere il Paese più civile d'Europa, ma crimini come questi sono commessi solo da barbari". Fu internato, torturato e deportato in Italia.

Il 16 febbraio 1943 a Domenikon, un piccolo villaggio della Grecia centrale situato in Tessaglia, l'intera popolazione maschile tra i 14 e gli 80 anni venne trucidata. Nei dintorni di Domenikon, poco prima della strage, un attacco partigiano aveva provocato la morte di 9 soldati italiani. Il generale della 24ª Divisione fanteria "Pinerolo", Cesare Benelli, ordinò la repressione: centinaia di uomini circondarono il villaggio, rastrellarono la popolazione e catturarono più di 150 uomini dai 14 agli 80 anni. Li tennero in ostaggio fino a che, nel cuore della notte, procedettero alla fucilazione.[329] L'episodio rappresenta uno dei più efferati crimini di guerra commessi dall'Italia durante la Seconda guerra mondiale.

Questo episodio non fu sporadico: secondo la storica Lidia Santarelli fu il primo di una serie di episodi di repressione nella primavera-estate 1943 conseguenti a una circolare del generale Carlo Geloso, comandante delle forze italiane di occupazione, per la quale nella lotta ai ribelli si adottò il principio della responsabilità collettiva: per annientare il movimento partigiano andavano annientate le comunità locali.[329] A partire dal luglio 1942 in Jugoslavia le divisioni italiane, con grandi operazioni di rastrellamento alla caccia delle formazioni partigiane, svuotarono il territorio in cui queste erano più presenti, deportando la popolazione dei villaggi in campi di concentramento costituiti appositamente. Si trattava soprattutto di donne, bambini ed anziani, poiché gli "uomini validi" fuggivano nei boschi alla vista dei reparti italiani, per evitare di essere presi come ostaggi e fucilati nelle quotidiane rappresaglie decretate dai tribunali militari di guerra.

Ma dai documenti degli stessi generali italiani emerge anche la determinazione per cui le rappresaglie contro i civili dovevano essere un'arma di pressione contro i partigiani del Fronte di Liberazione, che tenevano in scacco una grossa parte dell'esercito italiano. Tra l'estate del 1942 e quella del 1943 furono attivi sette campi di concentramento per civili sotto il controllo della II Armata (che aveva la competenza su Slovenia e Dalmazia). Stabilire oggi il numero dei deportati risulta assai difficile, sia per la frammentarietà degli archivi consultabili, sia perché le stesse autorità italiane scrivevano di non avere un quadro preciso delle situazione. Secondo alcune stime si conterebbero almeno 20.000 civili sloveni internati. Mentre un documento del Ministero degli interni italiano, databile alla fine dell'agosto 1942, indica un complesso di cinquantamila elementi circa, sgombrati dai territori della frontiera orientale in seguito alle operazioni di polizia in corso, di cui la metà donne e bambini.

Le cause principali delle morti nei campi di concentramento furono la fame e il freddo. Già nel maggio 1942 una lettera di un dirigente cattolico di Lubiana segnalò alle autorità militari italiane, che "nel campo di concentramento di Gonars ... gli internati soffrono atrocemente la fame". Nel luglio 1942, il regime d'occupazione italiano instaurò ad Arbe (più esattamente nella località di Campora), un campo di concentramento per i civili slavi delle zone occupate della Slovenia (vi furono internati anche alcuni civili della vicina Venezia Giulia). In seguito vi furono ospitati anche ebrei fuggiti dalla Croazia. Complessivamente vi furono internati più di 10.000 civili, in massima parte vecchi, donne e bambini, cifra che non comprende coloro che passarono in transito verso altri campi nei territori occupati o nel Regno d'Italia.[330] Il campo si caratterizzò per la durezza del trattamento riservato agli internati di etnia slava, dei quali un gran numero perì di stenti e malattie. Secondo il Centro Simon Wiesenthal, il campo ospitò 15.000 prigionieri dei quali 4.000 morirono. Il numero complessivo di vittime non è accertato, ma si stima che soltanto nell'inverno 1942-1943 circa a 1.500 persone persero la vita[331] a causa della denutrizione, del freddo, delle epidemie e dei maltrattamenti. Il campo di Arbe fu gestito completamente da italiani.

Il 12 luglio 1942 nel villaggio di Podhum, per rappresaglia furono fucilati da reparti militari italiani per ordine del Prefetto della Provincia di Fiume Temistocle Testa tutti gli uomini del villaggio di età compresa tra i 16 ed i 64 anni. Sul monumento che oggi sorge nei pressi del villaggio sono indicati i nomi delle 91 vittime dell'eccidio. Il resto della popolazione fu deportata nei campi di internamento italiani e le abitazioni furono incendiate.[332][333]

Nel Montenegro la divisione Alba incendiò interi villaggi e massacrò gli abitanti; 6 villaggi vennero bruciati nella zona di Čevo. La 5ª Divisione alpina "Pusteria" fece terra bruciata: i testimoni raccontarono crimini orrendi, bambini uccisi dagli alpini come a un tiro al piccione.[334]

A Lubiana nel solo mese del marzo '42 gli italiani fucilarono 102 ostaggi[335]. Un soldato italiano in una lettera inviata a casa il 1º luglio 1942 scrisse: «Abbiamo distrutto tutto da cima a fondo senza risparmiare gli innocenti. Uccidiamo intere famiglie ogni sera, picchiandoli a morte o sparando contro di loro. Se cercano soltanto di muoversi tiriamo senza pietà e chi muore muore»[336][337] Un altro scrisse: «Noi abbiamo l'ordine di uccidere tutti e di incendiare tutto quel che incontriamo sul nostro cammino, di modo che contiamo di finirla rapidamente»[338][339]
Secondo fonti slovene e jugoslave, in 29 mesi di occupazione italiana della Provincia di Lubiana, vennero fucilati, come ostaggi o durante operazioni di rastrellamento, circa 5.000 civili ai quali si devono aggiungere 200 bruciati vivi o massacrati in modo diverso, 900 partigiani catturati e fucilati e oltre 7.000 (su 33.000 deportati) persone, in buona parte anziani, donne e bambini, morti nei campi di concentramento. In totale, quindi, si arrivò alla cifra di circa 13.100 persone uccise su una popolazione totale di circa 340.000 persone, cioè il 3,9% della popolazione.[340]

La nuova offensiva di Rommel e la battaglia di El Alamein[modifica | modifica wikitesto]

File:M13-40 AS1942.jpg
Un M13/40 in Africa Settentrionale nel 1942.

Dopo aver ricevuto nuovi rinforzi, il 21 gennaio 1942 Rommel ripartì all'offensiva con due divisioni corazzate tedesche, due divisioni italiane (compresa la divisione corazzata Ariete) e la 90ª divisione di fanteria leggera tedesca. Il 23 gennaio raggiunse Agedabia, il 29 Bengasi, il 1º febbraio Cirene e il 4 Ain el-Gazala. Poi, fino a maggio Rommel fermò l'offensiva per riordinare le sue forze.[317]

Intanto, fra gennaio e aprile, l'aviazione tedesca di base in Sicilia, con un modesto concorso di quella italiana, sottopose la base di Malta ad una serie di continui attacchi che rallentarono la pressione britannica sul traffico navale italo-tedesco consentendo ai rifornimenti di giungere in Libia praticamente senza contrasto. In questo periodo le forze italiane e tedesche nel Mediterraneo, pur tra molte difficoltà, raggiunsero la loro massima potenza ed efficienza.[341] In giugno, la necessità di rifornire Malta provocò la cosiddetta battaglia di mezzo giugno: due convogli navali partirono da Alessandria (Operazione Vigorous) e Gibilterra (Operazione Harpoon) e contro di essi si lanciarono le forze aree italiane e tedesche e quelle navali italiane: solo due piroscafi del primo convoglio riuscirono a raggiungere Malta, mentre il secondo dopo aver subito pesanti perdite preferì invertire la rotta e tornare alla base. In agosto, con l'Operazione Pedestal, i britannici tentarono di nuovo di rifornire Malta: un convoglio composto da 14 mercantili partì da Gibilterra con la scorta di due corazzate, tre portaerei, tre incrociatori e 14 cacciatorpediniere. Fra l'11 e il 14 agosto (battaglia di mezzo agosto), il convoglio venne sottoposto all'attacco delle forze aeronavali italiane e tedesche: nove mercantili, la porterei Eagle, due incrociatori e un cacciatorpediniere vennero affondati; solo cinque navi da carico, di cui due pesantemente danneggiate, riuscirono a raggiungere Malta.[309]

Sul fronte terrestre, ripresa l'offensiva, il 28 maggio Rommel spezzò le linee britanniche fra Ain el-Gazala e Bir Hachéim, il 21 giugno prese Tobruch e il 30 giugno raggiunse le posizioni avanzate di El Alamein, su cui le truppe britanniche avevano ripiegato e dove erano state predisposte difese assai forti. Il 31 giugno Rommel lanciò il primo attacco contro le difese britanniche (Prima battaglia di El Alamein), senza preparazione di artiglieria e con le prime truppe arrivate, la 90ª divisione di fanteria leggera tedesca e la divisione Trento, ma l'attacco fallì. Fallito anche un contrattacco britannico il 22 luglio, la situazione si stabilizzò senza più alcuna azione di rilievo fino alla fine di agosto.[317]

Nella lunga stasi delle operazioni corrispondente al mese di agosto, Rommel cercò di assestare e riorganizzare le sue forze, ricevendo nuovi rinforzi in aerei e mezzi corazzati, ma dall'altra parte le forze britanniche (a cui si aggiunse l'intervento diretto di forze aeree statunitensi), avevano ormai raggiunto una netta superiorità.[317]

Fanti italiani nel nord Africa durante la battaglia di El Alamein.

Il 30 agosto Rommel passò all'offensiva: prima effettuò un attacco di sondaggio nel pomeriggio del 30 e poi nella notte fra il 30 e il 31 mandò in avanti la massa dei carri armati: il piano di Rommel era di penetrare in profondità le difese britanniche e poi stringere verso nord per accerchiarle; ma i campi minati, l'artiglieria inglese e l'aviazione anglo-americana ritardarono l'avanzata delle forze corazzate dell'Asse che giunsero con 12 ore di ritardo sulle posizioni dalle quali doveva partire la conversione verso nord. La sera del 1º settembre Rommel fermò l'attacco sulle posizioni raggiunte, anche perché i suoi carri avevano consumato il triplo del carburante previsto a causa del terreno impervio, contando di ripartire non appena avesse ricevuto rifornimenti. Però, il 2 settembre l'aviazione britannica affondò davanti a Tobruch la nave cisterna Fassio e danneggiò gravemente l'Abruzzi, così, non potendo più sperare negli indispensabili rifornimenti di benzina, il 3 settembre Rommel ordinò il ripiegamento.[317]

I mesi di settembre e ottobre vennero utilizzati dagli Alleati anglo-americani per rafforzarsi al di là di ogni possibilità di confronto con gli italo-tedeschi: a 195.000 soldati, 1.000 cannoni, 1.200 carri armati e 1585 aeroplani anglo-americani, si opponevano 104.000 soldati, 480 cannoni, 500 carri armati e 700 aeroplani italo-tedeschi.[342][343] E mentre il Mediterraneo diventò praticamente intransitabile per le navi italiane, gli Alleati facevano arrivare i propri rinforzi attraverso la sicura linea di comunicazione africana che faceva capo a Takoradi nella Costa d'Oro.[141][317]

La notte fra il 23 e il 24 ottobre l'8ª armata di Montgomery passò all'offensiva: dopo due ore di preparazione di artiglieria, con l'appoggio di grosse formazioni di bombardieri notturni e preceduta dalle cornamuse degli scozzesi, l'8ª armata attaccò su un fronte di dieci km rompendo le prime linee di resistenza. Il giorno seguente le forze corazzate dell'Asse riuscirono a ristabilire la situazione e per otto giorni, con una serie di contrattacchi, fermarono i britannici, ma non potendo contare su reintegri delle sue perdite, Rommel nella notte del 2 novembre, nonostante gli ordini contrari di Hitler e Mussolini, ruppe il contatto col nemico iniziando il ripiegamento.[317]

La disfatta in Russia[modifica | modifica wikitesto]

L'ARMIR prese parte all'offensiva estiva tedesca del 1942, denominata Operazione Blu. Schierata alle dipendenze del Gruppo di Armate B tedesco, venne destinata alla protezione del fianco sinistro delle truppe impegnate nella battaglia di Stalingrado. Venne perciò schierata lungo il bacino del Don, tra la 2ª Armata ungherese a nord e la 3ª Armata romena a sud. Il 20 agosto, truppe sovietiche attaccarono il settore difeso dal XXXV Corpo d'Armata, riuscendo a stabilire una testa di ponte oltre il Don. Il contrattacco italiano lanciato il 23 (durante il quale si svolse il celebre episodio della carica di Isbuscenskij) riuscì in qualche modo a contenere l'azione dei sovietici, che tuttavia furono in grado di consolidare le posizioni conquistate.

Settembre e ottobre trascorsero tranquillamente, con le truppe italiane disposte a difesa di un tratto di fronte lungo 270 km: l'ampiezza era tale che tutte le divisioni erano schierate in prima linea, con l'eccezione della Vicenza (impegnata a contrastare i partigiani nelle retrovie) e del Raggruppamento Barbò (giudicato inadatto al ruolo di difesa statica). Il 19 novembre, l’Armata Rossa lanciò una massiccia offensiva (Operazione Urano) volta ad accerchiare le truppe tedesche a Stalingrado. L'azione portò all'annientamento della 3ª Armata romena, schierata a sud dell'ARMIR. Il 16 dicembre, l'offensiva sovietica (Operazione Piccolo Saturno) si scatenò anche contro le linee tenute dal II e XXXV Corpo dell'ARMIR. Il primo attacco sovietico fu contenuto, ma il 17 i sovietici lanciarono all'attacco le divisioni corazzate travolgendo le linee tenute dagli italiani e obbligandoli alla ritirata. Quasi prive di mezzi di trasporto, le divisioni di fanteria dell'ARMIR finirono in gran parte annientate.

Colonna di prigionieri italiani, tedeschi, ungheresi e rumeni.

L'offensiva sovietica non coinvolse il Corpo d'Armata alpino, che continuò a tenere le sue posizioni sul Don. La Divisione Julia, sostituita sulla linea del fronte dalla Divisione Vicenza, fu riposizionata sul fianco destro del Corpo alpino insieme al XXIV Corpo d'Armata tedesco, riuscendo a contenere lo sfondamento nemico. Il 13 gennaio 1943, i sovietici attaccarono e travolsero la 2ª Armata ungherese (Offensiva Ostrogorzk-Rossoš), completando l'accerchiamento del Corpo d'Armata alpino. L'ordine di ripiegare dal Don venne dato (con molto ritardo), solo il 17 gennaio. In dieci giorni, le tre divisioni alpine, la Divisione Vicenza, alcune unità tedesche del XXIV Corpo e una gran massa di sbandati italiani, ungheresi e romeni, coprirono più di 120 km in ritirata, in condizioni climatiche proibitive (neve alta e temperature tra i -35º e i -42º), con pochi mezzi di trasporto e vestiario insufficiente, sottoposte ad incessanti attacchi da parte delle truppe regolari e dei partigiani sovietici. Il 26 gennaio, la Divisione Tridentina riuscì a rompere l'accerchiamento sovietico presso Nikolajewka, mentre le divisioni Julia, Cuneense e Vicenza finirono pressoché annientate.

Quando il 30 gennaio 1943 i sopravvissuti si raccolsero a Schebekino, dove poterono finalmente riposare dopo 350 chilometri di marce estenuanti e dopo tredici battaglie, la Campagna di Russia ebbe termine per le truppe italiane. Gravissime furono le perdite, in particolare delle divisioni alpine: dei 57.000 alpini partiti per la Russia, ne ritornarono solo 11.000: tutti gli altri morirono nel corso delle battaglie, durante la ritirata attraverso la desolata steppa russa oppure nei campi di prigionia sovietici.

La fine in Africa[modifica | modifica wikitesto]

L'8 novembre 1942, sei giorni dopo la fine della battaglia di El Alamein, con lo sbarco in Marocco e in Algeria di una forza d'invasione anglo-americana forte di oltre 100.000 uomini (Operazione Torch), cominciò l'ultimo atto della guerra in Africa settentrionale. Sia in Marocco che in Algeria la resistenza dei reparti francesi fedeli al Governo collaborazionista di Vichy non durò a lungo e le forze d'invasione poterono rapidamente portarsi sugli obiettivi prestabiliti. Il punto debole dell'operazione anglo-americana era rappresentato dalla Tunisia, dove non erano stati previsti sbarchi e verso cui si stavano dirigendo le forze italo-tedesche di Rommel in ritirata lungo la costa libica. Nel quadro di una strategia difensiva da tempo elaborata, fra il 9 e il 10 novembre, truppe italiane e tedesche sbarcarono a Tunisi, Biserta, Sousse e Sfax via mare o da aerei da trasporto.[316]

L'11 novembre truppe italiane sbarcarono a Bastia, in Corsica, mentre i tedeschi procedettero all'occupazione della parte meridionale della Francia (Operazione Anton), allora sotto l'autorità del Governo di Vichy. All'occupazione della Francia prese parte anche la la 4ª armata italiana che occupò la Provenza fino al Rodano, comprese le città di Tolone, Aix-en-Provence, Grenoble, Avignone, Chambéry, Marsiglia. Al 31 maggio 1943, la 4ª armata in Francia constava di quattro divisioni di fanteria, due alpine, tre divisioni costiere ed altri reparti, per un totale di 142.000 uomini. Il VII corpo d'armata in Corsica era invece costituito da due divisioni di fanteria, una costiera e altri reparti, per un totale di 68.700 soldati.[344]

Spartizione dei territori francesi dopo l'occupazione

Uno degli obiettivi degli italo-tedeschi era la cattura della flotta francese concentrata nel porto di Tolone (Operazione Lila), ma il comandante francese, ammiraglio Jean de Laborde, riuscì a far partire le navi di nascosto e la flotta si autoaffondò nel porto o appena al largo. Andarono così a fondo 3 corazzate, 7 incrociatori, 28 cacciatorpediniere e 20 sommergibili.

La ritirata italo-tedesca iniziata il 2 novembre a El-Alamein era proseguita attraverso la Cirenaica e la Tripolitania. Il 23 gennaio cadde Tripoli e tre giorni dopo Rommel varcò i confini della Tunisia per organizzarvi l'ultima resistenza con i reparti sopravvissuti agli attacchi dell'8ª armata britannica, che peraltro non era mai riuscita a tramutare la ritirata in rotta. Circa cento kilometri oltre il confine libico-tunisino, le truppe di Rommel si attestarono su una linea difensiva, la linea del Mareth, che correva fra la strada litoranea e l'omonima località che chiudeva a sud la linea del fronte stabilita il 1º dicembre fra Cap Serrat e Gafsa.[316] Il 4 febbraio Rommel avviò un attacco in direzione di Kasserine (in Tunisia) e Tébessa (in Algeria). L'attacco colse di sorpresa gli anglo-americani, tuttavia, dopo aver sfondato le difese americane a Kasserine, Rommel non riuscì a sfruttare il successo iniziale e a proseguire l'avanzata verso Tébessa per una mancanza di coordinazione con il generale Jürgin von Armin, che comandava le truppe italo-tedesche nel settore nord e per gli ordini contrari del Comando supremo italiano che, da Roma, autorizzò Rommel a proseguire l'avanzata in direzione nord, verso Le-Kef, invece che verso ovest. Il 17 febbraio l'Afrika Korps prese il campo d'aviazione di Thelepte, principale base aerea alleata nel settore sud, catturando trenta aerei avversari intatti e tre giorni dopo i carri tedeschi forzarono il Passo di Kasserine (Battaglia del passo di Kasserine), sulla dorsale montagnosa ad ovest della località omonima, distruggendo 22 dei 30 carri armati che lo bloccavano e catturando 30 mezzi cingolati che avevano trasportato fin là reparti di fanteria dell'US Army. Tuttavia, a causa delle incomprensioni con von Armin e il Comando supremo italiano, il 22 febbraio Rommel decise di rinunciare a continuare l'avanzata verso Le-Kef e si ritirò sulla linea di partenza.[316]

Il 6 marzo, nel tentativo di prevenire l'attacco britannico alla linea del Mareth, Rommel sferrò un nuovo attacco, questa volta verso est, in direzione di Médenine. Dopo alterne vicende, le truppe italo-tedesche vennero soverchiate dal nemico e riuscirono a sfuggire all'annientamento ritirandosi, il 27 marzo, sulla linea dell'Uadi Akarit, più a nord. Intanto però, il 9 marzo, Rommel era stato richiamato in patria e sostituito dal generale von Armin, mentre la 1ª armata italiana, che comprendeva anche i resti dell'Afrika Korps e due divisioni di fanteria tedesche, era stata posta agli ordini del generale Giovanni Messe.[316] Il 6 aprile l'8ª armata britannica sfondò anche la linea dell'Uadi Akarit e, il 22 aprile, la 1ª armata alleata da ovest e l'8ª armata britannica da sud attaccarono le ultime forze italo-tedesche attestate in zone montagnose fra Cap Serrat e Enfidaville riuscendo a superare le difese e a penetrare nella pianura. Il 7 maggio caddero Biserta e Tunisi, reparti della divisione corazzata tedesca Hermann Goering riuscirono a resistere fino al 10 maggio e la 1ª armata italiana schierata a sbarrare la penisola di Capo Bon resistette fino al 13 maggio. Circa 130.000 tedeschi e 118.000 italiani presero la strada della prigionia.[316] La fine della guerra in Africa venne annunciata agli italiani il 13 maggio: "La Prima Armata ha cessato stamane la resistenza per ordine del Duce".[345]

Verso la guerra civile[modifica | modifica wikitesto]

Operazione Husky[modifica | modifica wikitesto]

Piano di sbarco e dislocazione delle forze dell'Asse in Sicilia.
Soldati americani sbarcano in Sicilia.

La perdita della Tunisia lasciò l'Italia in prima linea di fronte a un avversario strapotente che poteva attaccarla dove voleva, disponendo di 35 divisioni perfettamente attrezzate alla guerra motorizzata, di una flotta da battaglia che comprendeva 6 navi di linea, 25 incrociatori, più di 100 cacciatorpediniere, 1.800 mezzi da sbarco e di una flotta mercantile di 2 milioni di tonnellate di stazza.

L'attacco all'Italia fu deciso da americani ed inglesi durante la Conferenza di Casablanca del 14 gennaio 1943 (a tal proposito, celebre rimase la definizione dell'Italia di Winston Churchill: «L'Italia è il ventre molle dell'Asse») e la pianificazione e l'organizzazione venne affidata al generale Dwight Eisenhower. In giugno gli inglesi sbarcarono nelle isole di Pantelleria e Lampedusa.

Preceduto da intensi bombardamenti, il 10 luglio 1943 iniziò lo sbarco in Sicilia della VII armata americana del generale George Patton e dell'VIII armata inglese di Montgomery (rispettivamente nel golfo di Gela e in quello di Siracusa). In un giorno 3.000 mezzi da sbarco riversarono sulle coste siciliane più di 150.000 uomini. A presidiare l'isola c'era la VI armata italiana, rafforzata da un contingente tedesco - una divisione corazzata e una di paracadutisti - a cui Hitler aveva ordinato di combattere in autonomia dall'alleato. Alle pendici dell'Etna Montgomery incontrò più resistenza del previsto nel suo cammino verso Messina, mentre Patton avanzava celermente verso le coste settentrionali dell'isola. Sul piano militare l'operazione Husky non fu un successo: quando più di un mese dopo gli Alleati entrarono a Messina, la maggior parte dei contingenti dell'Asse avevano già attraversato indisturbati lo stretto. La conquista della Sicilia costò agli Alleati circa 22.000 uomini: per gli USA 2.237 morti e 6.544 tra feriti e dispersi; gli inglesi ebbero 2.721 morti e 10.122 tra feriti e dispersi; le perdite canadesi ammontarono invece a 2.410, di cui 562 morti e 1.848 tra feriti e dispersi. Di tutt'altra portata furono invece le conseguenze politiche di un'invasione che darà l'ultimo scossone a un regime da tempo in bilico.

Bombe su Roma[modifica | modifica wikitesto]

Il quartiere San Lorenzo, duramente colpito dalle bombe.

Nove giorni dopo lo sbarco in Sicilia, il bombardamento di Roma ebbe un doppio scopo, militare e politico: colpire la capitale sarebbe stato il segno evidente che il regime fascista aveva ormai perso tutto. Lunedì 19 luglio 1943, 1.134º giorno di guerra, arrivò su Roma la più grande flotta aerea che mai avesse solcato i cieli italiani, 662 bombardieri scortati da 268 caccia: in tutto 930 aerei, tra i quali i famosi B-17 Flying Fortress, i B-24 Liberator, i B-26 Marauder, i caccia P-38 Lightning, strumenti poderosi, quanto di meglio sfornasse l'industria bellica degli Stati Uniti. Arrivarono sulla capitale alla quota di 20.000 piedi, equivalenti a oltre 6.000 metri. Roma rimase sotto le bombe per 152 minuti, dalle 11.03 alle 13.35[346]. San Lorenzo fu il quartiere più colpito dal primo, sino ad allora, bombardamento degli alleati mai effettuato su Roma, insieme al quartiere Tiburtino, al Prenestino, al Casilino, al Labicano, al Tuscolano e al Nomentano.

Le 4.000 bombe (circa 1.060 tonnellate) sganciate sulla città, provocarono circa 3.000 morti ed 11.000 feriti di cui 1.500 morti e 4.000 feriti nel solo quartiere di San Lorenzo. A quegli aerei superarmati, supercorazzati, scortati da velocissimi caccia, gli italiani opposero una contraerea superata, con pezzi che risalivano talvolta alla Prima guerra mondiale, e un pugno di aerei pilotati da autentici eroi. Si alzarono in volo sapendo di avere buone probabilità di non tornare. Gli americani avevano preventivato perdite intorno all'1 per cento; furono in realtà persino inferiori: 0,26[346]. Al termine del bombardamento Papa Pio XII si recò a visitare le zone colpite, benedicendo le vittime sul Piazzale del Verano.

Il crollo del regime fascista[modifica | modifica wikitesto]

L'ordine del giorno Grandi fu uno dei tre O.d.G. presentati[347] alla seduta segreta del Gran Consiglio del Fascismo convocata per sabato 25 luglio 1943[348], che sarebbe stata anche l'ultima. L'O.d.G. fu approvato e provocò la caduta di Benito Mussolini aprendo l'ultima fase del regime fascista, caratterizzata dalla Repubblica Sociale Italiana.

Il Gran consiglio del fascismo si riunì alle 17 del 24 luglio.I consiglieri erano tutti in uniforme fascista con sahariana nera. Il segretario del partito fascista, Carlo Scorza chiamò l'appello, ma per il resto della seduta l'attività di segreteria fu svolta dallo staff della Camera dei fasci e delle corporazioni al seguito di Dino Grandi, presidente di quel ramo del Parlamento[349]. Dopo che Mussolini ebbe riassunta la situazione bellica, Grandi e Farinacci illustrarono i loro O.d.G. In sostanza entrambi chiedevano il ripristino "di tutte le funzioni statali" e invitavano il Duce a restituire il Comando delle Forze armate al Re.

Presero la parola alcuni gerarchi, ma non per affrontare gli argomenti degli O.d.G., bensì per fare chiarimenti o precisazioni. Si attendeva un intervento incisivo del Capo del governo. Mussolini, invece, affermò impassibile di non avere nessuna intenzione di rinunciare al Comando militare. Si avviò il dibattito che si protrasse fin oltre le undici di sera. Grandi diede un saggio delle sue grandi capacità oratorie: dissimulando abilmente lo scopo reale del suo O.d.G., si produsse in un elogio sia di Mussolini che del Re.

Successivamente Carlo Scorza diede lettura di due missive indirizzate a Mussolini in cui il segretario del partito chiedeva al Duce di lasciare la direzione dei ministeri militari. I presenti rimasero molto colpiti, sia dal contenuto, sia dal fatto stesso che Mussolini avesse autorizzato Scorza a leggerle in quella sede. Quando si era arrivati ben oltre le undici di sera, la seduta venne sospesa. Alla ripresa, Bottai si espresse a favore dell'O.d.G. Grandi. Poi prese la parola Carlo Scorza, che invece invitò i consiglieri a non votarlo e presentò un proprio O.d.G. a favore di Mussolini.

I 28 componenti del Gran Consiglio furono chiamati a votare per appello nominale.Dopo l'approvazione dell'O.d.G. Grandi, Mussolini ritenne inutile porre in votazione le altre mozioni e tolse la seduta. Alle 2.40 i presenti lasciarono la sala. L'indomani, 25 luglio, Mussolini si recò a colloquio con il Re, che gli comunicò la sua sostituzione con il Maresciallo d'Italia Pietro Badoglio. Alle 22,45 dello stesso giorno la radio interruppe le trasmissioni e diffuse il seguente comunicato:

«Sua Maestà il Re e Imperatore ha accettato le dimissioni dalla carica di Capo del Governo, Primo ministro e Segretario di Stato, presentate da S.E. il Cavaliere Benito Mussolini, e ha nominato Capo del Governo, Primo ministro e Segretario di Stato, S.E. il Cavaliere Maresciallo d'Italia Pietro Badoglio.»

Badoglio, per non destare sospetti nei confronti dei tedeschi, pronunciò, in un discorso radiofonico alla nazione, queste parole:

«[…] La guerra continua a fianco dell'alleato germanico. L'Italia mantiene fede alla parola data, gelosa custode delle sue millenarie tradizioni […].»

L'annuncio dell'armistizio[modifica | modifica wikitesto]

Soldati italiani catturati dai tedeschi a Corfù nel settembre 1943.

Dopo il crollo del regime fascista, il governo italiano avviò trattative segrete con gli Alleati. Il 3 settembre venne firmato l'armistizio di Cassibile, che venne reso noto dalla radio l'8 settembre:

«Il governo italiano, riconosciuta l'impossibilità di continuare l'impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell'intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane.

La richiesta è stata accolta.

Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo.

Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza»

I vertici militari, il Capo del Governo Pietro Badoglio, il Re Vittorio Emanuele III e suo figlio Umberto abbandonarono la Capitale e compirono una fuga ignominosa dapprima verso Pescara, poi verso Brindisi. L'esercito italiano venne lasciato senza ordini e si sbandò; il paese venne abbandonato in balia delle truppe naziste, che il 9 settembre varcarono il Brennero. Lo stesso giorno gli antifascisti diedero vita al Comitato di liberazione nazionale, chiamando il popolo "alla lotta e alla resistenza". Per l'esercito italiano l'annuncio dell'armistizio fu uno sfacelo: oltre 600.000 uomini vennero deportati nei campi di lavoro in Polonia e in Germania; fra i superstiti, molti fuggirono verso casa, molti altri diedero vita a bande partigiane che animeranno poi la Resistenza.

I tedeschi occupano l'Italia[modifica | modifica wikitesto]

Anche se l'annuncio dell'armistizio parve cogliere di sorpresa i tedeschi, essi in realtà avevano già preparato le opportune contromisure ed evitarono di fare passi intempestivi fino alla mezzanotte dell'8 settembre. Ma, quando si mossero partirono dal Brennero e dall'Alto Adige regolando i loro spostamenti a mano a mano che giungeva il segnale di via libera. Così, mentre i soldati italiani erano in attesa di ordini, i tedeschi avanzavano con regolarità e puntualità cronometrica. La prima conseguenza di questo fu che la mattina del 9 settembre i grandi nodi stradali e ferroviari, nonché le zone di confine, erano ormai saldamente in mano tedesca. Assicuratisi le spalle e le piattaforme dalle quali prendere le mosse, i tedeschi si apprestarono a disarmare i soldati italiani, privi di ordini e demoralizzati, all'interno del paese. Non mancarono tuttavia numerosi casi di eroismo di cui furono protagonisti ufficiali e soldati italiani.

Il 9 settembre, per esempio, era già morto a Eboli il generale Ferrante Gonzaga che si era rifiutato di consegnare le armi. Nella stessa zona le divisioni "Mantova" e "Piceno" fronteggiarono le truppe corazzate tedesche in marcia verso Salerno.[350] A Bitetto i tedeschi tentarono di interrompere le comunicazioni con Bari, ma il comando del 9º corpo d'armata inviò un reparto di fanteria agli ordini del capitano Riccardo D'Ettore e la minaccia venne sventata. A Barletta la resistenza fu tenace benché i tedeschi attaccassero con artiglieria e perfino con aerei per occupare la città: anche qui 2 battaglioni italiani costrinsero i tedeschi a ritirarsi.[350] A Canosa un reggimento costiero venne invece costretto a ripiegare, ma soltanto dopo avere impegnato duramente i tedeschi e averli costretti a chiedere rinforzi. A Trani, durante uno scontro, un ufficiale, un sottufficiale e un soldato del 9º reggimento Genio caddero, uno dopo l'altro, impegnati alla stessa mitragliatrice e altri 16 soldati si fecero ammazzare, ma i tedeschi non riuscirono a passare.[350] A prezzo di simili atti di eroismi il re Vittorio Emanuele III e il capo del governo Badoglio riuscirono a trovare Brindisi libera da presenze tedesche.

I granatieri del generale Gioacchino Solinas difendono Roma il 10 settembre del 1943 cercando di contrastare i tedeschi presso porta San Paolo.
Trattative tra ufficiali italiani e tedeschi durante i combattimenti per Roma, a fianco di via Ostiense e dei vecchi mercati generali, di fronte all'attuale sede della Croce rossa, all'epoca non esistente.

Nonostante l'incertezza degli ordini, che favorirono la sorpresa e la penetrazione tedesca verso Roma, i reparti delle Divisioni sistemate a difesa attorno alla città contrastarono e respinsero i reiterati attacchi germanici infliggendo notevoli perdite. Durante la notte fra l'8 e il 9 settembre si combatté a Roma, in particolare alla Magliana e all'ottavo chilometro della Ostiense, dove era schierato il primo reggimento della divisione Granatieri di Sardegna. Tre quarti d'ora dopo l'annuncio dell'Armistizio, un reparto di paracadutisti tedeschi investì il caposaldo numero 5 presidiato dai granatieri al ponte della Magliana, nei pressi di un deposito di carburante, in località Mezzocamino. È l'inizio della battaglia per Roma. Giungeva intanto verso la capitale, da Ostia e Fiumicino, il grosso della 2º divisione Fallschirmjäger e, poco dopo l'una di notte del 9 settembre, uno dei suoi tre kampfgruppe era già in grado di tentare un attacco frontale al ponte della Magliana. Al caposaldo giunsero rinforzi dei carabinieri e agenti della PAI. La postazione fu perduta e rinconquistata. Caddero 38 italiani e 22 tedeschi.[351] La giornata del 9 settembre registrò ancora molti scontri.

La 132ª Divisione corazzata "Ariete", schierata sulla Cassia, resistette a un duro attacco nella zona di Monterosi, dove stava apprestando un caposaldo difensivo, a protezione del quale il sottotenente Ettore Rosso e un gruppo di genieri del CXXXIV Battaglione misto genio stavano posando un campo di mine. All'arrivo del kampfgruppe Grosser[352] della 3a Panzergrenadier-Division, costituito da una trentina di carri e due battaglioni di fanteria motorizzata (l'equivalente circa di un reggimento) Rosso mise due autocarri di traverso sulla strada a bloccare il passo. I tedeschi intimarono allora di sgombrare la strada entro quindici minuti: Rosso, invece di obbedire, utilizzò il tempo per ultimare lo sbarramento e, all'avanzare dei tedeschi, aprì il fuoco e poi fece brillare lo sbarramento insieme a quattro volontari, i genieri scelti Pietro Colombo, Gino Obici, Gelindo Trombini e Augusto Zaccanti, che aveva tenuto con sé dopo aver rimandato indietro il resto del reparto; nel tempo impiegato dai tedeschi per riorganizzarsi, il caposaldo venne apprestato alla difesa. Nello scontro che ne seguì, il II Reggimento Cavalleggeri di Lucca ed il III Gruppo del 135º Reggimento Artiglieria su obici da 149/19 contrastarono l'avanzata tedesca, con perdite da ambo le parti; il bilancio fu di 4 carri persi, 20 morti e una cinquantina di feriti da parte italiana, altrettanti uomini circa e qualche carro in più da parte tedesca; l'avanzata tedesca fu fermata per il resto della giornata. Per l'episodio, al tenente Rosso fu conferita la Medaglia d'oro al valor militare-[353]

La divisione Piave combatté a Monterotondo e a Mentana costringendo alla resa un battaglione di paracadutisti tedeschi.[354]
Tuttavia la resistenza spontanea dei soldati italiani era destinata a infrangersi di fronte all'assalto dei panzer tedeschi. Il 10 l'azione tedesca si fece più violenta. Porta San Paolo divenne il centro dell'ultima resistenza accanita. Ai combattimenti parteciparono anche i civili ai quali i comandanti dei reparti avevano distribuito le armi. Ma alla fine della giornata gli ultimi capisaldi furono sopraffatti: il 10 settembre i tedeschi ottennero la resa dei contingenti italiani posti a difesa di Roma e accettarono la capitolazione limitandosi al disarmo dei militari.
I reparti che di propria iniziativa si opposero all'invasore non si risparmiarono nella difesa estrema della città: si contarono 1.167 caduti tra i militari (tra essi, 10 furono decorati con medaglia d'oro al valor militare, e 27 con medaglia d'argento al valor militare) e circa 120 tra i civili, incluse decine di donne e persino una suora impegnata come infermiera in prima linea[355].

La liberazione del Duce[modifica | modifica wikitesto]

La liberazione del Duce sul Gran Sasso; al centro da sinistra: il maggiore Harald-Otto Mors, il capitano delle SS Otto Skorzeny e Benito Mussolini.

Il 12 settembre un reparto di paracadutisti tedeschi, comandato dal maggiore Otto Skorzeny, liberò Mussolini, che era stato confinato in un albergo a Campo Imperatore, sul Gran Sasso (operazione "Eiche").[356]

La liberazione del prigioniero fu condotta perfettamente, infatti avvenne - sorprendentemente - senza che venisse sparato un solo colpo. Skorzeny ebbe infatti l'idea di portare con sé il generale del Corpo degli agenti di polizia Fernando Soleti che, facendosi riconoscere dai carabinieri che presidiavano la fortezza sul Gran Sasso, intimò loro di non sparare. I soldati italiani restarono totalmente disorientati dalla presenza del generale. Alla sua vista lo stesso Mussolini, che si era affacciato alla finestra, disse: "Non sparate, non vedete che è tutto in ordine? C'è un generale italiano!".

Sul rifugio non ci fu praticamente nessuna reazione da parte italiana ne fu tentata una via di fuga verso il teramano[357]. Invece Assergi persero la vita due soldati, eroi quasi sconosciuti, gli unici che non si sottrassero al loro dovere in quella circostanza: la guardia forestale Pasqualino Vitocco aveva cercato di avvisare i carabinieri della presenza della colonna tedesca ed era stato liquidato con una raffica di mitragliatrice, dopo che gli era stato intimato l'alt. Morirà il giorno dopo all'Ospedale Civile dell'Aquila. La seconda vittima fu il carabiniere Giovanni Natali che, di guardia nella stazione intermedia della funivia, visti arrivare dei tedeschi aveva iniziato a sparare ed era stato colpito a morte.

Dopo qualche foto, Mussolini doveva ripartire con il capitano della Luftwaffe Gerlach su uno Storch (cicogna), aereo a decollo e atterraggio breve, portato sull'altipiano dallo stesso capitano. L'aereo poteva trasportare solo due passeggeri, soprattutto in partenza da una pista di decollo così corta, per questo ne era stato previsto un altro per trasportare Skorzeny. L'aereo però non riuscì ad atterrare. Skorzeny, non si perse d'animo e nonostante il suo peso non indifferente, riuscì ugualmente a ottenere il permesso dal maggiore Harald-Otto Mors (il vero comandante dell'operazione) e dal pilota di poter salire sullo Storch.

A Pratica di Mare, dove atterrò, Mussolini fu imbarcato su un Heinkel He 111 che lo portò a Vienna, e poi a Monaco. Il 14 settembre, a Rastenburg, incontrò Hitler.

Lo sbarco di Salerno[modifica | modifica wikitesto]

Schema delle Operazioni Alleate di invasione del sud Italia

La stessa sera dell'8 settembre, dopo che Badoglio aveva annunciato l'armistizio, una poderosa forza navale alleata puntava verso il golfo salernitano. A bordo delle 463 unità che erano salpate dai porti dell'Algeria e della Sicilia i 100.000 soldati inglesi e i 70.000 americani che componevano il corpo da sbarco affidato al comando del generale americano Mark Wayne Clark erano completamente all'oscuro di quanto era accaduto in quei giorni ed erano tutti convinti che lo sbarco avrebbe incontrato la tenace resistenza degli italiani e dei tedeschi. A Salerno, quel giorno, era stata colpita dall’ennesimo bombardamento: alle 19:45 tutti i residenti vennero rinchiusi nei rifugi anti-aerei, dove appresero dalla radio e dal maresciallo Pietro Badoglio che il governo italiano aveva chiesto un armistizio al generale Dwight D. Eisenhower ed aveva firmato la resa incondizionata. La notizia fu appresa anche dai soldati che componevano il corpo di sbarco: essa suscitò grandi manifestazioni di gioia ed ebbe sfortunate conseguenze psicologiche, in quanto i soldati si erano convinti che a Salerno avrebbero trovato folle in festa. Furono gli ufficiali ad attenuare lo smisurato e fuori luogo calo di tensione, che avrebbe potuto causare conseguenze inimmaginabili al momento dello sbarco.

Ristabilito l'ordine a bordo, poche ore dopo ebbero inizio le operazioni. L'Operazione Avalanche prevedeva due sbarchi, a nord e a sud del fiume Sele. I commando britannici dovevano occupare l'aeroporto di Montecorvino, Battipaglia e i passi che conducono a Napoli, mentre i ranger americani dovevano impadronirsi delle strade principali onde stabilire il contatto con l'armata di Montgomery che, sbarcata in Calabria il 3 settembre, stava risalendo la penisola. L’ora X scattò alle 3:30 del 9 settembre, momento di massima oscurità, utile per l’occultamento della forza da sbarco, anche se, d'altro canto, svantaggiosa per le manovre di avvicinamento alla costa. Furono ben 40 i chilometri di costa interessati dall'operazione Avalanche. I soldati presero terra con relativa facilità e senza contrasti, ma improvvisamente e con loro grande sorpresa si scatenò violentissima la reazione tedesca. L'aviazione tedesca (la Luftwaffe) diede inizio ad una serie di attacchi aerei sulle navi in rada e sui mezzi da sbarco, provocando gravi perdite tra le file alleate. Il VI Corpo d’Armata e la 36ª Divisione riuscirono però a superare quei duri attacchi e i commando della Special Service Brigade sbarcarono senza difficoltà a Marina di Vietri. Nel frattempo anche l’altro corpo speciale, i Rangers, era sbarcato a Maiori. All’apparire dell’alba gli alleati erano arrivati alle porte di Cava de' Tirreni ed una loro pattuglia ebbe un primo scontro a fuoco con i tedeschi sul ponte di San Francesco.

L’11 settembre il colonnello Lane assunse possesso del governo militare, ma due giorni dopo i tedeschi sferrarono il contrattacco, riconquistando Eboli, Battipaglia ed Altavilla Silentina. Il generale Clark decise allora di far intervenire i paracadutisti dell’82ª Divisione Aviotrasportata statunitense ma senza i risultati attesi.L’offensiva finale vide la luce il 23 settembre: in quel giorno, fu superato con le armi il Passo di Molina di Vietri, lungo la SS18, per giungere a liberare l’Agro Nocerino Sarnese e portare l’ultimo attacco verso Napoli. La resistenza tedesca fu decisa, specialmente quando, oltrepassata Molina, le unità alleate si diressero verso Cava de’ Tirreni. Proprio la mattina del 23 settembre, un carro armato tedesco si accingeva a salire verso la Badia per un'azione di rappresaglia contro la popolazione ivi rifugiata; ma nella strettoia che la strada compie a Sant'Arcangelo, non potette proseguire oltre. Alcuni sconsiderati si fermarono a guardare, ed i tedeschi del carro armato, adirati dall’inconveniente o forse nell’intento di compiere egualmente la rappresaglia, scaricarono su quegli sconsiderati una sventagliata di mitragliatrice.

Prima di abbandonare Cava, i tedeschi provvidero a far saltare il ponte di San Francesco sulla strada nazionale e il ponte sulla ferrovia presso Villa Alba, allo scopo di ritardare l’avanzata degli anglo-americani, i quali però in poche ore buttarono un ponte di ferro e legno sul ponte San Francesco ristabilendo immediatamente la comunicazione con Salerno, mentre per l’avanzata dei loro carri armati si erano serviti della strada ferrata che i tedeschi non avevano toccata. Altre mine furono poste dai tedeschi agli altri ponti di Cava e sugli incroci stradali, ma non ebbero il tempo di farle brillare. Il 28 settembre la battaglia di Cava era conclusa e gli Alleati, procedendo verso l’Agro e superandolo, dopo ventidue giorni e 54 chilometri di combattimenti, alle ore 9:30 del 1º ottobre ‘43, entrarono a Napoli: l’operazione Avalanche era conclusa.

Il massacro di Cefalonia[modifica | modifica wikitesto]

Con l'armistizio dell'8 settembre 1943 le truppe italiane dislocate nei Balcani restarono senza ordini precisi da parte del governo e del comando supremo. La capitolazione ai tedeschi avvenne a volte dopo trattative, a volte dopo scontri impari, che portarono alla morte e alla cattura dei soldati italiani. L'episodio più eroico, finito in tragedia, fu quello della divisione Acqui, di stanza nell'isola di Cefalonia nel Mar Jonio, i cui circa 10.000 uomini, con un plebiscito svoltosi il 13 e il 14 settembre, decisero di inviare al comando tedesco un comunicato in cui si faceva significativamente riferimento alla volontà collettiva: "Per ordine del comando supremo e per volontà degli ufficiali e dei soldati la divisione Aqui non cede le armi". Nei terribili scontri dei giorni seguenti gli italiani opposero una dura resistenza, senza ricevere alcun aiuto dell'esercito, e vennero decimati. Quasi tutti i superstiti vennero fucilati tra il 22 e il 24 settembre. Coloro che riuscirono a salvarsi si unirono alla resistenza greca.

La guerra di liberazione[modifica | modifica wikitesto]

Il fenomeno della Resistenza italiana si sviluppò in contemporanea con l'occupazione tedesca dell'Italia. La lotta partigiana fu portata avanti da un variegato fronte antifascista, composto da comunisti, democratici, cattolici, socialisti, liberali e anarchici. La guerriglia partigiana nacque in maniera spontanea e disordinata, ma in seguito la Resistenza fu coordinata dal Comitato di Liberazione Nazionale (CLN). Al Nord nacque il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI). Il CLNAI, presieduto dal 1943 al 1945 da Alfredo Pizzoni, coordinò la lotta armata nell'Italia occupata, condotta da formazioni denominate brigate e divisioni, quali le Brigate Garibaldi, costituite su iniziativa del partito comunista; le Brigate Matteotti, legate al partito socialista; le Brigate Giustizia e Libertà, legate al Partito d'Azione; le Brigate Autonome, composte principalmente di ex-militari e prive di rappresentanza politica, talvolta simpatizzanti per la monarchia, riportate come badogliani[senza fonte].

Le quattro giornate di Napoli[modifica | modifica wikitesto]

Mappa della città con indicati i luoghi dell'insurrezione

Con il nome di Quattro Giornate di Napoli (27-30 settembre 1943) si indica l'insurrezione della popolazione che, con l'apporto di militari fedeli al cosiddetto Regno del Sud, riuscì a liberare la città di Napoli dall'occupazione delle forze armate tedesche, coadiuvati da fascisti fedeli al neonato Stato Nazionale Repubblicano.L'avvenimento, che valse alla città di Napoli il conferimento della Medaglia d'Oro al Valor Militare, consentì alle forze alleate di trovare al loro arrivo, il 1 ottobre 1943, una città già libera dall'occupazione nazista, grazie al coraggio e all'eroismo dei suoi abitanti, ormai esasperati ed allo stremo per i lunghi anni di guerra. Napoli fu la prima, tra le grandi città italiane, ad insorgere contro l'occupazione nazista[358].

Sin dai giorni immediatamente seguenti l'Armistizio di Cassibile, in città si andarono intensificando gli episodi di intolleranza e di resistenza verso l'occupante nazista e le azioni armate, più o meno organizzate, fecero seguito alle manifestazioni studentesche del 1 settembre 1943 in piazza del Plebiscito ed alle prime assemblee nel Liceo Classico Sannazaro al Vomero. Il 10 settembre 1943, tra piazza del Plebiscito e i giardini sottostanti, avvenne il primo scontro cruento, con i napoletani che riuscirono ad impedire il transito di alcuni automezzi tedeschi; nei combattimenti morirono 3 marinai e 3 soldati tedeschi.

Quando giunse la notizia che gli Alleati erano sbarcati a Salerno, i soldati italiani, ritenendo ormai prossima la liberazione, resistettero ai tedeschi a Castel dell'Ovo, a Forte Sant'Elmo, al Palazzo dei telefoni. Accanto a loro combatterono nuclei di civili che, senza alcuna organizzazione, si mobilitarono per la lotta. Poi, il 27 settembre, ebbe inizio un'ampia retata dei tedeschi: le strade vennero bloccate e tutti gli uomini, senza limiti d'età, furono caricati a forza sui camion per essere avviati al lavoro forzato in Germania. A questo punto, per i napoletani non c'erano alternative: se volevano sfuggire alla deportazione dovevano combattere contro i tedeschi e impedire che attuassero i loro piani.

I napoletani uscirono allo scoperto nelle prime ore del 28 settembre: erano armati alla meglio, con vecchi fucili, pistole, bombe a mano, bottiglie incendiarie che avevano subito imparato a costruire e qualche mitragliatrice leggera nascosta nei giorni dell'armistizio. Altre armi se le procurarono combattendo. Resistettero al nemico artisti, poeti, scrittori, e cantanti come Sergio Bruni (che fu ferito)[359]. Il primo scontro fu quello presso la masseria Pagliarone a via Belvedere, nel Vomero: un gruppo di persone armate fermò un'automobile tedesca uccidendo il maresciallo che era alla guida. Poi altri episodi, dapprima al quadrivio tra via Cimarosa e via Scarlatti (ove una motocarrozzetta germanica fu ribaltata provocando la morte dei due occupanti e la rappresaglia tedesca), quindi in piazza Vanvitelli, dove una decina di giovanissimi vomeresi, dopo che era giunta al Vomero la notizia della morte di un marinaio, freddato con un colpo di pistola da un nazista, usciti da un bar attaccarono tre soldati tedeschi che occupavano una camionetta, li costrinsero a scendere ed incendiarono il mezzo[360].

A Porta Capuana un gruppo di 40 uomini si insediò, con fucili e mitragliatori, in una sorta di posto di blocco, uccidendo 6 soldati nemici e catturandone altri 4, mentre combattimenti si avviarono in altri punti della città come al Maschio Angioino, al Vasto e a Monteoliveto. I tedeschi procedettero ad altre retate, questa volta al Vomero, ammassando 47 civili all'interno del Campo Sportivo del Littorio sotto minaccia di morte. Il 29 settembre nei pressi dell'aeroporto di Capodichino, una pattuglia tedesca uccise 3 avieri italiani e costituì un posto di blocco al centro di Piazza Ottocalli: da un palazzo uscirono una ventina di giovani che ingaggiarono un combattimento con i tedeschi. La sparatoria fu fitta, lo scontro breve e si concluse con la morte dei tedeschi[361]. Più tardi, i cadaveri dei tre avieri vennero caricati sul cassone di un camioncino e portati in processione per le strade della città: la vista dei morti e il racconto delle atrocità commesse dai tedeschi suscitarono nuova commozione, ingigantirono l'odio e alimentarono la rivolta. Nelle ore che seguirono l'insurrezione dilagò: si combatteva ormai in periferia e al centro, e a combattere erano uomini di ogni età e di ogni ceto sociale, donne e persino ragazzi.

Nelle stesse ore, presso il quartier generale tedesco al corso Vittorio Emanuele (tra l'altro ripetutamente attaccato dagli insorti), avvenne la trattativa tra il Colonnello Walter Schöll e il Tenente Enzo Stimolo per la riconsegna dei prigionieri del Campo Sportivo del Littorio; con uno stratagemma gli insorti fecero credere ai tedeschi di essere in numero preponderante e così, dopo lunghe trattative, il Colonnello Walter Scholl fu costretto ad ordinare l'abbandono della città. I 47 ostaggi vennero liberati e i tedeschi ricevettero in cambio la garanzia di poter evacuare Napoli a cominciare dalle 7 del mattino seguente senza ulteriori molestie. Era la prima volta in Europa che i tedeschi sconfitti venivano costretti a trattare la resa con gli insorti.

La Repubblica Sociale Italiana[modifica | modifica wikitesto]

Soldati della Repubblica Sociale Italiana, ispezionati dal generale tedesco Kurt Mälzer a Roma nel marzo 1944.
Mussolini incontra un milite adolescente della RSI (1944)
Repubblica Sociale Italiana - Le aree segnate in verde facevano ufficialmente parte della R.S.I. ma erano considerate dalla Germania zone di operazione militare e sottoposte a diretto controllo tedesco[362]

La liberazione di Mussolini dalla prigionia sul Gran Sasso fu il preludio alla creazione, nell'Italia del nord, di uno stato fantoccio controllato dal Reich tedesco: nacque così, il 23 settembre 1943, la Repubblica Sociale Italiana (RSI), comunemente detta Repubblica di Salò, dal nome della località sul lago di Garda che ne ospitava alcuni uffici e dove era la residenza di Mussolini. Guidata formalmente dal governo presieduto dal Duce- che con la creazione del Partito fascista repubblicano (il cui segretario era Alessandro Pavolini) tentò di proporre un fascismo rinnovato - la RSI non era in realtà uno stato sovrano: il territorio era quello controllato dall'amministrazione militare tedesca, gli atti del governo necessitavano dell'approvazione di due consiglieri tedeschi, e i militari tedeschi ne controllavano di fatto gli uffici centrali e periferici. Hitler decise persino l'annessione al Reich di parte dell'Italia nordorientale, concedendo ai Gauleiter del Tirolo e della Carinzia di annettersi molte zone del Triveneto mascherando il tutto dietro la "facciata" di due zone di operazioni: quella delle Prealpi o Alpenvorland (costituita dalle province di Trento, Bolzano e Belluno) e quella del Litorale Adriatico o Adriatisches Küstenland (province di Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume, Lubiana).

Il 15 novembre, a Verona, il congresso del partito approvò il manifesto programmatico del nuovo regime, che ai temi nazionalfascisti e repubblicani affiancava demagogici contenuti socialisteggianti e auspicava un ritorno al fascismo delle origini. Con la chiamata alle armi del novembre 1943 si tentò di ricostruire un esercito, ma solo il 40% dei giovani rispose, e molti di essi disertarono in seguito. Nel complesso, considerando anche le altre formazioni militari, la RSI poté contare inizialmente su circa 200.000 uomini in armi. Una delle vicende più emblematiche dei 600 giorni si Salò riguarda gli ebrei italiani, considerati stranieri e nemici nel manifesto di Verona. Le autorità fasciste collaborarono attivamente con i nazisti per la loro deportazione verso i campi di sterminio, e presero iniziative proprie: il 30 novembre 1943 il ministro degli Interni decise la creazione di appositi campi di concentramento in Italia.

La linea Gustav[modifica | modifica wikitesto]

Sfruttando la conformazione orografica della penisola italiana la X armata tedesca del feldmaresciallo Albert Kesselring si dispose lungo la catena appenninica e sui contrafforti che scendono verso l'Adriatico e il Tirreno. L'avanzata alleata lungo il Belpaese incontrò la tenace resistenza tedesca: i reparti britannici risaliti dalla Calabria e ricongiuntisi alla testa di ponte americana a Salerno entrarono a Napoli il 1º ottobre. Abbandonata l'ipotesi di uno sbarco alleato sulle coste orientali italiane, il principale teatro delle operazioni fu la fascia di territorio tra Napoli e Roma, dove l'Organizzazione Todt aveva eretto la linea Gustav. Quest'ultima era costituita da un insieme di punti fortificati che correvano dall'Adriatico al Tirreno (si estendeva dalla foce del Garigliano alla foce del fiume Sangro, a sud di Pescara, passando per Cassino) e tagliava in due l'Italia: a Nord di essa vi erano i tedeschi, a Sud gli Alleati. Le teste di ponte alleate a nord di Napoli non riuscirono a piegare i tedeschi asserragliati nell'abbazia di Montecassino. Inoltre le condizioni atmosferiche, la morfologia del terreno e il rallentamento delle operazioni provocato dai numerosi corsi d'acqua in piena impedirono agli Alleati di muovere rapidamente su Roma che, alla fine del 1943, restava ancora a più di 100 chilometri dalla linea del fronte.

Rappresaglia a Roma[modifica | modifica wikitesto]

Entrata alle fosse Ardeatine

Il 23 marzo 1944, alle ore 15 circa, un gruppo di 16 partigiani appartenenti ai GAP (Gruppi di Azione Patriottica) attuò, in pieno giorno, un clamoroso attentato contro un reparto armato di 160 SS in marcia lungo Via Rasella. Una carica esplosiva, nascosta in un carretto, venne fatta esplodere al centro della colonna tedesca, mentre altri partigiani lanciavano bombe e sparavano raffiche di mitra verso la coda del reparto. Nell'immediatezza dell'evento rimasero uccisi 32 militari tedeschi e 110 rimasero feriti, oltre a 2 vittime civili. Dei feriti, uno morì poco dopo il ricovero, mentre era in corso la preparazione della rappresaglia, che fu dunque calcolata in base a 33 vittime germaniche. Nei giorni seguenti sarebbero deceduti altri 9 militari feriti, portando così a 42 il totale dei caduti.[363]. I nazisti vollero attuare subito una spaventosa rappresaglia per punire e terrorizzare tutta la città: Hitler intimò la fucilazione, entro le 24 ore, di dieci italiani per ogni tedesco ucciso.

Il massacro fu organizzato ed eseguito da Herbert Kappler, all'epoca ufficiale delle SS e comandante della polizia tedesca a Roma, già responsabile del rastrellamento del Ghetto di Roma nell'ottobre del 1943 e delle torture contro i partigiani detenuti nel carcere di via Tasso. L'ordine di esecuzione riguardò 320 persone, poiché inizialmente erano morti 32 soldati tedeschi. Durante la notte successiva all'attacco di via Rasella morì un altro soldato tedesco e Kappler, di sua iniziativa, decise di uccidere altre 10 persone. Erroneamente, causa la "fretta" di completare il numero delle vittime e di eseguire la rappresaglia, furono aggiunte 5 persone in più nell'elenco ed i tedeschi, per eliminare scomodi testimoni, uccisero anche loro. I tedeschi, dopo aver compiuto il massacro, infierendo sulle vittime, fecero esplodere numerose mine per far crollare le cave ove si svolse il massacro e nascondere, o meglio rendere più difficoltosa, la scoperta di tale eccidio.

I sopravvissuti del Polizeiregiment "Bozen", si rifiutarono di vendicare in quel modo i propri compagni uccisi.[364] L'esecuzione iniziò dopo sole 23 ore dall'attacco di Via Rasella, e venne resa pubblica ad esecuzione avvenuta. La stessa segretezza avvolse la notizia ufficiale dell'attentato subito dalle truppe occupanti, notizia diffusa assieme a quella della rappresaglia per ragioni propagandistiche secondo una direttiva del Minculpop.[365]

Panzer tedesco a Roma, 1944.

La liberazione di Roma[modifica | modifica wikitesto]

Per gli ultimi mesi del 1943 la Linea Gustav rappresentò il principale ostacolo nell'avanzata verso nord degli Alleati, bloccandone, di fatto, lo slancio iniziale. Nel tentativo di sbloccare tale impasse, gli Alleati sbarcarono alcune forze presso Anzio (Operazione Shingle), non riuscendo comunque a cogliere gli obiettivi sperati. Il fronte venne rotto solo in seguito ad un attacco frontale a Monte Cassino, nella primavera del 1944, e con la successiva presa di Roma in giugno. Il 5 giugno gli americani entrarono a Roma dichiarata "città aperta", ed evacuata dai tedeschi senza alcuna distruzione e con i suoi ponti intatti. L'operazione "Diadem" che portò alla liberazione di Roma era costata 18.000 perdite agli americani, 14.000 agli inglesi e 11.000 ai tedeschi[366]. Nella Roma occupata dagli Alleati Vittorio Emanuele III abdicò in favore del figlio Umberto II che assunse la luogotenenza generale, e il dimissionario Badoglio venne sostituito dall'antifascista Ivanoe Bonomi alla guida del governo, espressione dei partiti riuniti nel Comitato di liberazione nazionale.

Lo sfondamento della Gotica[modifica | modifica wikitesto]

La Linea Gotica nell'agosto 1944. In blu le manovre alleate.

Alla fine del 1944 gli Alleati erano attestati a ridosso della linea Gotica con la 5ª Armata statunitense e l'8ª armata britannica. Favoriti da una netta supremazia aerea, gli Alleati beneficiarono anche delle operazioni di disturbo agli occupanti da parte delle formazioni partigiane. Il corpo canadese dell'8ª armata prese Ravenna e si spinse sul fiume Senio, la 5ª armata era invece ferma nei pressi di Bologna, mentre sul versante tirrenico gli americani di Mark Wayne Clark erano già a Pisa. L'abile condotta difensiva dei tedeschi - che si impegnarono anche nella repressione delle Resistenza partigiana e spesso compirono veri e propri massacri della popolazione civile durante le operazioni di rastrellamento o come rappresaglia per le azioni dei partigiani - costò agli Alleati un alto numero di perdite: le condizioni del terreno favorivano la difesa degli occupanti, e la marcia alleata procedette ovunque con lentezza (anche perché con la decisione dello sbarco in Normandia il teatro di guerra italiano assunse per gli Alleati un'importanza secondaria).

Dopo mesi di stallo e il parziale fallimento dell'Operazione Olive, durante la primavera del 1945, gli Alleati iniziarono l'offensiva finale contro le truppe tedesche e quelle della repubblica di Salò, per conquistare l'Italia settentrionale. A metà di aprile 1945 i mezzi corazzati americani sfondarono le linee di difesa tedesche e gli Alleati dilagarono nella pianura padana e raggiunsero il Po. La trattativa avviata con gli americani dal comando delle SS in Italia Karl Wolff per evitare l'insurrezione partigiana, salvaguardare gli impianti industriali del paese e garantire un indolore passaggio dei poteri non diede alcun esito.

L'insurrezione nel Nord[modifica | modifica wikitesto]

Gli americani entrano a Bologna nel 1945

Con la Linea Gotica ormai rotta e i tedeschi in ritirata da tutto il fronte, il 21 aprile gli italiani del gruppo di combattimento "Legnano" dei bersaglieri della "Friuli" e i reparti polacchi entrarono per primi a Bologna, già insorta e sgombrata dai tedeschi (da due giorni erano penetrate le forze partigiane)[367]. Il 21 Ferrara insorse, ma il giorno successivo i partigiani non poterono impedire che la città fosse attraversata da grosse forze germaniche in ritirata verso il Po. Modena, Reggio Emilia e Parma furono liberate dalle forze patriottiche, grazie all'azione concorde delle brigate affluite dalla campagna e delle formazioni cittadine. Nelle campagne e nelle città minori l'insurrezione ebbe un carattere travolgente, grazie all'appoggio della maggioranza delle popolazioni contadine. I tedeschi si ritirarono precipitosamente a nord del Po, ma molti furono catturati dagli alleati e dai partigiani; circa 6.000 di loro, rimasti circondati nella valle del Taro, si arresero agli americani. I partigiani di Piacenza lottarono a lungo contro i tedeschi ostacolandone la ritirata fino a che la città fu liberata completamente la mattina del 29 aprile.

Frattanto la V armata americana, che aveva liberato Carrara il 12 aprile, aveva cominciato ad avanzare in Liguria, in direzione di Genova, che però insorse il 23 aprile. Sebbene inferiori di numero rispetto alla guarnigione tedesca, i GAP, le SAP genovesi e alcune brigate scese dalle montagne, penetrate via via in città, salvarono il porto asportando e isolando le mine postevi dai tedeschi, salvarono gli impianti industriali, sconfissero i fascisti che tentarono di resistere nel centro della città, costrinsero alla resa il comandante del presidio tedesco, fecero prigionieri 6.000 tedeschi, che consegnarono agli alleati quando questi arrivarono a Genova il 28 aprile.[368]

Il giorno precedente l'entrata degli americani a Verona, cioè il 25 aprile, ebbe luogo l'insurrezione generale delle forze partigiane, che cominciarono ad attaccare ovunque i tedeschi. Tutti i passi alpini furono bloccati entro il 28 aprile, giorno in cui Benito Mussolini e Claretta Petacci insieme ad alcuni gerarchi del regime in fuga verso il confine svizzero, furono arrestati e giustiziati secondo le decisioni del CLNAI presso il lago di Como. Il 25 aprile fu anche il giorno della liberazione di Milano e Torino. Entro il 1º maggio, poi, tutta l'Italia settentrionale fu liberata: Bologna (il 21 aprile), Genova (il 26 aprile), Venezia (il 28 aprile).

Le truppe tedesche si stavano ormai arrendendo in massa, e dopo il 25 aprile l'inseguimento Alleato incontrò ovunque una resistenza pressoché nulla. Il 29 i neozelandesi raggiunsero Venezia e il 2 maggio Trieste, dove il principale motivo di preoccupazione si rivelò la presenza non dei tedeschi, bensì degli jugoslavi[369].

L'Italia dopo il 25 aprile 1945[modifica | modifica wikitesto]

Piazzale Loreto, 29 aprile 1945. I corpi di Mussolini (secondo da sinistra) e della Petacci (riconoscibile dalla gonna) esposti a Piazzale Loreto. Il primo cadavere a sinistra è Nicola Bombacci. Gli ultimi due a destra sono Pavolini e Starace.

Parallelamente il fascismo repubblicano e Mussolini tentarono di trovare una "soluzione politica" all'andamento della guerra, ma si scontrarono con la diffidenza alleata e con la fermezza dei capi politici della Resistenza, che esigevano la resa immediata e senza condizioni. Nei convulsi giorni che seguirono il dilagare delle truppe alleate nell'Italia del nord, giunse all'epilogo la vicenda della repubblica di Salò e su consumò la tragedia personale di Mussolini. Caduta ogni possibilità di negoziato con la Resistenza, mentre le formazioni partigiane scatenarono l'insurrezione generale, Mussolini lasciò Milano diretto in Svizzera, ma venne fermato a un posto di blocco presso Como per poi essere giustiziato dai partigiani il 28 aprile.

Il 29 aprile del 1945 a piazzale Loreto a Milano, la città che era stata la culla del fascismo, all'angolo con corso Buenos Aires, vennero esposti i cadaveri di Benito Mussolini, Claretta Petacci e altri esponenti della Repubblica Sociale.[370]. Con questo macabro avvenimento si chiusero per sempre per l'Italia vent'anni di dittatura, cinque anni di guerra e due anni di occupazione nazista. Il 29 aprile i tedeschi firmarono la resa incondizionata.

L'Italia repubblicana[modifica | modifica wikitesto]

La nascita della repubblica: gli anni costituenti[modifica | modifica wikitesto]

Umberto II si reca a votare il 3 giugno 1946 per il referendum istituzionale.

La Repubblica Italiana nacque il 2 giugno 1946, in seguito ai risultati del referendum istituzionale indetto quel giorno per determinare la forma di stato dopo la fine della seconda guerra mondiale. La repubblica ottenne il 54% dei consensi, anche se ci furono accuse di brogli circa la legalità dello svolgimento della consultazione, alla quale partecipavano per la prima volta anche le donne italiane. Oltre che per il referendum, si votava per l'elezione di un'Assemblea Costituente che avesse il compito di dare all'Italia una nuova Costituzione: primo partito risultò la Democrazia Cristiana, seguita dal Partito Socialista Italiano e dal Partito Comunista Italiano. Il Partito d'Azione, invece, a seguito del risultato deludente, decise di sciogliersi.

La notte fra il 12 ed 13 giugno 1946 il Consiglio dei ministri conferì al presidente Alcide De Gasperi le funzioni di Capo provvisorio del nuovo Stato repubblicano. Messo di fronte al fatto compiuto dalla propria esautorazione, il re Umberto II, rimasto in carica soltanto un mese, e per questo sopranniminato il "re di maggio", lasciò il paese il 13 giugno 1946.

Alla sua prima seduta, il 28 giugno 1946, l'Assemblea Costituente, sotto la presidenza di Giuseppe Saragat, elesse quindi Capo Provvisorio dello Stato Enrico De Nicola, con 396 voti su 501, al primo scrutinio. De Nicola poi sarà il primo ad assumere le piene funzioni di Presidente della Repubblica Italiana il 1º gennaio 1948.


In quegli anni l'Italia operò le scelte decisive che avrebbero determinato il proprio destino: guidata da De Gasperi, che presiedeva un governo di unità nazionale composto dai tre partiti antifascisti del Comitato di Liberazione Nazionale, l'Italia accettò di entrare a far parte della sfera di influenza atlantica, filoamericana e anticomunista, contrapposta al blocco sovietico. Questa collocazione accese una competizione politica tra i due maggiori partiti, la DC e il PCI. Quest'ultimo rimarrà da allora confinato all'opposizione per via dei legami ideologici e finanziari col regime totalitario dell'Unione Sovietica,[371] legami che avrebbero provocato, nel caso di una sua entrata al governo, una rottura dell'alleanza internazionale con gli Stati Uniti e degli accordi di Yalta. Un tale assetto politico priverà inoltre l'Italia di una logica dell'alternanza fino alla caduta del muro di Berlino,[372] generando un'anomalia rispetto alle altre democrazie occidentali dove i partiti comunisti godevano di una forza e un consenso assai minori che in Italia.[373][374] Questa situazione degenererà in pratiche consociative più o meno occulte.[371]

Fu in particolare durante la missione di De Gasperi del gennaio 1947 negli Stati Uniti, con i quali si accordò per ricevere gli aiuti economici previsti dal Piano Marshall (un prestito Eximbank di 100 milioni di dollari), che si aprì un dialogo costruttivo tra USA e Italia, in grado di dare a De Gasperi la motivazione e il sostegno necessari ad attuare l'ambizioso disegno di un nuovo governo senza le sinistre. Il Piano Marshall, con cui si chiedeva ai paesi beneficiari di estromettere in cambio le forze filosovietiche, fu il primo atto della guerra fredda. Il PSI e soprattutto il PCI interpretarono la propria esclusione dall'esecutivo, avvenuta nel maggio 1947, alla stregua di un "colpo di stato"; essi tuttavia decisero di non abbandonare i lavori dell'assemblea costituente a cui stavano partecipando insieme alla DC. Questa decisione consentirà in particolare al PCI di acquisire una legittimità costituzionale che non poteva avere sul piano ideologico, e che lo porterà, negli anni a venire, a richiamarsi spesso alla Costituzione come motivo di auto-legittimazione democratica, e a difenderla da qualunque tentativo di modificarla senza un suo previo consenso.[373]

Un'altra anomalia tipicamente italiana fu l'atteggiamento del Partito Socialista (allora denominato PSIUP), che a differenza di quanto avveniva negli altri paesi occidentali decise di schiacciarsi sempre più sulle posizioni dei comunisti, per timore di vedersi sottrarre da costoro l'egemonia sulle masse operaie, accettando così anche la dipendenza da Mosca.[373] Alcuni esponenti del partito, guidati da Saragat, disapprovando la scelta di legarsi a un regime totalitario come l'Unione Sovietica, operarono nel gennaio 1947 una scissione, dando vita al Partito Socialista dei Lavoratori Italiani, che in seguito diverrà Partito Socialdemocratico Italiano.

Nel frattempo vennero firmati nel 1947 i Trattati di Parigi con i quali formalmente e definitivamente fu siglata la pace con le potenze alleate e vennero sancite le conseguenze della sconfitta nella Seconda guerra mondiale, con mutilazioni nazionali territoriali: l'Istria e la Dalmazia cedute alla nascente Repubblica Federale Socialista di Jugoslavia, il Dodecaneso alla Grecia, Briga e Tenda alla Francia, l'Isola di Saseno all'Albania, il pagamento dei danni di guerra all'URSS e la perdita di tutti i possedimenti coloniali italiani.

Nonostante si cercasse di tornare alla normalità, nel paese si stavano diffondendo alcuni movimenti separatisti, in particolare in Sicilia e in Alto Adige. Per farvi fronte Alcide De Gasperi creò, il 15 maggio 1946, la Regione a statuto speciale della Sicilia. Per il Sud Tirolo trovò nel settembre 1946 una soluzione con il collega ministro degli esteri austriaco Karl Gruber: fu costituita la Regione a statuto speciale del Trentino-Alto Adige, dotata di ampie autonomie e dove accanto all'italiano, a livello regionale, fu ufficializzato pure il tedesco. In seguito, nel 1948, si avrà la creazione della Regione a statuto speciale anche della Valle d'Aosta.

De Nicola firma la Costituzione il 27 dicembre 1947

Tornò tuttavia alla ribalta in quel periodo la mafia, sconfitta durante il fascismo ma riemersa nel 1943 in occasione dello sbarco Alleato in Sicilia.[375] Il 1º maggio 1947 rimase tristemente celebre l'eccidio di Portella della Ginestra, quando il bandito Salvatore Giuliano, presumibilmente assoldato da alcuni latifondisti, sparò sulla folla che festeggiava la Festa dei lavoratori chiedendo la distribuzione delle terre: fu la prima strage in Italia di cui non si scopriranno i mandanti. Giuliano venne poi ucciso dal suo braccio destro Gaspare Pisciotta, che a sua volta fu ritrovato morto in carcere in circostanze misteriose.

Negli ultimi giorni del 1947 venne infine ultimata la stesura della Carta Costituzionale, entrata ufficialmente in vigore il 1º gennaio 1948. Fu questo un periodo particolarmente felice per la letteratura italiana ed ancor di più per il cinema, con l'affermazione del neorealismo.

Gli anni del centrismo e della ricostruzione[modifica | modifica wikitesto]

Poster del Piano Marshall

Dopo che il 31 maggio 1947 era caduto il terzo governo De Gasperi per la fuoriuscita di socialisti e comunisti, si formò il IV governo De Gasperi appoggiato soltanto dalla Democrazia Cristiana, dal Partito Liberale Italiano, dal Partito Repubblicano Italiano, e dal neonato partito socialdemocratico di Saragat. L'esecutivo si avvalse anche di un gruppo di tecnici guidati dal liberale Luigi Einaudi, il quale attraverso una politica deflazionistica, attenta alla spesa pubblica e ai salari, riuscì a far diminuire fortemente l'inflazione. Fu l'inizio di una lunga fase di governo detta del "centrismo", perché dominata da partiti collocati esclusivamente nell'area di centro dello schieramento politico. L'Italia diventò un grande cantiere, anche grazie agli aiuti del Piano Marshall che contribuì a risanare il bilancio dello Stato. In contemporanea si verificarono evoluzioni nella politica e nel costume.

Il Partito Socialista invece, dopo la scissione di Saragat, si accostò sempre più al Partito Comunista fino a formare con esso una federazione che avrebbe dovuto condurre l'Italia verso la rivoluzione socialista; la somma di PSI e PCI sembrava infatti maggiore dei voti della DC. L'effigie di Garibaldi fu il simbolo con cui il nuovo partito, denominato Fronte Democratico Popolare, si presentò alle prime elezioni parlamentari dell'Italia repubblicana nel 1948.

Il timore di una vittoria della sinistra crebbe tra i dirigenti della Democrazia Cristiana, anche in considerazione dell'avanzata del partito dell'Uomo Qualunque che avrebbe potuto sottrarle una parte consistente di elettorato. Si trattava di un movimento sorto attorno all'omonimo giornale fondato a Roma nel 1944 dal commediografo e giornalista Guglielmo Giannini, che ripudiava le ideologie e che per il proprio atteggiamento di generica sfiducia nella classe politica diede vita a quella tendenza definita appunto qualunquismo. Continuarono inoltre in quegli anni gli episodi di rappresaglia contro ex-fascisti ma anche contro gente comune, da parte di apparati del PCI, come l'eccidio di Porzûs in Friuli ai danni di formazioni resistenziali "bianche",[376] o le stragi del triangolo della morte in Emilia. Si trattò di vendette che si protrassero oltre la fine della guerra e che colpirono anche inermi cittadini, sacerdoti, e chiunque non fosse esplicitamente affiliato all'ideologia comunista, accusato di fascismo perché ritenuto "nemico di classe".[377] Il 28 novembre 1947 l'esponente del PCI Giancarlo Pajetta con l'aiuto di bande armate arrivò ad occupare la prefettura di Milano a seguito della rimozione di Ettore Troilo, ultimo tra i prefetti politici della Resistenza ancora in carica; seguirono due giorni di insurrezione in cui sembrò approssimarsi un colpo di stato, finché il leader nazionale del PCI Togliatti, su pressioni di Stalin, ordinò ai ribelli di ritirarsi.[378]

File:LuigiEinaudi.jpg
Luigi Einaudi

La campagna elettorale del 1948, tra le più aspre e combattute dell'Italia repubblicana, si risolse infine con la vittoria della Democrazia Cristiana (che ottenne il 48,51% alla Camera dei Deputati e il 48,14% al Senato della Repubblica) e la bruciante, inaspettata, sconfitta del Fronte Popolare: questo non era andato al di là della somma dei voti del PSI e del PCI ottenuti nel 1946. Tra le cause della sconfitta, oltre ai vari episodi di intimidazione che lasciavano trapelare l'esistenza di un volto armato e minaccioso accanto a quello più rassicutante di Togliatti, vi era la proposta di un modello di vita, di tipo sovietico, piuttosto ignoto allora gli italiani, contrapposto a quello ben più accattivante e filo-americano offerto dalla DC. Il partito dell'Uomo Qualunque invece per il suo scarso successo non fu tale da scalfire i voti per la DC, e si sciolse entro pochi mesi. Alcide De Gasperi poté formare così il suo quinto governo, appoggiato, oltre che dal suo partito, anche dai socialdemocratici di Saragat, dal Partito Repubblicano Italiano e dal Partito Liberale Italiano, il cui principale esponente, Luigi Einaudi, divenne il secondo presidente della Repubblica.

La sconfitta in casa comunista tuttavia fu mal digerita; il malcontento che covava esplose all'improvviso in occasione di un attentato a Togliatti il 14 luglio 1948. Alla notizia della sua presunta morte ci furono sollevazioni in tutte le città italiane che reclamavano la destituzione del governo De Gasperi democraticamente eletto. La situazione cominciò a precipitare, si contarono diversi morti e quasi un migliaio di feriti,[379][380] ma Togliatti non morì, venendo salvato dai medici; fu provvidenziale un suo stesso annuncio alla radio in cui invitava i "compagni" a deporre le armi.[381] Nello stesso giorno giunse la notizia di una grande impresa compiuta dal ciclista Gino Bartali, le cui gesta dividevano gli italiani tra suoi fan e sostenitori di Fausto Coppi.

Nel 1949, su richiesta degli Stati Uniti, l'Italia aderì alla NATO, un'alleanza fra tutti i paesi dell'Europa Occidentale contrapposta al regime sovietico, il quale stava mostrando pericolose mire espansioniste della propria influenza come nella guerra civile greca. Il Patto prevedeva, nel caso di un attacco nemico nei confronti di uno Stato alleato, che tutti i paesi intervenissero militarmente in sua difesa. La decisione di aderire alla NATO scatenò nuovamente le proteste e le agitazioni delle sinistre nelle piazze italiane; Nenni, leader del PSI, insieme a Togliatti accusarono De Gasperi di mettere in pericolo la democrazia e l'indipendenza politica dell'Italia. La contrapposizione rifletteva quella a livello mondiale tra USA e URSS che si tradusse di lì a poco con lo scoppio della guerra di Corea, scatenata dall'invasione comunista del Sud del paese, e che fu una delle fasi più "calde" della guerra fredda, durante la quale il mondo temette lo scoppio di un nuovo conflitto mondiale.

Un edificio realizzato col piano INA-Casa

Accanto alle agitazioni politiche l'Italia si stava comunque ricostruendo. La forte prevalenza democristiana nei governi che si succedettero, tutti a guida De Gasperi, permise di varare importanti riforme come quella del piano Casa, detta anche piano Fanfani, con cui lo Stato agevolò la costruzione di 75 000 abitazioni per i lavoratori, stanziando circa 15 miliardi di lire all'anno in cambio di una trattenuta sul loro stipendio.[382] Venne poi varata nel 1950, con una misura del ministro dell'Agricoltura Antonio Segni, la riforma agraria, ritenuta tra le più importanti del secondo dopoguerra,[383] che attuava, tramite l'esproprio coatto ai grandi latifondisti, la distribuzione delle terre incolte ai braccianti agricoli rendendoli così piccoli imprenditori; se da un lato la riforma andava incontro alle rivendicazioni dei contadini del Sud, sfociate in episodi come la strage di Melissa, per altri versi ridusse in maniera notevole la dimensione delle aziende agricole, togliendo di fatto la possibilità di trasformarle in veicoli imprenditoriali avanzati.[383] Sul versante estero, nel 1951 l'Italia aderì al Trattato di Parigi che istituiva la CECA (Comunità europea del carbone e dell'acciaio), il primo embrione di un'organizzazione europea. Nel 1955 venne ammessa invece alle Nazioni Unite. Il 1958 vedrà infine la nascita della Comunità Economica Europea, il primo passo verso la realizzazione dell'Unione europea.

Il programma Lascia o raddoppia? condotto dal presentatore Mike Bongiorno

Tra gli altri atti di rilievo della stagione centrista ci fu l'attuazione di un riassetto fiscale operato dal ministro delle Finanze Ezio Vanoni, e l'istituzione della Cassa del Mezzogiorno per finanziare iniziative industriali tese allo sviluppo economico del meridione d'Italia e colmarne il divario con le regioni settentrionali. Furono così poste le premesse per quello che alla fine degli anni cinquanta diventerà un vero e proprio boom economico. La produzione industriale accelerò e comparvero i primi segnali del consumismo; iniziò la produzione su larga scala dei primi motorini come Vespa e Lambretta. Nel 1954 cominceranno le prime trasmissioni televisive della RAI, che portarono a un incremento vertiginoso della vendita di televisori. I primi programmi televisivi più seguiti furono il festival di Sanremo e il gioco a quiz Lascia o raddoppia?, che «nasceva in un Paese che nasceva: c'era lo stesso carico di sogni, di speranze, di buone intenzioni».[384] In campo cinematografico, ai film del neorealismo si succedono quelli surreali di Federico Fellini, mentre grande successo riscossero i primi colossal girati a Cinecittà a cui contribuì l'emergente regista Sergio Leone. In campo artistico si affermarono talenti come Alberto Burri.

Se da un lato stava nascendo una nuova borghesia benestante, nel paese permanevano ancora delle sacche di povertà, dovute al fatto che i salari dei lavoratori crescevano più lentamente rispetto ai ritmi della produzione industriale. Le proteste sociali e sindacali, come quelle alle Fonderie Riunite di Modena nel 1950, vennero fermamente represse dal ministro dell'Interno Mario Scelba, dipinto dai comunisti con tinte fosche. Nel novembre 1951 ci fu poi una terribile alluvione nel Polesine che causò 84 morti e rivelò la penuria di mezzi adeguati di contrasto delle catastrofi naturali. La crescita economica peraltro non fu senza sacrifici: il disastro di Marcinelle in una miniera del Belgio nel 1956 mise in luce che l'Italia aveva ceduto ai belgi 50 000 minatori in cambio del carbone di cui aveva bisogno.

La DC intanto stava guardando con crescente preoccupazione all'avanzata sulla propria destra del Movimento Sociale Italiano, nato dalle ceneri della Repubblica Sociale Italiana, e del Partito Nazionale Monarchico dell'armatore Achille Lauro. Alle amministrative del 1951, dove si votava anche per eleggere il sindaco di Roma, l'invito agli elettori fu di non disperdere i voti. Alcuni componenti del clero cattolico, tuttavia, compreso papa Pio XII, intimoriti dal clima da guerra fredda e dalla minaccia sovietica, auspicarono un'alleanza con le destre ritenendo fosse opportuno unire adesso le forze in funzione anticomunista, così come durante la lotta per la Liberazione vi era stata un'unione di tutte le forze antifasciste: fu pertanto incaricato lo storico leader don Luigi Sturzo di trovare una mediazione tra DC, MSI e monarchici. Ampi settori della DC, tuttavia, tra cui lo stesso De Gasperi, opposero resistenza al progetto, rivendicando un'autonomia politica dalle volontà curiali, e sancendo il fallimento dell'operazione Sturzo nella maggior parte dei casi, in particolare a Roma dove venne comunque eletto un sindaco democristiano (mentre in altre realtà locali l'alleanza con le destre giunse in porto).

L'atteggiamento della DC nei confronti delle destre fu molto duro e aperto anche negli anni successivi. Per contrastare la loro avanzata fu varata nel 1953 la legge Scelba che vietava la ricostituzione del disciolto Partito Fascista. Anche se rivolta esplicitamente al Movimento Sociale, la legge di fatto rimase inapplicata, né i comunisti si batterono per una sua effettiva messa in pratica vedendo tacitamente nel MSI un partito capace di erodere consensi al suo principale avversario, la DC.[385] Un altro provvedimento fu una nuova legge elettorale, ribatezzata dagli oppositori "legge truffa", che prevedeva un premio di maggioranza al partito (la DC nelle intenzioni) che avesse superato la soglia del 50% dei voti. Questa legge non avrebbe danneggiato tanto le sinistre che mantenevano ampi consensi elettorali nel paese, ma proprio le destre che avrebbero visto esclusi o ridotti i propri rappresentanti al Parlamento. Nella campagna elettorale del 1953, che vide un ampio ricorso alla satira, i democristiani vennero dipinti dai comunisti come un pericolo per la democrazia e come gente corrotta; i comunisti invece come trinariciuti e mangiatori di bambini. La contrapposizione tra DC e PCI si rifletterà nei film su Don Camillo e Peppone. Alle elezioni, per un soffio la DC non ottenne la maggioranza assoluta dei voti, e il meccanismo della "legge truffa" non scattò; ci furono peraltro accuse di brogli e irregolarità rivolte agli scrutatori di fede comunista. Si trattò comunque di una sconfitta per la DC che determinò la fine dell'esperienza politica di De Gasperi.

Giovanni Gronchi

Gli scompigli in casa democristiana portarono a un succedersi di diversi governi (Pella, Fanfani, Scelba), mentre emergeva l'esigenza di un superamento del centrismo, ora che la DC faticava a governare da sola con i suoi minori alleati di centro. Tra i successori più in voga di De Gasperi vi era il democristiano Attilio Piccioni, la cui carriera fu però stroncata da uno scandalo, rivelatosi poi una montatura, in cui rimase coinvolto il figlio Piero, riguardante l'omicidio di Wilma Montesi a Torvaianica. A nuovi scenari che consentissero ad esempio un'apertura ai socialisti guarderà sempre più con favore il nuovo presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, esponente della sinistra democristiana, e amico dell'imprenditore Enrico Mattei, presidente dell'Agip, una delle personalità più rilevanti e potenti del panorama post-bellico italiano, di cui appoggiava le iniziative spregiudicate. Fra i primi a intuire l'importanza del petrolio per lo sviluppo dell'Italia, Mattei osteggiò il predominio delle cosiddette sette sorelle in campo petrolifero, e portò avanti una visione neoatlantista che coinvolgesse il Mediterraneo nelle politiche di cooperazione tra Europa e Stati Uniti. Avviò la costruzione di una rete di gasdotti per lo sfruttamento del metano, aprì all'energia nucleare, e negoziò rilevanti concessioni petrolifere in Medio Oriente e con l'Unione Sovietica.


Notevoli sconvolgimenti si stavano producendo anche in casa comunista, dove si era accesa una rivalità fra Pietro Secchia e Togliatti, dopo che quest'ultimo aveva rifiutato l'invito di Stalin a trasferirsi in URSS per occuparsi della propaganda sovietica. Nel 1953 avvenne poi la morte di Stalin: circondato allora da un'aura di mito, la sua figura venne pesantemente ridimensionata pochi anni dopo quando ne fu svelato il volto spietato dal suo successore Krusciov, che ne denunciò i crimini e le nefandezze, come le purghe e le deportazioni nei gulag.[386] La notizia della denuncia fu un trauma per il mondo comunista, non solo del PCI ma anche del PCUS, che cercarono di negare i crimini, ma ebbe conseguenze in Ungheria che nel 1956 si ribellò al regime sovietico uscendo dal Patto di Varsavia. La rivolta ungherese venne però repressa nel sangue dalle armate sovietiche, una repressione che suscitò ondate di sdegno e di avversione al comunismo nei paesi occidentali. Nel PCI emerse per la prima volta il dissenso, da parte di intellettuali come Delio Cantimori, Carlo Muscetta, Natalino Sapegno, firmatari del Manifesto dei 101: costoro furono espulsi dal partito, che decise invece di difendere la repressione sovietica e di continuare a schierarsi con l'URSS.

Nel 1954 intanto fu firmato il Memorandum di Londra con il quale il Territorio libero di Trieste veniva suddiviso in due zone, una assegnata all'Italia con il ritorno di Trieste alla madrepatria, ed una alla Jugoslavia (la parte settentrionale dell'Istria).

Verso la fine del centrismo[modifica | modifica wikitesto]

Aldo Moro e Amintore Fanfani, definiti i due "cavalli di razza" della Democrazia Cristiana.

Con l'uscita di scena di De Gasperi, il vuoto lasciato nella dirigenza della DC fu progressivamente riempito da due nuove personalità, Amintore Fanfani e Aldo Moro. Già nel 1956 Fanfani, uomo dal piglio risoluto, ritenne maturi i tempi per un'alleanza col PSI, ora che questo partito sotto la spinta degli autonomisti si era deciso a rompere i legami col PCI, contestandone la sottomissione al regime comunista sovietico, soprattutto in occasione della repressione della rivolta ungherese. Pur avviandosi così verso una nuova fase, nel PSI restavano tuttavia forti le resistenze nei confronti di una possibile alleanza con la DC.

Le elezioni del 1958 segnarono un importante successo dei partiti componenti il centro-sinistra vagheggiato da Fanfani. Quest'ultimo, divenuto intanto segretario della DC, si decise perciò a compiere un ulteriore passo, formando un governo che comprendeva anche il PSDI di Saragat, come premessa per una futura alleanza coi socialisti di Nenni. Tra gli atti di rilievo del nuovo governo, orientato su tematiche care alla sinistra, come una politica estera filo-araba o l'appoggio all'ENI fondato da Enrico Mattei, ci fu l'abolizione delle case chiuse con la legge Merlin, seppure tra le contestazioni di alcuni parlamentari o del giornalista Indro Montanelli. Venne anche varato il nuovo codice della strada per far fronte al grave incremento degli incidenti automobilistici, dovuto alla motorizzazione di massa nell'epoca in cui stava esplodendo il cosiddetto boom economico.

Il miracolo economico[modifica | modifica wikitesto]

Antonio Segni inaugura l'Autostrada del Sole, il 4 ottobre 1964, a bordo della Lancia Flaminia 335 presidenziale.

Tra il 1958 e il 1963, infatti, l'economia italiana, ma anche la società e le famiglie, subirono una radicale trasformazione: da paese prevalentemente agricolo l'Italia diventò una delle sette grandi potenze industriali del mondo.

Allora l'Italia primeggiava soprattutto in due grandi settori ad alta tecnologia, quali la microelettronica e la chimica, grazie a gruppi industriali come la Olivetti e la Montecatini, ma anche nella farmaceutica, nel nucleare, nell'aeronautica, nelle telecomunicazioni, settori che in seguito scompariranno o finiranno in mano allo straniero.[387]

Importanti cambiamenti ci furono nell'alimentazione e nella vita delle donne, grazie alla diffusione degli elettrodomestici, in particolare del frigorifero e della lavatrice. Anche le automobili e le motociclette divennero beni accessibili per un gran numero di italiani. Si affermarono marchi come Fiat, Lancia, Alfa Romeo, Autobianchi, Gilera, Piaggio.

Contribuì alla rapida crescita dell'Italia l'elevata disponibilità di manodopera, dovuta ad un forte flusso di migrazione dalle campagne alle città, e dal Sud verso il Nord. Questo fenomeno provocò per certi versi un aumento del divario economico tra il Settentrione e il Meridione. Il tentativo di ridurre tale squilibrio con l'istituzione della Cassa per il Mezzogiorno, o la formazione di poli siderurgici Italsider, non darà risultati soddisfacenti. Ma contribuì alla crescita anche un fattore esterno, cioè la creazione del Mercato comune europeo (MEC), preceduta dalla creazione nel 1951 della Comunità europea del carbone e dell'acciaio e la creazione della CEE nel 1957, a cui l'Italia aderì immediatamente. Con la creazione del MEC vi fu l'apertura delle frontiere europee ai commerci, col conseguente aumento delle esportazioni e degli scambi commerciali europei.

Se il paese uscì dall'arretratezza in cui versava, non mancarono però gli aspetti negativi legati al "miracolo economico", come una crescita tumultuosa dei centri urbani. Questo notevole sviluppo si dovette tra l'altro anche all'intervento dello Stato nell'economia attraverso politiche di tipo Keynesiano, rese possibili soprattutto dall'aumento della spesa pubblica e dalla creazione di società a partecipazione statale. Fondamentale in tal senso fu la realizzazione di alcune infrastrutture necessarie per lo sviluppo del mercato: un importante ruolo fu ricoperto dall'IRI, ente pubblico di origine fascista fondato nel 1933, che intervenne sostanzialmente nella costruzione della rete autostradale (con la costituzione della Società Autostrade) e nel potenziamento del settore dei trasporti, non solo automobilistico, ma anche metropolitano, navale e aereo (fondazione dell'Alitalia).

Il varo del centro-sinistra[modifica | modifica wikitesto]

Nel marzo 1959, intanto, all'interno della DC era emersa la corrente dei Dorotei, che contestava il decisionismo di Fanfani, e il fatto che egli concentrasse nelle sue mani tre poteri: quello di presidente della DC, di presidente del Consiglio, e di ministro degli Esteri. I Dorotei giunsero ad appoggiare in Sicilia la giunta del democristiano Silvio Milazzo, sostenuta da una convergenza di missini e comunisti, contro il candidato di Fanfani Barbaro Lo Giudice. Trovandosi isolato, e senza più appoggi nel partito al suo difficile tentativo di trovare un'intesa col PSI, Fanfani rassegnò le dimissioni da tutte e tre le cariche.

Gli scontri a Genova

Dopo che Aldo Moro fu eletto segretario della DC col sostegno dei Dorotei, nel 1960 il presidente della Repubblica Giovanni Gronchi affidò a Fernando Tambroni, ex-ministro degli Interni distintosi per il suo carattere deciso e autorevole, il governo che avrebbe dovuto finalmente varare il nuovo corso di centro-sinistra. Di fronte a un ennesimo temporeggiamento di Nenni e della base socialista, tuttavia, Tambroni decise di cercare altrove i voti di cui aveva bisogno, e li trovò nel Movimento Sociale Italiano, a cui concedeva in cambio il suo "sdoganamento".[388] Il governo Tambroni in tal modo ricevette dall'opposizione diverse accuse di neofascismo, ma fu soltanto alcuni mesi dopo, in occasione di un congresso del MSI da tenere a Genova, città ritenuta "antifascista" in quanto medaglia d'oro della Resistenza, che scoppiarono delle pesanti proteste di piazza, sobillate dal PCI,[389] con scontri e morti ammazzati anche nelle altre città italiane.

In seguito ai gravi fatti di Genova Tambroni rassegnò le dimissioni; al suo posto tornò Fanfani che stavolta trovò i socialisti più disponibili ad un'alleanza con la DC, memori dell'esperienza appena trascorsa, a partire dalla quale il MSI subirà un isolamento dal cosiddetto arco costituzionale che durerà almeno fino alla metà degli anni ottanta.[390] Venne così varato un governo che si reggeva su un appoggio esterno del PSI, e definito da Moro delle «convergenze parallele», perché basato sulla convergenza di disegni e linee politiche assai distanti tra loro, ma che nonostante tutto durerà quasi tre anni. Tra i suoi atti di rilievo vi fu la nazionalizzazione dell'energia elettrica (che nel 1964 porterà alla nascita dell'Enel) voluta dalle forze di sinistra ma osteggiata dal PLI e dalle società private Edison e SADE, allora sostenute dal Corriere della Sera, le quali paventavano il rischio di creare in tal modo inefficienze e aumenti di spesa per lo Stato e le famiglie. Vi fu poi l'estensione della scuola dell'obbligo fino ai 14 anni con la creazione della scuola media unificata, per impedire l'abbandono scolastico dei ragazzi avviati precocemente al lavoro.

Nell'agosto del 1960 si erano svolte intanto le Olimpiadi di Roma. Benché l'unità nazionale italiana si stesse ormai consolidando, grazie anche alla diffusione della lingua comune veicolata dalla televisione, persistevano episodi di separatismo, tra i quali la Notte dei fuochi del 1961 in Alto Adige; un'altra strage avverrà il 25 giugno 1967 in Cima Vallona, ad opera del Comitato per la liberazione del Sudtirolo (Befreiungsausschuss Südtirol-BAS), in cui rimasero uccisi quattro militari.

Nel 1961 avvennero le celebrazioni del centenario dell'unificazione italiana: il presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy disse:

«Tutti noi, nel senso più vasto, dobbiamo qualcosa all’esperienza italiana. È un fatto storico straordinario: ciò che siamo e in cui crediamo ha avuto origine in questa striscia di terra che si protende nel Mediterraneo. Tutto quello per la cui salvaguardia combattiamo oggi ha avuto origine in Italia, e prima ancora in Grecia. (...) Il Risorgimento, da cui è nata l’Italia moderna, come la Rivoluzione americana che ha dato le origini al nostro Paese, è stato il risveglio degli ideali più radicati della civiltà occidentale: il desiderio di libertà e di difesa dei diritti individuali. Lo Stato esiste per proteggere questi diritti, che non ci vengono grazie alla generosità dello Stato. Questo concetto, le cui origini risalgono alla Grecia e all’Italia, è stato, secondo me, uno dei fattori più importanti nello sviluppo del nostro Paese. (...) Per quanto l'Italia moderna abbia solo un secolo di vita, la cultura e la storia della penisola italiana vanno indietro di oltre duemila anni. La civiltà occidentale come la conosciamo oggi, le cui tradizioni e valori spirituali hanno dato grande significato alla vita occidentale in Europa dell’Ovest e nella comunità Atlantica, è nata sulle rive del Tevere[391]»

In questo periodo anche la Chiesa cattolica andava incontro a un grande cambiamento con il Concilio Vaticano II, avviato nel 1962 da papa Giovanni XXIII con l'intenzione di "aprire la Chiesa alla lettura dei segni dei tempi". Si conobbero anche le prime risposte dello Stato alla mafia, dopo che nell'ambito della prima guerra di mafia il 30 giugno 1963 un'autobomba vicino alla casa di un boss a Ciaculli uccise sette carabinieri giunti sul posto in seguito ad una telefonata anonima. Il fatto, noto come strage di Ciaculli, fu alla base dei primi provvedimenti antimafia del dopoguerra. Nello stesso anno l'Italia, unendo la regione del Friuli con la parte dell'ex-territorio libero di Trieste, costituì la Regione a Statuto speciale del Friuli-Venezia Giulia.

Dal punto di vista letterario questo fu il periodo della neoavanguardia. Nel frattempo, le seguenti elezioni del 1963 videro un indebolimento della DC e del PSI, e un contemporaneo rafforzamento da un lato del PCI, che aveva duramente contestato la loro alleanza, e dall'altro del PLI, che aveva accusato il governo di causare l'aumento dei prezzi e di gonfiare la spesa pubblica. Fanfani è costretto a ritirarsi dalla scena politica; il presidente della Repubblica Antonio Segni formò per l'estate un governo "balneare" in attesa di nuovi sviluppi. Fu nell'autunno di quell'anno che si verificò il terribile cedimento della diga del Vajont, nel fondovalle veneto, che provocò la morte di circa 2000 persone.[392]

Nel dicembre del 1963 fu incaricato Aldo Moro di formare il primo vero governo di centro-sinistra "organico", cioè con l'entrata effettiva dei socialisti al governo. Fu un varo a cui sia la DC che il PSI giunsero stremati da anni di trattative, congressi, ed esitazioni. Anche in quest'occasione non mancarono i malumori all'interno di entrambi i partiti, che esplosero pochi mesi dopo, nel maggio 1964, quando il governo Moro cadde per una questione riguardante il finanziamento pubblico alle scuole cattoliche. Ma già il ministro del Bilancio, il democristiano Emilio Colombo, aveva criticato Moro per un'eccessiva arrendevolezza nei confronti di alcune riforme auspicate dai socialisti, come quella sulle Regioni e sull'urbanistica, e su cui Nenni si rifiutava di cedere, sebbene il PSI avesse messo in minoranza il suo esponente più radicale, Riccardo Lombardi.

Giuseppe Saragat

Di fronte allo stallo venutosi a creare, il presidente della Repubblica Segni convocò il comandante dell'arma dei Carabinieri Giovanni De Lorenzo, il quale partecipò in seguito ad una riunione con Moro e alcuni dirigenti della DC. Qualche anno più tardi si parlerà del tentativo, o piuttosto della minaccia, di attuare un piano eversivo, noto come il "Piano Solo", per far rientrare nei ranghi la sinistra, e convincerla ad ammorbidire le proprie posizioni. Nenni, probabilmente messo al corrente di questa possibilità, decise di far rientrare il PSI al governo; Lombardi lasciò la direzione del PSI, e il suo uomo di fiducia Giolitti non venne più confermato come ministro nel nuovo governo, il cui cui corso sarà negli anni a venire molto più moderato del precedente, e dalla cui agenda politica verranno tolte le riforme volute dai socialisti. Ci fu anche una scissione nel PSI da parte della componente più estremista del partito, che diede vita al PSIUP.

Nel 1966 invece il PSI, la cui direzione era passata da Nenni a Francesco De Martino, dopo aver contribuito ad eleggere Saragat presidente della Repubblica, si fonderà con il PSDI, rimarginando la scissione dello stesso Saragat avvenuta nel 1947, andando così a fomare il Partito Socialista Unificato. La fusione si rivelerà però fallimentare alle elezioni del 1968, dopo le quali i due partiti torneranno a dividersi.

Il sessantotto e la contestazione[modifica | modifica wikitesto]

La partecipazione ai funerali di Togliatti

Nell'agosto 1964, a Jalta, moriva Togliatti, leader storico del PCI, intorno al quale era stata costruita quasi un'aura di mito, e che aveva guidato il partito comunista lungo quello che allora si definiva "doppio binario":[393] della legalità democratica da un lato, e della fedeltà all'Unione Sovietica dall'altro. Dopo la sua scomparsa, nel 1966 si svolse il primo scontro "alla luce del sole" di un congresso del PCI: l'ala "destra" di Giorgio Amendola, propensa a stimolare il centro-sinistra sul terreno delle riforme, contro quella di "sinistra" di Pietro Ingrao, che cavalcava temi come l'anti-capitalismo e chiedeva più attenzione al dissenso cattolico e ai movimenti giovanili; il compromesso fu trovato nell'assegnazione della leadership a una figura di mediazione, Luigi Longo. Ma a sinistra dello stesso PCI stavano cominciando anche a formarsi dei movimenti spontanei, che contestavano la guerra americana in Vietnam solidarizzando coi vietcong, simpatizzavano per la Cina maoista che criticava la degenerazione a suo dire "borghese" dell'URSS, e idealizzavano la rivoluzione cubana di Fidel Castro e Che Guevara, il quale aveva coniato lo slogan «Dieci, venti, cento Vietnam». Questi gruppi si riunivano intorno a riviste come Quaderni Rossi e Quaderni Piacentini di orientamento operaista.

Patty Pravo al Piper Club

Negli anni 60 era comunque la stratificazione sociale dell'intera popolazione italiana che era cambiata dopo il boom economico, l'urbanizzazione creata dai flussi migratori interni aveva aumentato la concentrazione della popolazione, esisteva ormai un ceto medio e si cominciava a delineare un prototipo di italiano medio. L'apertura agli stili di vita e ai fenomeni musicali internazionali, specialmente tra i giovani, portò alla comparsa dei cosiddetti capelloni, già nel 1965. Icona del nuovo costume fu il Piper, storica discoteca di Roma. Guardati sempre più con diffidenza, la nuova beat generation italiana tuttavia si guadagnò la simpatia dell'opinione pubblica in occasione della terribile alluvione di Firenze del 4 novembre 1966, quando gli studenti accorsi da tutta Italia per prestare soccorso furono chiamati gli «angeli del fango».

Carica della polizia a Valle Giulia

I cambiamenti nella mentalità di questi gruppi giovanili esplosero nel 1968, l'anno che vide l'Italia trasformarsi radicalmente sul piano culturale e sociale, in seguito alle migliorate condizioni di vita dovute al boom economico degli anni precedenti, e al sorgere di movimenti radicali, soprattutto di estrema sinistra. Le proteste partirono da una contestazione studentesca dei metodi di insegnamento nelle università, ritenuti "autoritari", e si estenderanno fino a saldarsi con i movimenti degli operai. Nel marzo 1968 si svolse la prima "battaglia" a Valle Giulia; seguì un mese di "autogestione" sgombrata dopo un mese dalla polizia. A Milano fu assalita la sede del Corriere della Sera. Seguirono altri episodi di contestazioni che si protrassero fino a tutto l'anno successivo. La base ideologica di queste sollevazioni consisteva soprattutto nel "terzomondismo", ossia nella solidarietà verso le lotte rivoluzionarie dei popoli poveri e lontani dall'Occidente. In Italia però, a differenza delle altre liberaldemocrazie occidentali, la contestazione del '68 verrà sempre più egemonizzata dall'ideologia comunista.[394][395] Si trattava di gruppi per lo più autonomi dai partiti, sorti dalle assemblee, dai collettivi, e dalle occupazioni, che dipingevano gli americani come i nuovi "nazisti", che giunsero a scavalcare a sinistra lo stesso PCI, ritenendo il filo-sovietismo quasi un tradimento dell'autentico marxismo, di cui consideravano invece degno interprete il dittatore cinese Mao Tse-tung, e contestavano alle radici lo Stato e le istituzioni borghesi. L'intellettuale Pier Paolo Pasolini fece notare tuttavia come la base sociale dei contestatori italiani fosse costituita, almeno all'inizio, proprio da studenti piccolo-borghesi anziché da proletari; a costoro rivolse un'invettiva poetica, intitolata Il Pci ai giovani!!:

«Avete facce di figli di papà. Buona razza non mente. Avete lo stesso occhio cattivo. Siete paurosi, incerti, disperati (benissimo) ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori e sicuri: prerogative piccoloborghesi, amici. Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti! Perché i poliziotti sono figli di poveri. Vengono da periferie, contadine o urbane che siano.[396]»

Lavagna in una scuola occupata

Tra i nuovi gruppi extra-parlamentari di estrema sinistra, che avevano quasi tutti intenti rivoluzionari, emersero l'Unione Comunisti Italiani, simpatizzante di Mao Tse-tung; Potere Operaio di Oreste Scalzone, che vedeva negli operai la forza propulsiva della rivoluzione; Movimento Studentesco di orientamento leninista; e Lotta Continua di Adriano Sofri, rivolto a tematiche sociali più generiche e dedito a diffondere la cosiddetta "controinformazione".

Tra i partiti, quello che più di tutti seppe trarre vantaggio dalla contestazione fu comunque il PCI, che guadagnò terreno a spese dei socialisti. Nello stesso anno ci fu tuttavia un Sessantotto controcorrente, noto come la Primavera di Praga, ossia il tentativo della Cecoslovacchia guidata dal riformista Alexander Dubček di sottrarsi al giogo sovietico, tentativo duramente represso dall'Armata Rossa. Il PCI, la cui laedership stava vedendo l'avvicendamento di Luigi Longo, dimessosi per motivi di salute, con Enrico Berlinguer, nuova figura di mediazione tra le due anime del partito, stavolta criticò e condannò i crimini di Mosca (a differenza del 1956 durante l'invasione dell'Ungheria), senza però giungere ad un'effettiva rottura. Berlinguer anzi rafforzò ancor più i legami del PCI con l'URSS, per non distruggere il mito sovietico di cui si alimentava la base del partito, ritenendo l'invasione della Cecoslovacchia un errore da mettere tra parentesi.[397] Questo atteggiamento scuscitò le critiche di un folto gruppo di intellettuali comunisti, riunti intorno alla rivista Il manifesto, tra cui Luigi Pintor, Aldo Natoli, Lucio Magri, Rossana Rossanda: Praga è sola fu il titolo emblematico di quella rivista in occasione dei fatti di Praga. Dopo varie procedure alquanto macchinose, il PCI decise di espellere i dissidenti del Manifesto come già accaduto in altre circostanze.[398]

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Mariano Rumor

Anche nel mondo cattolico cresceva il fermento, in particolare si chiedeva alla DC di aprirsi alle nuove rivendicazioni sociali, o di solidarizzare coi vietcong, e di prendere le distanze dagli USA. Dopo la pesante sconfitta subita dal Partito Socialista Unificato nel 1968, si ritenne comunque esaurita l'esperienza di centro-sinistra guidata da Aldo Moro, il quale lasciò il campo al democristiano Mariano Rumor, leader doroteo, che salirà a capo di cinque governi, sempre però insieme ai socialisti. Nel 1969, intanto, sul fronte della prima guerra di mafia, il 10 dicembre ebbe luogo la strage di Viale Lazio, in cui assassini travestiti da finanzieri uccisero sei persone.

Manifestazione di operai in sciopero durante l'autunno caldo

La crescita del conflitto sociale portò al cosiddetto autunno caldo del tardo 1969, quando i movimenti studenteschi sessantottini si saldarono con le sollevazioni e le proteste del mondo operaio. Per la prima volta dal 1946, le tre sigle sindacali CGIL, CISL, UIL, si ritrovarono unite. Il movimento ottenne vari successi come le 40 ore lavorative, una regolamentazione degli straordinari, la revisione del sistema pensionistico, il diritto di assemblea; nel 1970 verrà infine approvato lo statuto dei lavoratori. Nello stesso anno fu approvata da una maggioranza trasversale, con l'esclusione della DC e del MSI, anche la legge sul divorzio, appoggiata in particolare dall'emergente leader radicale Marco Pannella, che si distinguerà sempre più per le sue battaglie in materia di diritti civili. Un altro risultato a cui si giunse sulla scia delle agitazioni sociali fu l'istituzione, sempre nel 1970, delle Regioni come enti autonomi, una riforma che comportava una loro capacità legislativa e quindi l'implicita cessione di regioni notoriamente "rosse", in particolare l'Emilia-Romagna, la Toscana e l'Umbria, alla guida dei comunisti.

Gli anni Settanta[modifica | modifica wikitesto]

Negli anni settanta alcuni dei numerosi movimenti politici, sorti negli anni precedenti, si estremizzarono e degenerarono nel terrorismo rosso dando vita in particolare alle BR, accompagnato da quello nero costituito da gruppi elitari neofascisti come i NAR.

Sebbene il Sessantotto italiano fosse stato egemonizzato dall'estrema sinistra, vi avevano partecipato anche alcune frange di estrema destra; il nuovo decennio si aprì ora proprio col cosiddetto "triennio di destra",[397] ossia con uno spostamento dell'intero quadro politico sul versante conservatore, dovuto sia ad un nuovo protagonismo del MSI guidato da Giorgio Almirante, sia all'emergere della cosiddetta "maggioranza silenziosa", composta da esponenti del ceto moderato intimoriti dalle contestazioni della sinistra, che si presentavano con il motto «Noi siamo l'Italia che lavora, produce e paga le tasse».[399]

I fatti di Reggio

Già dopo le prime elezioni regionali, nel luglio 1970 scoppiò la rivolta di Reggio Calabria, dovuta alla decisione del governo di centro-sinistra di collocare il capoluogo della neonata regione a Catanzaro. La sommossa fu capeggiata dal missino Ciccio Franco, sindacalista della CISNAL, che rilanciò l'espressione «boia chi molla di mussoliniana memoria. Dopo tre mesi di scontri violenti, che videro la città di Reggio assediata dall'esercito, i moti furono sedati, ma nel 1972 il MSI diventerà il primo partito della Calabria.

Giovanni Leone

Ancora nel 1971, alla scadenza del mandato di Saragat, dopo che il candidato ufficiale della DC Fanfani era stato osteggiato dalle sinistre, il MSI si rivelò determinante nell'elezione del nuovo presidente della Repubblica Giovanni Leone, sebbene i voti missini non fossero stati esplicitamente richiesti. Alle elezioni anticipate dell'anno seguente, il MSI raggiunse il suo massimo storico fino ad allora, grazie anche alla fusione con i Monarchici. A causa dei modesti risultati del PSI, venne formato un governo Andreotti - Malagodi che segnò anche una momentanea interruzione del centro-sinistra; esso vedeva infatti un ritorno alla formula centrista con l'esclusione dei socialisti e un ingresso organico dei liberali nella compagine governativa.

In quegli anni si venne inoltre a sapere che nel dicembre del 1970 c'era stato un velleitario tentativo di colpo di stato, noto come il Golpe Borghese, organizzato da gruppi neofascisti capitanati da Junio Valerio Borghese, ex-figura carismatica della Repubblica Sociale Italiana. Il golpe sarebbe stato progettato nei minimi dettagli: gli uomini di Borghese avrebbero dovuto occupare il Ministero dell'interno, il Ministero della difesa, le sedi della RAI, e rapire il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat e il capo della polizia Angelo Vicari; si parlò anche di un presunto appoggio da parte di organi eversivi ed occulti come la loggia massonica P2. Mentre però l'operazione stava iniziando, Borghese avrebbe annullato l'azione misteriosamente, sancendo il fallimento del golpe.

Interno della Banca dell'Agricoltura a Piazza Fontana dopo la bomba

La notizia del golpe si andava comunque ad inserire in un clima allarmistico di attentati, che connotarono quegli anni detti perciò "di piombo", attentati inaugurati dall'esplosione di una bomba in Piazza Fontana a Milano il 12 dicembre 1969, che uccise diciassette persone. Per la strage, rimasta senza colpevoli, fu dapprima incriminato l'anarchico Pietro Valpreda, e poi i neofascisti Franco Freda e Giovanni Ventura di Ordine Nuovo, che dopo essere stati condannati verranno assolti. Fu accusato anche un amico di Valpreda, Giuseppe Pinelli, che morì in circostanze misteriose cadendo da una finestra della questura dov'era interrogato; il Movimento Studentesco, ipotizzando cospirazioni e trame oscure, accusò di omicidio il commissario Luigi Calabresi che stava conducendo l'interrogatorio. Calabresi, che pure era persona mite e legato a Pinelli da rapporti di amicizia, divenne il bersaglio di una martellante campagna di denuncia da parte di intellettuali ed estremisti di sinistra, finché venne ucciso il 17 maggio 1972. Per il suo omicidio saranno condannati in via definitiva gli esponenti di Lotta Continua Adriano Sofri, Ovidio Bompressi e Giorgio Pietrostefani.

Seguirono altri episodi rimasti tristemente celebri, come l'attentato alla questura di Milano ad opera dell'anarchico Bertoli nel 1973, quello al treno Italicus nel 1974, e nello stesso anno la strage di piazza della Loggia a Brescia durante una manifestazione sindacale, attribuita all'eversione nera. Nell'agosto 1970 erano poi comparsi davanti alla SIEMENS di Milano i primi volantini a firma BR, gruppo terrorista di estrema sinistra, guidato all'inizio dagli esponenti di Movimento Studentesco Renato Curcio e Mara Cagol, che dapprima si limitò ad azioni dimostrative come furti e incendi, ma col passare degli anni divenne sempre più violento, giundendo a rapire, gambizzare e uccidere personalità del mondo culturale e politico ritenuti "reazionari", a cominciare dal rapimento di Sossi e dall'omicidio di due missini a Padova nel 1974. La sinistra politica, soprattutto quella comunista, dapprima non riuscì a riconoscere che le BR provenissero dal suo stesso retroterra ideologico, ipotizzando trame oscure di gruppi mascherati di estrema destra e parlando perciò di Brigate «sedicenti» rosse.[400] Anche quando diventò evidente la loro matrice rivoluzionaria di sinistra, negli ambienti del PCI vi fu chi mantenne, nonostante le condanne ufficiali del partito, un atteggiamento indulgente nei loro confronti parlando di «compagni che sbagliano».[400][401] Negli stessi ambienti desterà scalpore, nel marzo 1978, un articolo di Rossana Rossanda che denunciava chiaramente l'appartenenza delle BR all'«album di famiglia» del PCI.[402]

Il Partito Comunista, intanto, stava conoscendo una crescita elettorale progressiva e impetuosa, soprattutto a spese degli altri partiti della sinistra, mentre la DC, tornata sotto la guida di Fanfani, subì nel 1974 la sconfitta al referendum abrogativo della legge sul divorzio. Si trattò di un successo per il movimento femminista, il quale comincerà a battersi anche per la legalizzazione dell'aborto che riuscirà a ottenere nel 1978. Nello stesso anno sarà emanata la legge Basaglia, con la quale venivano chiusi i manicomi. Fra le nuove tendenze, presero a diffondersi tra i giovani le culture alternative e la moda dei raduni di massa. Negli anni settanta la crescita economica che aveva portato al boom si arrestò, iniziò un periodo di recessione aggravato dalla crisi petrolifera del 1973 dovuta alla guerra dello Yom Kippur tra Israele e mondo arabo. Ne conseguì un periodo di austerity caratterizzato dalle prime "domeniche a piedi" per il divieto di circolazione degli automezzi. Aumentò il disagio sociale e crebbe spaventosamente l'inflazione. Affiorò anche il risvolto negativo del tumultuoso sviluppo industriale dei decenni precedenti, con danni ambientali denunciati dai primi movimenti ambientalisti, e nuove forme di inquinamento; tra i fatti più gravi, da annoverare il disastro di Seveso, un comune della provincia di Milano investito da una nube di diossina nel luglio 1976.

Sul piano politico si venne determinando uno stallo per via dell'erosione dei consensi alla maggioranza di centro-sinistra, che portò alla fine anticipata di due legislature. Cominciò allora a prendere corpo l'idea di un compromesso storico fra le principali forze politiche del paese, che dalla DC si estendesse al PCI, cresciuto enormemente alle Regionali del 1975 e ancor più alle politiche del 1976, e i cui «voti congelati» non potevano essere ormai ulteriormente confinati all'opposizione. Si trattava di un progetto ideato dallo stesso leader del PCI, Enrico Berlinguer, all'indomani del golpe cileno del 1973, e che fu recepito con favore dai principali organi di informazione. Per rimuovere la pregiudiziale che impediva al suo partito di partecipare al governo del paese,[372] Berlinguer nel 1976 rilasciò una storica intervista al Corriere della Sera in cui sembrava prendere le distanze dall'URSS, dichiarando di non voler prendere più le sue parti in caso di conflitto con la NATO;[403] promosse inoltre la cosiddetta linea euro-comunista, cioè un'alleanza col Partito Comunista Francese e quello Comunista di Spagna, che prevedeva un approdo "democratico" al comunismo in Europa a prescindere dal sostegno dell'Unione Sovietica. Fu così che in quello stesso anno, dopo che il PSI ebbe fatto cadere l'ultimo governo di centro-sinistra, a seguito di elezioni anticipate cominciarono i governi di astensione o di unità nazionale, guidati da Andreotti, monocolori democristiani che si reggevano indirettamente sull'astensione di PSI, PCI, PLI e PSDI, ma vissuti dal paese come se tutti i partiti vi contribuissero.

Un'immagine di Giuseppe Memeo durante una sparatoria a Milano nel maggio 1977

Il compromesso storico porterà tuttavia il PCI a lasciare scoperti diversi settori alla propria sinistra che non si sentivano più rappresentati da quel partito, contrari all'idea di compromessi con le forze "borghesi". In particolare il 1977 vide un ritorno delle agitazioni e dei movimenti di piazza, con scontri molto più feroci di quelli del Sessantotto: iniziate con un assalto alla tribuna di Luciano Lama, leader della CGIL a cui veniva contestata una linea politica ritenuta troppo morbida, le violenze sfociarono in azioni armate con lanci di molotov, uccisioni sia di poliziotti che di manifestanti, assalti alle sedi del MSI, e strascichi come la strage di Acca Larentia. Anche le BR giunsero ad alzare maggiormente il tiro, dopo che la loro nuova guida, Mario Moretti, aveva preso il posto di Cagol, morta nel 1975, e di Curcio, arrestato nel 1976. Moretti diede alla lotta armata l'ordine di «mirare al cuore dello stato», portando a un incremento degli attentati: nel 1977 le persone uccise ad opera delle BR salirono a trentuno.

Aldo Moro prigioniero delle Brigate Rosse

Berlinguer, ritenendo che il PCI stesse pagando più di tutti il proprio appoggio al governo Andreotti con una perdita di consensi, fece pressioni per avervi un maggior coinvolgimento. Fu allora che si ebbe l'episodio più eclatante quando il 16 marzo 1978 le BR rapirono il Presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro, uno dei maggiori sostenitori del compromesso storico, in via Fani a Roma, proprio nel momento in cui il Presidente del Consiglio incaricato, Giulio Andreotti, stava tentando di far nascere il primo governo con i voti diretti del PCI. Il fronte politico si divise allora tra i fautori della trattativa con le BR (soprattutto il PSI), e i sostenitori della fermezza (democristiani e comunisti), convinti che lo Stato non si dovesse piegare ai loro ricatti; alla fine prevalsero questi ultimi. Il conseguente omicidio di Moro, il cui cadavere fu fatto ritrovare in via Caetani, a metà strada tra le sedi della DC e del PCI, gettò l'Italia intera nello scompiglio e nel caos. Il ministro dell'Interno Cossiga, che si era opposto alla trattativa con le BR, fu costretto alle dimissioni. Anche il presidente della Repubblica Leone fu accusato di non aver fatto abbastanza per salvare Moro; sottoposto tra l'altro a una campagna mediatica da parte dell'Espresso e del Partito Radicale che lo ritenevano coinvolto nello scandalo Lockheed, che in quegli anni stava portando a svariate inchieste giudiziarie,[404] Leone si dimise di lì a poco, nonostante la sua estraneità ai fatti[405] riconosciuta vent'anni dopo dagli stessi radicali.[406] L'omicidio di Moro accelerò di fatto la fine dei governi di solidarietà nazionale, portando alla fine anticipata della legislatura nel 1979, e lasciando nella Repubblica Italiana la lugubre sensazione di avviarsi verso un inesorabile declino.[397]

Gli anni Ottanta[modifica | modifica wikitesto]

La marcia dei 40 mila

Il pesante clima ideologico degli anni settanta, che aveva portato a un vertiginoso accrescimento della tensione sociale e politica, cominciò a dissolversi all'inizio degli anni ottanta, durante i quali avvenne la cosiddetta svolta del «riflusso»,[407] inaugurata nell'autunno del 1980 dalla marcia dei quarantamila a Torino, quando tornò alla ribalta l'esistenza di una «maggioranza silenziosa» che si contrapponeva al clamore degli scontri sociali del decennio precedente: il 14 ottobre numerosi quadri intermedi della Fiat, stanchi delle continue proteste dei sindacati che si opponevano alla cassa integrazione di diversi operai proposta dall'azienda per rilanciarsi, e che impedivano loro di entrare in fabbrica a lavorare, diedero vita a un corteo "silenzioso" per la città che mise a tacere gli scioperi e le occupazioni.[408]

Ci fu nel complesso un ritorno delle persone dalle piazze al privato; cominciò l'era della televisione commerciale, unito a un decollo della pubblicità e a un incremento dei consumi. Rinacque il Carnevale di Venezia; crebbe la disaffezione dei cittadini per la politica, ma aumentò il senso di ottimismo e di benessere sociale.[409] A livello politico iniziò a prevalere la personalizzazione sull'appartenenza ideologica; ci fu così un declino del potere dei sindacati e del Partito Comunista Italiano, parallelamente all'ascesa di Bettino Craxi tra le fila del Partito Socialista Italiano, chiamato nel 1976 a risollevare le sorti del partito che allora si trovava ai minimi storici, stretto nella tenaglia del tentativo di compromesso storico tra la DC e il PCI.[410] Esponente quarantenne della corrente minoritaria degli autonomisti di Nenni, ritenuto una figura provvisoria di mediazione tra le opposte correnti dei demartiniani di Enrico Manca e dei lombardiani di Claudio Signorile, Craxi ottenne ben presto un comando indiscusso sul PSI, giungendo a cambiarne la fisionomia. Allontanandosi in maniera sempre più marcata dal PCI, sul modello del programma di Bad Godesberg del Partito Socialdemocratico Tedesco, Craxi si propose di costruire un'alternativa di sinistra alla DC, che fosse costituita non già da un partito comunista colluso con l'Unione Sovietica, ma da una sinistra riformista che potesse trattare col PCI da una posizione di forza, al fine di riassorbire l'anomalia dell'Italia adeguandola agli altri paesi occidentali.[374]

Pertini con un gruppo di studenti

Prendendo parte al clima culturale ravvivato dai nuovi intellettuali della rivista MondOperaio, Craxi cominciò ad attaccare il PCI, rimproverandogli di essere ancora alle dipendenze di Mosca nonostante i proclami di segno opposto; il primo atto di quest'offensiva era stata un'intervista concessa nell'agosto 1978 all'Espresso in cui accusava i comunisti di essere ancorati a un'ideologia statalista e totalitaria come quella marxista-leninista.[411][412] Nello stesso anno Craxi era riuscito a far eleggere presidente della Repubblica Sandro Pertini, uomo della vecchia guardia del PSI, che durante il suo mandato si proporrà un riavvicinamento più amichevole e sereno dei cittadini alle istituzioni, promuovendo ad esempio incontri e afflussi di scolaresche al Quirinale. Per il suo carisma, il suo modo di fare schietto e ironico, il suo affetto verso i bambini, Pertini sarà ricordato come il presidente più amato dagli italiani.[413][414][415]

I primi anni del decennio furono tuttavia ancora permeati di una certa turbolenza. Nell'estate 1980 avvenne la strage di Ustica, un disastro aereo di un DC-9 dai contorni tuttora non chiariti, e un mese dopo quella alla stazione di Bologna, entrambe con un grave bilancio di morti. Dopo la fine delle esperienze di unità nazionale si erano avvicendati governi fragili e di breve durata (Cossiga I-II, Forlani) che si rivelarono inadeguati a gestire le conseguenze del terremoto dell'Irpinia del 1980, in occasione del quale Pertini auspicò invano il ricompattarsi di una grande coalizione; un suo tentativo di riesumarla era già fallito l'anno precedente quando aveva provato senza successo a dare l'incarico di un nuovo governo per la prima volta a un politico non democristiano, Ugo La Malfa. Si ripresentò la minaccia della guerra fredda con l'invasione dell'Afghanistan da parte dell'Unione Sovietica e la sua decisione di rivolgere contro l'Europa occidentale una moderna generazione di missili a testata nucleare SS20;[416] tra i paesi NATO si cominciò allora a discutere se installare nuovi euromissili pershing e cruise in risposta. Nel marzo 1981 una perquisizione nella villa di Licio Gelli da parte della Guardia di Finanza condusse alla scoperta della loggia massonica P2, un'organizzazione clandestina anticomunista con presunti scopi eversivi, che contava tra i suoi iscritti, oltre a Gelli, anche Roberto Calvi, responsabile del fallimento del Banco Ambrosiano trovato misteriosamente impiccato a Londra sotto un ponte, e il banchiere Michele Sindona, ritenuto mandante dell'omicidio del giudice Giorgio Ambrosoli che stava indagando su irregolarità nelle sue operazioni finanziarie. Il presidente del consiglio Arnaldo Forlani dovette dimettersi per non aver reso pubblici i documenti riguardanti lo scandalo sulla P2. Sempre nel 1981 ci fu l'attentato al Papa polacco Wojtyla, avversario dei regimi comunisti, la cui elezione al soglio pontificio era stata mal vista negli ambienti dell'Est europeo. Tra i fatti di cronaca, la disgrazia toccata al piccolo Alfredino turbò assai l'opinione pubblica. Nel calcio esplose il primo scandalo scommesse di notevole rilievo, che vide la condanna di numerosi calciatori e la penalizzazione di alcune importanti squadre di club.

Bearzot omaggiato dall'album dei Calciatori

Tra gli eventi sportivi di rilievo ci fu tuttavia nel 1982 l'inaspettata vittoria della nazionale italiana di calcio guidata da Bearzot ai mondiali di Spagna, di cui fu protagonista uno dei maggiori imputati nello scandalo, il calciatore Paolo Rossi. Le forze dell'ordine, intanto, grazie al varo di nuove leggi e ad innovativi metodi di indagine, riuscirono ad arrestare i capi delle Brigate Rosse, finendo per smanellarne l'organizzazione, che ricevette un duro colpo nel gennaio 1982 con la spettacolare liberazione da parte dei NOCS del generale statunitense James Lee Dozier rapito un mese prima.

Nel giugno 1981 riuscì il tentativo di Pertini di mettere alla guida del governo il primo politico non appartenente alle fila della DC, il repubblicano Giovanni Spadolini. Sotto la sua presidenza, che inaugurava la formula del pentapartito (alleanza governativa fra DC-PSI-PLI-PSDI-PRI), l'Italia inviò in Libano per la prima volta un contingente militare all'estero. Anche se si trattò di un governo debole, destinato a cadere per uno scontro tra i ministri Andreatta e Formica noto come "lite delle comari", fu il preludio della chiamata a Palazzo Chigi del socialista Bettino Craxi, investito da Pertini nel 1983 in seguito ad elezioni anticipate: queste videro un pesante tracollo della DC, che sotto la direzione del nuovo segretario Ciriaco De Mita scese di quasi 6 punti, una flessione del PCI, e una risalita del PSI. Se la DC perse così la sua funzione di guida politica del paese, l'ascesa di Craxi consentì di superare lo stallo del sistema venutosi a creare dopo il fallimento del compromesso storico; quello di Craxi sarà infatti il governo più lungo di tutti quelli finora mai avuti. Esso sarà caratterizzato da un energico decisionismo, con frequente ricorso a decreti-legge, a differenza di quelli precedenti a guida democristiana più inclini alle mediazioni. Tra i suoi primi atti di rilievo, Craxi firmò con il Vaticano, nel febbraio del 1984, un protocollo aggiuntivo ai Patti lateranensi già stipulati nel 1929, ratificato in seguito dalla legge 206 del 1985, che ribadiva la sovranità e la reciproca indipendenza di Stato e Chiesa.

Un giovane Silvio Berlusconi, e l'allora Presidente del Consiglio Bettino Craxi, nel 1984

Legato in amicizia all'emergente imprenditore Silvio Berlusconi, a favore del quale intervenne per decretare il ripristino delle trasmissioni delle sue reti Fininvest oscurate nell'ottobre 1984 dall'ingiunzione di tre pretori,[417] Craxi inaugurò un nuovo corso economico che trovò una sponda nel liberismo di Reagan e della Tatcher. In particolare egli si propose di combattere la pesante inflazione che si trascinava sin dagli anni settanta, motivo di stagnazione e crescita lenta, individuandone la causa principale nella scala mobile, ossia nel meccanismo di adeguamento automatico dei salari all'aumento del costo della vita. L'abolizione di alcuni suoi punti, attuata il 14 febbraio 1984 col cosiddetto decreto di "San Valentino", in accordo con la Confindustria, i liberali, la CISL di Carniti e la UIL di Benvenuto, scatenò le proteste dei settori più estremisti della CGIL di Lama, che indussero quest'ultimo a rompere l'unità con le altre sigle sindacali dopo la ricomposizione del 1969,[418] ma soprattutto la durissima opposizione del Partito Comunista Italiano, il quale in aperta sfida a Craxi proclamò dei pesanti scioperi insieme alla CGIL. Poiché Craxi non demorse, Berlinguer fece indire un referendum per sconfiggere il suo decreto convertito intanto in legge, ma morì improvvisamente per un aneurisma nel giugno 1984 durante un comizio in vista delle imminenti elezioni europee. La commozione per la morte di Berlinguer spinse il PCI in quelle elezioni a superare la DC facendolo momentaneamente diventare il primo partito, e inducendo il segretario democristiano De Mita a prefigurare una nuova alleanza trasversale col Partito Comunista, il quale rivendicava da tempo una propria legittimità e superiorità "morale" rispetto ai partiti di governo. Alessandro Natta, figura di mediazione tra le varie anime del PCI, fu il nuovo segretario che condusse il partito al referendum tenutosi l'anno dopo nel giugno del 1985, che si risolse però in una vittoria di Craxi e una sconfitta inaspettata per il PCI; quest'ultimo, ritrovandosi isolato, e senza più il carisma di Berlinguer, da allora si avviò a una lenta e inesorabile perdita di consensi.

Sul versante estero, Craxi da un lato rafforzò i legami dell'Italia con il Patto Atlantico, intensificando i rapporti con l'America di Ronald Reagan, ma dall'altro mantenne una politica filo-araba nella questione israelo-palestinese del Medio-Oriente, spalleggiato dal ministro degli Esteri Andreotti. Nell'autunno 1985, ad esempio, in occasione del sequestro della nave da crociera Achille Lauro da parte di un gruppo terrorista guidato da Abu Abbas, Craxi rivendicò la giuridizione italiana del caso garantendo la libertà ai sequestratori contro il parere degli Stati Uniti che intendevano giudicarli per l'uccisione di un loro concittadino; la conseguente crisi di Sigonella fece aumentare il prestigio di Craxi anche presso i comunisti per il suo mantenimento della parola data. Anche durante il bombardamento americano di Tripoli, che vide una rappresaglia libica con lancio di missili su Lampedusa nell'aprile 1986, Craxi fu reputato eccessivamente prudente verso Gheddafi, mostrando di diasapprovare piuttosto l'attacco americano e il suo coinvolgimento del suolo italiano.[419]

Per il resto, tuttavia, l'Italia di Craxi diede attuazione pratica al progetto americano di uno scudo di euromissili in risposta alle minacce del mondo comunista-sovietico fattesi sempre più pressanti, progetto già approvato in fase teorica nel dicembre 1979 dal governo Cossiga e a cui si erano allineati anche gli altri paesi occidentali come il Regno Unito, la Francia, la Spagna, la Germania, e che si rivelerà determinante per mettere in crisi l'apparato strategico e finanziario dell'Unione Sovietica, accelerandone la caduta e la svolta di Gorbaciov. Il PCI, invece, in occasione dell'installazione della base missilistica a Comiso, non mancò di schierarsi dalla parte del regime sovietico.[420]

Il successo delle trasmissioni commerciali[421] si inserì in quel cambiamento sociale di costume che contribui a fare di Milano una capitale della moda e dello spettacolo

Nella seconda metà degli anni ottanta ci fu una crescita significativa del PIL italiano anche grazie al calo dell'inflazione, che portò l'Italia ad affermarsi come la quinta potenza economica mondiale.[422] Si impose il made in Italy, trascinato dalla moda[423] e dai prodotti alimentari di consumo.[424] Da paese di emigranti l'Italia si scoprì terra di immigrati, provenienti soprattutto dai paesi "extracomunitari" del terzo mondo.[425] Avvertendo il ritardo del sistema politico rispetto ai cambiamenti in atto nella società, Craxi fu tra i primi a parlare della necessità di riforme istituzionali,[426] ad esempio in senso presidenzialista, sebbene egli stesso riconoscerà che questi progetti resteranno alla fine un «inutile abbaiare alla luna».[427] Nell'estate del 1986, intanto, la DC si dichiarò non più disponibile a dargli la fiducia, obbligandolo ad un patto noto come "staffetta", che porterà nel 1987 alla fine del governo Craxi, ad elezioni anticipate, e al subentro di Giovanni Goria, uomo vicino a De Mita, sempre col sostegno del pentapartito. Avversario di Craxi, De Mita era espressione dell'ala sinistra della DC e favorevole all'antico progetto di alleanza consociativa col PCI.[428] Per evitare che il PSI si logorasse nella forzata alleanza col centro che gli sottraeva visibilità a sinistra (come avvenuto sin dagli anni sessanta), Craxi diede vita a una politica movimentista di piazza, antagonista alla DC, che di fatto trasferiva all'interno del governo quella che avrebbe dovuto essere una contrapposizione dialettica tra maggioranza e opposizione.[429] Risultato di queste iniziative furono i referendum del 1987 a favore della punibilità civile dei magistrati (vanificato in seguito dalla legge Vassalli)[430] e quello sul "nucleare" che riscosse molti consensi sull'onda emotiva del disastro di Chernobyl: esso portò all'abolizione della produzione di energia atomica in Italia, e vi si opposero soltanto i liberali, i repubblicani e missini.

Ciriaco De Mita

Un'altra battaglia ingaggiata da Craxi riguardò quegli ambiti, come l'informazione, che vedevano un'assegnazione dei posti di influenza non solo alle forze di maggioranza (DC e PSI), ma anche di opposizione (PCI). Mentre le tre reti pubbliche televisive erano infatti così spartite fra quelle tre formazioni, i principali quotidiani nazionali erano invece per lo più schierati contro i socialisti,[431] i quali non disponevano di un radicamento ideologico-culturale nel paese pari a quello dei due grandi «partiti-chiesa».[432] Particolarmente ostile nei loro confronti era La Repubblica di Scalfari, appartenente al gruppo editoriale Caracciolo-Espresso dell'imprenditore Carlo De Benedetti, vicino al PCI e alla sinistra democristiana. Fu per questo che nel giugno 1988, all'indomani del primo scontro per la scalata alla Mondadori tra Berlusconi, possibile amico dei socialisti sul terreno delle reti private, e De Benedetti, l'appoggio di Craxi andò al primo, sostenendo un progetto di legge antitrust del repubblicano Oscar Mammì che di fatto avrebbe escluso il secondo dal mercato televisivo.[433] La stessa preoccupazione aveva spinto Craxi nel 1985 a impedire l'operazione con cui l'IRI presieduta da Romano Prodi, appoggiato da De Mita, si impegnava a cedere il gruppo SME alla Buitoni di De Benedetti.[434]

Quando poi nell'aprile del 1988 fu il suo avversario De Mita a succedere a Goria alla guida del governo, in vista di una lunga fase che doveva attuare un progressivo coinvolgimento dei comunisti,[428] Craxi sfruttò il malcontento di diversi settori della DC, contrari al doppio incarico di De Mita di segretario del partito e presidente del Consiglio, formando contro di lui nel maggio 1989 una solida alleanza con Giulio Andreotti e Arnaldo Forlani, esponenti della destra democristiana; l'alleanza fu ribattezzata C.A.F. dalle iniziali dei cognomi dei tre protagonisti (Craxi-Andreotti-Forlani), e prevedeva una loro alternanza al governo con programmatica esclusione della sinistra estrema.

Il passaggio agli anni '90[modifica | modifica wikitesto]

Giulio Andreotti

Il patto del CAF prese a funzionare come un orologio quando Andreotti, estromettendo De Mita, subentrò alla guida del governo nel luglio 1989, sostenuto dalla stessa coalizione di pentapartito, mentre Forlani assumeva la segreteria della DC.[435] Il fatto che un tale progetto politico sembrasse non prevedere alternative suscitò tuttavia una sensazione di immobilismo, dando l'impressione che i partiti si accordassero tra loro indipendentemente dal resto del paese. Ciò nonostante, dal governo Andreotti furono avviate alcune importanti riforme economiche come l'apertura agli investimenti privati nelle università,[436] e soprattutto l'adesione al trattato di Maastricht, che avrebbe aperto il mercato italiano alla libera concorrenza internazionale, rendendo obsoleto il sistema economico basato sulle partecipazioni statali su cui si era retto fino allora.[437]

Con la caduta del muro di Berlino avvenuta il 9 novembre 1989, che assunse il significato ideale di un crollo dell'alternativa al capitalismo, sembrarono aprirsi nuovi spazi di intesa tra il PSI e un PCI finalmente libero dalla pregiudiziale sovietica, ma il rapporto travagliato tra i due partiti che si era andato deteriorando lungo tutto il decennio fece ben presto naufragare una tale prospettiva.[438] Venuto meno il "fattore K",[372] il 12 novembre 1989 Achille Occhetto, da poco più di un anno divenuto segretario del Partito Comunista Italiano, annunciò la "svolta della Bolognina", ormai non più rinviabile, che comportava l'abbandono della tradizione marxista-leninista e l'avvio al socialismo. Pur mantenendo tuttavia la distanza che lo separava dal PSI,[439] risalente alla scissione del 1921, la sua svolta non fu presa positivamente dall'ala radicale del partito, e si protrarrà attraverso varie tappe fino al 1998.

La mascotte di Italia 90

Nel 1990 si celebrò il Campionato mondiale di calcio in Italia, un evento molto seguito dalla popolazione, a cui però seguirono discussioni circa gli appalti per la costruzione degli impianti sportivi. Avevano cominciato infatti a svilupparsi nuovi partiti di protesta nei confronti di quella che è stata definita partitocrazia, che contestavano un eccessivo carico fiscale, ravvisavano malsani rapporti tra politica e imprenditoria, ed esigevano la necessità di riforme. In particolare la Lega Nord, della quale fu nominato Segretario generale Umberto Bossi, già eletto la prima volta in Senato nel 1987 (e per questo da allora soprannominato senatùr) si fece portatrice di una tale protesta, arrivando a prospettare l'autonomia del Nord Italia dal resto del paese.

Francesco Cossiga, Presidente della Repubblica dal 1985 al 1992

Il tramonto delle ideologie, che già negli anni ottanta aveva portato in tutto l'Occidente a un indebolimento del voto di appartenenza in favore di una maggiore personalizzazione della politica (incarnata in Italia dalla figura di Craxi), contribuì alla crisi dei partiti tradizionali; paralleamente era cresciuto così il ruolo supplente del presidente della Repubblica, sin dal tempo di Pertini.[440]

Con Francesco Cossiga, eletto al Quirinale nel 1985 con una larghissima maggioranza, si assistette a un incremento di intervenenti nella vita politica: sebbene avesse svolto con discrezione il proprio mandato nei primi anni del proprio settennato, dopo la caduta del muro Cossiga iniziò una fase di conflitto, spesso provocatoria e con una fortissima esposizione mediatica, verso il sistema dei partiti, da lui accusato di immobilismo, e contro la politicizzazione dei magistrati. Definito perciò il grande «picconatore»,[441] Cossiga ruppe uno dei più antichi tabù della politica democristiana, che consisteva nel mettere a tacere le turbolenze e le piaghe del sistema. Quando nel 1990 Andreotti rese pubblici i documenti su Gladio a cui lo stesso Cossiga apparteneva, organizzazione clandestina pronta a intervenire in caso di invasione sovietica, egli lo interpretò come un tentativo di spodestarlo, e nel novembre 1991 si autodenunciò alla magistratura come referente politico di Gladio, per rivelare agli italiani il prezzo che in termini di legalità era costato il mantenimento della pace pubblica durante la cinquantennale presenza in Italia del più forte partito comunista d'Occidente.[442] Un mese dopo, l'opposizione parlamentare, in particolare quella ex-comunista, presentò una richiesta di impeachment o messa in stato di accusa contro di lui, richiesta tuttavia respinta in quanto manifestamente infondata in base agli atti parlamentari del 12 maggio 1993. Sebbene inviso a quasi tutti i partiti, Cossiga trovò una sponda nei progetti presidenzialisti di Craxi,[443] e un asse col MSI guidato dal nuovo segretario Gianfranco Fini, succeduto da pochi anni ad Almirante.[444]


Nel novembre 1990, intanto, Occhetto annunciò il cambio di nome del suo partito, che si sarebbe chiamato Partito Democratico della Sinistra, evitando la denominazione "socialista" e prefigurando già in questo modo la chiusura di ogni possibilità di intesa col PSI.[439] Nonostante gli umori contrari della base, il 3 febbraio 1991 il PCI deliberò il proprio scioglimento, provocando la scissione di Armando Cossutta e Fausto Bertinotti che daranno vita al Partito della Rifondazione Comunista. Il neonato PDS, che si proponeva come alternativa al pentapartito, conobbe già un momento di tensione in occasione della guerra del Golfo contro il dittatore iracheno Saddam Hussein, esplosa da poche settimane, tra una maggioranza antiamericana, fautrice del ritiro delle forze militari italiane inviate in Iraq dal governo sotto l'egida dell'ONU, e i "miglioristi" come Giorgio Napolitano, riluttanti ad una rottura col blocco eurosocialista;[445] poiché prevalse la contrarietà alla guerra, in antitesi all'orientamento della comunità internazionale, il neonato partito della sinistra si attirò le critiche, da parte di Craxi, di aver attuato una svolta filo-occidentale poco credibile.[446]

Il perdurare del gelo nei rapporti tra PSI e PDS, e la conseguente impossibilità di costruire un blocco di sinistra alternativo alla DC nonostante la caduta della pregiudiziale anticomunista, continuò a mantenere il sistema politico in una fase di stallo, tanto più che il sorpasso a sinistra, progettato da Craxi ai danni del PCI-PDS, appariva ancora lontano da venire, nonostante la lenta e progressiva crescita dei socialisti durante tutti gli anni ottanta. Non riuscendo a trovare la sua «onda lunga», il PSI seguitò a ritenersi alleato "costretto" alla DC,[438] cercando di contenderle quanti più spazi di visibilità e mezzi finanziari possibili per sopravvivere nella moderna società mediatica,[447] esponendosi alle critiche della stampa avversa che continuava a cavalcare la "questione morale".[448] Da più parti si cominciò a pensare che la paralisi del sistema favorisse la corruzione.[449] Per far fronte alla crisi della politica, l'emergente leader Mario Segni propose dei referendum per abolire il voto proporzionale, ritenuto una delle cause dei quella paralisi: il primo passo in questa direzione fu la proposta di introduzione della preferenza unica, che ebbe notevole successo ai referendum del giugno 1991. Craxi, che aveva invitato i cittadini ad «andare al mare», ritenendo che quella proposta avrebbe ridotto il diritto di scelta dei cittadini, apparve agli occhi dell'opinione pubblica come uno dei principali sconfitti.[450]

Lenzuoli dedicati a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino

Si era fatto intanto sempre più minaccioso l'attacco della mafia nei confronti dello Stato, un attacco cominciato sin dall'omicidio del generale Carlo Alberto dalla Chiesa nel 1982, e acuitosi a partire dal 10 febbraio 1986, data di inizio del maxiprocesso contro "cosa nostra", avviato in seguito alle dichiarazioni dei pentiti Tommaso Buscetta, Totuccio Contorno, e Francesco Marino Mannoia, rilasciate al giudice Giovanni Falcone, e che aveva portato all'arresto di 456 imputati. Tra questi vi erano Luciano Liggio e Michele Greco, esponenti della cosca di Corleone, capeggiata da Salvatore Riina, Leoluca Bagarella e Bernardo Provenzano, che erano saliti al vertice della cupola mafiosa sconfiggendo il clan rivale di Stefano Bontade e Salvatore Inzerillo. All'indomani delle sentenze costoro scatenarono una rappresaglia non solo contro le famiglie dei pentiti, ma anche contro alcuni referenti politici, già sospettati di collusione, presumibilmente per aver fatto mancare la consueta protezione nei loro confronti: nel 1988 uccisero l'ex sindaco di Palermo Giuseppe Insalaco, e nel 1992 il presidente della DC siciliana Salvo Lima.

Furono uccisi anche i magistrati Antonino Saetta nel 1988, Rosario Livatino nel 1990, e Antonino Scopelliti nel 1991. Nel 1992, pochi mesi dopo che la Corte di Cassazione ebbe confermato le condanne del maxiprocesso, due grandi stragi colpirono l'Italia: la strage di Capaci avvenuta sull'autostrada A29, nei pressi dello svincolo di Capaci a pochi chilometri da Palermo, in cui persero la vita il magistrato antimafia Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta (Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro); e la strage di via d'Amelio in cui morì il giudice antimafia Paolo Borsellino e la sua scorta, avvenuta per l'esplosione di una Fiat 126 contenente circa 100 chilogrammi di tritolo.

Gli anni Novanta[modifica | modifica wikitesto]

Lo scandalo Tangentopoli e l'inchiesta Mani pulite[modifica | modifica wikitesto]

La crisi di identità dei partiti, conseguente al crollo del muro di Berlino e al disfacimento dell'URSS, aveva portato sconvolgimenti non solo nell'estrema sinistra, ma anche al centro dello schieramento dove erano cadute in molti elettori moderati le ragioni per votare DC in funzione anticomunista. Nel vuoto venutosi a creare si assistette così ad una progressiva frammentazione del quadro partitico, e ad un coinvolgimento sempre più accentuato nell'agone politico di diversi settori della società civile, come il capo dello Stato, la magistratura, gli organi di stampa, la classe imprenditoriale, rimasti fino allora neutrali.[451]

Antonio Di Pietro, il magistrato più famoso dell'inchiesta Mani pulite

In vista delle elezioni dell'aprile 1992 crebbe fortemente il tasso di faziosità generale, soprattutto a livello mediatico, dove nella rete controllata dal Pds le trasmissioni condotte da Michele Santoro, a cui si aggiunsero quelle di Gad Lerner, riscossero sempre più successo nel presentare un paese allo sfascio e nel rivolgere attacchi senza precedenti al pentapartito.[451] Alle elezioni del 5 aprile 1992 la DC andò per la prima volta sotto il 30%, il PSI scese al 13,6%, mentre si impose la Lega Nord, che sfruttando il malcontento raggiunse d'un colpo l'8,6%.

Si comprese di essere giunti a un punto di svolta, sensazione acuita dall'avvio di alcune indagini giudiziarie, passate all'inizio quasi inosservate, che stavano scoprendo una fitta rete di tangenti, favori e accordi illegali fra politici e imprenditori. Il primo atto di quest'inchiesta, detta di Mani pulite, era avvenuto il 17 febbraio 1992 ad opera del pool della procura di Milano guidato dal pubblico ministero Antonio Di Pietro, con l'arresto di Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio e membro di primo piano del PSI milanese, colto in flagrante mentre stava cercando di distruggere una tangente ricevuta dall'imprenditore Luca Magni. I giornali in seguito chiameranno Tangentopoli questo fenomeno caratterizzato da un intreccio irregolare tra politica e affari,[452] originato da un consociativismo patologico.[449]

File:Oscar Luigi Scalfaro 2.jpg
Oscar Luigi Scalfaro, Presidente della Repubblica dal 1992 al 1999

All'indomani delle elezioni Cossiga si dimise da presidente della Repubblica con due mesi di anticipo. Alle difficoltà di formare un nuovo governo, per via dei numeri risicati di cui disponeva ora il pentaparito (da cui peraltro era già fuoriuscito il PRI un anno prima), si aggiunsero quelle per l'elezione del nuovo Capo dello Stato, che avvenne infine dopo lunghe trattative con una convergenza di voti su Oscar Luigi Scalfaro, nei giorni in cui si verificava l'attentato mortale contro Giovanni Falcone.

Esplosa ormai in maniera irreversibile la "questione morale", a seguito dei numerosi avvisi di garanzia che stavano colpendo soprattutto esponenti del PSI e della DC (tra cui il cognato di Craxi Paolo Pillitteri), l'incarico del governo, che dopo Andreotti sarebbe spettato a Craxi secondo i patti del CAF, fu conferito invece al suo delfino Giuliano Amato. Al suo insediamento, nel discorso sulla fiducia, Craxi il 3 luglio chiamò in correità tutto il Parlamento dichiarando «spergiuro» chi avesse negato di non aver fatto ricorso al finanziamento illecito dei partiti,[453] ma nessuno raccolse la sua sfida al giuramento.[454]

Andamento del debito pubblico italiano in rapporto al PIL dopo il 1960 (Dati: FMI)

Sul piano economico, intanto, l'Italia era entrata in un periodo di recessione, a cui si sovrappose una pesante crisi finanziaria: nel 1992 la lira venne svalutata e uscì dal Sistema Monetario Europeo avendo superato i margini di fluttuazione consentiti. Cresceva anche il debito pubblico, salito costantemente sin dagli anni settanta per il vertigionoso aumento della spesa pubblica (quasi raddoppiata dal 1960)[455] causato da un oneroso sistema di welfare state e dall'attuazione di politiche keynesiane di sostegno alla produzione.[456][457] Se negli anni settanta il peso del debito era stato mitigato dalla forte inflazione, negli anni ottanta era andato fuori controllo per l'avvenuta separazione tra Ministero del Tesoro e Banca d'Italia, fino a raggiungere il 121,8% nel 1994,[458] alimentato dal circolo vizioso della spesa per interessi passivi sui titoli di stato.[459][460]

Per rimettere in ordine la contabilità dello Stato, Amato varò una finanziaria molto onerosa, detta di «lacrime e sangue», che inaspriva soprattutto la pressione fiscale.[461]

Alle elezioni amministrative del dicembre 1992 il PSI ebbe un crollo verticale dei consensi; all'indomani del voto Craxi ricevette un avviso di garanzia basato sulla tesi per cui «non poteva non sapere» degli illeciti al suo partito.[462] Nel 1993 i giudici indagheranno numerosi altri esponenti politici di primo piano, come Claudio Martelli, Giorgio La Malfa, Renato Altissimo, Antonio Gava, Paolo Cirino Pomicino, Vincenzo Scotti, Severino Citaristi, Arnaldo Forlani, Giulio Andreotti,[463] decapitando gran parte della classe dirigente del paese. La DC ricevette anche accuse di collusione con la mafia, con l'incriminazione dello stesso Andreotti nel marzo 1993, mentre il 15 gennaio, in risposta alle stragi del 1992, era stato catturato dal Crimor il capo di cosa nostra Totò Riina, latitante dal 1969.

Per far fronte al dilagare di tangentopoli nel marzo 1993 il governo Amato presentò il decreto Conso che mirava ad una "soluzione politica" del fenomeno depenalizzando il finanziamento illecito ai partiti, ma per la prima volta nella storia repubblicana il presidente della Repubblica Scalfaro, sull'onda dalla contrarietà dell'opinione pubblica, rifiutò di firmarlo. Il 18 aprile i nuovi referendum voluti da Mario Segni, forte del successo del 1991, sancirono la fine del proporzionale e l'introduzione del Mattarellum, cioè di un sistema di voto in gran parte maggioritario, che spingendo i partiti ad accorparsi in coalizioni avrebbe segnato la fine di un'epoca. Uno dei referendum abolì a grandissima maggioranza anche il finanziamento pubblico ai partiti.

Dinanzi ai nuovi scenari Amato rassegnò le dimissioni e subentrò un governo guidato per la prima volta non da un parlamentare ma da un tecnico indipendente: Carlo Azeglio Ciampi, sorretto da una maggioranza trasversale molto ampia comprendente anche il PDS. Craxi tuttavia, che da tempo denunciava l'uso politico della magistratura accusandola di rivolgere le proprie inchieste solo contro alcuni partiti evitando altri, tornò a ribadire che l'intero sistema era coinvolto nella pratica dei finanziamenti illeciti, necessari al mantenimento delle sue poderose organizzazioni politiche, all'interno delle quali «tutti sapevano e nessuno parlava».[464] Ma nel paese era ormai forte il sentimento anticraxiano: il 30 aprile 1993, dopo che la Camera ebbe negato l'autorizzazione a procedere nei suoi confronti, Craxi venne bersagliato da una folla di manifestanti con un lancio di oggetti e insulti all'uscita dall'hotel Raphael di Roma. Apparendo come il principale esponente della partitocrazia corrotta, Craxi continuerà ad accusare di correità soprattutto il PCI-PDS: «È certo che dal 1976 il PSI non ha ricevuto alcun contributo da nessuno Stato o Partito estero. La stessa cosa non possono dire né i comunisti, né gli ex comunisti, né del resto solo loro, ma [...] è anche tra di loro che si sono levate voci particolarmente severe, sprezzanti e indignate. Il maggior partito di opposizione ha potuto contare su risorse di gran lunga superiori alle nostre. Il finanziamento illegale di cui ha potuto disporre era tanto di natura interna che di provenienza internazionale».[465]

Continuava intanto la stagione delle stragi di mafia contro lo Stato, messe in atto dal clan dei Corleonesi che giunse per la prima volta a colpire l'Italia continentale facendo esplodere diverse autobombe che danneggiarono gravemente il patrimonio artistico italiano: nel maggio 1993 furono compiuti l'attentato di via Fauro a Roma e la Strage di via dei Georgofili a Firenze; il 27 luglio 1993 la Strage di via Palestro a Milano e poche ore dopo gli attentati alle chiese di San Giovanni in Laterano e San Giorgio in Velabro a Roma. Un'altra autobomba avrebbe dovuto colpire lo stadio Olimpico di Roma il 31 ottobre, ma l'attentato sarebbe fallito per il malfunzionamento del dispositivo elettronico di azionamento.[466]

Le elezioni del '94: la prima volta della destra[modifica | modifica wikitesto]

Silvio Berlusconi, Presidente del consiglio dal 1994 al 1995

Il declino della DC e del PSI avevano lasciato un vuoto di potere nello schieramento moderato, che nelle elezioni amministrative del 1993 fu momentaneamente riempito a Nord dalla Lega, che vinse a Milano, e al Centro-Sud dal MSI, che a Roma e Napoli andò al ballottaggio ottenendo percentuali inaspettate di poco inferiori al 50%. Nell'occasione, durante un'intervista concessa nel novembre del medesimo anno sulla contesa per la candidatura a sindaco di Roma, che si disputava tra Francesco Rutelli della sinistra e Gianfranco Fini del Movimento Sociale, Silvio Berlusconi affermò che avrebbe scelto quest'ultimo.

La successiva campagna elettorale per le elezioni del 27 marzo 1994, seguite allo scandalo suscitato dall’inchiesta Mani Pulite, segnarono il definitivo cambiamento dello scenario politico italiano. Il preludio per lo svolgimento di queste elezioni furono le dimissioni di Carlo Azeglio Ciampi. Questi, che prima degli incarichi governativi era stato Governatore della Banca d’Italia, aveva proceduto ad attuare ulteriori tagli della spesa pubblica e nuovi inasprimenti fiscali per fronteggiare la svalutazione della lira, con una politica di duri sacrifici.

Il PCI era già divenuto PDS nel 1991, e confortato dalle previsioni di un successo elettorale diede vita a uno schieramento di sinistra paragonato da Occhetto a una «gioiosa macchina da guerra».[467] La DC si trasformò in Partito Popolare Italiano (PPI), riprendendo il nome adottato dal partito cattolico del 1919; un settore di esso però, in particolare una componente dell'ala destra già facente capo a Forlani, decise di scindersi fondando il Centro Cristiano Democratico, guidato da Pier Ferdinando Casini, mentre gran parte della sinistra democristiana rimase nel PPI, alleandosi col nuovo movimento di Mario Segni, il Patto per l'Italia. Il MSI-DN, invece, per mettere a frutto i successi di Roma e Napoli in vista di una propria definitiva fuoriuscita dall'emarginazione, operava una svolta in senso moderato dando origine ad Alleanza Nazionale (AN).

Nasceva infine Forza Italia, un movimento promosso da Silvio Berlusconi (allora proprietario delle maggiori reti televisive private italiane e del gruppo Fininvest-Mediaset) allo scopo di opporsi alla possibile affermazione delle sinistre che avevano vinto i turni delle elezioni amministrative, su un programma di rilancio dell’iniziativa privata, di aumento dell'occupazione (1 milione di posti di lavoro), di riduzione dei carichi fiscali per le imprese.

Sparivano intanto formazioni di lunga tradizione quali il PSDI e il PLI; quest'ultimo, che decretò il proprio scioglimento il 6 febbraio 1994, decise di aderire ai diversi movimenti liberali sparsi per il territorio riuniti nella Federazione dei Liberali Italiani. Altri invece confluirono nel nuovo partito Forza Italia. Il 13 novembre 1994 sarà la volta della diaspora del Partito Socialista Italiano: gran parte dei reduci sarà recuperata da Enrico Boselli che fonderà i Socialisti Italiani; altri fonderanno invece il Partito Socialista Riformista, la Federazione Laburista e l'Alleanza Democratica; altri ancora confluiranno in Forza Italia.

Il nuovo sistema elettorale, di tipo maggioritario, favorì la formazione di alleanze tra i partiti. Le elezioni del 27 marzo 1994 decretarono al Nord la vittoria di Forza Italia e Lega Nord, unite nel Polo delle Libertà, e al Centro-sud di Forza Italia e Alleanza Nazionale, unite nel Polo del Buon Governo; uscirono sconfitti gli altri due poli, cioè i Progressisti (Pds, Rifondazione, Verdi, Alleanza Democratica, Rete, Psi) guidati dal segretario pidiessino Achille Occhetto, e il Patto per l'Italia (Ppi e Patto Segni) guidato da Mario Segni e Mino Martinazzoli.

Il vero vincitore risultò Silvio Berlusconi, il quale formò un governo che vedeva per la prima volta l'ingresso nella stanza dei bottoni dei missini di Fini. Il suo governò però incontrò subito numerose difficoltà che sfociarono in scontri giudiziari con la Procura di Milano, in scontri politici con la Lega di Bossi e in scontri sociali con i sindacati (sulla questione della riforma delle pensioni) tali da portare ad una rapida caduta del suo governo nel dicembre del '94, in particolare a seguito di un avviso di garanzia emesso a Napoli contro Berlusconi per un presunto reato dal quale sarà assolto con formula piena per non aver commesso il fatto.[468][469]

Si insediò allora il governo tecnico di Lamberto Dini (ex ministro del Tesoro del governo Berlusconi), appoggiato dall'esterno da centrosinistra e Lega Nord, che durò per tutto il 1995, dopo il quale la legislatura giunse prematuramente alla fine.

Le elezioni del '96: la prima volta della sinistra[modifica | modifica wikitesto]

Romano Prodi, Presidente del consiglio dal 1996 al 1998

Le nuove elezioni anticipate del 1996 videro contrapporsi il Polo delle libertà di centro-destra (ma senza Lega Nord), guidato da Berlusconi, e la coalizione di centro-sinistra, l'Ulivo (Pds, Ppi e forze minori), guidate da Romano Prodi, economista di area cattolica.

L'Ulivo vinse di misura e alla Camera ebbe bisogno dei voti di Rifondazione comunista per formare la maggioranza. Tra gli intenti della nuova legislatura ci fu il tentativo di riformare la Costituzione, esigenza che si avvertiva in maniera sempre più pressante sin dagli anni ottanta, e che si rendeva ormai necessaria per adeguare le istituzioni al nuovo modello politico della Seconda Repubblica, orientato rispetto alla Prima in senso decisamente bipolare. A tal proposito si diede vita ad una Commissione bicamerale presieduta da D'Alema, che tra varie difficoltà riuscì dapprima a trovare una fragile intesa per approvare un modello presidenzialista che prevedesse l'elezione diretta del Capo dello Stato, ma fu poi costretta a rinunciarvi per l'emergere di disaccordi tra le opposte parti politiche.

Diversi obiettivi, intanto, come la privatizzazione di importanti aziende statali, il risanamento dei conti pubblici e l'ingresso nell'euro, furono raggiunti dal governo attraverso un inasprimento della pressione fiscale. Alla fine del 1998 il governo Prodi cadde tuttavia a causa della scelta di Rifondazione comunista di ritirare la fiducia sulla legge finanziaria. Seguirono altri due governi di centro-sinistra, retti con l'apporto di alcuni parlamentari dal centro e di una parte di comunisti rimasti fedeli a Prodi, autori di una scissione da Rifondazione. Il primo dei due governi fu presieduto da Massimo D'Alema, segretario dei Democratici di sinistra (la nuova denominazione del Pds), e il secondo da Giuliano Amato, ex socialista.

Il 13 maggio 1999 Carlo Azeglio Ciampi viene eletto presidente della repubblica alla prima votazione. Il 20 maggio 1999 un commando terrorista delle Br uccide Massimo D'Antona, sindacalista della Cgil, collaboratore del ministro del Lavoro Bassolino.

Gli anni Duemila[modifica | modifica wikitesto]

Le elezioni del 2001: la rivincita di Berlusconi[modifica | modifica wikitesto]

Silvio Berlusconi, di nuovo Presidente del consiglio dal 2001 al 2006

Nel 2001 si registra il primo caso di mucca pazza in Italia, che adotta anche ufficialmente la nuova moneta dell'euro voluta da Ciampi.

Intanto, I Popolari, Rinnovamento Italiano, I Democratici e l’Udeur creano la federazione de La Margherita, presieduta da Francesco Rutelli. Questa federazione, insieme ai Democratici di Sinistra, si presenta alle elezioni nell’aprile 2001, contro la Casa delle Libertà, la coalizione di centro-destra, della quale è tornata a far parte la Lega Nord, e alla quale si aggiunge il Nuovo Partito Socialista Italiano di Gianni De Michelis.

Alle elezioni politiche del 12 maggio del 2001 la Casa delle Libertà, guidata dal ticket Silvio Berlusconi-Gianfranco Fini batte lo schieramento ulivista, e Forza Italia registra un notevole successo, raccogliendo circa il 30 per cento dei consensi globali. Berlusconi torna così al governo.

Carlo Azeglio Ciampi, Presidente della Repubblica dal 1999 al 2006

Le principali riforme del governo Berlusconi II furono: l'abolizione della leva obbligatoria, le pensioni portate alla soglia minima di 1 milione di lire mensili, la riforma del mercato del lavoro con la Legge Biagi nota come Legge 30/2003, quella riguardante il Codice della strada con l'istituzione della patente a punti e il ritorno dei discendenti maschi di casa Savoia.

Il 1º gennaio 2002 la circolazione della lira italiana comincia a essere affiancata da quella dell'euro, la moneta che allora fu adottata da undici dei quindici stati che allora componevano l'Unione Europea: l'euro sostituisce definitivamente la lira il 28 febbraio 2002.

Nel dicembre 2003 Gianfranco Fini è in viaggio in Israele in qualità di Ministro degli Esteri. Durante questo soggiorno egli definisce il fascismo, in riferimento al ventennio fascista, il male assoluto del XX secolo. Ciò non viene preso bene da Alessandra Mussolini, nipote di Benito Mussolini ed esponente di Alleanza Nazionale, che esce dal partito per costituire un partito di estrema-destra: Azione Sociale.

Nel 2004, alcuni suoi ex-aderenti, decidono di ricostituire il Partito Socialista Democratico Italiano, mentre tra il 3 e il 4 dicembre dello stesso anno viene ricostituito anche il Partito Liberale Italiano.

Nelle elezioni regionali del 2005, che coinvolgono 14 regioni italiane, sono presenti due principali coalizioni: la già nota Casa delle Libertà, costituita da Forza Italia, Alleanza Nazionale, Unione dei Democratici Cristiani e di Centro e Lega Nord e la nascente in chiave anti-berlusconiana Unione, costituita da: Ulivo (che da coalizione si stava trasformando in federazione di Margherita, Democratici di Sinistra e Repubblicani Europei), Socialisti Democratici Italiani, Verdi, Udeur, Rifondazione Comunista, Comunisti Italiani e Italia dei Valori. Oltre a questi c’è Alternativa Sociale, una federazione di partiti di estrema destra nata un anno prima, costituita da: Azione Sociale, Fronte Sociale Nazionale e Forza Nuova. L'Unione ottiene già un successo conquistando 12 delle 14 regioni in questione. Queste elezioni sono state fatali per il governo e Berlusconi, il 27 aprile 2005, è costretto a chiedere la fiducia del parlamento, che ottiene 334 voti favorevoli e 240 contrari. Il governo Berlusconi II risulta il più longevo della storia repubblicana, rimanendo in carica per quasi quattro anni, dal giugno 2001 all'aprile 2005.

Continua la diaspora democristiana: il 25 giugno 2005, Gianfranco Rotondi, membro dell'UDC, decide di uscire dal partito per dare alla luce Democrazia Cristiana per le Autonomie, nel quale confluisce anche Rinascita della Democrazia Cristiana. Il 12 gennaio 2006 entra ufficialmente nella Casa Libertà. A luglio 2006 viene espulso Publio Fiori, ex membro della defunta Democrazia Cristiana e di Alleanza Nazionale, accusato di aver convocato illegalmente un congresso nazionale del partito. Il 1º ottobre 2006, quest'ultimo, fonda Rifondazione Democristiana.

Intanto il nuovo PSI, durante il proprio congresso nazionale, che si svolge dal 21 al 23 ottobre 2005, decide di rivedere la propria posizione riguardante le alleanze. Vengono presentate due mozioni: la prima, esposta dal segretario Gianni De Michelis, chiede di rivedere la propria posizione nel futuro, ma che al momento si deve restare all'interno della casa delle Libertà; la seconda, presentata da Bobo Craxi, chiede di uscire immediatamente dal governo e proseguire l'unità socialista all'interno dell'Unione. Il clima è così teso che sia Gianni De Michelis che Bobo Craxi si auto-proclamano segretari del partito. Tuttavia il 6 gennaio 2006 Bobo Craxi abbandona il partito.

Il 17 novembre 2005 nasce la Rosa nel pugno, federazione di Socialisti Democratici Italiani e Radicali. Entrerà nell’Unione l’anno dopo. Bobo Craxi, che non è interessato all'intesta social-radicale, il 7 febbraio 2006 decide di fondare un nuovo partito: I Socialisti, che decide di entrare nell'Unione.

Le elezioni del 2006: ancora Prodi[modifica | modifica wikitesto]

Campagna elettorale 2006, piazza Maggiore, Bologna, febbraio 2006

Il 10 aprile 2006 si svolgono nuove elezioni politiche tra la Casa delle Libertà e L'Unione. Queste elezioni si svolgono per la prima volta secondo la legge Calderoli del 2005 che ha modificato il precedente meccanismo misto maggioritario, in favore di un sistema proporzionale corretto, con premio di maggioranza per la coalizione e senza possibilità di indicare preferenze (la selezione dei parlamentari viene effettuata dai partiti). Alla Camera, l'Unione ottiene il 49,81% dei consensi, mentre la Casa delle Libertà il 49,74%; mentre, al Senato, la coalizione guidata da Prodi prevale per due seggi (determinanti i voti ottenuti nella circoscrizione Estero, per la prima volta al voto). Ciò decreta un'esigua vittoria dell'Unione. La limitata maggioranza e l'eterogeneità della coalizione, sostenuta dall'intera sinistra parlamentare, solleva ben presto dubbi sulla solidità del governo.

Alla fine di giugno 2006 si concludono le indagini che portarono allo scandalo di Calciopoli, scandalo che ha investito il calcio italiano coinvolgendo diverse società professionistiche fra le più importanti e numerosi dirigenti sia delle stesse società sia dei principali organi calcistici italiani (Federazione Italiana Giuoco Calcio, Lega Nazionale Professionisti, Associazione Italiana Arbitri), oltre ad alcuni arbitri ed assistenti. A stemperare il clima tetro del calcio italiano, giunge il 9 luglio 2006 la vittoria in Germania del quarto titolo mondiale da parte della nazionale italiana.

Tra il febbraio ed il marzo 2006, si svolgono a Torino ed in altre 8 località piemontesi i XX Giochi olimpici invernali ed i IX Giochi Paralimpici invernali.

Il 29 luglio 2006 il Parlamento ha approvato con un'ampia maggioranza trasversale[470][471] una legge sull'indulto.

Il 2 dicembre 2006 viene portato a compimento il ritiro dei militari italiani dall'Iraq.

Con l’aiuto di parte dell’opposizione vengono approvati diversi provvedimenti in materia di politica estera: il rifinanziamento delle missioni militari all'estero, il decreto sulla partecipazione italiana alla missione Unifil in Libano, il permesso di estensione della Caserma Ederle, base militare statunitense situata in territorio vicentino. Questi provvedimenti, ma non solo, aprono contrasti interni alla maggioranza parlamentare che nel frattempo regge in senato grazie al sostegno, spesso decisivo, dei senatori a vita.

Il 21 febbraio 2007, la risoluzione della maggioranza di approvazione della linea del governo sulla politica estera, con particolare riferimento alla presenza italiana nelle forze NATO operanti in Afghanistan, non raggiunge il quorum. Si apre così una crisi di governo che si chiuderà con la fiducia ottenuta in senato il 28 febbraio.

Negli ultimi mesi del 2007 sono numerose le esternazioni, da parte di componenti della maggioranza di governo, di insoddisfazione per i provvedimenti fino ad allora prodotti (Fausto Bertinotti) e riguardo alla difficoltà di realizzare a causa del sostanziale equilibrio parlamentare (Lamberto Dini, Francesco Rutelli, Clemente Mastella[472]). Lo stesso presidente Napolitano giudica come "abnorme" il ricorso ad eccessivi voti di fiducia.

Il 21 gennaio 2008, il ministro della Giustizia, Clemente Mastella, in seguito all’ordinanza di arresti domiciliari per la moglie ed all’annuncio di un'indagine per concussione in corso riguardante egli stesso, annuncia che i Popolari-Udeur ritirano l'appoggio al governo per la mancata solidarietà politica. A seguito di questo avvenimento il governo pone la questione di fiducia ed il 24 gennaio viene battuto al senato per 161 voti a 156.[473] Le conseguenti dimissioni di Prodi vengono accettate da Napolitano che invita il governo a restare in carica per il disbrigo degli affari correnti.

Nel corso del 2007, con la progressiva saturazione delle discariche in Campania, si verifica una nuova e più grave crisi nella gestione dei rifiuti locale. La gestione dell'emergenza è uno dei maggiori temi trattati durante la campagna elettorale del 2008.

Verso la fine della legislatura viene esposto dai media all'opinione pubblica il caso Alitalia. I tentativi di privatizzazione della compagnia in crisi di debito, cominciati nel 2006, incontravano l'opposizione dei sindacati agli esuberi previsti. La situazione verrà successivamente risolta dal Governo Berlusconi IV con l'acquisizione di parte dell'azienda da parte di una cordata italiana senza placare però le polemiche sulle modalità della vendita e rimediando, da parte della Commissione Europea, la contestazione di aiuti illeciti dallo Stato italiano.

All'indomani della vittoria del centro-sinistra l'UDC rivede la sua posizione politica. Casini (leader), vorrebbe continuare ad appoggiare la Casa delle Libertà, e l'altra, cappeggiata da Marco Follini (segretario) di chiudere definitivamente l'esperienza dalla coalizione. A seguito di questo contrasto, il 21 ottobre 2006, Marco Follini costituisce Italia di Mezzo, partito che non entra in nessuna delle due coalizioni e appoggia ora l'una ora l'altra.

Giorgio Napolitano, nuovo Presidente della Repubblica, eletto il 15 maggio 2006

Tra la fine del 2006 e il 2007 i progetti di federazione della Rosa nel Pugno sfumano: l'alleanza dei due partiti si mantiene viva soltanto su una comune azione sul governo.

All'interno di Alleanza Nazionale, la corrente D-Destra, capeggiata da Francesco Storace e maggiormente espressione dell'anima "sociale" del partito, si trova sempre più in contrasto con la direzione finiana per quanto riguarda il diritto al voto amministrativo agli immigrati regolari, all'insegnamento del Corano nelle scuole pubbliche e all'entrata del partito nel Partito Popolare Europeo, che raggruppa le forze moderate e conservatrici del continente. Così il 26 luglio 2007 il leader della corrente decide di costituire un nuovo soggetto politico: La Destra. Il 7 ottobre confluisce nel nuovo partito Alleanza Siciliana, fondata dall'europarlamentare Nello Musumeci, anch'esso in seguito a un contrasto con la direzione di Alleanza Nazionale, nel settembre 2005, e avente solo base regionale.

Nel 2007 i partiti maggiori dello schieramento di centro-sinistra, ossia i Democratici di Sinistra e La Margherita avviano un processo unificatore nel segno dell'Ulivo, proiettato alla costituzione di un unico grande partito che ricalchi il modello dell'americano "Partito Democratico". Tuttavia il percorso che dovrebbe portare alla nascita del Partito Democratico è molto insidioso: l'ala sinistra dei Democratici di Sinistra, capeggiata da Fabio Mussi, non vuole unirsi ai democristiani, così il 5 maggio 2007 decide di scindersi e fondare Sinistra democratica. D'altra parte alcuni membri della Margherita trovano che il gruppo dell'Ulivo, di cui fanno parte, non deve necessariamente comunicare con l'estrema sinistra, a parole laica e progressista, ma anche anti-americanista e anti-clericale. È in questo clima che Lamberto Dini consuma l'ennesima scissione con la costituzione, avvenuta il 1º ottobre, de I Liberal-Democratici. Anche i Socialisti Democratici Italiani, invitati a partecipare al progetto del Partito Democratico, rifiutano di aderirvi, definendolo un accordo storico "bonsai" tra democristiani e post-comunisti. Nonostante ciò il 14 ottobre 2007 vede la luce il Partito Democratico, del quale presidente è Romano Prodi e Segretario Nazionale Walter Veltroni, i quali vengono così eletti dopo aver partecipato a delle primarie con altri candidati. Oltre a Margherita e Democratici di Sinistra, confluiscono nel nuovo partito anche Italia di mezzo e Partito Democratico Meridionale, nato il 16 maggio 2006 per decisione dell'allora presidente della Calabria Agazio Logero, in contrasto con i vertici della Margherita.

Enrico Boselli invita i piccoli partiti socialisti alla riunificazione. Si mostrano interessati a tale iniziativa il Nuovo Partito Socialista Italiano, che convoca un congresso nazionale per formalizzare l'adesione al nuovo progetto, mentre l'area vicino a Roberto Caldoro considera illegitima la mozione del segretario Gianni De Michelis, sicché apre un nuovo congresso nazionale, dove viene proclamato Segretario Nazionale, e I Socialisti di Bobo Craxi. Il 14 luglio si aprono i lavori per la costruzione del Partito Socialista, che nasce definitivamente il 7 ottobre, nel quale vi entrano anche alcuni fuoriusciti di Sinistra Democratica. Poi troviamo anche Willer Bordon e Roberto Manzione, anche loro esponenti della Margherita, contro il progetto del Partito Democratico. L'11 settembre costituiscono l'Unione Democratica per i Consumatori.

Il 16 gennaio 2008 viene arrestata la moglie del ministro di giustizia Clemente Mastella, seguita il giorno successivo dallo stesso ministro, entrambi per concussione. Mastella dà allora le dimissioni da ministro di giustizia, e pur affermando in un primo momento che l'Udeur continuerà ad appoggiare il governo esternamente, avverte la mancanza di solidarietà politica da parte della maggioranza: per questo il 21 gennaio decide alla fine di farne uscire il suo partito, dando il via a una seconda crisi di governo. Questo fatto provoca dissensi all'interno dell'UDEUR: in particolare buona parte della sezione della provincia di Matera, in Basilicata, si distacca dal partito per costituirsi in Popolari Uniti, mentre tre consiglieri regionali della Campania costituiscono Popolari Democratici. Essi si federano immediatamente al Partito Democratico. Inoltre vari senatori dell’Udeur passano ad altri partiti. Così Prodi, apprestandosi a chiedere la fiducia al Parlamento, spera ancora di poterla ottenere: il 23 gennaio alla Camera dei Deputati ottiene 326 sì e 275 no. Il giorno dopo però è la volta del Senato della Repubblica, dove ottiene 161 no e 156 sì: la sua maggioranza non c'è più. A seguito della sconfitta Prodi rassegna le proprie dimissioni, restando in carica per il disbrigo degli affari correnti.

Subito dopo la caduta del Governo il Partito Democratico decide di candidare Presidente del Consiglio Walter Veltroni, il quale decide di proporre un'alleanza ai soli Italia dei Valori e Radicali in cambio di un futuro incorporamento, che accettano, chiudendo di fatto l'esperienza dell'Unione.

Così La Sinistra-L'Arcobaleno, federazione creata all'interno dell'Unione l'8 dicembre 2007 da Sinistra Democratica, Rifondazione Comunista, Comunisti Italiani e Verdi, il 5 febbraio 2008, presenta come proprio candidato Presidente del Consiglio, l'ex-segretario nazionale di Rifondazione Fausto Bertinotti.

Tale scelta influenza anche la Casa delle Libertà, in un'area politica che allo Stato vedrebbe una coalizione di vari partiti contro il solo Partito Democratico. Alcuni esponenti del centro-destra propongono allora di presentarsi alle elezioni con i soli quattro partiti fondatori, ma ciò non vede d'accordo i partiti minori. L'8 febbraio, Forza Italia e Alleanza Nazionale trovano un accordo per creare il Popolo delle Libertà, progetto di Silvio Berlusconi lanciato il 18 novembre 2007 per unire il centro-destra: esso si presenterà alle elezioni come una federazione, lavorando per diventare un partito unitario. In seguito entrano nel nuovo progetto la Democrazia Cristiana per le Autonomie, il Nuovo Partito Socialista Italiano, i Popolari Liberali, fondato come partito il 14 febbraio 2008 da Carlo Giovanardi, già corrente filo-berlusconiana dell'Udc, in contrasto con i vertici del partito al riguardo dell'uscita dalla Casa delle Libertà, il Partito Pensionati fondato il 19 ottobre 1987, Azione Sociale, i Riformatori Liberali, i Liberal-Democratici, Italiani nel Mondo e i Socialisti Riformisti, nato dalla scissione dal nuovo Psi, in seguito alla decisione di questo di federarsi con la Democrazia Cristiana delle Autonomie. Entra in coalizione con Il Popolo delle Libertà Lega Nord, che si presenterà solo al centro-nord e Movimento per l'Autonomia, che si presenterà solo al centro-sud.

L'UDC cerca di riavvicinarsi alla coalizione di Silvio Berlusconi, quando allora non aveva ancora raggiunto nessuna intesa con Alleanza Nazione per la creazione del Popolo delle Libertà. Si viene così a creare un gruppo di dissidenti, capeggiato da Mario Baccini e Bruno Tabacci, interessati a creare un nuovo partito puramente di centro: La Rosa Bianca. Tuttavia l'UDC si allontana definitivamente da Silvio Berlusconi una volta raggiunta l'intesa per la creazione del suo nuovo progetto. Così il 28 febbraio l'UDC e la Rosa Bianca raggiungono un'intesa per la creazione di una nuova lista: l'Unione di Centro, che candida Pier Ferdinando Casini.

Le elezioni del 2008: il IV governo Berlusconi[modifica | modifica wikitesto]

Silvio Berlusconi, Presidente del consiglio dal 2008 al 2011

Le elezioni del 13 e 14 aprile vengono vinte dalla coalizione composta da Il Popolo della Libertà, Lega Nord e Movimento per l'Autonomia, che, con il 47% delle preferenze, ottiene la maggioranza relativa dei voti e, in base alla vigente Legge Calderoli, il 55% dei deputati ed il 54% dei senatori. La nomina dei 21 ministri e dei 37 sottosegretari viene comunicata da Silvio Berlusconi il 7 maggio, contestualmente al conferimento dell'incarico da parte del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.

Subito dopo le elezioni nazionali 2008, Romano Prodi abbandona la carica di presidente del Partito Democratico.

La maggioranza assoluta in Parlamento (ridottasi tuttavia notevolmente a partire dal 2010 per la scissione di Futuro e Libertà) ha garantito una solidità tale da permettere a questo governo di essere il secondo governo più longevo della Repubblica Italiana e di varare numerose riforme. Nei mesi immediatamente successivi alle elezioni il governo legifera soprattutto riguardo ai temi trattati durante la campagna elettorale: vengono approvati i decreti per la privatizzazione di Alitalia, che viene ceduta alla CAI, una cordata di imprenditori italiani guidati da Roberto Colaninno;[474] viene gestita la crisi dei rifiuti in Campania stabilendo la costruzione di quattro nuovi inceneritori, dichiarando dieci nuove discariche come zone di interesse strategico nazionale e di competenza militare, prevedendo sanzioni per i Comuni che non dovessero portare a regime la raccolta differenziata, e nominando Guido Bertolaso sottosegretario all'emergenza rifiuti, già commissario durante il governo Prodi;[475] nel maggio 2008 l'ICI sulla prima casa, che già il governo Prodi aveva in parte ridotto, viene abolita del tutto, con l'esclusione delle abitazioni signorili, delle ville e dei castelli;[476] vengono poi detassati gli straordinari e i premi di produttività.[477] Nel 2009 viene approvato lo scudo fiscale per favorire il rimpatrio o la regolarizzazione delle attività finanziarie e patrimoniali illegalmente detenute all'estero fino al 31 dicembre 2008. Divengono legge il decreto Salva Banche, con i cosiddetti Tremonti bond, ed i decreti Anti Crisi volti a tentare di fronteggiare la crisi creditizia ed economica che nel solo 2009 portava il Pil italiano ad una contrazione del 5% a fronte di una crescita dell'indebitamento pari al 5,3% del Pil[478]. In materia di istruzione vengono approvati il decreto Gelmini su scuola primaria e secondaria[479] e quello sull’università.[480]. Nel marzo 2009 viene approvato il decreto del ministro della Pubblica Amministrazione Renato Brunetta mirante all'efficienza e alla trasparenza della produttività del lavoro pubblico per colpire fenomeni come gli assenteismi e le inefficienze nella Pubblica Amministrazione.[481] In campo giudiziario divengono legge: il lodo Alfano, riguardante l'immunità per le quattro più alte cariche dello Stato, tuttavia successivamente giudicato anticostituzionale dalla Corte Costituzionale; il ddl sicurezza 2009, riguardante soprattutto disposizioni su immigrazione e lotta alla mafia; il DDL Intercettazioni, che restringe la possibilità per i pubblici ministeri di servirsi di intercettazioni telefoniche nelle indagini; la legge sul legittimo impedimento ed il decreto Svuota Carceri, che riduce la popolazione carceraria di 7 000 unità. Di anno in anno vengono prorogate le missioni internazionali e raggiungono l’approvazione il Trattato di Bengasi ed il Trattato di Lisbona.

All'inizio del 2009 si accende la discussione riguardo l'accanimento terapeutico e le questioni di fine vita per via del caso Eluana Englaro. Il governo italiano, contrario alla sospensione di alimentazione ed idratazione della paziente, vara un decreto legge che viene respinto dal Capo dello Stato in quanto giudicato incostituzionale.

Tra il 27 e il 29 marzo Il Popolo delle Libertà, con la convocazione del suo primo congresso, si costituisce ufficialmente come partito. Silvio Berlusconi è eletto presidente del partito all'unanimità.

Il 16 marzo 2009 Sinistra Democratica, Movimento per la Sinistra, Unire la Sinistra e Federazione dei Verdi, costituiscono la federazione Sinistra e Libertà.

Il presidente USA Barack Obama, accompagnato dall'allora commissario Guido Bertolaso e da Silvio Berlusconi nel centro storico dell'Aquila

Il 6 aprile 2009 il grave terremoto dell'Aquila di magnitudo 5,9 della scala Richter, causa la morte di 308 persone, 1500 feriti e 65.000 sfollati circa. Compagnie italiane, governi nazionali e soprattutto l’Unione Europea hanno contribuito al finanziamento della ricostruzione. A quasi otto mesi dal sisma viene realizzato il Progetto C.A.S.E. con costruzione di nuove abitazioni antisismiche[482] e chiusura ufficiale di tutte le tendopoli allestite.[483] Si sviluppa la polemica riguardo alla comunicazione del rischio reale cui era soggetta la popolazione e la trascuratezza delle norme antisismiche, che nell'ottobre 2012 porterà alla condanna di tutti i membri della commissione «Grandi rischi».[484]

Il 13 dicembre 2009, dopo un comizio in piazza del Duomo a Milano, Silvio Berlusconi viene colpito al volto con una riproduzione in miniatura del duomo, lanciata da distanza ravvicinata da Massimo Tartaglia, che il 29 giugno 2010 verrà ritenuto incapace di intendere e di volere, e perciò assolto.

Alle elezioni regionali 2010 si conferma la solidità del governo Berlusconi e del centrodestra, a cui seguirà tuttavia uno scontro politico interno al PdL fra il vertice del partito ed il Presidente della Camera Gianfranco Fini, che il 30 luglio 2010, porterà 33 deputati e 10 senatori politicamente vicini a quest'ultimo a costituire nuovi gruppi parlamentari denominati "Futuro e Libertà. Per l'Italia", uscendo dal PdL, e passando dopo pochi mesi all'opposizione. Non ottiene successo tuttavia un tentativo, nel dicembre 2010, di sfiduciare il governo,[485] il quale maniene una maggioranza in Parlamento, anche se fortemente ridimensionata a soli tre voti in più.[486]

Il 21 dicembre 2010 Silvio Berlusconi viene indagato dalla procura di Milano, in seguito allo scandalo denominato "Rubygate", con le accuse di sfruttamento della prostituzione minorile con l'ipotesi di aver fatto sesso dietro retribuzione con la ballerina di night club minorenne, Karima El Mahroug, e di presunta concussione per aver indotto i funzionari della Questura di Milano ad affidare indebitamente la ragazza, scappata da una comunità per minori, alla consigliere regionale lombarda Nicole Minetti.[487] La stampa nazionale ed estera danno molta enfasi all'avvenimento.

Dal mese di marzo 2011 l'Italia prende parte all'intervento militare in Libia nel contesto della guerra civile libica che vide la fine del regime quarantennale di Muʿammar Gheddafi.[488] Il 25 ottobre 2011 lo Spezzino e la Lunigiana vengono colpite da una forte alluvione[489][490]. I centri più colpiti sono quelli di Borghetto di Vara, Brugnato, Bonassola, Levanto, Monterosso al Mare, Vernazza in provincia della Spezia e Aulla in provincia di Massa-Carrara[490]. Una seconda alluvione colpisce il 4 novembre 2011 i centri di Genova, Recco e Camogli.[491] Questi eventi meteorologici hanno causato la morte di 19 persone e svariati danni materiali. Come probabili cause delle alluvioni vengono indicati l'abbandono del territorio, il mancato monitoraggio della vegetazione e la cementificazione.

Alle elezioni amministrative 2011 si registra un calo di consenso nella maggioranza e una vittoria sostanziale delle liste di centro-sinistra.[492] Nei successivi referendum del 12 e 13 giugno 2011 viene raggiunto per la prima volta dal 1995 il quorum in un referendum nazionale: vengono abrogate 4 norme riguardanti l'energia nucleare (che il governo stava valutando se reintrodurre), la privatizzazione della gestione dei servizi idrici e il legittimo impedimento (quest'ultima già pesantemente mutilata a seguito di una sentenza della Corte Costituzionale).

Durante l'estate 2011 la "Crisi del debito sovrano europeo" raggiunge elevati livelli di criticità in Italia, ed il governo Berlusconi viene accusato dalle opposizioni di inadeguatezza a fronteggiare l'emergenza. In seguito all'acuirsi della crisi, riguardante in particolare l'aumento dello spread o differenziale tra i titoli italiani e quelli tedeschi, il 12 novembre 2011 Berlusconi rassegna le dimissioni. Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano affida a Mario Monti l'incarico di formare un governo tecnico.

La crisi della Repubblica[modifica | modifica wikitesto]

Il governo Monti (2011-2012)[modifica | modifica wikitesto]

Il 16 novembre 2011, dopo un rapido giro di consultazioni, Mario Monti ed i ministri designati hanno prestato giuramento davanti al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Gli obiettivi dichiarati del governo sono di affrontare le riforme più importanti per il paese al fine di superare la crisi finanziaria e di rispettare gli impegni presi con i partner europei.[493] Quasi tutti i partiti, ad esclusione della Lega Nord e dell'Italia dei Valori, hanno garantito il loro appoggio al nuovo esecutivo.

Mario Monti, Presidente del Consiglio dal novembre 2011 ad aprile 2013

Le riforme, volte al ripristino della credibilità nazionale, tentano di coniugare l'uscita dalla recessione con l'obiettivo del pareggio di bilancio nel 2013[494] e vengono presentate agli italiani come sacrifici necessari. Vengono attuate: la riforma delle pensioni[495] che ha dato vita al problema dei cosiddetti "esodati"[496]; la riforma del mercato del lavoro, il cui punto più discusso riguarda la modifica dell'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori; il ddl liberalizzazioni; viene potenziata la lotta all'evasione fiscale; e nasce l'IMU, che de facto ripristina l'imposta sugli immobili precedentemente cancellata. Il provvedimento Salva Italia del 6 dicembre 2011[497], se da un lato viene accettato dalle parti sociali e dall'opinione pubblica, dall'altra accende la polemica sulla mancata estensione dei sacrifici ai parlamentari.

Nei primi mesi del 2012 alcune inchieste portano alla luce casi di corruzione, appropriazione indebita dei rimborsi elettorali e truffa ai danni dello Stato. I principali indagati sono il Tesoriere della Lega Nord, Francesco Belsito[498], il Tesoriere della Margherita, Luigi Lusi[499], il presidente del Consiglio Regionale della Lombardia, Davide Boni, della Lega Nord, diversi consiglieri della regione Lombardia e della giunta guidata da Roberto Formigoni, il Capogruppo del PdL e Presidente della Commissione Bilancio della Regione Lazio, Franco Fiorito.

Gli scandali, la limitata autoriduzione di pensioni e stipendi da parte dei parlamentari[500], l'appoggio dei partiti alle manovre del governo e la disputa sull'attitudine al buon governo dei politici rispetto ai tecnici sono fra le possibili cause di una crescente sfiducia nella classe politica.[501] Alle elezioni amministrative italiane del 2012, oltre ad una diminuita affluenza, si registra il forte calo di consenso dei partiti al governo nella precedente legislatura (Lega Nord e Popolo della Libertà) ed il lieve calo per il Partito Democratico; riscuote un notevole successo il Movimento 5 Stelle.[502]

Il 13 gennaio 2012, la nave Costa Concordia della compagnia Costa Crociere naufraga davanti al porto dell'Isola del Giglio. L'incidente causa la morte di 32 persone e il parziale affondamento della nave.[503] È la nave passeggeri di più grosso tonnellaggio mai naufragata[504].

A cavallo del maggio-giugno 2012 una serie di eventi sismici localizzati nel distretto sismico della pianura padana emiliana e mantovana causa 27 vittime ed ingenti danni ai centri abitati coinvolti.[505]

Il 6 dicembre 2012 il PdL lascia la maggioranza. Il 21 dicembre 2012, concluso l'iter parlamentare di approvazione della Legge di stabilità, Monti rassegna le dimissioni da Presidente del Consiglio.

Le elezioni del 2013 e il governo Letta[modifica | modifica wikitesto]

Il principale risultato delle elezioni appare essere una richiesta di rinnovamento da parte degli elettori. Le due principali coalizioni (centro sinistra e centro destra) perdono nel complesso 11 milioni di voti rispetto alle elezioni politiche del 2008. Emerge il Movimento 5 Stelle, con oltre il 25% dei voti validi (l'affluenza cala di oltre il 5%).

Dopo le consultazioni, il 22 marzo Napolitano affida un incarico esplorativo a Pier Luigi Bersani. Bersani inizia un lungo giro di consultazioni comprendenti sia le parti sociali che politiche al termine delle quali, il 28 marzo, riferisce al Quirinale l'esito infruttuoso delle stesse. Il 30 marzo 2013 il presidente della Repubblica forma due gruppi di lavoro per i contatti con i gruppi parlamentari, il primo di tipo istituzionale, mentre il secondo per la materia economico-sociale ed europea.[506]

Nel mese di aprile 2013 il neo rieletto Giorgio Napolitano designa Enrico Letta per la formazione di un nuovo governo.

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ Celti già presenti sul territorio italiano almeno sin dal XIII secolo a.C. con la cultura proto-celtica detta di Canegrate, al nome dell'omonima località presso Milano, che si sarebbero poi fusi con gli abitanti Liguri per dare vita alla successiva cultura mista di Golasecca (IX-IV secolo a.C.
  2. ^ Nelle sue Storie, I, 196; V, 9, lo storico greco Erodoto parla degli Ἐνετοί come di una parte del popolo illirico, stanziata presso l'Adriatico. La tesi dell'illiricità dei Veneti, sostenuta principalmente da Carl Pauli a fine XIX secolo, continuò a essere largamente condivisa ma, nella prima metà del XX secolo, Vittore Pisani e Hans Krahe dimostrarono che Erodoto si riferiva in realtà a una tribù illirica stanziata nella Penisola balcanica, e non in area italica.
  3. ^ Nota: la tesi di un'origine centro-europea è comunque sostenuta anche da autori classici come Tacito e Claudio Tolomeo.
  4. ^ G. Leonardi - Università di Padova a.a. 1999-2000.
  5. ^ Moscati, op. cit.
  6. ^ Moscati, op. cit.
  7. ^ Roberto Milleddu, Sant'Antioco, intervista a Bartoloni Piero, in www.sardegnadigitallibrary.it, Regione Autonoma della Sardegna. URL consultato il 16 marzo 2011.
  8. ^ Cfr. F. Barreca, La civiltà fenicio-punica in Sardegna, Sassari, 1986
  9. ^ Moscati, pp. 150-151
  10. ^ Wanderlingh Attilio, I giorni di Neapolis, Edizioni Intra Moenia, Napoli aprile 2001
  11. ^ È il numero tramandato dai racconti degli storici antichi, tra cui Tito Livio, nel libro I della sua opera Ab Urbe condita.
  12. ^ Secondo altre fonti, la firma del trattato fu istantaneamente successiva alla battaglia del Regillo.
  13. ^ Polibio, Storie, I, 62, 7.
  14. ^ Marco Terenzio Varrone nei suoi Rerum rusticarum libri III (i.17.1) propone una visione secondo cui gli schiavi dovevano essere classificati come strumenti parlanti, distinti dagli strumenti semiparlanti, gli animali, e gli strumenti non parlanti, ovvero gli attrezzi agricoli veri e propri.
  15. ^ Smith, "Servus", pp. 1022-39, dove è presentata la complessa legislazione romana sugli schiavi.
  16. ^ Davis, Readings in Ancient History, p. 90.
  17. ^ Svetonio, Vita di Claudio, xxv.2.
  18. ^ Gaio, Institutionum commentarius, i.52, per i cambiamenti del diritto di un padrone di trattare a proprio piacimento gli schiavi; Seneca, De Beneficiis, iii.22, per l'istituzione del diritto di uno schiavo ad essere trattato bene e per la creazione dell'"ombudsman degli schiavi".
  19. ^ Giorgio Ruffolo, Quando l'Italia era una superpotenza, Einaudi, 2004.
  20. ^ a b c d Gibbon-Saunders, p. 26
  21. ^ a b Gibbon-Saunders, p. 98
  22. ^ a b Gibbon-Saunders, p. 99
  23. ^ Gibbon-Saunders, pp. 447-455.
  24. ^ Paolo Diacono, II, 32; Ravegnani 2004, p. 74.
  25. ^ P. Diacono, II, 37
  26. ^ P. Diacono, III, 17/22/28/30. Furono quattro le guerre franco-longobardo-bizantine.
  27. ^ Ostrogorsky, pp. 104-105
  28. ^ Ostrogorsky, pp. 148-149
  29. ^ Ostrogorsky, p. 155
  30. ^ Ravegnani 2004, p. 139.
  31. ^ Ravegnani 2006, p. 145.
  32. ^ Ravegnani 2004, pp. 141-143.
  33. ^ Ravegnani 2004, pp. 147-152.
  34. ^ Chittolini, Molho, Schiera
  35. ^ Cardini e Montesano, p. 389.
  36. ^ Galasso G., Storia d'Italia Vol XV, Utet, Torino 1995
  37. ^ A. Bassi, pp. 54-55.
  38. ^ A. Bassi, p. 55.
  39. ^ Cfr. Konrad Burdach, Riforma, Rinascimento, Umanesimo, tradotto da Delio Cantimori, Sansoni, Firenze 1986.
  40. ^ Lezioni di storia di Franco Cardini (storico): l'Umanesimo
  41. ^ AA. VV. Storia moderna, Donzelli editore, Roma 1998 - Cap. XIV, saggio di Marcello Verga Gli antichi Stati italiani pp. 355-357
  42. ^ La Storia d'Italia a fumetti di Enzo Biagi, capitolo "Un altro italiano a Madrid", p. 319
  43. ^ Dalle grandi rivoluzioni alla Restaurazione, 2004, La biblioteca di Repubblica, p. 342.
  44. ^ Dalle grandi rivoluzioni alla Restaurazione, 2004, La biblioteca di Repubblica.
  45. ^ L'intitolazione relativa alla Corsica scomparirà dalle monete e dai documenti di cancelleria aragonesi già nel corso del XIV secolo (vedi: F. Sedda, La vera storia della bandiera dei sardi, Cagliari, 2007, p. 55 e segg.) e definitivamente anche dalle intitolazioni regie allorché il regno di Aragona si unirà a quello di Castiglia nella corona di Spagna, nel 1479
  46. ^ Giuseppe Ugo Rescigno, Corso di Diritto Pubblico, 1996, Zanichelli Bologna, p. 209
  47. ^ È questa l'opinione non solo di tanti intellettuali nazionalisti e irredentisti dell'epoca, ma anche di alcuni storici liberali, fra cui Adolfo Omodeo, che fu «uno dei più accesi sostenitori della visione della Grande guerra come continuazione e compimento delle guerre di indipendenza e del Risorgimento...» Citazione da: AA. VV. Storia d'Italia. Einaudi 1974 ed. speciale il Sole 24 Ore, Milano 2005 vol. 10 (Alberto Asor Rosa, Dall'unità ad oggi) pag. 1356.
  48. ^ a b Piero Craveri, Gaetano Quagliariello, La Seconda Guerra Mondiale e la sua memoria, Rubbettino Editore, 2006, p.579 e sgg
  49. ^ Walter Maturi, "D'Azeglio", Dizionario biografico degli Italiani. (Roma, 1962), 4: pp.746-52.
  50. ^ Cfr. Gilles Pécout, Il lungo Risorgimento: la nascita dell'Italia contemporanea (1770-1922), Pearson Paravia Bruno Mondadori, 1999, p. 5 e sgg.
  51. ^ Stuart J. Woolf dedicherà il primo dei due volumi del Risorgimento italiano all'età delle riforme settecentesche e a quella napoleonica, considerandole parti integranti del lungo processo risorgimentale. Cfr. Il Risorgimento italiano. Dall'età delle riforme all'Italia napoleonica, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1981, vol. I.
  52. ^ È di questo avviso, fra gli altri, Alberto Mario Banti, che individua nel triennio 1796-1799 il «il momento in cui si posero le fondamenta dei principi ideali che animarono l'idea risorgimentale» (Il Risorgimento italiano, Roma-Bari, Editori Laterza, 2004, p. XI. ISBN 978-88-420-8574-4
  53. ^ È questa l'opinione non solo di tanti intellettuali nazionalisti e irredentisti dell'epoca, ma anche di alcuni storici liberali, fra cui Adolfo Omodeo, che fu «uno dei più accesi sostenitori della visione della Grande guerra come continuazione e compimento delle guerre di indipendenza e del Risorgimento...», in AA. VV., Storia d'Italia, Einaudi, 1974, ed. speciale il Sole 24 Ore, Milano, 2005, vol. 10 (Alberto Asor Rosa, Dall'unità ad oggi) p. 1356.
  54. ^ Cfr. A. Desideri, Storia e storiografia, Voll. I e II, Casa editrice D'Anna, Messina-Firenze, 1999
  55. ^ ad eccezione di Sicilia e Sardegna
  56. ^ solo nel 212 (Constitutio Antoniniana) la cittadinanza fu estesa a tutto l'impero
  57. ^ «né mai più fu ritentata per undici secoli la grande impresa (dicon essi) del costituire l'unità italiana.» (Giuseppe Brunengo, I primi Papi-Re e l'ultimo dei re longobardi, Coi tipi della Civiltà Cattolica, 1864, p.260
  58. ^ Cfr. Montanelli, Da Carlo Magno all'anno Mille. Storia d'Italia, BUR, 1994.
  59. ^ «Alcuni storici e una certa retorica nazionalistica hanno fatto di lui un campione e un assertore dell'unità d'Italia», tratto da Montanelli & Gervaso, Storia d'Italia, vol. 6, Da Carlomagno all'anno 1000, pag. 139, Fabbri editori, 1994.
  60. ^ Cfr. Umberto Eco, Il Medioevo. Barbari, cristiani, musulmani, Encyclomedia Publishers, 2010
  61. ^ Konrad Burdach, Riforma, Rinascimento, Umanesimo, trad. a cura di D. Cantimori, Sansoni, Firenze 1986.
  62. ^ AA.VV., Origini dello Stato. Processi di formazione statale in Italia fra medioevo ed età moderna, a cura di G. Chittolini, A. Molho e P. Schiera, Il Mulino, Bologna 1994.
  63. ^ Le garzantine, Atlante storico.., pag. 150 e 151
  64. ^ La citazione è tratta da: Umberto Cerroni, L'identità civile degli italiani, Lecce, Piero Manni, 1996, pag. 24
  65. ^ Cfr. Umberto Cerroni, op. cit p. 25
  66. ^ Raffaele Morghen, L'unità monarchica nell'Italia meridionale in Nuove questioni di storia medioevale, Marzorati. Milano, 1977 (riportato in Giampaolo Perugi, Pagine di storiografia, Zanichelli editore, 2000, p.216)
  67. ^ «Già nella prima metà del Trecento essa aveva dato ciò che le altre nazioni non avevano dato ancora... una lingua raffinata, una grande poesia... una prosa letteraria...» da Umberto Cerroni, op. cit., p. 24
  68. ^ Dante Alighieri, Inferno, Canto XXXIII, verso 80.
  69. ^ Petrarca, Canzoniere, CXLVI, versi 13-14
  70. ^ «Capì che il destino dell'Italia era condizionato dall'equilibrio fra le quattro grandi potenze che vi si erano formate: Milano, Venezia, Firenze e Napoli. [...] Lo chiamarono "Padre della Patria", certamente alludendo a una patria fiorentina. Ma Cosimo lo fu di tutta l'Italia. Forse egli carezzò un sogno di unità nazionale. Ma capì ch'era irrealizzabile, e quindi si contentò dell'unico traguardo che un uomo di Stato italiano, a quei tempi, poteva proporsi: un Direttorio dei "quattro grandi", solidali nel proposito di mantenere la Penisola al riparo da intrusioni straniere» (Montanelli & Gervaso, Storia d'Italia, vol. 12, La civiltà del Rinascimento, pp. 11-12, Fabbri editori, 1994).
  71. ^ Le garzantine, Atlante storico.., pag. 223 e 225
  72. ^ «Questa fu la politica dei Medici sino alla fine del Quattrocento. Ad essa l'Italia è debitrice di quei decenni di relativa pace e di meravigliosa prosperità che consentirono il miracolo del Rinascimento» (Montanelli, op. cit., p. 12.).
  73. ^ Si trattava di «professionisti della guerra che non si facevano certo nessuno scrupolo a passare da una parte all'altra secondo le convenienze e circostanze, come farà uno dei tredici di Barletta», ma nei confronti dei quali il capitano spagnolo non perse l'occasione, offertagli dalla provocazione francese, di «far leva sull'amor proprio degli italiani» (Giuliano Procacci, La disfida di Barletta. Tra storia e romanzo, Bruno Mondadori editore, 2001 pagg. 47-48).
  74. ^ Il grande risalto che all'epoca venne dato all'episodio, secondo lo storico Giuliano Procacci (op.cit., p.45), era dovuto al desiderio di perpetuare un'immagine epica della classe feudale della cavalleria ormai superata come strumento di guerra
  75. ^ Cfr. F. Guicciardini, Storia d'Italia, libro I, ed. Ricciardi, Milano-Napoli, 1953
  76. ^ Cfr. G. Candeloro, Storia dell'Italia moderna, vol.I, Feltrinelli, Milano, 1956
  77. ^ «E se bene l'Italia divisa in molti domini abbia in vari tempi patito molte calamità che fose in un domino solo non avrebbe patito [...] nondimeno in tutti questi tempi ha avuto al riscontro tante città floride [...] che io reputo che una monarchia gli sarebbe stata più infelice che felice» (in F. Guicciardini, op.cit.)
  78. ^ N. Machiavelli, Opere scelte, Volume 1969,Parte 1, Editori riuniti, 1969
  79. ^ Cfr. Cesare Ripa, Iconologia, 1603
  80. ^ La pagina proviene da un libro della libreria di Benedetto Croce che la commenta a pag. 653-654 del suo saggio I Teatri di Napoli secoli XV - XVIII (1891): Il titolo e' modificato da "Il corsaro di Marsiglia" a "Il corsaro" in quanto ricordava la Francia repubblicana e una delle sua città più repubblicane, Italia è un'altra parola proibita sostituita con Napoli, "son d'Italia al servizio di Mr. Dumont" diventa "son Barlettano al servizio del signor Dumont", "la parola Liberta' è anche diligentemente allontanata" ... "figurarsi se lasciavano tiranno! Corretto: crudele"
  81. ^ Gilles Pécout, Il lungo Risorgimento: la nascita dell'Italia contemporanea (1770-1922), Pearson Paravia Bruno Mondadori, 1999, pp.7 e sgg.
  82. ^ Vedi la premessa in Pierluigi Baima Bollone, Esoterismo e personaggi dell’Unità d’Italia. Da Napoleone a Vittorio Emanuele III, Priuli e Verlucca editore
  83. ^ Vedi: Lodovico Antonio Muratori, Giuseppe Catalano, Annali d'Italia dal principio dell'era volgare sino all'anno 1750, compilati da Lodovico Antonio Muratori e continuati sino all'anno 1827, Tomo trigesimonono Volumi 39-40, Leonardo Marchini tip., Firenze, 1827.
  84. ^ Vedi: Filippo Antonio Gualterio, Gli ultimi rivolgimenti italiani: Documenti - memorie storiche con documenti inediti , F. Le Monnier, 1851.
  85. ^ Proclama di Rimini, su immaginidistoria.it.
  86. ^ Estratto dal primo numero delle Memorie accademiche della Società Le origini dell'Accademia
  87. ^ Cfr. F. M. Agnoli, Le Pasque veronesi: quando Verona insorse contro Napoleone, Rimini, Il Cerchio, 1998.
  88. ^ Cfr. F. Della Peruta, I democratici e la rivoluzione italiana, Milano, 1974; idem, Conservatori, liberali e democratici nel Risorgimento, Milano, 1989.
  89. ^ «Fu questo senza dubbio un momento molto importante nello sviluppo economico della Lombardia, il momento in cui l'agricoltura [favorita nel suo sviluppo dall'Austria] cominciò a perdere terreno di fronte all'industria e al commercio...[I ceti produttori guardavano ormai al Piemonte] ove la libertà aveva consentito una rapida e notevole espansione dell'industria e del commercio» (in F. Catalano, Stato e società nei secoi, III, ed. G. D'Anna, Messina-Firenze, 1966)
  90. ^ Pasquale Turiello, Governo e governati in Italia, Zanichelli, 1889, p.133
  91. ^ Costanzo Rinaudo, Il risorgimento italiano, S. Lapi, 1911, p.80
  92. ^ Tra le opere Dei doveri dell'uomo Fede ed avvenire Editore Mursia. ISBN 978-88-425-4172-1
  93. ^ Cfr. L. Salvatorelli, Il pensiero politico italiano dal 1700 al 1870, Torino, 1959
  94. ^ Lucy Riall, Pinella Di Gregorio, Il Risorgimento. Storia e interpretazioni, Donzelli Editore, 1997 p.38 e sgg.
  95. ^ Cfr. Napoleone Colajanni, Dov'è la sinistra?: critica della "terza via", Ponte alle Grazie, 2000
  96. ^ Cfr. G. Berthier De Sauvigny, La Restauration, Parigi, 1955
  97. ^ Cfr. Enrico Leo, Storia degli stati italiani dalla caduta dell'impero romano fino all'anno 1840. Volume 2, Elibron classic series, 2006 (ristampa originale del 1842)
  98. ^ Niccolò Palmieri, Saggio storico e politico sulla costituzione del regno di Sicilia infino al 1816: con un'appendice sulla rivoluzione del 1820: con una introduzione e annotazioni di anonimo, editori S. Bonamici e Compagni, Losanna 1847, pag.381
  99. ^ Nicolò Palmieri, Michele Amari, Storia della rivoluzione di Sicilia nel 1820, 1848, p.9 e sgg.
  100. ^ Cfr. Harold Acton, I Borboni di Napoli (1734-1825), Giunti Editore, 1997.
  101. ^ Cfr pag. 28 in Amelia Crisantino, Introduzione agli «Studii su la storia di Sicilia dalla metà del XVIII secolo al 1820» di Michele Amari, Quaderni - Mediterranea. Ricerche storiche, N. 14., Palermo. ISBN 978-88-902393-3-5
  102. ^ Giuseppe Galasso, Rosario Romeo, Atanasio Mozzillo, Storia del Mezzogiorno, Volume 15,Parte 2, Editalia, 1994, p.428
  103. ^ Cfr. G. Candeloro, Storia dell'Italia moderna, vol. II, Dalla Restaurazione alla rivoluzione nazionale, 1815-1846, Milano, 1962.
  104. ^ Primo Uccellini ed altri, Memorie di un vecchio carbonaro ravegnano, Società editrice Dante Alighieri, 1898 pag.175
  105. ^ Colonnello dell'esercito borbonico, aderì alla Carboneria ed ebbe parte attiva nella rivoluzione del 1820-1821 e fu capo di Stato Maggiore nell'esercito costituzionale guidato da Guglielmo Pepe nella guerra contro gli Austriaci. Dopo il fallimento dei moti costituzionali Del Carretto abiurò la scelta carbonara, dichiarando di aver aderito alla setta solo per boicottarla
  106. ^ cfr pag 29,Francesco Protonotari, Cospiratori In Romagna Dai 1815 Al 1859, in Nuova antologia, Terza serie, Vol XXIII, Roma, 1889
  107. ^ Achille Gennarelli, Il Governo Pontificio e lo Stato Romano: documenti preceduti da un'esposizione storica, Tipografia F.Alborghetti, Prato, 1860
  108. ^ Robert Justin Goldstein, The war for the public mind: political censorship in nineteenth-century Europe, Greenwood Publishing Group, 2000
  109. ^ vedi Leopoldo Palatini, Le date più memorabili del nostro risorgimento, Casa editrice Italiana, Roma, 1896
  110. ^ Gli unici impediti a parteciparvi furono gli scienziati residenti nello Stato pontificio la cui partecipazione venne permessa dopo l'arrivo al soglio pontificio di Pio IX, tuttavia non si riuscì ad organizzare un congresso negli stati pontefici, e il previsto congresso di Bologna venne spostato a Padova.
  111. ^ Cfr. Angelo Guerraggio, Pietro Nastasi L’Italia degli scienziati. 150 anni di storia nazionale, Bruno Mondadori, 2010
  112. ^ Cfr. Rodolphe Rey, Histoire de la Renaissance politique de l'Italie 1814 - 1861, Parigi, 1864
  113. ^ Lucio Villari: "La Repubblica" 8 dic. 1992
  114. ^ Decreti in Collezione di Leggi e Decreti Del General Parlamento di Sicilia nel 1848 Anno 1° della Rigenerazione, Palermo, Stamperia Pagano-Via Macqueda laterale S. Orsola, n. 321-322, 1848
  115. ^ Salvatore Lupo, L'unificazione italiana. Mezzogiorno, rivoluzione, guerra civile, Donzelli, 2011, p.34
  116. ^ (cfr. L.Pollini, La rivolta di Milano del 6 febbraio 1853. Ceschina, Milano 1953)
  117. ^ (Rosario Villari,Storia contemporanea Roma-Bari, Editori Laterza, 1990.
  118. ^ Romeo, Vita di Cavour, Bari, 2004.
  119. ^ In tedesco: Grundsätze der Realpolitik: angewendet auf die staatlichen Zustände Deutschlands
  120. ^ Citato da Paolo Mieli in Bismarck e Cavour, due volti del cesarismo Corriere della sera 26 gennaio 2011
  121. ^ Giuseppe Vottari, Storia d'Italia, Alpha Test, 2005, p.20
  122. ^ A. Desideri, Storia e storiografia, Vol. II, Ed. D'Anna, Messina-Firenze, 1999, p.749
  123. ^ Denis Mac Smith, Il Risorgimento Italiano, pag. 429, Ed La Terza, Roma, 1999.
  124. ^ Giuseppe Cesare Abba, Da Quarto al Volturno. Noterelle di uno dei Mille, Bologna, Nicola Zanichelli, 1880. ISBN non esistente
  125. ^ Cfr. Giorgio Candeloro, Storia dell'Italia moderna: Dalla rivoluzione nazionale all'Unità, Feltrinelli, 1986
  126. ^ Ugo Del Col, Daniele Piccinini. Un garibaldino a Selvino, Editrice UNI Service, 2007 p.35
  127. ^ Cfr. Renzo Del Carria, Proletari senza rivoluzione. Storia delle classi subalterne italiane dal 1860 al 1950, 2 voll., Milano, 1970
  128. ^ Tommaso Pedio, La Basilicata nel Risorgimento politico italiano (1700-1870), Potenza, 1962, p. 109
  129. ^ Ci si riferisce a Carlo III, «il cui mito continuò ad essere coltivato nei 45 anni di vita del Regno delle Due Sicilie. cit. da Angelantonio Spagnoletti, op. cit., p. 305»
  130. ^ Cit. da Benedetto Croce, Storia del Regno di Napoli, Bari, Laterza, 1980 (I edizione 1925), p. 235
  131. ^ [in it: l'orribile tirannia intellettuale che regna su questa parte d'Italia] Cit. AA. VV., Storia d'Italia, Libro VI (la parte in questione è scritta da Franco Venturi), pag. 1381, Milano, Ed. speciale Il Sole 24 Ore, 2005 (I ed., Torino, Einaudi, 1974)
  132. ^ Lo stesso Garibaldi deluso e amareggiato per l'assetto del nuovo stato italiano nel 1868, in una lettera indirizzata ad Adelaide Cairoli scriveva: «Gli oltraggi subìti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Sono convinto di non aver fatto male, nonostante ciò non rifarei oggi la via dell’Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendo colà cagionato solo squallore e suscitato odio». (Cfr. Santi Correnti, Storia di Sicilia: come storia del popolo siciliano, Longanesi, 1983 e Bruno Vespa, Il cuore e la spada: storia politica e romantica dell'Italia unita, 1861-2011, Edizioni Mondadori, 2010 pag.97)
  133. ^ Alfredo Oriani, La lotta politica in Italia 1892 in Tommaso Detti, Giovanni Gozzini, Ottocento, Pearson Paravia Bruno Mondadadori, 2000, p.184
  134. ^ "Università degli Studi di Udine; [1].
  135. ^ Ettore Beggiato, "1866: la grande truffa", Editoria Universitaria Venezia, 1999; [2].
  136. ^ Cfr. A.Desideri, op.cit. Vol. II
  137. ^ Esclusa la Sabina (attuale provincia di Rieti), allora considerata parte dell'Umbria e quindi già inclusa nel Regno d'Italia
  138. ^ Antonella Grignola, Paolo Ceccoli, Garibaldi, Giunti Editore, 2004, p.81
  139. ^ In occasione della inaugurazione del palazzo di Montecitorio, sede della nuova Camera dei deputati, il 27 novembre 1871 il re Vittorio Emanuele II pronunciò il seguente discorso: «Con Roma capitale d'Italia fu sciolta la mia promessa e coronata l'impresa che 23 anni or sono veniva iniziata dal Magnanimo mio Genitore: l'Italia è libera ed una, ormai non dipende più che da voi il farla grande e felice... per la difesa e l'integrità del territorio nazionale, e per restituire ai romani l'arbitrio dei loro destini, i miei soldati, aspettati come fratelli, e festeggiati come liberatori, entrarono a Roma. Roma reclamata dall'amore e dalla venerazione degli italiani fu così resa a se stessa, all'Italia ed al mondo moderno. Noi entrammo a Roma in nome del diritto nazionale, in nome del patto che vincola tutti gli italiani ad unità di nazione. Vi rimarremo mantenendo la promessa che abbiamo fatta solennemente a noi stessi: Libertà della Chiesa, piena indipendenza della sede pontificia nell'esercito del suo ministero religioso, nelle sue relazioni colla cattolicità.» (in Luigi Torelli, L'Italia e casa Savoia , 1885, pag.227)
  140. ^ (Pellegrino Artusi, La scienza in cucina e l'Arte di mangiar bene, Introduzione e note di Piero Camporesi, Torino, Einaudi, 1970, p. XVI)
  141. ^ a b La Grande Guerra nei manifesti italiani dell'epoca Errore nelle note: Tag <ref> non valido; il nome "ReferenceA" è stato definito più volte con contenuti diversi
  142. ^ Piergiovanni Genovesi - Il Manuale di Storia in Italia
  143. ^ Cit. da: AA. VV. Storia d'Italia, Einaudi 1974 ed. speciale il Sole 24 Ore, Milano 2005 vol. 10 (Alberto Asor Rosa, Dall'unità ad oggi) p. 1356»
  144. ^ archiviodistatopiacenza, su archiviodistatopiacenza.beniculturali.it.
  145. ^ Sarebbe quest'ultima frase all'origine dei motti "Abbiamo fatto l'Italia, ora dobbiamo fare gli italiani", "Fatta l'Italia bisogna fare gli italiani" e simili, genericamente attribuiti a Massimo d'Azeglio. Tuttavia, secondo gli storici Simonetta Soldani e Gabriele Turi, nell'introduzione a Fare gli italiani. Scuola e cultura nell'Italia contemporanea, il Mulino, il motto "Fatta l'Italia bisogna fare gli Italiani" non apparterrebbe a d'Azeglio, ma sarebbe stato coniato nel 1986 da Ferdinando Martini «nel tentativo di "tradurre" il senso politico» (Carlo Fomenti, Siamo una nazione, ma chi ha fatto l'Italia?, Corriere della sera, 17 luglio 1993) di tale frase nella prefazione a I miei ricordi.
  146. ^ Cavour, lettera del marzo 1861 in Giuseppe Vottari, Storia d'Italia (1861-2001), Alpha Test, 2004 p.31
  147. ^ Luciano Cafagna, Cavour, l'artefice del primo miracolo italiano, Il mulino, 1999, p.29 e quarta di copertina, cit.: «Il primo miracolo italiano è stata l'Italia stessa»
  148. ^ Ossia a Francesco II ivi asserragliato
  149. ^ Da Lettera di Farini a Cavour, Teano, 27 ottobre 1860 in Carteggi di Camillo Cavour, Zanichelli, 1949-54, Bologna, citato da S.Lupo (2011),
  150. ^ Ottorino Gurgo, Lazzari: una storia napoletana, Guida Editori, 2005, p.364
  151. ^ Christopher Duggan (2011) La forza del destino - Storia d’Italia dal 1796 ad oggi, pag. 257. Laterza editore, Roma-Bari. ISBN 978-88-420-9530-9
  152. ^ Giordano Bruno Guerri, Il sangue del sud, Mondadori, 2010
  153. ^ I dati riportati in questo paragrafo sulle condizioni dell'Italia post-unitaria sono ripresi da: Antonio Desideri, Storia e storiografia, Vol. II, Casa editrice d'Anna, Messina Firenze, 1979, p.815
  154. ^ Nicola Tranfaglia, Pier Giorgio Zunino, Guida all'Italia contemporanea, 1861-1997, Volume 4, Garzanti, 1998, p.389
  155. ^ Giuseppe Vottari, Storia d'Italia, Alpha Test, 2005, p.82
  156. ^ Cfr. Ch. Seaton-Watson, L'Italia dal liberalismo al fascismo, 1870-1925, Laterza, Bari, 1973
  157. ^ (2 agosto 1861) Corrispondenza D’Azeglio-Matteucci, D’Azeglio, Scritti, Firenze 1931 p.399
  158. ^ Eric Hobsbawm, Bandits, Penguin, 1985, p.25
  159. ^ L'ipotesi che il cosiddetto "brigantaggio" nasconda la volontà di una guerra civile del resto traspare nella stessa relazione Massari: «infame guerra, avvolgendo nel sangue, nel lutto, nelle espilazioni, nella guerra civile le provincie già obbedienti... mentre non può negarsi che il brigantaggio alimentasi ben anco di altre fonti...» in Il brigantaggio nelle provincie napoletane: relazioni fatte a nome della Commissione d'inchiesta della Camera de'deputati da G. Massari e S. Castagnola. Con la giunta della legge proposta e dell'altra sanzionata p.211 e in Giuseppe Massari, Stefano Castagnola, Commissione d'inchiesta parlamentare sul brigantaggio, in Stamp. dell'Iride, 1863, pp.162, 184,187
  160. ^ Benedetto Croce, Storia del Regno di Napoli, Adelphi, Milano 1992, p.473 riporta per stralci la Lettera ai censuari del Tavoliere pubblicata dallo zio materno, Francesco Saverio Sipari, riproposta integralmente da L. Arnone Sipari, Francesco Saverio Sipari e la «Lettera ai censuari del Tavoliere», in R. Colapietra (a cura di), Benedetto Croce ed il brigantaggio meridionale: un difficile rapporto, Colacchi, L'Aquila 2005, pp. 87-102, in cui, peraltro, anticipando anche le analoghe osservazioni di Giustino Fortunato, riteneva che il brigantaggio potesse esaurirsi con la "rottura" dell'isolamento delle regioni meridionali, che era dato dall'assenza di una rete infrastrutturale adeguata, di strade e di ferrovie, e con l'affrancamento dai canoni del Tavoliere.
  161. ^ Giustino Fortunato, Emilio Gentile, Carteggio: 1927-1932, Laterza, 1981, p.14
  162. ^ Cit. da: Benedetto Croce, op. cit, p. 235
  163. ^ Teodoro Salzillo, Roma e le menzogne parlamentari, Malta, 1863, p.34.
  164. ^ «...La crisi economica del 1825-1826 prostrò il mondo delle campagne diede via alla ripresa della guerriglia rurale e a clamorosi episodi di brigantaggio.» Cit. da Angelantonio Spagnoletti, Storia del Regno delle Due Sicilie, Bologna, Il Mulino, 1997, p. 53. Lo stesso autore segnala, in età borbonica, un «...ribellismo endemico, spesso sfociato nel brigantaggio di estese zone delle Calabrie e del Principato di Citra...», cit. da Angelantonio Spagnoletti op. cit., p. 57. Anche nella Puglia settentrionale, in Capitanata, il brigantaggio era particolarmente attivo (soprattutto nel distretto di Bovino) «...fino ad assumere connotati di massa. Ad esso si dedicavano alacremente migliaia di individui, padri e figli, che nell'assalto ai viaggiatori, alle diligenze e al procaccio trovavano la fonte primaria del proprio sostentamento». Cit. da Angelantonio Spagnoletti, op. cit., p. 222
  165. ^ Giuseppe Massari, Stefano Castagnola, Il brigantaggio nelle province napoletane, Fratelli Ferrario, 1863, p.17, 20
  166. ^ Anche sotto i Borbone si dovettero impiegare le forze armate per reprimere il brigantaggio. Nel 1817 il marchese di Pietracatella, nominato intendente della terra d'Otranto «...nella sua relazione di viaggio osservava compiaciuto che la via consolare di Puglia e i territori che essa attraversava erano ormai tranquilli, addirittura percorribili di notte, anche perché erano presidiati, oltre che dalla gendarmeria, da teste di briganti chiuse in gabbie di ferro e collocate sul ponte di Bovino quale macabro ammonimento per i fuorilegge, i pastori e i contadini che frequentavano quella località.». Cit. da Angelantonio Spagnoletti, op. cit., p. 223. Un anno più tardi fu inviato in Puglia il generale Guglielmo Pepe per organizzare le milizie provinciali da impiegare contro i briganti. Cfr. Angelantonio Spagnoletti, op. cit., p. 222
  167. ^ Cavour, lettera del 15 gennaio 1961 al marchese di Montezemolo, luogotenente in Sicilia in Massimo L. Salvadori, Il mito del buongoverno: La questione meridionale de Cavour a Gramsci, G. Einaudi, 1963 p.27
  168. ^ In Marco Minghetti ai suoi elettori, Monti, Bologna, 1863
  169. ^ Il progetto di legge di Minghetti fu il primo ad essere stato redatto in italiano e non in francese. (Arrigo Petacco, O Roma o morte, A. Mondadori, 2010, p.7)
  170. ^ A.Petacco, Op.cit. p.8
  171. ^ G. Candeloro, Storia dell'Italia moderna in Diritto e società, Sansoni, 1993, p.82
  172. ^ La prima pubblicazione di queste tesi avvenne nel 1949 con la stampa del volume Antonio Gramsci Il Risorgimento, Einaudi Editore (Torino), nell'ambito della prima pubblicazione, raccolti in ordine tematico, degli scritti gramsciani
  173. ^ Cfr. G. Cantarano p.38
  174. ^ Desideri Antonio-Themelley Mario, Storia e storiografia, "Il decennio di preparazione e il compimento dell'Unità d'Italia" - Editrice d'Anna, 1999
  175. ^ Franco della Peruta Democrazia e socialismo nel Risorgimento, Editori Riuniti, Roma, 1973
  176. ^ Carlo Cattaneo, Dell'insurrezione di Milano nel 1848 e della successiva guerra: memorie,Tip. della Svizzera Italiana, 1849 p.146
  177. ^ Giuseppe Ferrari, "L'Italia dopo il colpo di stato del 2 dicembre 1851, Capolago tipografia elvetica, 1852 p.16
  178. ^ Cfr. A. Gramsci, "Il Risorgimento", Torino 1966.
  179. ^ Cfr. E. Sereni, "Il capitalismo nelle campagne (1860-1900)", Torino 1955.
  180. ^ " La conquista del contado da parte di ciascun comune fu un fenomeno generale che portò ad una subordinazione permanente delle campagne alle città e ad una diseguaglianza giuridica tra cittadini ed abitanti del contado...la subordinazione della campagna alla città non ebbe soltanto un carattere politico ed amministrativo, non fu cioè soltanto subordinazione del contado verso la città nel suo complesso e verso il governo cittadino, ma assunse anche il carattere di una dipendenza di tipo feudale o semifeudale dei contadini verso la classe dominante cittadina [...] La politica annonaria dei comuni, continuata anche dalle signorie e dai principati, fu dominata dalla preoccupazione di assicurare a prezzo relativamente basso e costante i rifornimenti alimentari agli artigiani e ai salariati delle città, le cui agitazioni erano assai temute dalla classe mercantile dominante." (in G.Candeloro, "Storia dell'Italia moderna, vol. I, Milano, 1959.)
  181. ^ G.Arnaldi, "L'Italia e i suoi invasori", Bari, 2003 pag.179
  182. ^ G. Di Fiore, "I vinti del Risorgimento", Torino, 2004 pag.264
  183. ^ Da osservare che la percentuale di questi volontari fosse maggiore fra I Mille dove, diversamente all'esercito sabaudo, non venne operata alcuna selezione all'arruolamento. Nella prima meta' del 1859 furono arruolati 9692 giovani nell'esercito sabaudo, di questi il 44% dal regno Lombardo Veneto, il 27% dai ducati di Parma e Modena, il 16% dalla Toscana, poco meno del 12% dallo stato Pontificio, poco più del 1% da stati esteri e circa il 0.5% dal Regno delle due Sicilie (In Cipolla, Bertaiola, La battaglia di Solferino e San Martino, vissuta dagli italiani, Franco Angeli, Milano, 2009)
  184. ^ M.Isnenghi, op.cit.
  185. ^ (Ch. Seton-Watson, "L'Italia dal liberalismo al fascismo, 1870-1925", Bari, 1973)
  186. ^ Cfr. Cristina di Belgioioso "La rivoluzione lombarda del 1848" a cura di A. Bandini Buti, Milano 1950.
  187. ^ cfr. F. Catalano, Stato e società nei secoli, Messina-Firenze, 1974.
  188. ^ «Il Lombardo-Veneto ebbe infatti dall'Austria una legislazione civile nel complesso non inferiore a quella napoleonica e un sistema amministrativo che funzionava con regolarità e che lasciava ai comuni un'autonomia maggiore che in altri Stati italiani» Il governo austriaco «tra il '15 e il '48 diede al Lombardo Veneto un'ottima rete stradale... e lo mise alla testa degli Stati italiani per l'organizzazione scolastica» (G.Candeloro, Storia dell'Italia moderna, II, 1815-1846, Feltrinelli editore, Milano 1958)
  189. ^ «Il sentimento di nazionalità, se si prescinde da qualche anticipazione giacobina, nasce e si sviluppa solo nell'Ottocento...allorché le classi economicamente più dinamiche premono per la formazione di grandi mercati unitari» (F.Catalano, Stato e società nei secoli, III, G.d'Anna, Messina-Firenze 1966). L'incremento della produzione agricola e manifatturiera portò alla «necessità di superare in qualche modo il frazionamento territoriale, di costituire mercati più vasti se non un mercato unitario nazionale liberandosi dal dominio straniero che spezzava tra l'altro l'unità economica della valle padana. (Desideri, op.cit.)»
  190. ^ «Perché il Partito d'Azione non pose in tutta la sua estensione la questione agraria?...La minaccia fatta dall'Austria di risolvere la questione agraria a favore dei contadini, minaccia che ebbe attuazione in Galizia,...non solo gettò lo scompiglio tra gli interessati in Italia ma paralizzò lo stesso Partito d'Azione che in questo terreno pensava come i moderati e riteneva "nazionali" l'aristocrazia e i proprietari e non i milioni di contadini.» (A. Gramsci, Il Risorgimento, Einaudi, Torino 1966)
  191. ^ La diplomazia del regno di Sardegna durante la prima guerra d'indipendenza, Volume 3, Sardinia (Kingdom). Ministero degli affari esteri, Museo nazionale del Risorgimento, 1952 pag. XXXII
  192. ^ Vincenzo Gioberti, Del primato morale e civile degli Italiani, ed. Meline Cans, Bruxelles, 1843 p.80
  193. ^ Iride Traversi, L'immagine femminile di Dio, Armando Editore, 2005 p.34
  194. ^ Significativo degli ormai esauriti entusiasmi patriottici gli episodi narrati da un ufficiale piemontese e da Francesco Faà di Bruno avvenuti dopo la sconfitta di Custoza quando Gioberti e Angelo Brofferio, al tempo entrambi membri dell'opposizione parlamentare, si spinsero al fronte, dove incontrarono le truppe in ritirata (vedi pag. 132 in Pietro Palazzini, Francesco Faà di Bruno scienziato e prete: Dai campi di battaglia all'apostolato sociale, Città nuova, 1980 p.132), l'ufficiale nelle sue memorie scrive: "Ripassato il Ticino e giunto a Vigevano l'esercito, era talmente adirato contro i Milanesi per gli ultimi fatti accaduti in quella città, come anche per le tante privazioni sofferte, che ufficiali e soldati vinti dall'indignazione e dal fastidio dicevano altamente di non voler più combattere per quella causa. ... Gioberti in un caffè ov'erano soldati ed essendosi volto con parole calde di guerra ad un caporale di Pinerolo, n'ebbe tal risposta da potersi agevolmente persuadere della reale disposizione degli spiriti." Ne miglior fortuna ebbe Brofferio e tre suoi compagni, arrivati come oratori del circolo politico di Torino, che incontrarono "una folla di ufficiali che rimproverando loro sdegnosamente la mala condotta dei giornalisti piemontesi, pinsero sì al vivo la giusta ira dell'esercito, che quegli oratori credettero miglior partito rifar la loro strada" (Vedi pag 145-145 in Anonimo, Memorie ed osservazioni sulla guerra dell'indipendenza d'Italia nel 1848 raccolte da un ufficiale piemontese, Giovanni Fantini E C Editori, Torino, 1850 online)
  195. ^ Cfr. Raffaele Giovagnoli, Il romanticismo nella storia del Risorgimento italiano, ed. Roux & Viarengo, 1904 p.24 e sgg.
  196. ^ Cfr. Armando Balduino, Storia letteraria d'Italia, Vol. 2, Ed. Vallardi, 1991, pag.1350 e sgg.
  197. ^ M.Isnenghi, "L'unità italiana" in AA.VV., "Tesi, antitesi, romanticismo-futurismo", Messina-Firenze, 1974.
  198. ^ cfr. M. Isnenghi, "L'unità italiana" in AA.VV., "Tesi, antitesi, romanticismo-futurismo", Messina-Firenze, 1974.
  199. ^ La parola cafone un tempo nell'Italia meridionale non aveva alcun senso dispregiativo, e indicava una condizione di subordinazione sociale e culturale certamente difficile, ma non vergognosa. La parola assunse un valore offensivo nel Nord Italia quando, dopo l'unificazione nazionale cominciano le incomprensioni fra le varie parti del paese.
  200. ^ Giustino Fortunato, Emilio Gentile, Carteggio 1865-1911, Laterza, 1978, p. 64-65
  201. ^ Cit. da Benedetto Croce, Storia del Regno di Napoli, Bari, Laterza, 1980 (prima edizione 1925), p. 236
  202. ^ cfr. A.Gramsci, "Il Risorgimento", Torino 1966
  203. ^ R. Del Carria, Proletari senza rivoluzione. Storia delle classi subalterne italiane dal 1860 al 1950, 2 voll., Milano, 1970.
  204. ^ Questa Tassa sul macinato non va confusa con quella successivamente promulgata per risanare le finanze pubbliche nel Regno d'Italia nel 1868 ed estesa anche alle regioni settentrionali che non la conoscevano. Ne conseguirono una serie di sommosse nell'area padana raccontate nel romanzo storico Il mulino del Po di Riccardo Bacchelli.
  205. ^ Antonella Grignola, Paolo Ceccoli, Garibaldi, Giunti Editore Firenze, 2004, p. 51.
  206. ^ A. Gramsci, "Il Risorgimento", Torino 1966
  207. ^ Non appena Bixio arrivò a Bronte emanò un decreto in cui affermava: "Bronte colpevole di lesa umanità è dichiarato in istato d’assedio: consegna delle armi o morte: disciolti Municipio, Guardia Nazionale, tutto: imposta una tassa di guerra per ogni ora sin che l’ordine sia ristabilito". Cinque ribelli che erano innocenti, (i veri colpevoli degli eccidi commessi erano fuggiti prima dell'arrivo di Bixio), dopo un processo sommario furono fucilati e i loro cadaveri lasciati insepolti. " Dopo Bronte, Randazzo, Castiglione, Regalbuto, Centorbi, ed altri villaggi lo videro, sentirono la stretta della sua mano possente, gli gridarono dietro: Belva. Ma niuno osò più muoversi... se no ecco quello che ha scritto: 'Con noi poche parole o voi restate tranquilli, o noi, in nome della giustizia e della patria nostra vi struggiamo come nemici dell'umanità'" (G.C.Abba, Da Quarto al Volturno, a cura di G. D'Ambrosio Angelillo, ed. Acquaviva, 2007, p.219
  208. ^ Nell'Italia meridionale continentale la delusione delle masse contadine nei confronti di Garibaldi "traditore" è osservabile nei racconti e nei canti di protesta ricollegati alla loro tradizione sanfedista, come il seguente: "Garebbalde tradetore": Ca amm'a fa de Garebbalde / ca iè mbame e tradetòre? / Nu velìme u rè Berbòne / ca respètte la religgione / Sènghe na vosce abbasce / Frangische se ne va / Règne de Nàbbule statte secure / ca dope n'anne av'a ternà. (Che ne facciamo di Garibaldi / Che è infame e traditore / Noi vogliamo il re Borbone / che rispetta la religione / Sento una voce in basso / Francesco se ne va / Regno di Napoli stai sicuro / che dopo un anno deve tornare) (Giuseppe Vettori, Canti sociali italiani di Roberto Leydi. Il folk italiano: canti e ballate popolari, Newton Compton, 1976 p.468)
  209. ^ 22 maggio. Ancora a Parco. in Giuseppe Cesare Abba, Da Quarto al Volturno. Notarelle di uno dei Mille, Bologna 1952.
  210. ^ Carlo Alianello, La conquista del Sud, Rusconi, 1972, p.113
  211. ^ Emilio Gentile, Italiani Senza Padri. Intervista sul Risorgimento (a cura di Simonetta Fiori), Roma-Bari, Laterza, 2011, p. 120, ISBN 978-88-420-9499-9
  212. ^ >Piero Gobetti, La Rivoluzione Liberale, Torino, Einaudi, 1995, p. 110, ISBN 88-06-13642-9
  213. ^ Rosario Villari, Il Sud nella Storia d'Italia. Antologia della Questione meridionale, Roma-Bari, Laterza, 1981, p. 398-402
  214. ^ Emilio Gentile, op. cit., p. 107
  215. ^ Piero Gobetti, op. cit., p. 22
  216. ^ Piero Gobetti, op. cit., p. 25
  217. ^ Ci fu consonanza fra Salvemini e Gramsci, nel ritenere il Mezzogiorno mercato semicoloniale. Cfr. quanto scrive a tale proposito Corrado Vivanti in: Antonio Gramsci, Quaderno 19. Risorgimento Italiano (con introduzione e note di Corrado Vivanti), Torino, Einaudi, 1977, p. 174
  218. ^ Carlo Alianello con La conquista del sud e Nicola Zitara con L'Unità d'Italia, nascita di una colonia.
  219. ^ Gilles Pécout, infatti, distingue gli stati preunitari in tre tipologie: stati indipendenti (Due Sicilie, Regno sardo-piemontese, Stato Pontificio, San Marino), possedimenti austriaci (Lombardo-Veneto) e stati solo apparentemente autonomi, ma indirettamente controllati dall'Austria (Toscana e ducati emiliani). Gilles Pécout, Il lungo Risorgimento, Mondadori, 1999, p.73.
  220. ^ Gigi Di Fiore, Controstoria dell'unità d'Italia, BUR, 2007, p. 70
  221. ^ Giacinto De Sivo, Storia delle Due Sicilie 1847-1861, Edizioni Trabant, 2009, p. 331.
  222. ^ Filippo Curletti, La verità sugli uomini e sulle cose del Regno d'Italia, a cura di Elena Bianchini Braglia, Tabula Fati, Chieti, 2005, p.35
  223. ^ Angela Pellicciari, La farsa dei plebisciti, in Libertà e persona. URL consultato il 19 gennaio 2011.
  224. ^ Roberto Martucci, L'invenzione dell'Italia unita: 1855-1864, Firenze, Sansoni, 1999, pag. 251, ISBN 88-383-1828-X.
  225. ^ Carlo Alianello, La conquista del Sud, in Brigantino - il Portale del Sud. URL consultato il 25 giugno 2010.
  226. ^ Gigi Di Fiore, Potere camorrista: quattro secoli di malanapoli, Napoli, 1993, p. 63.
  227. ^ Lorenzo Del Boca, Maledetti Savoia!, Piemme, 1998, p. 61.
  228. ^ «Consci dinanzi a Dio e dinanzi agli uomini di non aver mai fornito alcun legittimo pretesto al Governo sardo di ammettere per parte sua una così fatta considerazione, dopo averla considerata ingiusta, dobbiamo anche considerarla contraria ad ogni analoga consuetudine internazionale.» (Francesco V di Modena). Citato in Gigi Di Fiore, Controstoria dell'Unità d'Italia, p.69.
  229. ^ «Una guerra ingiusta e contro la ragione delle genti ha invaso i miei Stati, nonostante ch'io fossi in pace con tutte le potenze europee.» (Francesco II di Borbone). Citato in Gigi Di Fiore, Controstoria dell'Unità d'Italia, p.135.
  230. ^ Massimo Viglione, Francesco Mario Agnoli, La rivoluzione italiana: storia critica del Risorgimento, Il minotauro, 2001, p.164
  231. ^ «Si è introdotto il nuovo diritto, sul quale le dichiarazioni del ministero non hanno lasciato alcun dubbio; il diritto, dico, di fucilare un uomo preso con le armi in mano. Questa si chiama guerra di barbari, guerra senza quartiere. Ed all'interno, come si chiama? Dateci voi un nome, io non so darlo. E se il vostro senso morale non vi dice che camminate nel sangue, io non so come spiegarmi» (Giuseppe Ferrari). Citato in Gigi Di Fiore, Controstoria dell'Unità d'Italia, p.226.
  232. ^ «I Proclami di Cialdini e degli altri Capi sono degni di Tamerlano, di Gengiskhan, o piuttosto di Attila.» (Giovanni Nicotera). Citato in Teodoro Salzillo, Roma e le menzogne parlamentari, Malta, 1863, p.34.
  233. ^ «Si è inaugurato nel Mezzogiorno d'italia un sistema di sangue. E il Governo, cominciando da Ricasoli e venendo sino al ministero Rattazzi, ha sempre lasciato esercitare questo sistema» (Nino Bixio). Citato in Giovanni De Matteo, Brigantaggio e Risorgimento, Guida Editore, 2000, p. 263.
  234. ^ Tra i politici europei che espressero critiche nei confronti dei provvedimenti contro il brigantaggio vi furono lo scozzese McGuire, il francese Gemeau e lo spagnolo Nocedal. Citato in Gigi Di Fiore, Controstoria dell'Unità d'Italia, p.244-245.
  235. ^ Alfredo Capone, La crisi di fine secolo e l'età giolittiana, Volume 2, UTET, 1981, p.53
  236. ^ Neoborbonici all'assalto di Fenestrelle 'In quel forte ventimila soldati morti', su ricerca.repubblica.it. URL consultato il 29 luglio 2010.
  237. ^ Gian Antonio Stella, Espatri dalle regioni italiane 1876 - 1900, in www.speakers-corner.it. URL consultato il 7 ottobre 2010.
  238. ^ Massimo Viglione, Francesco Mario Agnoli, La rivoluzione italiana: storia critica del Risorgimento, Roma, 2001, p. 98
  239. ^ "La riunificazione del debito pubblico (quello più consistente del Piemonte assorbiva quello inferiore delle Due Sicilie) portò all'estensione delle tasse sarde nelle nuove provincie. Fu un trauma per il sud, abituato a sole cinque imposte applicate nel Regno Borbonico. C'erano anche le imposte sulle successioni e le donazioni, sull'assistenza sanitaria, le pensioni, i mutui, sconosciute al sud." Gigi Di Fiore, Controstoria dell'Unità d'Italia, p.185
  240. ^ "Cominciò lo stillicidio dei licenziamenti di impiegati ed operai alla Stamperia Nazionale, alla Zecca, al Lotto, all'Arsenale, ai cantieri navali di Castellammare." Gigi Di Fiore, Controstoria dell'Unità d'Italia, p.186
  241. ^ "Nel 1864, Bixio presentò alla Camera il progetto di chiusura del cantiere di Castellammare e dell’Arsenale di Napoli, cui fecero seguito licenziamenti e accesi scontri d’opinione. In quegli anni, la stessa sorte toccò alle Officine Ferroviarie di Pietrarsa, che furono declassate a «Officina Grandi Riparazioni», ed alla Fonderia e Fabbrica d'armi di Mongiana, che fu ceduta all’ex garibaldino Achille Fazzari, e poi chiusa definitivamente nel 1872". Nicola Zitara, L'unità truffaldina, p.62.
  242. ^ «I giornali quotidiani e periodici sono numerosissimi in tutto l'arco delle vicende risorgimentali... Il giornalismo politico è una delle nuove e primarie articolazioni storiche del ruolo politico dell'intellettuale: dove per intellettuale intendiamo...anche il notaio, il prete, l'avvocato, il professore...Anche qui le classi subalterne abbisognano d'una ulteriore mediazione - qualche intellettuale locale, prete, maestro...: tutti "borghesi" - se vuole accedere al contenuto del messaggio» (M.Isnenghi, op.cit.)
  243. ^ M. Isnenghi, op.cit.
  244. ^ Cesare Giardini, (a cura di) Il Risorgimento italiano 1796-1861. Dalle opere di V.Cuoco. P.Colletta. Stendhal. C.Balbo. G.Mazzini. G.Garibaldi. C.Tivaroni. H.Bolton King. G.Carducci. E.Di Treitschke. B.Croce. P.Silva. A.Omodeo. L.Salvatorelli. F.Quintavalle. A.Panzini. M.Paléologue. Verona, 1958, Mondadori
  245. ^ Desideri Antonio-Mario Themelly, Storia e storiografia, Vol.2 - Editrice d'Anna, Roma-Firenze 1999 p.813
  246. ^ «Il processo di unificazione politica della penisola come il frutto di una possente e unanimistica spinta di popolo è un mito postumo...un tentativo dei ceti colti di operare finalmente una sutura con i ceti subalterni, imponendo loro la propria egemonia politica»(da Mario Isnenghi, L'unità italiana, in AA.VV., Tesi, antitesi. romanticismo-futurismo, G. D'Anna, Messina-Firenze, 1974 pag.810)
  247. ^ La lotta politica in Italia. Origini della lotta attuale (476-1887), Firenze, Libreria della Voce, 1913
  248. ^ Adolfo Omodeo, Storia del risorgimento italiano. Nona edizione riveduta con profilo di Benedetto Croce, Napoli, ESI, 1965
  249. ^ Gioacchino Volpe, Italia moderna (1815 – 1915), I, Sansoni, Firenze 1943
  250. ^ Cfr. Giorgio Spini, Risorgimento e protestanti, Il Saggiatore, Milano, 1989 - Claudiana, Torino 2008
  251. ^ Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, Ufficio Centrale di Statistica Statistica elettorale politica. Elezioni generali degli anni 1861, ecc... Roma, Tipografia Cenniniana, 1876.
  252. ^ Camera dei Deputati, portale storico - XII Legislatura del Regno d'Italia
  253. ^ Indro Montanelli, "Storia d'Italia", volume 32
  254. ^ Giardina, Sabbatucci, Vidotto 2001, p. 584. ISBN 88-421-0612-7
  255. ^ La crisi di fine secolo, l'età giolittiana e la prima guerra mondiale, La biblioteca di Repubblica, 2004, p.14, ISBN =.
  256. ^ a b Che aveva contribuito, durante il precedente governo di Marco Minghetti, al raggiungimento del pareggio di bilancio, primo obiettivo della Destra storica.
  257. ^ Di questa rivolta popolare siciliana, si era occupato negli anni 1892-1893 Giolitti alla sua prima presidenza del consiglio, non intervenendo direttamente a reprimerla ma lasciando che si esaurisse da sola. La ribellione che pure era caratterizzata da una vasta partecipazione di tutte le classi, continuò e si estese a tutta l'isola ma alla fine fallì per la repressione operata da Crispi, al suo secondo governo, con l'invio di 50000 uomini dell'esercito, ma soprattutto perché non ebbe una guida politica organizzata come quella del partito socialista che vedeva sconfessate le sue teorie operaiste secondo le quali avrebbero dovuto essere gli operai del Nord a mettere in atto la rivoluzione proletaria. I socialisti, comunque accusati da Crispi di aver fomentato la rivolta e messi al bando, rigettarono le accuse di ogni loro coinvolgimento pur assumendosene la "responsabilità morale".
  258. ^ Per l'agricoltura era rimasto a vantaggio degli agrari il rigido protezionismo voluto da Crispi.
  259. ^ .Con questo termine s'indicavano le truppe coloniali di colore. La parola usata a proposito dei deputati voleva indicarne la complicità e sottomissione interessata al governo.
  260. ^ I pontificati di Pio X, di Benedetto XV e di Pio XI (i primi tre decenni del XX secolo) videro la distensione ed un graduale riavvicinamento tra liberali e cattolici. Infatti la necessità di fronteggiare la crescita elettorale dei socialisti provocò l'alleanza tra cattolici e i liberali moderati di Giolitti in molte elezioni amministrative (clerico-moderatismo). Segno di questi mutamenti è l'enciclica del 1904 Il fermo proposito, che se conservava il non expedit, ne permetteva tuttavia larghe eccezioni, che poi si moltiplicarono: vari cattolici così entrarono in parlamento ma solo a titolo personale.
  261. ^ Cfr. Giovanni Spadolini, Giolitti e i Cattolici (1901-1914). La conciliazione silenziosa, Firenze 1990.
  262. ^ Il "patto" impegnava i candidati liberali ad astenersi dall'appoggiare proposte di leggi sgradite alla Chiesa quali il divorzio e la soppressione dell'insegnamento religioso.
  263. ^ Antonicelli, Franco. Trent'anni di storia italiana 1915 - 1945 p. 67
  264. ^ Mockler, Anthony. Haile Selassie's War: The Italian-Ethiopian Campaign, 1935-1941pag. 48
  265. ^ Angelo Del Boca. Italiani, brava gente?, Editore Neri Pozza, 2005.
  266. ^ Angelo Del Boca. A un passo dalla forca. Atrocità e infamie dell'occupazione italiana della Libia nelle memorie del patriota Mohamed Fekini, Baldini Castoldi Dalai, 2007
  267. ^ a b M. Gilbert, p. 33
  268. ^ "le radiose giornate di maggio", secondo la definizione di Gabriele D'Annunzio
  269. ^ L'età dell'imperialismo e la Prima guerra mondiale, La biblioteca di Repubblica, 2004, p.683, ISBN =.
  270. ^ Puntata di "La grande storia" dal titolo "Casa Savoia" andata in onda su Rai Tre
  271. ^ LA PATRIA DEL FRIULI mercoledì 30 dicembre 1931
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  274. ^ Dati Censimento Istat, su dawinci.istat.it.
  275. ^ Renzo De Felice, Mussolini il rivoluzionario, pag. 581
  276. ^ Cfr. Paolo Spriano, L'occupazione delle fabbriche. Settembre 1920, Torino, Einaudi, 1964
  277. ^ Gigi Di Fiore, Potere camorrista: quattro secoli di malanapoli, Alfredo Guida Editore, Napoli, 1993, pagg.127-134
  278. ^ ibidem
  279. ^ Non pochi furono i casi di effettivo appoggio fra autorità locali e movimento fascista, aiutati anche dalle manifestazioni di simpatia e di omaggio che i Fasci tenevano nei confronti dei militari e delle autorità costituite. Tuttavia a livello del governo di Roma queste contiguità furono sempre sconsigliate se non apertamente osteggiate, cfr. Renzo De Felice, Mussolini il rivoluzionario, pag. 602 e 603
  280. ^ Anni dopo questa vittoria dell'antifascismo, una scritta in dialetto parmigiano comparve sugli argini del torrente: "Balbo, hai passato l'Atlantico ma non il torrente Parma".
  281. ^ Testo del discorso su Wikisource
  282. ^ Fonte: Luciano Regolo, Il re signore: tutto il racconto della vita di Umberto di Savoia, Simonelli Editore, 1998 - ISBN 88-86792-14-X
  283. ^ Allocuzione "Vogliamo anzitutto"
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  285. ^ Langer, William L. ed., An Encyclopaedia of World History. Houghton Mifflin Company, Boston, 1948, p. 990.
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  287. ^ Gian Luigi Beccaria (a cura di), Dizionario di linguistica, ed. Einaudi, Torino, 2004, ISBN 978-88-06-16942-8, p. 624.
  288. ^ Cesare de Seta, Introduzione a "Architettura e città durante il fascismo" di G. Pagano,2008, ISBN 88-16-40843-X
  289. ^ La legge “contro l’urbanesimo” del ’39, vietava di trasferire la residenza nei capoluoghi di provincia, nelle città con più di 25 mila abitanti a chi non potesse documentare ragioni di lavoro.
  290. ^ La mezzadria fu propugnata fortemente e vista come mezzo per la "sbracciantizzazione" ed esempio e origine del corporativismo.
  291. ^ Alberto Mioni, Le trasformazioni territoriali in Italia nella prima età industriale, Editore Marsilio, 1986, pag. 244-245
  292. ^ Salvatore Lupo, Il fascismo: la politica in un regime totalitario, 2005, ISBN 88-7989-924-4, pag.345-346
  293. ^ "... quelle doti di sanità fisica e di saldezza morale, che soltanto la campagna può mantenere e sviluppare: attitudine e resistenza al lavoro, buon senso, spirito pratico e costruttivo, capacità belliche, attaccamento alla terra, alla famiglia e alla tradizione – che è quanto dire – alla Patria":Tullio Bulgarelli, Razza e coscienza rurale, in “Roma fascista”, 15 febbraio 1939.
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  300. ^ Si veda Pietro Badoglio (L’Italia nella seconda guerra mondiale, Milano, Mondadori, 1946, p. 37) che riporta questa affermazione come ricevuta direttamente da Mussolini durante un loro colloquio avvenuto il 26 maggio 1940
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  311. ^ Andrea Molinari, La conquista dell'Impero. 1935-1941 La guerra in Africa Orientale; Hobby & Work, pagina 114
  312. ^ Arrigo Petacco, La nostra guerra 1940-1945. L'avventura bellica tra bugie e verità, Mondadori; pagina 30
  313. ^ «Affermai cinque anni fa: spezzeremo le reni al Negus. Ora, con la stessa certezza assoluta, ripeto assoluta, vi dico che spezzeremo le reni alla Grecia in due o dodici mesi poco importa, la guerra è appena cominciata!» (Benito Mussolini, 19 novembre 1940)
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  346. ^ a b Corrado Augias, I segreti di Roma, Mondadori, pagina 34
  347. ^ Gli ordini del giorno erano a firma di (1) Grandi; (2) Farinacci; (3) Scorza. Tutti e tre avevano praticamente lo stesso contenuto. Dopo che l'O.d.G. di Grandi fu accolto, Mussolini dispose di non mettere ai voti gli altri due.
  348. ^ La seduta era iniziata alle 17,15 del 24 luglio, la votazione avvenne alle 2,30 del 25 luglio. Non esiste alcun verbale della seduta
  349. ^ Uno stenografo della Camera aveva preso appunti stenografici dell'intera seduta, ma non se ne trovò mai traccia.
  350. ^ a b c Arrigo Petacco, La nostra guerra 1940-1945. L'avventura bellica tra bugie e verità, Mondadori, pagina 189
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  353. ^ http://www.arsmilitaris.org/pubblicazioni/eroe.pdf
  354. ^ Arrigo Petacco, La nostra guerra 1940-1945. L'avventura bellica tra bugie e verità, Mondadori, pagina 171
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  363. ^ Cassazione - Sezione I Penale sent. n. 1560/99, par. IV, num. 6, lett. a, ove si legge: «L'azione fu attuata facendo esplodere, mediante detonatore collegato ad una miccia, 18 kg di tritolo contenuti in un carretto per la spazzatura, in coincidenza del passaggio, usuale e previsto, di una compagnia del battaglione "Bozen". Secondo la ricostruzione del consulente tecnico della parte offesa Zuccheretti, riportata nel provvedimento impugnato (pag. 14), l'esplosione dell'ordigno ebbe a determinare la morte di 42 soldati tedeschi (dei quali 32 morti quasi immediatamente e gli altri), e di almeno due civili italiani, il minore Pietro Zuccheretti e Antonio Chiaretti.»
  364. ^ Dopo la liberazione di Roma, il reparto fu impiegato nelle attività di controguerriglia, repressione della Resistenza e contro i civili nella zona che da Firenze conduce alla Val di Susa sia di quella che dalla Valsugana porta al Cadore. (Vedi: Christopher R. Browning. Uomini comuni. Torino, Einaudi 1995. XVIII-258 pp.). Più in generale molte unità dell'Ordnungspolizei vennero impiegate come unità di supporto nella persecuzione degli ebrei
  365. ^ Ribadito dalla sentenza della Corte di cassazione del 7 agosto 2007
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  370. ^ La pompa di benzina dove furono appesi i corpi di Mussolini e degli altri fascisti non esiste più
  371. ^ a b Cfr. I vincoli del consociativismo, articolo di Piero Melograni, Il Sole 24 ore, 1999.
  372. ^ a b c Alberto Ronchey usò l'espressione «fattore K» per indicare l'impedimento del PCI ad avere accesso al governo per la logica dei blocchi contrapposti, cfr. La sinistra e il fattore K, articolo sul Corriere della Sera, 1979, richiamato da Quel che resta del fattore K, archivio del Corriere della Sera, 2006.
  373. ^ a b c Cfr. Storia della Prima Repubblica, parte II, Le elezioni del 48, a cura di Paolo Mieli, 3D produzioni video e Istituto Luce.
  374. ^ a b Cfr. articolo di Lucio Colletti, archivio del Corriere della Sera, 1993.
  375. ^ «È storicamente provato che prima e durante le operazioni militari relative allo sbarco degli alleati in Sicilia, la mafia, d'accordo con il gangsterismo americano, s'adoperò per tenere sgombra la via da un mare all'altro» (Michele Pantaleone, cit. in Aspetti controversi dell'invasione della Sicilia, conferenza a cura dell'associazione culturale Ethos, 11 luglio 2008); «la mafia rinascente trovava in questa funzione, che le veniva assegnata dagli amici di un tempo, emigrati verso i lidi fortunati degli Stati Uniti, un elemento di forza per tornare alla ribalta e per far valere al momento opportuno, come poi effettivamente avrebbe fatto, i suoi crediti verso le potenze occupanti» (Giovanni Di Capua, Il biennio cruciale, pag. 69, Rubbettino Editore, 2005).
  376. ^ L'eccidio di Porzus e le colpe del Pci, dal Corriere della Sera, febbraio 2012.
  377. ^ «Ritornando al terrorismo contro i fascisti della Rsi, è d'obbligo dire che sarà questa la forma di lotta che i comunisti continueranno a praticare durante l'intera guerra civile e nei primi anni del dopoguerra, sino alla fine del 1948» (G. Pansa, I vinti non dimenticano, pag. 16, Rizzoli, Milano 2010 ISBN 978-88-17-04976-4).
  378. ^ Cfr. Aldo G. Ricci, «I timori di guerra civile nelle discussioni dei governi De Gasperi», in Fabrizio Cicchitto (a cura di), L'influenza del comunismo nella storia d'Italia, Rubbettino, 2008.
  379. ^ Quella sottile linea rossa. L'attentato a Palmiro Togliatti, a cura di G. Calore, 14 aprile 2010.
  380. ^ A. Ciaralli, "Liberare le carceri, arrestare treni e tram". Il "Piano K", un documento dell'attività insurrezionale del PCI?, in Segni per Armando Petrucci, Roma 2002, pp. 60-119; cfr. anche Carlo Maria Lomartire, Insurrezione. 14 luglio 1948: l'attentato a Togliatti e la tentazione rivoluzionaria
  381. ^ Marco Innocenti, 14 luglio 1948: l'attentato a Togliatti, da un inserto de Il Sole 24 Ore.
  382. ^ Paola Di Biagi, La grande ricostruzione, in "Saggi, Storia e scienze sociali", Corriere della Sera, 2001.
  383. ^ a b Corrado Barberis Teoria e storia della riforma agraria Firenze, Vallecchi, 1957
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  387. ^ Cfr. Piero Angela, La sfida del secolo, Mondadori, 2006.
  388. ^ Cfr. Montanelli & Cervi, Storia d'Italia, vol. 50, L'Italia dei due Giovanni, pag. 124, Fabbri Editori, 1994.
  389. ^ Cfr. Indro Montanelli, L'Italia dei due Giovanni, Milano, Rizzoli editore, 1989, pag. 130. Cfr. anche Piero Ignazi, Il polo escluso. Profilo del Movimento Sociale Italiano, Bologna, Il Mulino, 1989, pag. 93.
  390. ^ «[Craxi] non ritenne di dover discriminare nessuno, e decise di consultare, quando formò il suo primo governo, anche il segretario del MSI Almirante, e fu la prima volta che accadeva» (Mauro Del Bue, Il socialismo liberale da Rosselli a Craxi, 2006)
  391. ^ [3].
  392. ^ Elenco morti e feriti del Vajont sul sito ufficiale del Comune di Longarone.
  393. ^ Cfr. Salvatore Sechi, Compagno cittadino. Il PCI tra via parlamentare e lotta armata, Rubbettino, 2006, ISBN 9788849811087, alle pagg. 148, 152, 275.
  394. ^ Cfr. S. Acquaviva, Guerriglia e guerra rivoluzionaria in Italia, Milano, Rizzoli, 1979.
  395. ^ Cfr. anche M. Brambilla, Dieci anni di illusioni. Storia del Sessantotto, Milano, Rizzoli, 1994.
  396. ^ Pasolini, il testo della poesia Il PCI ai giovani!!.
  397. ^ a b c Cfr. Storia della Prima Repubblica, parte V, Il 68 e gli Anni di Piombo, a cura di Paolo Mieli, 3D produzioni video e Istituto Luce.
  398. ^ Comunismo e ironia. Il manifesto fa quaranta, articolo di Fabio Martini su La Stampa, 28 aprile 2011.
  399. ^ Le piazze contrapposte, L'Italia tra libertà e unità, saggio storico di Alberto Servidio.
  400. ^ a b Cfr. l'Intervista a Mario Scialoja, tratta da Gilberto Mastromatteo, Quando i media staccano la spina, Prospettiva Editrice, ISBN 978-8874181520.
  401. ^ Piero Fassino, uno dei dirigenti del PCI in quegli anni, ricorda in proposito: «A volte, le nostre intenzioni erano confuse. Mentre alcuni compagni pensavano a una congiura di forze reazionarie, in altri la condanna del terrorismo era, come dire?, soltanto tattica. Secondo questi ultimi compagni, il terrorista sbagliava unicamente perché la forma di lotta che aveva scelto era "controproducente" e faceva il gioco del padrone. Mancava in molti di noi un giudizio negativo della violenza, da rifiutare sempre, in sé e per sé. E c'erano anche, guai a non riconoscerlo!, gruppi sia pure isolati di nostri compagni che dicevano di certe vittime: "Gli sta bene!". Accadde, ad esempio, per il sequestro Amerio. Quest'ultima posizione si espresse nella formula: "I terroristi sono compagni che sbagliano". Lo slogan imperversò per un paio d'anni, fino al 1977, contrapponendosi alla tesi della congiura» (da un'intervista tratta da Bruno Vespa, Vincitori e vinti, pag. 338-339, Mondadori, Milano 2005, ISBN 88-04-54866-5.
  402. ^ «Chiunque sia stato comunista negli anni cinquanta riconosce di colpo il nuovo linguaggio delle BR. Sembra di sfogliare l'album di famiglia: ci sono tutti gli ingredienti che ci vennero propinati nei corsi Stalin e Zdanov di felice memoria. Il mondo, imparavamo allora, è diviso in due. Da una parte sta l'imperialismo, dall'altra il socialismo. L'imperialismo agisce come centrale unica del capitale monopolistico internazionale (allora non si diceva "multinazionali"). Gli Stati erano il "comitato d'affari" locale dell'imperialismo internazionale. In Italia il partito di fiducia - l'espressione è di Togliatti - ne era la DC. In questo quadro, appena meno rozzo e fortunatamente riequilibrato dalla "doppiezza", cioè dall'intuizione del partito nuovo, dalla lettura di Gramsci, da una pratica di massa diversa, crebbe il militarismo comunista degli anni cinquanta. Vecchio o giovane che sia il tizio che maneggia la famosa Ibm, il suo schema è veterocomunismo puro. Cui innesta una conclusione che invece veterocomunista non è: la guerriglia» (R. Rossanda, Il discorso sulla Dc, articolo apparso in prima pagina sul Manifesto, il 28 marzo 1978).
  403. ^ Cfr. l'intervista a Berlinguer di Giampaolo Pansa, Berlinguer conta "anche" sulla NATO per mantenere l'autonomia da Mosca, articolo sul Corriere della Sera, 15 giugno 1976. I paesi membri della NATO non consideravano tuttavia il PCI un partito democratico e non lo ritenevano adatto a governare l'Italia né a fornire ministri ad un governo democristiano. Tale fu la posizione di netta condanna nei confronti del Partito Comunista Italiano emersa nel vertice G8 tenutosi a Portorico nello stesso anno.
  404. ^ Uno scandalo che a livello politico vedeva l'imputazione della DC da parte delle opposizioni, e a cui Aldo Moro aveva reagito dichiarando in maniera perentoria che il suo partito non si sarebbe fatto «processare nelle piazze» (dagli Atti parlamentari, VII legislatura, Parlamento in seduta comune, "Resoconto stenografico della seduta dal 3 all'11 marzo 1977", pag. 455).
  405. ^ New York Times obituary, 10 novembre 2001
  406. ^ Testo della lettera di pubbliche scuse di Pannella e Bonino a Leone, su archiviostorico.corriere.it.
  407. ^ 1980, l'anno del Riflusso ci ha reso moderni.
  408. ^ La marcia dei 40 mila, 14 ottobre 1980, articolo su NoiQuadri di Pietro Virgilio.
  409. ^ Cfr. Claudio Pavanello, Tutto sugli anni 80, Zoppelli e Lizzi, 2009.
  410. ^ Cfr. Simona Colarizi e Marco Gervasoni, La cruna dell'ago. Craxi, il partito socialista e la crisi della Repubblica, Laterza, 2006, pag. 3.
  411. ^ La nuova identità del PSI, da "Bettino Craxi Opera Omnia".
  412. ^ Il testo dell'articolo di Craxi, Il vangelo socialista, sull'Espresso del 27 agosto 1978.
  413. ^ Alessio Altichieri, "Non ci sarà più un altro Pertini" la Voltolina ricorda il suo Sandro, in Corriere della Sera, 24 aprile 1992. URL consultato il 10 febbraio 2009.
  414. ^ Francesco La Spina, Savona-Roma nel nome di Pertini, in La Repubblica, 19 ottobre 2005. URL consultato l'11 febbraio 2009.
  415. ^ Giangiacomo Schiavi, Quel giorno Pertini mi disse - intervista a [[Enzo Biagi]], in Corriere della Sera, 23 aprile 2007. URL consultato il 10 febbraio 2009. Wikilink compreso nell'URL del titolo (aiuto)
  416. ^ Già installati dai sovietici almeno 387 missili Ss-20
  417. ^ Tre pretori contro i colossi TV, su ricerca.repubblica.it, la Repubblica, 17 ottobre 1984.
  418. ^ Storia della CGIL.
  419. ^ Ma tenero è il governo, articolo su La Repubblica, 27 ottobre 1989, pag. 2: «La linea del governo italiano [...] quando si tratta della Libia, è sempre incline ad una prudenza, per non dire una condiscendenza, che ha già sollevato in passato perplessità e critiche non solo in Italia, ma anche all'estero».
  420. ^ I missili a Comiso e la svolta del mondo, articolo su La Repubblica, 13 maggio 2007.
  421. ^ Nell'immagine il gioco a premi Telemike condotto da Mike Bongiorno
  422. ^ Cfr. V. Castronovo, Storia economica d'Italia, Einaudi, Torino 1995, pag. 515-517.
  423. ^ Cfr. Patrizia Calefato, Mass moda. Linguaggio e immaginario del corpo vestito, Meltemi editore, Roma 2007, pag. 8.
  424. ^ Cfr. L'Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta: culture, nuovi soggetti, identità, a cura di Fiamma Lussana e Giacomo Marramao, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003, pag. 294.
  425. ^ Immigrazione straniera in Italia.
  426. ^ Norberto Bobbio nel 1992 osservò che, in tema di riforme costituzionali, «non si poteva negare che Craxi fosse stato un precursore» (testimonianza del Presidente Napolitano alla cerimonia in occasione del centenario della nascita di Norberto Bobbio. Testimonianza del Presidente Napolitano alla cerimonia in occasione del centenario della nascita di Norberto Bobbio, in Quirinale, 15 ottobre 2009.
  427. ^ «Il discorso sulle riforme istituzionali che aveva rappresentato, già prima dell'assunzione della Presidenza del Consiglio, l'elemento forse più innovativo della riflessione e della strategia politica dell'on. Craxi (...) non si tradusse in risultati effettivi di avvio di una revisione della Costituzione repubblicana. La consapevolezza della necessità di una revisione apparve condivisa (...) ma (...) non seguì alcuna iniziativa concreta, di sufficiente respiro, in sede parlamentare. Si preparò piuttosto il terreno per provvedimenti che avrebbero visto la luce più tardi, come la legge ordinatrice della Presidenza del Consiglio e, su un diverso piano, significative misure di riforma dei regolamenti parlamentar» (dalla Lettera del Presidente Napolitano alla signora Craxi nel 10º anniversario della scomparsa di Bettino Craxi. Lettera del Presidente Napolitano alla signora Craxi nel 10º anniversario della scomparsa di Bettino Craxi, in Quirinale, 18 gennaio 2010.
  428. ^ a b Cfr. Giuseppe Sangiorgi, Piazza del Gesù. La Democrazia Cristiana negli anni Ottanta: un diario politico, Mondadori, 2005, pagg. 435-437, in Colarizi, La cruna dell'ago, op. cit., pag. 217.
  429. ^ Cfr. Simona Colarizi, Gli anni Ottanta come storia, Rubbettino, 2004, pag. 100.
  430. ^ Ripartiamo dalla responsabilità civile dei magistrati, articolo su L'Occidentale, 2011.
  431. ^ Cfr. P. Murialdi, N. Tranfaglia, I quotidiani negli ultimi venticinque anni, in V. Castronovo, La stampa italiana nell'età della TV (1994), nuova ed., Laterza, Roma-Bari 2002, pp. 32-47.
  432. ^ «Partiti-chiesa» venivano definiti la DC e il PCI (cfr. ad esempio Edoardo Crisafulli, Le ceneri di Craxi, Rubbettino, 2008) per indicarne la forte connotazione ideologica che rifletteva i due blocchi contrapposti USA-URSS sulla scena internazionale.
  433. ^ Arriva la legge sulle tv, articolo su La Repubblica del 4 giugno 1988. Cfr. anche Corso di storia contemporanea, pag. 18, estratto da Simona Colarizi e Marco Gervasoni, La cruna dell'ago. Craxi, il partito socialista e la crisi della Repubblica, Laterza, op. cit..
  434. ^ Cfr. Simona Colarizi e Marco Gervasoni, op. cit., pag. 186.
  435. ^ Cfr. Simona Colarizi e Marco Gervasoni, op. cit., pag. 225.
  436. ^ Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca.
  437. ^ La nuova Europa, da Maastricht all'euro, su Corriere.it/story.
  438. ^ a b Cfr. Colarizi e Gervasoni, op. cit., pagg. 229-233.
  439. ^ a b Pesava nel PCI l'eredità di Berlinguer, rimasto sempre contrario a qualsiasi accordo con i socialisti: «È una sua eredità infatti l'antisocialismo virulento, l'idea ossessiva che l'ostacolo principale da abbattere sia Craxi» (Lucio Colletti, Il segno di Berlinguer tra vecchi e nuovi scenari, articolo sul Corriere della Sera del 6 dicembre 1989). Già negli anni Ottanta, peraltro, Colletti ravvisava nell'ostilità dei comunisti verso i socialisti una ripresa delle accuse di "socialfascismo", risalenti agli anni Venti ai tempi della Terza Internazionale, ossia alle accuse che i primi rivolgevano ai secondi di garantire con le loro politiche filo-proletarie, ma non sovversive, il mantenimento dello stato borghese (cfr. Colletti, Le scelte del PSI, intervista su "Mondoperaio", n. 9, settembre 1984).
  440. ^ Cfr. Panebianco, Non più un principe ma un utile Sherpa, articolo sul Corriere della Sera.
  441. ^ Cossiga, quattro lettere di commiato alle istituzioni, articolo da Il secolo XIX.
  442. ^ Paolo Guzzanti, Cossiga uomo solo, Mondadori, 1991 ISBN 8804352736.
  443. ^ Cfr. articolo di Scalfari su La Repubblica, 27 marzo 1991.
  444. ^ L'appoggio dei missini a Cossiga, che offrì loro lo spunto per uscire dalla lunga emarginazione cui erano costretti da tempo, si manifestò in diverse occasioni (cfr. Corteo missino pro Cossiga, dall'archivio del Corriere della Sera, 16 gennaio 1992).
  445. ^ Rimini 1991, nasce il Pds, dal Corriere della Sera.
  446. ^ Craxi, Tre gravi errori, articolo su L'Avanti! del 1º febbraio 1991.
  447. ^ Cfr. A. Panebianco, Il tallone di Craxi, articolo dal Corriere della Sera, 25 giugno 1991.
  448. ^ Cfr. Lelio Lagorio, L'esplosione. Storia della disgregazione del PSI, edizioni Polistampa, Firenze 2004.
  449. ^ a b Cfr. Melograni, Il disastro italiano in 14 punti, articolo su Mondo economico, 10 ottobre 1993.
  450. ^ Cfr. A. Panebianco, Craxi ha fatto soprattutto un errore. Dare al voto un significato politico, articolo dal Corriere della Sera, 11 giugno 1991.
  451. ^ a b Cfr. Colarizi e Gervasoni, op. cit., pagg. 258-259.
  452. ^ "Tangentopoli" in vocabolario Treccani.
  453. ^ «I partiti, specie quelli che contano su apparati grandi, medi o piccoli, giornali, attività propagandistiche, promozionali e associative, e con essi molte e varie strutture politiche operative, hanno ricorso e ricorrono all'uso di risorse aggiuntive in forma irregolare od illegale. Se gran parte di questa materia deve essere considerata materia puramente criminale allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale. Non credo che ci sia nessuno in quest'aula, responsabile politico di organizzazioni importanti che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo: presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro» (dal discorso di Craxi alla Camera del 3 luglio 1992).
  454. ^ Secondo Piero Fassino, in quell'occasione «non c'è dubbio che ci fu un silenzio assolutamente reticente e ambiguo da parte di tutta la classe politica davanti al discorso che Craxi fece alla Camera e nel quale disse con parole crude che il problema del finanziamento illegale non riguardava soltanto il PSI ma l'intero sistema politico» ("Bettino fu un capro espiatorio", intervista su La Stampa.
  455. ^ Università Cattolica del Sacro Cuore, La spesa pubblica in Italia: articolazioni, dinamica e un confronto con gli altri Paesi
  456. ^ Privilegia Ne Irroganto
  457. ^ Cfr. anche I vincoli del consociativismo, articolo di Piero Melograni, Il Sole 24 ore, 1999.
  458. ^ IMF World Economic Outlook - October 2009
  459. ^ «Vari fattori si sono accumulati [...] in seguito a spese e perdite immense: in particolare quelle degli anni Settanta, per mantenere il consenso politico e la pace sociale. [...] Tutti questi debiti sono stati man mano scaricati su BOT e CCT» (Piero Angela, A cosa serve la politica?, Milano, Mondadori, 2011, pag. 111).
  460. ^ Cfr. anche Gennaro Lettieri, Compendio di scienza delle finanze, Maggioli editore, 2011, pag. 245.
  461. ^ "Servono davvero lacrime e sangue", dall'archivio del Corriere della Sera, 6 settembre 1992.
  462. ^ Poteva non sapere di 36 miliardi?, articolo su La Repubblica del 17 dicembre 1992.
  463. ^ Cfr. archivi della DC.
  464. ^ Cfr. discorso di Bettino Craxi alla Camera dei Deputati del 29 aprile 1993.
  465. ^ Bettino Craxi, dal discorso alla Camera dei Deputati del 4 agosto 1993.
  466. ^ Svelato attentato all' Olimpico Autobomba non esplode per caso, Corriere della Sera, 25 febbraio 1996. URL consultato il 15 febbraio 2010.
  467. ^ Parte la "gioiosa macchina da guerra", dall'archivio storico del Corriere della Sera.
  468. ^ Tangenti alla Finanza, Berlusconi assolto, articolo dal Corriere della Sera, 20 ottobre 2001.
  469. ^ La Gazzetta di Sondrio, articolo del 21 ottobre 2001.
  470. ^ I gruppi parlamentari che hanno votato contro l'indulto sono stati l'Italia dei Valori nelle file della maggioranza e Lega Nord e Alleanza nazionale in quelle dell'opposizione.
  471. ^ Per tutti i voti espressi dalla Camera dei deputati nella votazione finale della Seduta n. 28 del 19 luglio 2006 si veda: Votazioni Finali seduta n.28 del 19/07/2006, su camera.it, Camera dei Deputati, XV Legislatura. URL consultato il 16 giu 2009.
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Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

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Sul Risorgimento[modifica | modifica wikitesto]

Sull'età giolittiana[modifica | modifica wikitesto]

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Sull'età fascista[modifica | modifica wikitesto]

In francese[modifica | modifica wikitesto]

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In tedesco[modifica | modifica wikitesto]

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  • Regine Igel: Terrorjahre. Die dunkle Seite der CIA in Italien. Herbig, München 2006, ISBN 3-7766-2465-5.
  • Bernd Rill: Sizilien im Mittelalter. Das Reich der Araber, Normannen und Staufer. Belser, Stuttgart 1995, ISBN 3-7630-2318-6.
  • Volker Reinhardt: Geschichte Italiens. Von der Spätantike bis zur Gegenwart. Beck, München 2003, ISBN 3-406-50284-9.
  • Gustav Seibt: Rom oder Tod. Der Kampf um die italienische Hauptstadt. Siedler, Berlin 2001, ISBN 3-88680-726-6.
  • Lutz Klinkhammer: Zwischen Bündnis und Besatzung. Das nationalsozialistische Deutschland und die Republik von Salò 1943–1945, Niemeyer, Tübingen 1993.
  • Regine Wagenknecht: Judenverfolgung in Italien. 1938–1945; „Auf Procida waren doch alle dunkel“. Edition Parthas, Berlin 2005, ISBN 3-936324-22-0.
  • Rudolf Lill: Geschichte Italiens in der Neuzeit. WBG, Darmstadt 1986(3), ISBN 3-534-06746-0.
  • Michael Seidlmayer: Geschichte Italiens. Vom Zusammenbruch des Römischen Reiches bis zum ersten Weltkrieg.Mit beiträgen von Theodor Schieder: Italien vom ersten zum zweiten Weltkrieg und Jens Petersen: Italien als Republik: 1946 – 1987. Alfred Kröner Verlag, Stuttgart 1989(2), ISBN 3-520-34102-6.

In spagnolo[modifica | modifica wikitesto]

  • Colomer, José Luis (dir). España y Bolonia. SIete siglos de relaciones artísticas y culturales. Centro de Estudios Europa Hispánica. ISBN 84-934643-5-X
  • Boccario, Piero (dir.) España y Génova. Obras, artistas y coleccionistas. Centro de Estudios Europa Hispánica. ISBN 84-933403-4-0